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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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LA POESIA di PABLO PICASSO E LA QUESTIONE DELLA METAFORA nell’interpretazione di Valerio Gaio Pedini con una scelta di poesie di Pablo Picasso

picasso donna seduta

picasso donna seduta

 Rileggendo  le poesie di Pablo Picasso ho fatto mentalmente una panoramica della poesia italiana del ‘900 e mi sono reso conto di una vistosa lacuna stilistica. Soprattutto nel secondo Novecento è mancata la capacità di utilizzare le qualità comunicative della metafora, anzi, quest’ultima è stata indicata come un corpo estraneo da estirpare dalla poesia, come un orpello, trattata alla stregua di un abbellimento lessicale, un retorismo da evitare a tutti i costi. Ritengo questo fatto un errore grave che ha inciso sulla poesia italiana privandola di un elemento insostituibile del linguaggio poetico. Pregiudizio grave che sarà gravido di conseguenze negative sul piano stilistico per la poesia italiana.

Picasso, da pittore, non ha pregiudizi verso l’immagine, anzi, lui vede il linguaggio poetico come una funzione dell’immagine. Per il pittore spagnolo la metafora è ragguagliata alla immagine, ed entrambe sono impiegate come «fotogrammi» degli «oggetti», alla stregua di una macchina da presa che inquadra gli oggetti e li duplica nel fotogramma; la poesia è vista da Picasso come uno scorrimento di fotogrammi nel montaggio. È una procedura poetica che mette al centro la rappresentazione, la sovrapposizione, il montaggio delle immagini.

La responsabilità maggiore di questa incapacità della cultura poetica italiana ad intendere la funzione e la natura della «immagine» e della metafora è da rinvenire, a mio avviso, nella egemonia che la poesia del Pascoli ha esercitato sulla poesia italiana del primo e secondo Novecento, nel Gruppo 63, nello sperimentalismo di Zanzotto e nella  poesia della linea lombarda. La poesia italiana si avvierà in una via poetica epigonica di matrice lineare-fonetica di derivazione dalla poesia pascoliana. Privata della metafora e dell’immagine che, notoriamente, si sottraggono o mal si adattano ad un pentagramma sonoro di matrice lineare e unidirezionale, la poesia italiana del secondo Novecento si avvierà su un pedale basso lessicale e stilistico che finirà per appiattirla su un piano esclusivamente «comunicativo». La ricerca della «comunicabilità» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. Nemmeno con il primo emetismo si viene a capo di questa vistosa omissione; una poesia come quella di Ungaretti è intuitivo-epifanica ma non riesce a creare una metafora dell’immagine. E tuttora il vuoto è vistoso. Questo vuoto della metafora e dell’immagine ci pone degli interrogativi. Mi chiedo se la poesia italiana sia in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro «patologico». Per il momento, la risposta non può che essere negativa. La più totale omissione è sotto i nostri occhi. E la poesia italiana, a parte eccezioni di pregio che pur ci sono, conserverà una matrice  fonosimbolica unilineare .

Comunque, tornando a Picasso, bisogna dire che la sua poesia è incentrata sul principio del contrasto. Cito Picasso, “l’arte deve trovare, non cercare”, e se l’arte non trova allora vuol dire che la ricerca è fallita. Leggiamo una poesia di Pablo Picasso:

IL CIGNO

Il cigno sul lago a modo suo fa lo scorpione

 Che sorpresa. Solo un verso, un piccolo verso, un miserrimo verso, eppure che immagine, che parallelismo e, come dire, che trovata! Lo si vede il cigno nel lago con il collo inarcato, che si  riflette nell’acqua e appare come uno scorpione pronto a pungere la preda, ad attaccarla e farla soccombere. In questo modo l’aspetto paradisiaco del cigno diventa un’immagine di una incredibile virulenza estetica. E qui si trova una esemplificazione del principio del contrasto nella sua essenza. Eppure non ci sono ribaltamenti bruschi, c’è soltanto un’immagine fotografica.

Picasso  era pittore anche nella poesia, fa pittura in poesia. Ecco, se dovessi indicare una debolezza della poesia italiana del secondo Novecento, direi che essa non ha saputo fare poesia mediante la pittura. Non ha imparato nulla dalla pittura del secondo Novecento. Non ha imparato nulla dalle scoperte della fisica dei quanti. Nel secondo Novecento è sì operato esclusivamente su una piattaforma descrittiva e narrativa sostanzialmente quantitativa, ma è restato fuori dell’interesse della poesia italiana il problema della metafora e dell’immagine.

La poesia di Picasso invece è un esempio vistoso di una poesia che fa perno sulle stratificazioni architettoniche delle immagini. Arriva per una sua via tutta particolare, allo «sguardo sincipitale» teorizzato da Osip Mandel’stam. Una sorta di caleidoscopio in miniatura, un brillante gioco di illusionismi. La poesia di Picasso è ricca di decostruzioni. Osserviamo:

OFELIA

Ofelia cade in un bicchier d’acqua e annega

 

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

Gnomismo del paradosso. Picasso utilizza uno gnomismo tipico e lo smonta, e lo rimonta a suo piacimento, tratta le immagini come dei meccani, tratta l’assurdo come normalità. Ma non vi è nulla di assurdo, poiché l’annegamento di Ofelia è trattata come un dato realistico. Oppure:

IL PARTO

La donna che partorisce grida come i vetrai

 Si procede su parallelismi apparentemente sconnessi: cigno-scorpione e via discorrendo, fino ad arrivare a questa che è l’apice della poesia di Picasso. Cosa significa? Che corrispondenza vi è tra una donna che partorisce ed un vetraio? Ce lo dice Picasso: l’urlo. Sì, ma cosa significa? Penso alla rottura delle acque e della forma originaria del vetro. Eppure no, è lo sforzo genetico, lo sforzo della creazione. E allora lì si vede la madre e il vetraio paonazzi che si sforzano di dare origine, di dare vita: compiere un’opera. Questa è una metafora visiva che ci collega subito all’anima dell’arte poetica.

In Italia non avviene nulla di così forte. Ungaretti s’illumina d’immenso ma manca della metafora visiva! E una poesia senza metafora visiva rischia di essere scipita, piatta. L’ermetismo fa una poesia contestualizzata, chiusa dentro i propri asfittici confini stilistici, non riesce a cogliere l’importanza di una metafora visiva (e sonora). Picasso, di origine genovese, è l’unico poeta-pittore ad aver elaborato una poesia delle immagini. Una poesia deve contenere uno sguardo che osserva un oggetto, e l’oggetto viene trasposto e decontestualizzato dagli altri oggetti. Come disse Picasso: “l’artista è anzitutto un uomo politico del suo tempo”.

La poesia italiana del Novecento (compresi il futurismo e il crepuscolarismo), farà deliberatamente a meno della metafora. Ma è nel secondo Novecento che i risultati estetici di questa lacuna saranno visibili: la poesia italiana risulterà canonica, istituzionale, volontaristica, lessicalmente impoverita. Alcuni poeti isolati tenteranno uno sviluppo della metafora visiva, penso a Dino Campana e ai suoi Canti orfici (1914), ma si tratterà di casi isolati. Oggi il mio riferimento va alla poesia di un Antonio Sagredo, questa sì, «inclassificabile» secondo gli schemi di una poesia undirezionale lineare; penso alla poesia del «frammento simbolico» di Giorgio Linguaglossa, alla poesia «rallentata» di Steven Grieco-Rathgeb, alla poesia di «citazioni» e di «frammenti» di Mario M. Gabriele, ma anche alla poesia di Francesca Diano, a quella di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi etc. In questi poeti del tardo Novecento e di questi anni, la metafora visiva non è solo un atto di resistenza alla visione cloroformizzata, normalizzata, ma anche e soprattutto una «nuova visione» degli «oggetti» e del «mondo».

A mio avviso, solo con l’idiosincrasia verso la visione cloroformizzata degli oggetti e con la belligeranza stilistica si potrà fare una poesia esteticamente non educata.

 (Valerio Gaio Pedini)

picasso Sogno

picasso Sogno

(Poesie tratte da Scritti di Pablo Picasso, a cura di Mario de Micheli, SE)

IL MIRACOLO

Il miracolo che il torero frigge
nella piazza del peperone
la precisione del volo attraverso la nuvola
che il cristallo infrange
con la sua cappa.

ESTATE

Passa l’estate
fetta di melone che la cicala accende
e trascina nella sua ferita
la cappa dell’espada.

Il VESTITO DEL TORERO

Al torero
con l’ago più sottile che la nebbia inventò
cuce un vestito di lampade
il toro.

IL TABACCO

Il tabacco avvolto nel sudario
vicino a due banderille rosa
spira i suoi disegni modernisti
sul cadavere del cavallo
e al fuoco del suo occhio
scrive sulla cenere
l’ultima sua volontà.

picasso quote

LA PERSIANA

La persiana sbattuta dal vento
uccide i cardellini in volo
i colpi macchiano di sangue
la spalla della stanza
ascolta passare il candore
la morte porta in bocca aroma d’armonium
e la sua ala tira la corda del pozzo.

I CARDELLINI

I cardellini sono l’aroma
battente con la sua ala il caffè
che riflette la persiana nel fondo del pozzo
e ascolta l’aria passare
nel silenzio della candida tazza.

L’AROMA

L’aroma ascolta passare i riflessi
che il cardellino sbatte giù nel pozzo
e offusca nel silenzio del caffè
il candore dell’ala.

LA FANCIULLA

Fanciulla
bel falegname che inchiodi le assi
con le spine delle rose
non piangere una sola lacrima
se vedi sanguinare il legno.

Picasso quote 1

PREPARATIVI

Lo facciano pure dove vogliono il loro festino i topi
purché non mangino il piccione nel nido
purché non mettano bandiera e lampioncini nelle piaghe
purché il mattino dopo non sia tutto un pianto
quello che si deve fare
è sguinzagliare i cani perché li uccidano
e al punto in cui siamo comprare mobili
non fa niente se l’allegria non nasce
nello stesso momento
in cui s’avvolgono nacchere in risate
e colori di festa in motivi di chitarra
quello che si deve fare
è coronarsi di rose ed esser felici
di vedere le cose laide belle così come sono
e gettar loro la cappa e vestirle di complimenti
e portare la tavola già imbandita di fiori
e cantare e gridare che arriva
e preparare il letto che tra le lenzuola
nasconde l’arcobaleno.

*

lingua di fuoco sventaglia il suo viso nel flauto la coppa
che cantando corrode la pugnalata dell’azzurro
così grazioso
che seduto in un occhio del foro
iscritto nel suo capo adorno di gelsomini
aspetta che gonfi le vele il pezzo di cristallo
che ammantellato nel fendente a due mani
gocciolando carezze
divide il pane fra il cieco e la colomba color lilla
e assale con tutta la sua cattiveria le labbra del limone in fiamme
il corno contorto
che spaventa coi suoi gesti di addio la cattedrale
che sviene fra le sue braccia senza un olé.
mentre scoppia nel suo sguardo la radio di prima mattina
che fotografando nel bacio una cimice di sole
si mangia l’odore dell’ora che cade
e trapassa la pagina che vola
distrugge il rametto che porta infilato nell’ala che sospira
e la paura che sorride
il coltello che salta dalla gioia
lasciando ondeggiare ancora oggi come vuole e in qualsiasi modo
al momento esatto e opportuno
sull’orlo del pozzo
il grido della rosa
che gli getta la mano
come un’elemosina.

(28 novembre 1935)

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se poteteRigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicalaEssence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme LiquideScenari ignoti e Glocalizzati.

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