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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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Giovanni Testori (1923-1993) “POESIE (1965 – 1993)”, Mondadori, 2012 – Poesie tratte da”Nel tuo sangue” (1973) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Testo teatrale piuttosto che poetico”

giovanni testori Con-Aldo-Moro

Il quadro politico italiano bloccato

Giovanni Testori nasce il 12 maggio 1923 a Novate Milanese. Nel 1941 pubblica, firmandosi Gianni Testori, i primi scritti d’arte su “Via Consolare”, rivista legata al gruppo di Pattuglia, e, sempre per le Edizioni di Pattuglia, nel 1943 escono La morte, Un quadro, i suoi primi testi teatrali e l’introduzione a Manzù, Erbe. Scrive anche un saggio su Henri Matisse per Goerlich di Milano. Inizia la sua attività di pittore. Nel 1947 si laurea in Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano, con la tesi “La forma della pittura moderna”, in un primo tempo respinta, perché ritenuta non degna di essere discussa in quella università, in quanto filo modernista, e poi riproposta da Testori con l’espunzione delle parti contestate.
L’anno successivo va in scena al Teatro della Basilica di Milano il suo primo testo teatrale, Caterina di Dio, interpretato da una giovane Franca Valeri. Nel 1949, in seguito all’intervento della Sovrintendenza ai monumenti, Testori cancella gli affreschi, commissionati dai Padri Serviti e raffiguranti i quattro evangelisti, che aveva realizzato nel 1948 per la chiesa di San Carlo a Milano.
Si dedica anche al teatro: nel 1950 scrive Tentazione nel convento e va in scena al Teatro Verdi di Padova, con la regia di Gianfranco De Bosio, un altro suo testo teatrale, Le Lombarde.
Nel 1952 inizia la collaborazione con “Paragone”, la rivista diretta dal grande critico d’arte Roberto Longhi, con un saggio su Francesco del Cairo che crea discussioni e polemiche. Nel 1953 partecipa all’organizzazione della mostra “I pittori della realtà in Lombardia” presso il Palazzo Reale di Milano.
Nel 1954 pubblica nei “Gettoni” di Einaudi, collana diretta da Elio Vittorini, la prima opera narrativa, Il dio di Roserio, incontrando un buon favore da parte della critica.
Intensifica il suo lavoro di critico d’arte: nel 1955 organizza la mostra sul manierismo piemontese e lombardo del Seicento che si tiene a Palazzo Madama a Torino r al Centro culturale Olivetti di Ivrea, e l’anno successivo quella su Gaudenzio Ferrari a Vercelli.
Nel 1958 pubblica, per Feltrinelli, la raccolta di racconti Il ponte della Ghisolfa che apre il ciclo I segreti di Milano. Il libro vince il premio “Puccini-Senigallia” e ottiene subito un grande successo di pubblico. Anche Luchino Visconti si ispira ad alcuni racconti del volume per la sceneggiatura del film Rocco e i suoi fratelli.
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giovanni testori

L’anno successivo presenta una seconda raccolta di racconti, La Gilda del Mac Mahon, e organizza la mostra su Tanzio da Varallo, uno dei suoi artisti prediletti, al Palazzo Reale di Torino.
Nel 1960 va in scena, al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Mario Missiroli e protagonista Franca Valeri, La Maria Brasca, terzo quadro della serie “I segreti di Milano”.
Nel 1961 pubblica il suo primo romanzo, Il Fabbricone, e la monografia d’arte Elogio dell’arte novarese. L’anno successivo entra a far parte della redazione della rivista “Paragone”.
Nel 1965 raccoglie tutti gli studi dedicati a Gaudenzio Ferrari in Il gran teatro montano, pubblicato da Feltrinelli. Pubblica inoltre il poema I Trionfi.
Nel 1967 organizza la mostra “Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale”. Va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la regia di Luchino Visconti, La Monaca di Monza, anche in questo caso accompagnato da polemiche e da presunti dissapori tra il regista e lo scrittore.
Nel 1969 esce da Feltrinelli il testo teatrale Erodiade. Ritorna ad occuparsi del Sacro Monte di Varallo e pubblica lo studio dedicato alla “Cappella della Strage” del Paracca.
Nel 1974 ritorna, dopo più di dieci anni, a pubblicare un romanzo, La Cattedrale.
Nel 1975 scrive l’introduzione alle Rime di Michelangelo Buonarroti per la BUR Rizzoli.
Nel luglio 1977 muore la madre, Lina Paracchi, e inizia a scrivere Conversazione con la morte, a lei dedicata. Inizia a pubblicare articoli di argomento etico-morale sul “Corriere della Sera”. In seguito sul quotidiano milanese dirigerà la pagina dedicata all’arte. Nel 1978 legge per la prima volta Conversazione con la morte, scritta inizialmente per l’attore Renzo Ricci, al Salone Pier Lombardo e poi in più di cento teatri e chiese di tutta Italia, sempre affollatissime di giovani. Inizia la collaborazione con un nuovo settimanale, “Il Sabato”, espressione del movimento di Comunione e Liberazione.
Nel 1979 viene rappresentato a Milano, nella chiesa di Santo Stefano, dalla Compagnia dell’Arca e con la regia di Emanuele Banterle, Interrogatorio a Maria, che diventerà un evento con rappresentazioni in duecento città e paesi italiani. Il 29 luglio 1980, a Castel Gandolfo, alla presenza dello stesso scrittore, Interrogatorio a Maria ha uno spettatore d’eccezione: Papa Giovanni Paolo II.
Nel 1980 assume la direzione della nuova collana Rizzoli “I libri della speranza”. Il primo titolo è un colloquio tra Testori e don Luigi Giussani, Il senso della nascita.
L’Anno successivo pubblica il monologo teatrale Factum est, in cui la voce di un feto che chiede di aver salva la vita trova una soluzione linguistica assai nuova e sperimentale. Il monologo viene rappresentato da Andrea Soffiantini, per la prima volta, alla chiesa del Carmine di Firenze.
Nel 1982 raccoglie gli articoli a carattere etico-morale pubblicati sul “Corriere della Sera” e sul settimanale “Il Sabato” nel volume La maestà della vita. Nel 1983 pubblica la raccolta di poesie Ossa mea.
L’anno 1985 è all’insegna della rivisitazione della lezione manzoniana, con una rilettura teatrale del capolavoro di Manzoni, I Promessi Sposi alla prova, che viene rappresentato al Salone Pier Lombardo dalla Compagnia Franco Parenti, con la regia di Andrée Ruth Shammah; protagonista, nel ruolo del Maestro, Franco Parenti, l’attore della “Trilogia degli Scarozzanti”. Nel catalogo della mostra “Manzoni. Il suo e il nostro tempo”, pubblica il saggio Ricordi figurativi del e dal Manzoni, un itinerario nelle opere d’arte che si ricollegano alla lezione del grande scrittore lombardo. Riceve il premio Renato Simoni. Una vita per il teatro.
Nel 1987 al Centre George Pompidou di Parigi viene allestita la mostra di disegni “Testori: Erodiade e la testa del Profeta”.
Nel 1988 pubblica il romanzo In exitu, a cui ha lavorato dal 1982, la via crucis di Riboldi Gino, un giovane drogato che grida contro la nuova indifferenza di Milano in una versione ridotta alle esigenze del teatro, il testo va in scena al Teatro La Pergola di Firenze, con la regia dello scrittore, protagonisti Franco Branciaroli nel ruolo di Riboldi Gino e Testori stesso in quello dello “scrivano”. Tiene al Teatro Out Off di Milano un ciclo di tre lezioni sul proprio lavoro, intitolato “La parola, come”.
Nel 1992 esce il romanzo Gli angeli dello sterminio, in cui Testori racconta l’Apocalisse di Milano.
Giovanni Testori muore il 16 marzo 1993 a Milano. La sua ultima testimonianza viene affidata a un’intensa intervista televisiva di Riccardo Bonacina, trasmessa dalla RAI nei giorni precedenti la morte.
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giovanni testori aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani

aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani Roma 1978

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Testo teatrale piuttosto che poetico
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Le poesie qui citate sono tratte dalla raccolta Nel tuo sangue (1973). A livello stilistico si rinviene la tipica deformazione espressionistica e una stilematica proposizionale da monologo interiore o flusso di coscienza con rime alternate, baciate e intrecciate con i tipici effetti percussivi, ripetizioni, parallelismi, anadiplosi. Davide Rondoni nell’introduzione, richiama le affinità, da Iacopone a Rebora, da Petrarca a Caproni, ma, a parte le affinità vicine e lontane, del tutto discutibili e, a mio avviso, infondate, il flusso di coscienza poetico di Testori  proviene senz’altro dalla crisi di una coscienza cattolica davanti alle risultanze di una società laica sempre più secolarizzata ed estranea al magistero guida della Chiesa. Scandalo e sconforto, disperazione e angoscia sono le polarità in cui si inscrive questa «poesia lirica», caratterizzata da una forte componente espressionistica e drammatica di derivazione confessionale. C’è un eccesso di spiritualizzazione che nuoce alla resa estetica in quanto prodotta come segmentazione di un sovrappiù di eccitazione emotiva; inoltre, la spiritualizzazione ha, da sempre, in poesia, posto un ostacolo all’attingimento di una resa oggettiva, alla oggettivizzazione artistica. Il lettore ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo di un’anima in eruzione e alla spettacolarizzazione di un’anima in piena confessione di verità. Si avverte il tinnire di stoviglie di un confessionalismo rabbioso e scabroso. Testori usa la forma-poesia per uno scopo allotrio, per veicolare lo spettacolo di un’anima scissa, lacerata, vulnerata e per pascersi con un sottile compiacimento in essa. Ma, così facendo cade nel pacchiano, nel luogo dell’anima bella disperata e vulnerata. Così operando, esce fuori dalla forma-poesia per attingere il registro ed il genere della affabulazione teatrale di una coscienza martire e martirizzata. Evidente appare la estraneità di questa poesia alla tradizione della poesia italiana del secondo Novecento, incentrata com’è sulla identificazione, tipica della poesia liturgica e spiritualista, tra voce narrante ed estroflessione dello spirito vulnerato. Con tutto quel gusto cattolico del sangue in esposizione e del dolore dell’anima vulnerata e fustigata. Testo teatrale piuttosto che poetico, adatto alla declamazione attoriale dove infatti le doti di Pino Censi eccellono. Nel tuo sangue fu accolto dallo scetticismo e dall’indifferenza della critica. Era un libro a suo modo eretico, trasversale al genere poetico, a suo modo etico, e anche difficilmente intellegibile allo spirito della insorgente civiltà secolarizzata con tutto quel travaglio interiore messo a nudo, per quel crucifige cui si sottoponeva l’autore con tutti gli abiti e gli alibi della disperazione religiosa in bella mostra. A rileggerlo oggi, l’impressione è quella di un affabulatore da teatro piuttosto che di un autore di poesia. Non dimentichiamo che Testori prenderà il posto di Pasolini sulle colonne del “Corriere della sera” nel 1975, quindi un intellettuale istituzionale che contrassegnava un ritorno all’ordine con interventi discutibili nelle tesi spiritualisteggianti, troppo frontalmente negazioniste della nuova realtà del paese che tumultuosamente cercava una via di uscita dallo stato di minorità democratica di un quadro politico partitico bloccato. Era il tempo della strategia della tensione e delle stragi, dell’austerità che seguiva la fine del boom economico, del grande consenso del P.C.I. nelle elezioni del 1975 entro un quadro politico, dicevamo, ermeticamente bloccato. In quel quadro storico, con il suo abito negazionista della via italiana alla modernizzazione del paese, la voce poetica di Testori appariva manifestamente fuori luogo, e forse anche fuori tempo con i suoi crucifige, con la fustigazione dello spirito in mostra. Uno spirito religioso turbato, questo sì.
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giovanni testori agguato-via-fani Roma

panoramica dell’agguato-via-fani Roma

http://it.radiovaticana.va/news/2016/03/03/teatro_della_misericordia_nel_tuo_sangue,_di_testori/1212636

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 Giovanni Testori testi tratti da “Nel tuo sangue” (1973)

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Se è bestemmia
pensarti inesistente,
non Ti chiedo pietà.
Davanti a Te
che ritenevo Dio,
alzo come un pugno
la mia idiota realtà.

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Sono caduto sotto il mio stesso peso.
Non avevo su di me nessuna croce.
“Perché mi lasci?” ha urlato la mia voce.
Parlavo a Te non come Dio,
parlavo al Cristo venduto,
al Cristo sanguinante, perduto.
S’era scomposto Dio nei frammenti del caso,
s’era disfatto come il mio niente,
più atroce e indifferente verso me
del mio stesso io.

1

Nell’ora della mia prossima agonia
potremo finalmente batterci,
Te, luce falsa, ed io.
Tu non sarai più Dio,
sarai soltanto un grumo di sale,
un segno d’unzione sulla fronte.
Poi riderò sfrontato
e Ti dirò:
T’ho vinto,
T’ho spappolato.

.
Gigantesca menzogna,
fandonia sulla fronte,
bacio traditore del profeta
che, senza volerlo, nel cranio
stai marchiato
finalmente, ridotto a un mormorio,
Ti vedrò crollare
abbacinato.

.
Se un’ alba o una mattina
di colpo a me riapparirai
con la Tua immane storia
di redenzione ed omertà
a Te riservo
come estrema Tua felicità
la mia fine suicida.
Allora Tu non avrai neppur la forza
di stendere sulla Tua vana eternità
una smorfia di pena e di pietà.

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T’ho amato con pietà
con furia T’ho adorato.
T’ho violato, sconciato,
bestemmiato.
Tutto puoi dire di me
tranne che T’ho evitato.
Ma Tu non parli,
non dici.
Sei il Dio sordo;
il Dio muto.
Per illuderci di poterTi parlare
Ti sei dovuto incarnare.

.
Non è più la nebbia
e nemmeno la vanità della memoria,
è la pena d’aver creduto
che agli uomini fosse possibile
la storia.

.
La storia è possibile
solo a Te che non esisti.
Anche se falsa
la menzogna della Tua voce
è più vera
d’ogni nostra croce.

.
Chi ha distrutto la mia pace
sei stato Tu,
la Tua falsità.
Avessi creduto anch’io
all’inumana omertà
avrei accettato la Tua incarnazione,
questa vile, idiota,
sanguinante delazione.

.
M’aspetti nel buio
come un’affamata prostituta,
come un ladro m’azzanni
nei riposi difficili e ansiosi.
Mi riporti nel letto privo ormai di lui
le Tue stigmate affrante.
Che cosa mi domandi?
Che accetti di baciarle,
di rotolarmi su Te
come facevo sul suo ventre
di figlio delicato,
sulla sua carne,
d’arcangelo rubato?
É lui
non Te che amo.
È lui
il dio vero
il dio giusto
il dio sano.

 

giovanni testori libri

giovanni testori

Tu sei il Dio marcio,
il Dio incarnato.
Sei il Dio Cristo,
il Dio sangue,
il Dio peccato.

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Sarò me stesso,
sarò vero,
sarò presente,
quando Tu come Dio
sarai per sempre assente.

.
Perché hai gridato
che Ti lasciava
se era Tuo padre
e T’amava?

.
Non ha salvato la storia
la Tua deità.
T’illudi forse di poter salvare
con la Tua umanità
la vegetante bestia
della nostra omertà?

.
La sola passione vitale
è il caso,
la forza d’una natura bestiale
che trasforma in possibile grembo
ogni taglio, ogni umana ferita,
anche se la vita, la povera vita
non ne sarà mai partorita.

.
Anche in Te c’è stato
lo sai
qualcosa di muto e bestiale.
Ti dicevi nato
da una luce celeste.
Eri un figlio che bruciava
la sua stessa natura
nella rivolta della vita futura.

Hai voluto morire come uno
che volesse qualcosa dimostrare.
Ma Tu dovevi soltanto
vivere e amare.

Se come Dio volevi veramente soffrire
dovevi scegliere
un luogo più vile e segreto per morire.
Dovevi fare come le vipere e i cani
che scelgono i posti
più inaccessibili e vani.
Il Tuo sangue non sarebbe stato mai visto
bevuto, mangiato
e nessuno per odio T’avrebbe scordato

Hai presunto di non esser stato mai
veramente figlio
per poter inventare anche Tu
senza carne il Tuo giglio.

.
II

Il giglio inventato
è quello che hai scelto,
amato, lasciato.
É quello che per un’uguale rivolta
da Tua adolescente, fedelissima scolta
s’è fatto profeta del tempo
che era prima ancora di Te,
il tempo senza luce ed ardore,
il tempo che attende
il messia traditore.

.
Ha bruciato quel tempo
nell’incendio della Bestia trionfante.
Ha visto come ogni amante lasciato
che niente più resta
quando chi ama da noi se n’è andato,
soprattutto se, invece d’un maschio violento
o d’un angelo pio,
è un falso, orribile Dio,

.
L’hai amato più degli altri.
Sul desco della Cena
appoggiava la sua guancia
al Tuo volto.
Non era solo una predilezione,
era un’atroce, carnale
peccatrice dedizione.

.
Perché nel dolore
Te lo sei tenuto vicino?
Era il figlio, l’amante?
Era il carnale festino,
il tranello preparato anche a Te
dal destino?

.
Quando dormivi accanto a lui
che accadeva?
Chi muoveva per primo
nel silenzio
i lenzuoli?
Non eri Socrate.
Non puoi barare.
Eri un Dio da stringere
e amare.

L’hai lasciato senza padre
ai piedi della croce.
Mentre morivi
che nome urlava
se non il suo
la Tua voce?

Sulla croce
dagli occhi offuscati dalla morte
vedevi ancora la sua carnale beltà.
Dov’era in quel punto
la Tua superba deità?

.
In che prato,
in che via di perduti
l’hai raccolto?
E perché,
dopo averlo innalzato,
in un’isola
d’orrenda empietà l’hai avvolto?

.
Ha letto i numeri indecifrabili, atroci;
le rose ha ridotto a demenza.
Quello che per Te
era pietà o clemenza
nel Libro increato
s’è aperto nell’unica luce
d’universo insensato.

.
T’aveva baciato
aveva bevuto il Tuo segno
il Tuo sangue.
Quando poi l’hai lasciato
è stato per odio
non per amore
che, invasato,
ha visto la fine
della Tua incarnazione,
l’universo incendiato
e ogni Dio contraddetto,
negato.

.
Mentre Tua madre
sveniva,
s’è avvicinato al tuo ventre.
T’ha sfiorato,
baciato.
Cosa volevi di più?
Nessuno
è stato amato così.

.
Ha raccolto l’ultima goccia
del sangue di Te,
l’ha portata alle labbra,
l’ha tenuta nella sua giovane bocca,
l’ha ingoiata, mangiata.
È stata la comunione unica,
vera.
La Tua chiesa non l’ha vista:
non c’era.

 

giovanni testori Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti-

Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti sul set

Ha sfiorato
i piedi trafitti.
Ha tentato per l’ultima volta
di farTi gli occhi riaprire.
Forse voleva vederTi
sorridere ancora;
ancora voleva
che la Tua umana tristezza
si trasformasse
in divina allegrezza.

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L’allegrezza silente, carnale
che assieme al cristallo
della Tua atroce deità
aveva trafitto
la sua adolescente,
indifesa beltà.

É stato così
che l’hai vinto.
È stato così che di Te
come Dio
l’hai incinto.

.
III

Hai lasciato anche Tu
sulla neve di quel lontano Natale
una rosa di sangue,
un liquido sconcio e fetale

.
Anche Tua madre
ha gridato.
S’è afferrata alla mangiatoia
quando dal ventre
le uscivi.
Sapeva anche lei
che nascendole Cristo
come Dio le morivi?

.
Solo Tua madre ha capito
l’incomprensibile affanno
di sapere che la sua gioia
era già il nostro danno.
Il danno d’un figlio
che si voleva carne di Dio
nel suo grembo
di serva povera oscura;
un figlio che conosceva da feto
la Sua vita futura.

.
Quando Tua madre
Ti stendeva sul grigio giaciglio
baciava suo figlio
o un mostro atroce e divino,
una carne di pane e di vino?

.
Apriva la veste,
Ti dava il suo latte casto ed antico.
Eri ancora suo figlio
o eri già il suo nemico?

.
Del ventre di mia madre
ricordo il tepore
d’un immenso dolore.
Del grembo della Tua
ricordi il suo povero amore
o invece il Tuo disumano furore?

.
Quando succhiavi il suo miele
pensavi di già
al sapore del fiele?
Hai desiderato anche Tu
d’esser chiuso
dentro il suo ventre,
di restarvi feto marcio
per sempre?

.
Che sarebbe accaduto
dell’umana pietà?
Chi avrebbe incarnato
la vergogna
della Tua carità?

.
Quando con le gengive
il suo seno mordevi
era la pace o la morte di lei
che volevi?

.
Se il sangue è il Tuo segno
La morte è il Tuo regno.

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Non è Dio chi copula
con la carne e la morte.
Non è Dio chi solo a trent’anni
apre le sue povere porte.

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Dovevi essere il Dio vero,
il Dio liberante e liberatore.
Sei diventato il Dio schiavo,
il Dio amante, il Dio traditore.

.
Appoggi vicino a me
nel sonno
il Tuo cranio avvolto di spine.
Ti unisci
anche ai Tuoi nemici.
La Tua fame
non ha mai fine.

.
Accarezza con la mano
la sua fronte.
Il sangue che scende da Te
versalo solo su me.
Nessun maschio,
nessuna donna, nessuna prostituta
m’ha inseguito così.
Sei rimasto fermo allo stesso punto.
Ti credevo perduto:
eri lì.

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Hai rincorso nell’erba
una donna, un’amante?
Hai inseguito qualche bestia ardente,
divina?
Hai portato una vita
che era anima e carne
in qualche oscura cantina?

.
Sei entrato nel letto
furtivo come un amante.
Dovevi sapere che chi ama
domanda la carne per violarla,
baciarla,
non per stroncarla, umiliarla,
negarla.

.
Se allunghi una mano su me
è perché io brucio di Te.
Ma di Te io non brucio.
Di Te sento solo pietà.
Sei un Dio che per avermi
s’è fatto morte, sangue,
viltà.

.
Dovevi accettare il rifiuto
come fanno gli sposi,
gli amanti.
Perché,
ridotto a un feto
di spine e di sangue,
mi ritorni davanti?

.
Che vuoi che Ti dica?
Di prendermi,
entrar nella carne, nel sangue?
La Tua ostia
da tempo ho allontanato da me.
Il vino che la Tua chiesa m’offriva
era una lussuriosa ironia.

.
A chi ho amato
ho dato da bere
con gioia e dolore
il sangue e la carne di me.
Così lui ha fatto con me.
Tu cos’hai fatto di Te?

.
Avessi potuto bere anch’io
non il simbolo vano dell’ultima Cena,
ma il resto che sui chiodi e sui legni
s’era aggrumato di sangue,
sarei diventato un tuo figlio,
un tuo amante.
Così sono un padre
che ha generato suo figlio
con la carne degli altri.
Pel resto
sono un orfano cieco,
demente, vagante.

.
Non è vero.
La croce non si rinnova.
Chi non ha bevuto quel sangue
non potrà berlo mai più.
Chi non è stato Tuo amante
sarà per sempre un passante.

.
Se Ti chiedessi
di stringerti a me,
d’aprire la bocca
incrostata di sangue;
se Ti chiamassi
come si chiama un amante,
resteresti,
fuggiresti da me?
Rispondi.
Non è una diffida.
È l’ultimo dado da trarre,
è l’ultima sfida.

.
La bocca,
la saliva,
il sangue così triste
che m’hai dato…
La ferita sul costato,
il segno come il suo delicato
che alla madre T’aveva legato…
Perché non sei restato soltanto Grazia?
Perché sei diventato anche Peccato?
Hai accettato l’abbraccio.
Hai accettato la voce
che chiama gli amici,
gli amanti.
Sei andato più avanti.
Poi m’hai guardato,
m’hai detto:
non esiste peccato.
In quel punto
eri ancora Dio
o mentivi
per illudermi
che io fossi ancora io?

.
M’hai atteso.
M’hai cercato
nei ritrovi più infami.
Quando infine
ho accettato il Tuo invito
sapevo già
che non m’avresti guarito.
Volevo solo provarTi
che potevo sconciarTi,
gettarTi su un letto,
baciarTi anch’io
come carne di Te,
come Dio.

.
Ti sei levato
assetato,
affamato.
Non m’hai detto:
ti lascio.
Non m’hai detto:
t’ho amato.
Hai guardato lontano.
T’ho chiesto
se Cristo
era simile a Te.
M’hai risposto:
chi è?

.
TogliTi la toga.
Fatti vedere nudo,
ferito, sconciato.
Fatti vedere
come sei nato.
Adesso che di nuovo
come in un furto
T’ho abbracciato,
T’amo più di quando pensavo
che fossi il Dio vero,
il Dio eterno e incarnato.

.
La Tua nudità
è tenera, sconcia,
febbrile.
Sei un angelo,
un animale divino,
una bestia sconfitta
da porcile.

.
Ritrovo in Te
i suoi occhi,
la sua castità.
Non dovevi provarmi
questa Tua parità.
Potrei di nuovo abbracciarTi,
stringerTi ancora di più,
umiliarTi,
strozzarTi,
provarTi che Tu non sei Tu.

.
Cosa mi diresti
in questo punto?
Accetteresti
d’essere ucciso
da chi T’ha cercato,
avvilito,
negato?

.
Non sarei Giuda.
Sarei chi uccide
colui che diceva
d’essere Dio.
Un delitto da strada,
un delitto da camera a ore.
Un delitto soltanto
d’impossibile amore.

.
Dopo un fallimento di Te
non resta che disprezzare ogni deità
e vivere nella disperata certezza
della Tua nullità.

.
É stabilito:
siamo un caso,
molecole di zucchero
che un fortuito accidente
ha nei secoli assommato.
Ma se è zucchero
il sangue di lui che ho amato,
che atroce, demente negazione
la rivolta di Cristo
v’ha incarnato?

.
Perché, se era zucchero anche lui,
non m’hai lasciato amarlo
da felice pagano?
Perché hai voluto che s’aprisse
anche tra lui e me
la ferita oscena,
l’oscena piaga di Te?

Il dolore più vero non si scrive.
È muto, imprendibile, increato.
Del Dio credibile e beato
resta solo la certezza
che lo zucchero facendoci
s’è sbagliato.

.
Ti sei intromessa
tra il suo bacio ed il mio
orrenda lingua di Dio.
Se vedendoTi apparire
come un incubo, un richiamo,
non Ti darò l’estrema gioia
di vedermi morire,
è perché qui c’è ancora lui che va
e va, sola mia pena,
più grande, più infinita di Te,
tigre dell’anima,
jena.

Sei zucchero anche Tu,
immensa storia di Dio.
Uno zucchero marcio come il suo,
come il mio.
Tu che attendi i Tuoi figli
all’ora soltanto della sorte,
getta su di me come sul toro
del segno che in me porto
il manto che copre
il vile, degradato morto.
Hai ancora bisogno
del mio corpo,
di me?
Quando potrò liberarmi
di Te?

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