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di Marco Belpoliti. “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino (1994) vent’anni dopo. Storia postmoderna di gangster, sermoni, sodomie, gare di ballo, teste esplose, non-luoghi di Los Angeles

di Marco Belpoliti. “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino (1994) vent’anni dopo. Storia postmoderna di gangster, sermoni, sodomie, gare di ballo, teste esplose, non-luoghi di Los Angeles

Pulp Fiction di Quentin Tarantino, 1994

Pulp Fiction di Quentin Tarantino, 1994

Pulp Fiction vent’anni dopo da Doppiozero.it

Vent’anni fa usciva nelle sale cinematografiche italiane Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino. Era il 16 dicembre 1994, nove mesi dopo l’imprevista e straordinaria vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, sei giorni prima delle sue dimissioni consegnate nelle mani di Oscar Luigi Scalfaro il 22 dicembre. Nessuno stabilì allora un nesso tra questa storia postmoderna di gangster, sermoni, sodomie, gare di ballo, teste esplose, non-luoghi di Los Angeles, tra il gioco sadico e farsesco istituito dal giovane regista americano e quello che succedeva nel nostro paese, dove una crisi sociale e politica, durata oltre dieci anni, arrivava a compimento segnando un deciso e irreversibile giro di boa.

film pulp fiction di Quentin Tarantino, 1994

 Pulp Fiction diventò immediatamente un film di culto, premiato a Cannes con la Palma d’Oro e anche con un Oscar, nell’anno seguente, fissando con la sua apparizione nei cinema un punto di non ritorno, sia per il modo in cui era narrato sia per i temi che offriva agli sconcertati, oppure entusiasti, spettatori. Quello che Pulp Fiction rivelava in quel momento preciso era il dominio incontrastato stabilito dalle immagini nella nostra realtà quotidiana. Alberto Morsiani in un libro dedicato all’opera di Tarantino (Quentin Tarantino. Pulp Fiction, Lindau) ha sintetizzato tutto ciò in modo icastico: Tarantino aveva capito d’istinto che le immagini erano diventate il nostro vero oggetto sessuale, l’oggetto del nostro desiderio. Anche se l’autore de Le iene, film antefatto di Pulp fiction, non aveva letto Jean Baudrillard, il suo Sistema degli oggetti o Lo scambio simbolico e la morte, usciti tra gli anni Sessanta e Settanta, mostrava che erano proprio le immagini a ossessionarlo, e anche a ossessionarci.

L’ascesa del tycoon brianzolo sanciva in 1994 il cambiamento di paradigma, anche se la lettura allora prevalente – lo sarebbe rimasta per due decenni a seguire – era quella modellata sulla critica pasoliniana della società dei consumi. Non che non ci fosse anche questo, ma certamente Tarantino ci mostrava da Los Angeles un mondo in cui la Legge non esisteva, dove l’istanza del godimento era dominante (non a caso l’unico poliziotto, o presunto tale, uno che veste la divisa della Legge, è un sadico violentatore perverso). Certo, Pasolini aveva declinato quell’universo nel film-parabola Salò o le 120 giornate di Sodoma, ancor oggi un’opera inguardabile per la sua tetra e assoluta visione, tuttavia Tarantino con il suo passo ironico e ludico spiazzava la lettura del regista italiano, creando una storiaccia assurda e paradossale, in cui gli eroi sono dei personaggi stereotipati, pure marionette, dominati dalla fatalità dell’accadere, e insieme da un movimento narcisistico nato dall’interno di ciascuno di loro, fino a diventare regola generale dell’universo umano.

Morsiani lo dice con molta efficacia: i personaggi di Pulp Fiction sono stereotipi, che vogliono assomigliare a se stessi. Se un tempo l’ossessione era di assomigliare agli altri, di essere uno nella folla – l’età delle ideologie novecentesche, il “Tutti”, come è stato detto da un recente romanzo di formazione italiano –, dopo Tarantino l’ossessione è quella di “assomigliare solo a se stessi”. Se ci fosse stato allora lo smartphone – c’erano già i cellulari, anche nel film, dotati di antenne estraibili –, senza dubbio Vincent e Julius, i due killer al soldo di Marsellus, si sarebbero probabilmente fatti degli autoscatti, Selfie, tra i cadaveri delle vittime, o negli spazi urbani da loro frequentati. L’ascesa della televisione commerciale sanciva in Italia in quel decennio – gli anni Novanta che ancora attendono il loro interprete – la diffusione del narcisismo di massa. Christopher Lasch l’aveva annunciato vent’anni prima, con il suo La cultura del narcisismo (Lasch scompare peraltro in quel 1994), indicando proprio negli strumenti di riproduzione di suoni e immagini – registratori e macchine fotografiche – gli strumenti dell’ascesa del narcisismo; “la vasta camera dell’eco”, come aveva scritto). Ogni personaggio nel film “vive per se stesso, si riassume in un punto iperpotenziale: gli altri non esistono virtualmente più” (Morsiani); tanto che Jules, il gigantesco nero del film, rivolgendosi a se stesso pronuncia la frase: “Let’s get into character!”.

 

Quello che ancora colpisce in questo film, rivisto oggi, oltre al ritmo, la distribuzione narrativa degli eventi, le inquadrature, le storie efferate, la violenza, la casualità, la follia dei comportamenti, l’imprevedibilità, tutti aspetti che ancora funzionano, è “la democrazia universale della rappresentazione” offerta agli spettatori in quel dicembre di vent’anni fa. La rappresentazione, ci dice Tarantino, ha assorbito dentro di sé ogni altra cosa. Dopo quarant’anni di dominio incontrastato di televisione, cartoni animati, pubblicità, packaging, segni, lettere e cifre distribuite ovunque, dopo l’esplosione dello star system, come aveva scritto Edgar Morin in un libro preveggente (Le star, 1957), eravamo entrati – anno 1994 – nel regno della pura rappresentazione. Il film di Tarantino offriva la prova provata di tutto questo, assorbendo dentro di sé ogni altro riferimento visivo, dagli spot pubblicitari ai vecchi film, dalle marche di prodotti alimentari a quello delle automobili, investendo praticamente tutto quello che appariva sulla superficie visiva del mondo, colonizzando così ogni angolo possibile dell’immaginario personale e collettivo. L’elenco completo delle citazioni filmiche più o meno palesi occupa almeno un paio di fitte pagine, come mostrano i molti libri che sono stati scritti su Pulp Fiction, dove gli autori si divertono a scoprire le criptocitazioni del regista.

Pulp Fiction

Pulp Fiction

La bravura di Tarantino era consistita nel trasformare la normalità dell’esistenza in un’allucinazione protratta, ma anche il suo contrario: l’allucinazione della normalità. Tutto è imprevisto e imprevedibile nel regno senza Norma, ma anche senza Trasgressione (questo è il punto, come sarebbe stato detto dagli psicoanalisti anni dopo), in cui si muovono i suoi personaggi dediti a un’impressionante immoralità. Quello che non fu subito chiaro era proprio questo: l’annullamento delle regole e insieme delle eccezioni, della normalità e contemporaneamente della trasgressione. Non si sapeva più bene cosa fosse una trasgressione là dove l’arbitrio era eretto a norma. Pasolini questo non lo diceva vent’anni prima nella sua caliginosa pellicola.

Tarantino stordiva con la sua alterazione narrativa, spostando inizio e fine, mescolando le carte della successione temporale, facendo morire, poi resuscitare i suoi personaggi in una sequenza di fatti alterata. Ma non era solo o tanto questo il suo punto di forza. In effetti, rivisto vent’anni dopo, con il finale che si richiude ad anello sull’inizio – la rapina nel diner, l’Hawthorne Grill, dove si trovano Jules e Vincent –, sappiamo che la struttura del film è un cerchio, e ci offre una lettura parareligiosa, o presunta tale, del rapporto tra caso e grazia, tra vita e morte. Una meditazione non ultimativa, e neppure assoluta sul destino singolare, tentativo di sottrarre, almeno per un istante i suoi personaggi al dominio incontrastato delle immagini, perché Tarantino profeta del post-postmoderno contiene dentro di sé ancora un’istanza moderna, quella che poi rende la società americana, nonostante il culto warholiano delle immagini ripetibili, assolutamente imprevedibile.

Jules, il killer nero, con la sua speranza di grazia, palesata negli ultimi minuti del film, rientra nel millenarismo evangelico delle sette religiose americane descritto da Harold Bloom in La religione americana (Garzanti), saggio dedicato all’avvento della società post-religiosa. Nonostante il suo nichilismo Pulp Fiction contiene anche quest’aspetto, che è, almeno in termini cronologici, la causa stessa del sorgere della democrazia dell’immagini.

film pulp fiction in automobile

Visto a questa distanza temporale, vent’anni non sono pochi, e dopo la fine del berlusconismo, pratica politica postmoderna all’italiana, il film di Tarantino appare come premonizione di quello che sarebbe accaduto, ma anche una sua critica implicita, perché nonostante la sua insistenza sugli aspetti del simulacro – ancora Baudrillard – Pulp fiction presenta almeno un personaggio che pare smentire tutto l’universo del delirio comunicativo che la pellicola ci offriva a piene mani.

 Butch, il pugile, è infatti il personaggio positivo, positività naturalmente non priva di ambiguità, come in ogni film di Tarantino. Butch contravviene al contratto truffaldino con Marsellus, lo spietato boss, di andare al tappeto alla quinta ripresa del match che sta per combattere. Frega il gangster e abbatte l’avversario – in realtà lo uccide, anche senza volerlo davvero –, quindi scappa con i soldi che ha ricevuto per la truffa, e con quelli ricavati dalle puntate sulla propria vittoria. Nel seguito della storia Butch salva Marsellus, il nemico, che ha tentato di uccidere con l’automobile, dalle mani dei suoi aguzzini che lo stanno violentando, recuperando in questo modo il passato eroico della propria famiglia. Un vero cow boy, opposto e simmetrico all’idiota comandante del bombardiere che sgancia l’atomica sull’Unione Sovietica nel Dottor Strananore.

bang bang bang

bang bang bang

Il pugile di Tarantino si batte contro il Male, pur essendone stato parte. Butch possiede uno dei talismani magici di questa fiaba postmoderna: l’orologio. Il suo bisnonno ha combattuto nella Prima guerra mondiale portando con sé l’orologio d’oro da polso, che passa poi al nonno, il quale muore in guerra durante il Secondo conflitto mondiale. L’oggetto arriva sino al figlio, che è pilota nella guerra del Vietnam. Catturato dai nordvietnamiti, il genitore di Butch conserva nascosto nel sedere per cinque anni l’orologio, fino a che, morente, lo passa a un commilitone, il quale per altri due anni lo custodisce nell’ano (situazione che ha il gusto dello sfregio tipico dell’epos di Tarantino in questo film, e non solo lì). In una delle scene del film, chiaramente un sogno, Tarantino ci narra la storia dell’orologio e la sua consegna al piccolo Butch da parte del commilitone del padre, così da farne uno dei motivi narrativi della pellicola. Sarà proprio la dimenticanza di questo oggetto da parte di Fabienne, la donna di Butch, a spingere questi a tornare sui suoi passi fino alla propria casa, per ritrovarlo e portarlo con sé. L’ossessione dell’analità, come rimarca Morsiani, allude anche alle radici protestanti dell’intera cultura americana bianca (si veda il tema dell’analità in Norman O. Brown, La vita contro la morte, Adelphi, autore cult degli anni Sessanta, insieme al Marcuse di L’uomo a una dimensione): tempo e denaro. Inoltre, l’orologio manifesta l’ossessione per il controllo del tempo produttivo: tempo della storia narrata e tempo di produzione della storia narrata (Pulp fiction come film del mondo post-fordista?).

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Butch incarna con Jules, il nero diventato improvvisamente “credente” per via del miracolo occorsogli nel corso di una sparatoria, l’aspirazione a una diversa verità nella società dei simulacri raccontata visivamente da Tarantino. L’America dalle molte facce.

Vent’anni dopo Pulp Fiction rivela altri elementi che ci permettono di leggere ciò che è accaduto dopo il Papi di Arcore. Il primo che colpisce è l’insistenza sull’estetica vintage nell’episodio in cui Vincent accompagna fuori a cena la moglie del suo boss, il terribile Marsellus, Mia. “Che cazzo di posto è questo?”, domanda Vincent. “È il Jack’s Rabbit Slim’s. Hai l’aria di un ragazzo anni ’50. A un amante di Elvis dovrebbe piacere”, risponde Mia. Il locale dove lei ha prenotato un tavolo reca la scritta: “La cosa più simile a una macchina del tempo”. All’interno c’è Surf music e luci al neon. Alle pareti poster di vecchi film di serie B, mentre il personale è composto di sosia di vecchi divi, da Elvis a Dean Martin, Marilyn Monroe, James Dean, ecc. I due si siedono dentro una vecchia automobile e ordinano.

Siamo in pieno vintage, con un rovesciamento interessante, come nota Morsiani: mentre il divo è stato nel suo passato un cameriere, qui nel locale i camerieri somigliano ai divi. Tutto il film lavora su questa dimensione del passato prossimo, perché nel postmoderno alla Tarantino ogni cosa è già stata vista. In effetti, non è solo sulla manipolazione temporale del racconto che il regista americano agisce, ma anche sulla dimensione tempo in generale, in particolare il tempo rispetto alla memoria.

 Rivisto oggi, dopo la Leopolda numero cinque, dopo il bric a brac renziano allestito nell’ex stazione di Firenze, si comprende come il vintage sia diventato uno degli elementi centrali della cultura post Pulp fiction. Sono i cortocircuiti temporali ad appassionare Tarantino, e non solo lui. L’attuale Presidente del Consiglio, nato nel 1975, appartiene di fatto alla generazione venuta dopo Tarantino. Lo stile del regista americano prefigura quello che è accaduto successivamente, ovvero: la contemporaneità come proliferazione incontrollata delle immagini. Con una precisazione: solo alcuni oggetti vengono risignificati nell’ambito delle carabattole offerte dal grande magazzino della civiltà americana (non era forse quello il grande magazzino dove, alla fine di Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, anno 1981, veniva posta l’Arca dell’Alleanza?). La favola bella raccontata da Tarantino è diventata una realtà politico-sociale: tutto il passato deve confluire in un eterno presente (Morsiani).

Possibile? Probabile. La generazione-Tarantino non è solo quella dei cinici con la patente (sarcasmo adolescenziale, più spregiudicatezza), ma anche quella performativa esibita dai suoi personaggi, nel continuo scambio tra parola e atto, tra atti di parola e parole di atti. Il tutto condito da quella che è il termine chiave dell’intero film, al di là della sua violenza (più suggerita che veramente vista): cool; termine che indica la capacità che possiedono i personaggi di Pulp fiction di tenere sempre sotto controllo la situazione, “incorporando proprio per questo momenti di gioco, di godimento improvvisato e immediato che sembrerebbero l’esatto contrario del rigido professionismo”. Cool sta per freddezza e insieme gioco, indica l’aspetto fascinoso che i suoi “cattivi” manifestano. Siamo in quella zona in cui l’istantaneità totale delle cose, per dirla con Morsiani, rivela “una sovraesposizione alla trasparenza del mondo”. Pulp Fiction ha pronosticato Renzi? Forse è troppo ipotizzarlo, ma un troppo forse non tanto lontano dal vero.

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Giorgio Linguaglossa SUL CONCETTO DI “OPERA D’ARTE” E IL “BELLO” NEL PENSIERO ORIGINARIO di Carlo Marx – Manoscritti economico-filosofici del 1844

Carlo Marx

Carlo Marx

Commento di Giorgio Linguaglossa 

I “Manoscritti economico-filosofici del 1844” furono scritti dal Marx ventiseienne tra il marzo e il settembre di quell’anno. Essi avrebbero dovuto costituire la prima parziale esecuzione di un disegno più generale: cioè la critica dell’economia politica. Questi manoscritti rappresentano la raggiunta consapevolezza, da parte di Marx, del vizio d’origine della filosofia hegeliana: l’astrattismo. Il giovane Marx, avendo acquistata chiara consapevolezza del suo distacco da Hegel e messo da parte definitivamente il radicalismo democratico, inizia un lavoro costruttivo nel campo della critica filosofica, storica, economica e politica e, in questi saggi, comincia a delineare una compiuta teoria della società e della storia.

In un appunto fondamentale per l’evoluzione del pensiero estetico delle origini, Marx si sofferma sulle circostanze che fanno sì che un oggetto è nostro; ciò avverrebbe solo quando esso «è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc, in breve utilizzato». L’opera d’arte per Marx non può essere consumata in quanto opera d’arte ma solo in quanto oggetto di «utilità», cioè necessaria a soddisfare i  bisogni primari e secondari (i bisogni naturali e sociali) dell’uomo. Marx stigmatizza l’«immediato unilaterale godimento», il mero «avere» inteso quale «possesso» astratto che gli uomini hanno con l’«oggetto» dell’arte; qui interviene il concetto di «educazione estetica» dell’umanità che Marx traeva da Schiller ancora in termini illuministici e umanistici quale mera aspirazione ad una umanità futura migliorata dall’«educazione estetica».

Marx  accenna anche alla «totalità estensiva ed intensiva» che afferisce alla «educazione estetica», categorie tutte che riecheggiano le posizioni umanistiche schilleriane, ammirevoli ma generiche e, soprattutto, con un corredo categoriale non sufficientemente dialettizzato.

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T.S. Eliot

Nel pensiero estetico delle origini di Marx, la creazione artistica è considerata  come una attività libera, una adeguata realizzazione dell’essere umano ricco di relazioni umane (anche qui si avverte l’eco dell’umanesimo idealistico della filosofia tedesca).

Postulando l’arte come un «fine in sé», Marx la pone come una funzione fondamentale dello sviluppo umano e della umanità dell’uomo, dunque come una attività volta alla liberazione dell’uomo dalle sue servitù e, in particolare, dalla servitù del «lavoro», da Marx inteso quale antagonista della «libertà» propria della sfera artistica. Tuttavia, pur in questa categorizzazione binomiale delle due categorie, grande merito del pensatore tedesco è l’aver rimarcato che anche l’arte è colpita dall’alienazione, anzi, nell’opera d’arte si può vedere con chiarezza la «autoalienazione dell’uomo», «l’uomo alienato». Più tardi ne l’ Ideologia tedesca, l’alienazione verrà intesa «come prodotto della divisione sociale del lavoro», e l’accento verrà spostato sulle categorie della divisione sociale del lavoro che costituiscono la dimensione essenziale dell’esistenza umana: «appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere». (l‘Ideologia tedesca)

Nel Marx dei Manoscritti del 1844 è centrale la riflessione sull’«uomo autoalienato» che si autoriproduce nel mentre che produce per la società. Nel Marx della maturità l’accentuazione andrà sul problema del «superamento dell’alienazione» (cioè la piena realizzazione della vita del genere umano) soltanto tramite una rivoluzione sociale (cioè non solo nel pensiero come in Hegel ma anche e soprattutto nella realtà dei rapporti di produzione e nella abolizione della divisione sociale del lavoro e nel ribaltamento dei rapporti stabiliti dalle forze produttive dominanti).

L’autoalienazione della fruizione dell’opera d’arte è un concetto fondamentale per la costruzione di una estetica marxista o comunque critica. Non si dà mai un’opera d’arte auto evidente in sé ma per sé, si dà sempre in relazione con la fruizione autoalienata. Non si dà mai un ascolto originario che non sia attinto dalla autoalienazione del «soggetto» fruitore.

franco fortini_pier paolo pasolini Ancorando l’arte al «bisogno» della «specie», Marx ontologizza l’intera sfera artistica, la pone al riparo da ogni approccio individualistico o separatistico tipico degli idealisti hegeliani, la riporta alla materia, agli oggetti del mondo materiale e la mette in relazione con l’attività umana. Pone così la diretta correlazione tra attività, praxis, ovvero, produzione, e consumo, fruizione, appropriazione dell’arte da parte degli uomini in quanto «la natura fissata nella separazione dall’uomo, (non) è niente per l’uomo». L’uomo soltanto in quanto si separa dalla «natura» diventa idoneo a sviluppare e a consumare l’arte.

«Invero – scrive Marx –  anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente; quindi l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza» (303).

 La produzione dell’arte produce un «oggetto» soltanto quando questo «oggetto» può essere recepito dall’uomo in quanto «oggetto»

Scrive a tal proposito Marx: «la musica stimola soltanto il senso musicale dell’uomo, e per l’orecchio non musicale, la più bella musica non ha alcun senso (non) è un oggetto, in quanto il mio oggetto può essere soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale quale facoltà soggettiva per sé, andando il significato di un oggetto per me… tanto lontano quanto va il mio senso». (328-329)

Già Marx aveva anticipato l’impostazione della teoria della ricezione quando nella Introduzione ai «lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica», scrive che la produzione crea non solo un determinato oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per quell’oggetto: «L’oggetto artistico – e allo stesso modo ogni altro prodotto – crea un pubblico sensibile all’arte e in grado di godere della bellezza».

Questa conclusione di Marx suggerisce che – fermo restando lo specifico del «consumo» della letteratura – la produzione resta il momento fondamentale che contribuisce in modo essenziale a determinare il genere, il contenuto e il risultato del consumo. Marx sottolinea però che anche la produzione viene determinata, per converso, dal consumo: «Il prodotto si afferma e diviene prodotto solo nel consumo […]».

 Il Bello non può essere disconnesso dal nesso fondamentale dell’alienazione di ogni attività umana. Ritorniamo quindi al pensiero marxiano contenuto in proposito nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Per Marx il nesso ontologico fondamentale è costituito dalla alienazione. Il rapporto che lega l’uomo all’«industria» non può essere esaminato oggettivamente se non facciamo riferimento al concetto di alienazione che investe ogni prodotto dell’attività umana produttiva, e quindi anche del prodotto cosiddetto artistico in quanto rientrante anch’esso nell’attività umana produttiva

«L’alienazione, nella sua essenza, implica che ogni sfera mi imponga una norma diversa e antitetica, una la morale, un’altra l’economia politica, perché ciascuna è una determinata alienazione dell’uomo e fissa una particolare cerchia dell’attività sostanziale estraniata e si comporta come estranea rispetto all’altra estraneazione». (338)

de chirico ettore e andromaca particolare

de chirico ettore e andromaca particolare

Il processo di disumanizzazione e alienazione dell’arte

«Tanto più praticamente la scienza della natura è penetrata, mediante l’industria, nella vita umana e l’ha riformata e ha preparato l’emancipazione umana dell’uomo, quanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione. La industria è il reale rapporto storico della natura, e quindi della scienza naturale, con l’uomo. Se, quindi, essa è intesa come rivelazione essoterica delle forze essenziali dell’uomo, anche la umanità della natura o la naturalità dell’uomo è intesa. E dunque le scienze naturali perderanno il loro indirizzo astrattamente materiale, o piuttosto idealistico, e diventeranno la base della scienza umana, così come sono già divenute – sebbene in figura di alienazione – la base della vita umana effettiva; e dire che v’è una base per la vita e un’altra per la scienza, questo è fin da principio una menzogna. La natura che nasce nella storia umana – nell’atto del nascere della società umana – è la natura reale dell’uomo, dunque la natura come diventa attraverso l’industria – anche se in forma alienata – è la vera natura antropologica». (Manoscritti economico-filosofici. 330-331)

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Nel pensiero marxiano critico (e quindi anche l’arte in quanto produzione rientrante nel concetto di produzione alienata) sia la filosofia che le scienze naturali sono considerate dal punto di vista dell’alienazione quale nesso fondamentale di ogni attività produttiva; sia l’umanizzazione della natura sia la disumanizzazione operate tramite l’industria attecchiscono (in quanto alienate) anche alla sfera (separata) dell’arte.

Il pensiero marxiano sull’arte posteriore a Marx

Il pensiero marxiano posteriore a Marx non è mai stato capace di indagare la problematica dell’arte dal punto di vista dell’alienazione e dell’estraneazione che attecchisce il piano dell’arte in quanto attività produttiva. E questa macroscopica lacuna favorisce ancora oggi gli indirizzi positivistici che pensano l’arte in sé, come un assoluto astrattamente slegato dal nesso concreto che lo lega all’industria.

L’«industria» è la causa della crescente complessità della società umana (in quanto crea nuovi bisogni mentre soddisfa i vecchi). «La produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica» scrive Marx. In tal senso, anche il bisogno di arte è una «azione storica» e come tale storicamente condizionata e determinata. Come ha scritto Adorno (Teoria estetica), nelle società di massa anche il bisogno di arte non è poi così certo come può apparire, anzi, per il filosofo tedesco il bisogno di arte sembra essere stato abolito, o comunque sostituito con l’arte di massa, ovvero, con il kitsch.

In questo orizzonte problematico anche il «bisogno» del «Bello» non è un fatto così scontato come potrebbe apparire a prima vista, anch’esso soggiace alla alienazione fondamentale che attecchisce la produzione del «Bello». Secondo Adorno, nelle condizioni attuali delle società di massa, il «Bello» si muta in Kitsch. Detto in altri termini, l’umanizzazione dell’arte sventolata in buona fede da ardenti apologeti da tanti pulpiti si muterebbe nella disumanizzazione reale dell’attività produttiva alla quale essa soggiace.

Ritengo che la difficoltà di speculare su di una estetica critica dipenda dalla assenza di un pensiero critico che ponga al centro dell’Estetica i concetti di alienazione (Entfremdung) e di estraneazione (Entäusserung).
E qui si pone il paradosso della posizione estetica: come è possibile che una situazione alienata come quella dell’opera d’arte possa condurre, attraverso l’estraneazione (Entäusserung) propria della attività artistica, ad una messa in risalto di quella alienazione (Entfremdung) che dà piacere al fruitore? Che produce piacere?
Il paradosso della sfera dell’arte, in nuce, è tutto qui.
Per dirla con Valéry, l’arte che non pensa se stessa in rapporto all’industria «è più ottusa e meno libera».

citazioni tratte da K. Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844 Einaudi 2004

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Maria di Aldo Nove e la critica di Andrea Cortellessa – La madonnina di Viggiù. Aldo Nove e la pietra dello scandalo – Commento di Angela Borghesi e bilancio di Giorgio Linguaglossa 

 jeff_koons-cicciolina

jeff_koons-cicciolina // Lei era una bambina che qualunque collina
avrebbe voluto avere come sole.
Da tempo immemorabile era bella.

 Aldo Nove è nato nel 1967 a Viggiù, piccolo paese al confine con la Svizzera. Il suo primo libro Woobinda è stato pubblicato nel 1996 da Castelvecchi. Un suo racconto è apparso nell’antologia Gioventù cannibale. Nella collana «Stile libero» sono apparsi Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda (1998), Amore mio infinito (2000), La più grande balena morta della Lombardia (2004), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… (2006) e La vita oscena (2010). Nella «Collezione di Poesia» sono apparsi le raccolte Nella galassia oggi come oggi. Covers (2001), composta insieme a Raul Montanari e Tiziano Scarpa, Maria (2007) , A schemi di costellazioni (2010) e Addio mio Novecento (2014). Il suo più ampio volume di poesia è Fuoco su Babilonia! (Crocetti 2003).

aldo nove cop Maria
Lei era una bambina che qualunque collina
avrebbe voluto avere come sole.
Da tempo immemorabile era bella.
E più che una bambina era una stella.
Più che una stella era qualunque cosa.
Più di qualunque cosa era amorosa,
più di qualunque amore decorosa:
di tutto l’universo era la sposa.
Ma era troppo piccola: una rosa
che sboccia appena, come ogni creatura
sospesa tra l’eterno e la paura
dei giorni che dei sogni sono mura.
Le mura di chi è nato e non gli è dato
capire più di quanto del creato
gli venga in uno spazio costruito
e dentro un tempo già determinato.
Ma i sogni la sognavano più forte
del sogno che a ogni nato è dato in sorte
prima che nel silenzio della morte
le vite si ritraggano contorte.
Quasi che solo quello si sapesse:
che tutto infine ha fine come il sole
e l’universo e tutto ciò che vuole
vivere sempre, e che vivendo muore.
Quest’era l’infinita nostalgia,
quest’era l’assoluta lontananza
prima che quella luce in quella stanza
dicesse allora e per sempre: Maria.
[…]

[da Maria]

Marie Laure Colasson YZZ Struttura dissipativa 78x34 2020

[Marie Laure Colasson Struttura dissipativa, yzz, 78×35 cm. acrilico su tavola, 2020]

(Antologia di poesie di Aldo Nove)
A Baghdad 9.4.03

Fiumi di figa e di bandiere a stelle
E strisce e di cheeseburger e cartoni
Animati di morti col sorriso
Hollywoodiano e musica carina,
è questo il nuovo ordine mondiale

Tutti disciplinati, non c’è più
Regime adesso ma soltanto fiumi
Di figa e di bandiere a stelle e strisce
E di cheeseburger, cartoni animati
Di morti col sorriso hollywoodiano.

.

Cheesburger II

Al cinema biologico dei corpi
Trasmessi alla memoria di nessuno
Gli spettatori vengono abbattuti
Direttamente sulle sedie mentre
Sognano di mangiare dei Cheesburger

.
Ministro

Dice il ministro che si è commosso
Guardando alla TV quattro straccioni
Morti di fame per decreto U
SA che inneggiano al nuovo padrone

Lo stesso che li ha condannati a morte
Per anni con gli embarghi e adesso li
Ha mezzi liberati e mezzi uccisi,
io a quel ministro spaccherei la faccia

aldo nove

[aldo nove] Adesso è questa/ bolletta dell’Enel. Luglio/ millenovecentottantotto, il due. Sull’/ orologio le

Bolletta dell’Enel

Adesso è questa
bolletta dell’Enel. Luglio
millenovecentottantotto, il due. Sull’
orologio le
diciannove e quarantacinque non sono una ragione
per nessuno, oltre
le mani che stringono senza capire il foglio
del conguaglio, rosse
le linee che contengono le cifre. E alla storia
consegno questo. Né
testimone di me o del mio tempo
vedo inerpicarsi nello stretto dovere
che ancora sgretola tempo e tempo dalle persiane,
dove il deserto è una goccia
che dall’infanzia prorompe
in questa cucina

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

Mio zio litiga sempre con mia zia

Mio zio litiga sempre con mia zia;
mia zia litiga sempre con mio zio,
perocché in fondo in fondo esiste Dio,
e tutto torna sulla retta via.

Mio zio lavora in Svizzera, a Mendrisio,
non sa nulla di Kant né di Platone,
ma non è deficiente né coglione,
e nell’Olimpo opta per Dionisio

(infatti beve): troppo descrittivo?
Come poesia, però, non è scadente:
almeno testimonia che son vivo

e che ragiono, o forse no (la gente
capisce poco di quello che scrivo
ma quello che capisce è sufficiente).

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

Perlana ammorbidente

Ricordo che ogni punto dello specchio
si dilatava. Ed io che avevo preso
il rasoio guardavo me che vecchio
mi guardavo, ventiseienne obeso

nonché bambino acuto in italiano,
o innamorato di una di Malnate
nove anni fa. Strinsi forte la mano,
mi recisi la gola. E abbandonate

la schiuma e la salvietta scivolai
per terra. Andando a sbattere la testa
sul detersivo, tutto riversai
tra gli additivi il flusso che si arresta

della mia vita. Mi stupì la strana
ultima sensazione di chi muore
con forte in bocca il novello sapore
del proprio sangue misto col Perlana.

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

6.320 Lire

Qualcosa di
completamente nuovo, come il wurstel
ripieno di formaggio americano,
che addomesticato dall’acquisto
riposa nello spazio
rimasto tra il prosciutto e gli assorbenti
inerte come il docile stupore
del peso che si scava l’interstizio:
un tonfo sordo. Quattromila lire.

Qualcosa di
tradizionale come
il petto di tacchino, messo sopra
la confezione d’acqua minerale,
in bilico. Seimila
trecentoventi lire.

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

enzensberger poker-pato

[Pupe, pepite e reggicalze] Qualcosa di
completamente nuovo, come il wurstel
ripieno di formaggio americano,


da Angela Borghesi Dieci libri. Letteratura e critica dell’anno 2007-08, Libri Scheiwiller, Milano.

Confesso di essere finalmente inciampata anch’io in Aldo Nove. E denuncio subito tutto il mio disagio, la mia incredulità di fronte a tanta pietra dello scandalo.

Fino ad ora avevo scansato dai miei programmi di lettura gli scritti di Aldo Nove come Don Abbondio i ciottoli dal sentiero. A vincere la mia riottosità la pubblicazione nella Bianca Einaudi del poemetto Maria. Ciascuno coltiva anche pregiudizialmente le sue convinzioni. Io sono convinta che nel secondo Novecento la produzione letteraria italiana abbia dato e, nonostante la confusione imperante, continui a dare il meglio di sé nella poesia. Acquisto il libro sperando che questo sia il momento giusto per l’incontro sempre procrastinato e prendo atto dalle notizie di copertina di essere ulteriormente in ritardo: questa non è la prima opera poetica di Aldo Nove.

 Comunque, grazie alla candida veste einaudiana mi accingo con curiosità alla lettura del poemetto. Non senza avere scrutato con la dovuta attenzione l’oggetto: prima e quarta di copertina, ringraziamenti, dedica, citazioni in esergo, indice e il “finito di stampare”. Ciò che circonda il testo è viatico necessario alla lettura, piccolo rito propiziatorio. Apprendo così che il libro è stato stampato in maggio, mese come si sa delle rose dedicato a Maria. Con divertita simpatia mi chiedo se ciò risponda ad una precisa intenzione dell’autore o della casa editrice. L’ipotesi di una tale discreta attenzione al calendario liturgico mi predispone benevolmente alla lettura, se non fosse per il risvolto dove capita di leggere: «trenta canti, ciascuno di sette quartine di endecasillabi fittamente e variamente rimati»; poi si scorrono le due quartine riportate in copertina e i primi due versi (destinati a non rimanere gli unici) tutto sono tranne che endecasillabi. Che si debba fare la tara ai giudizi delle note di quarta è cosa ormai assodata, ma che non siano nemmeno più affidabili per quel che concerne i puri dati formali è negligenza che lascia un po’ d’agro in bocca. Ancor più se andiamo a dare uno sguardo alle citazioni, ben tre e una più dotta dell’altra, che variano da Pier Jacopo Martello a Sant’Ambrogio a Lacan. Non può allora sfuggire che proprio il verso d’apertura del primo canto, quello stesso riportato in copertina, è un martelliano e che, dunque, l’omaggio all’arcade bolognese dà anche il tono d’avvio al testo.

Tuttavia mi consola scoprire che la dedicataria è la nonna friulana di Antonello Satta Centanin, devota macinatrice di rosari. Il tributo alla memoria familiare mi piace. Comincio a leggere. Ma bastano alcuni canti e mi prende la noia. Abbandono, e mi dico che anche per questa volta l’incontro non s’ha da fare.

A riportarmi al testo dopo qualche giorno è un’altra scoperta. Il numero di gennaio 2007 di «Poesia» preannunciava (con il primo piano – come d’uso per il mensile – di un Aldo Nove più giovane colorato e scapigliato) la pubblicazione di Maria anticipandone alcuni canti. Cerimoniere dell’evento Andrea Cortellessa. Mi ero proprio persa tutto quanto.

Se l’accoppiata Nove/Bianca Einaudi, una delle più prestigiose collane di poesia nazionali, meritava un poco di attenzione, quella di Nove/Cortellessa, data la mia considerazione per il critico, esigeva un ascolto più attento, una maggiore disponibilità verso quei versi che non si erano aperti all’incontro.

Simone Cattaneo al Pascià club 2008

Qualcosa di/ completamente nuovo, come il wurstel/ ripieno di formaggio americano

 Corro in emeroteca, mi impossesso del saggio di Cortellessa dal titolo Lo scandalo dell’amore infinito, lo leggo. E, accidenti, questa sì è una lettura sconcertante. Questo il vero scandalo e non le quartine di Aldo Nove. Scandalo nel senso etimologico della parola che il critico si premura di spiegare al pubblico con dovizia di rimandi evangelici e testamentari. La mia vera pietra d’inciampo è proprio il giudizio di valore di Cortellessa. Ma come? A lui queste quartine hanno provocato un’emozione autentica come quella che si prova nel «veder nascere una grande poesia», e in me hanno sortito noia, solo noia? Forse qualcosa non è andato per il verso giusto, forse ero distratta e mi è sfuggita la «assoluta e sbalorditiva naturalezza» con cui Nove fa propria la tradizione dell’innologia mariana. Come, come ho potuto sorvolare su quella quartina così «vulnerante», su quella «straordinaria capacità di contemperare […] il rapimento estatico, l’esilarante attestazione del trascendente, e la più problematica riflessione concettuale, filosofica, speculativa»?

L’aggettivo «esilarante», usato due volte a poca distanza, mi pone un altro problema: chissà, magari non ricordo l’etimologia esatta. Consulto il dizionario ma l’aggettivo in quel contesto continua a non parermi congruo. Passo oltre.

Torno a chiedermi come sia potuto accadere di non aver colto l’«intensità lirica», l’incandescenza, l’iridescenza vertiginosa, la virtuosistica variazione (questa sì l’ho colta, ma appunto è ciò che mi ha infastidito). Insomma, come ho potuto non accorgermi che siamo in presenza di una «grande poesia» che non teme confronti né con Dante né con Rebora, per citare gli estremi cronologici cui Cortellessa rinvia con convinzione. Come mai quando leggo in classe Dante, quello stesso che Cortellessa accosta a Nove, pur povera di fede, mi si increspa la voce e mi tremano le vene e i polsi. Come mai quando ammiro l’annunciazione di Lorenzo Lotto, quella col gatto nero che scappa spaventato, poco ci manca che sia preda della sindrome di Stendhal, e invece rimango indifferente di fronte a questa Maria bambina di Aldo Nove?

Non mi stupiscono tanti e tali aggettivi sempre superlativi. Da tempo ho registrato che in Italia le ultime generazioni di critici e recensori hanno perso il senso della misura. Per loro tutto o quasi è “straordinario”. Mi ci sono abituata, e anche qui faccio la tara che si deve, riconduco questa smania superlativa alla tendenza a dare giudizi che si iscrivono in un orizzonte letterario ristretto (la produzione italiana degli ultimissimi anni), autoreferenziali. Ma non sembra essere questo il caso. L’orizzonte di riferimento di Cortellessa è quanto mai ampio e, questo sì, vertiginoso per nobiltà e qualità letteraria, niente po’ po’ di meno che il Dante paradisiaco al suo acme filosofico e poetico (Paradiso, XXXIII). Dunque, perché ciò che a Cortellessa pare un «“vero” avvenimento» su di me non ha prodotto alcuno sconquasso («squassante» è aggettivo da aggiungere alla serie)? Sono io cieca di fronte a tanta meraviglia o è il critico che ha preso un abbaglio, o meglio è caduto vittima di un’apparizione non così miracolosa come sostiene? La madonnina di Viggiù come quella di Civitavecchia?

aldo nove

aldo nove

 Ma il mio è un problema serio. Cortellessa, ripeto, è critico di valore che per giunta dirige una collana in cui propone testi di giovani poeti degni di interesse. In questo saggio stila giudizi a dir poco lusinghieri su tutta la produzione di Aldo Nove. Che sia la mia ignoranza sul pregresso che limita la mia percezione del vero? È dunque necessario che io corra ai ripari e mi legga l’intera opera del nostro campione. Mi armo della necessaria diligenza e parto nella ricognizione pressoché esaustiva degli scritti narrativi del nostro da Woobinda a Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese passando anche per quel «piccolo ma assoluto capolavoro» che, ancora secondo Cortellessa, è La più grande balena morta della Lombardia. Non senza avere colmato anche il debito poetico leggendo sia il volume pubblicato da Crocetti, Fuoco su Babilonia, che l’altro, sempre einaudiano, delle covers con Montanari e Scarpa, Nelle galassie oggi come oggi. Riemergo dall’affondo un po’ provata ma con una certezza e alcune impressioni.

[…]

Se spogliamo il saggio di Cortellessa dal crepitante involucro aggettivale, la tesi critica di maggior peso rivolta all’intero prodotto creativo del sodale è quella espressa in esordio: Nove è uno scrittore «multiforme», «onnipotenziale», qualità queste che sembrano segnare un vero discrimine critico per Cortellessa da sempre attratto dallo sperimentalismo e dall’oltranza. Senonché in Nove l’oltranza rischia di diventare oltraggio (per citare uno Zanzotto caro a Cortellessa e da lui evocato come uno dei numi tutelari delle quartine mariane). Oltraggio e non per il «costante capovolgimento delle attese» che in Nove sarebbe consustanziale, bensì per una tendenza alla reiterazione del misfatto.

 Prendiamo Woobinda, il suo esordio cannibalesco che pure certa critica non priva di acume e di finezza salutava come una novità, anche espressiva, che sapeva cogliere le mutazioni in atto di una generazione allo sbando. Ho faticato ad arrivare alla fine del libro perché dopo tre o quattro racconti i successivi diventano prevedibili, replicano in ambiti diversi gli stessi meccanismi sociali e letterari. Anche quegli elementi stilistici che potevano apparire nuovi e destare interesse se proposti in serialità limitata, riprodotti senza respiro, spesso senza alcuna ragione di necessità, svelano la loro natura di stratagemmi che li inchioda a rimanere non altro che trovate d’effetto (i lunghi periodi senza punteggiatura con intento imitativo, l’interruzione comunicativa da telecomando con cui si chiudono molti brani).

 Lo stesso vale per quel «capolavoro» della Più grande balena morta della Lombardia in cui lo sguardo si ripiega troppo compiaciuto e nostalgico sul mondo di un io infantile alle soglie dell’adolescenza con una iteratività davvero ossessiva e claustrofobica. Bastano tre o quattro scene di quotidiana vita provinciale in quel di Viggiù per capirne tutte le coordinate fantastiche, etiche e sociali. Così per Mi chiamo Roberta che pure sembra affrontare un universo altro, con un taglio stilistico diverso in cui Nove pare occuparsi delle vite altrui. Invece, anche qui, tutto è già visto e letto. Tutto già in nuce in quell’incunabolo che è Woobinda. I ritratti fantastici e iperbolici dell’esordio diventano qui, ahinoi, ritratti reali non meno segnati dalla frustrazione e dal fallimento. Cambia solo il registro stilistico dovuto alla diversa esigenza di scrittura. Ma quel che più interessa è che Nove usa le interviste pubblicate a suo tempo su «Liberazione» per farne un libro su di sé. Le introduzioni, ampie tanto quanto le interviste, altro non sono che specchi che lo riflettono, occasioni per riparlare della sua infanzia, per citare libri e autori di riferimento, per dare spazio alla sua coscienza etica (Nove è essenzialmente un moralista). Persino il modulo di presentazione che ritorna nel testo e che campeggia nel titolo (“Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni”, ecc.) compare nell’opera prima (“Mi chiamo Andrea Garano. Ho ventitré anni”) declinato in multipli. Denuncia tale coazione a ripetere pure il fatto che Nove non si trattiene dal riproporre il modulo nemmeno per il Matteo di Amore mio infinito, per fortuna protagonista unico del romanzo.

sfilata di miss italia

sfilata di miss italia – All’inizio era solo la parola,/ all’inizio era una parola sola./ l’inizio che iniziato trascolora/ nel dubbio della fine che divora

 E lo stile è altrettanto esibito, studiato per épater les bourgeois. Così si susseguono frasi brevissime, spesso di un solo segmento, in una sequenza verticale tesa a riprodurre quella dei versi poetici. Sorge naturale il sospetto che l’andamento fortemente pausato serva a scandire un discorso che qualora organizzato orizzontalmente perderebbe d’efficacia; a dargli senso forza incisività sono gli a capo, più che le tesi sostenute. Forse Nove ha in mente, visti i suoi studi filosofici, la cadenza di certi professori di filosofia i quali, spacciandosi per filosofi, affidano la loro credibilità all’ampiezza delle pause tra una parola e l’altra quasi che, atteggiandosi a nuovi Parmenide, la parola divenisse verbo in virtù dell’aura silente, della densità del vuoto con cui la circondano. O forse anche lui incorre nel vizio espressivo tipico, secondo il Papini di Stroncature, dei filosofi hegeliani: si piglia un termine, lo si ripete (perché la ripetizione è di per se stessa fondativa), lo si gira nel suo contrario, lo si varia, lo si inserisce in una trama evocativa. Il risultato è un assioma impenetrabile ma d’effetto.

 Esattamente ciò che Nove propone in queste due quartine che a Cortellessa invece paiono vulneranti:

«All’inizio era solo la parola,/ all’inizio era una parola sola./ l’inizio che iniziato trascolora/ nel dubbio della fine che divora// l’oceano frammentato del creato/per una volta sola nominato/e nell’eterno poi moltiplicato/in mille forme d’altro rispecchiato.». Dove la serie monorimica della seconda strofe contribuisce semmai a creare l’alone teologico-filosofico a cui è bene abbandonarsi senza porsi l’obiettivo di sondare la profondità insondabile.

Tuttavia, se qualcosa è destinato a durare di Aldo Nove mi auguro sia il sonetto che compare nell’introduzione alla Storia di Alessandra in Mi chiamo Roberta. È un testo riuscito che può rappresentare al meglio la sostanza creativa dell’autore. La sua summa artistica. Ma, appunto, Nove sta pressappoco tutto qui:

 «Sono un ragazzo di cinquant’anni,/ vivo con la mia mamma e il mio papà./ Ho molti libri editi da Vanni/ Scheiwiller. Io, poeta di città.// Sono disoccupato. Laureato/ In storia dell’economia politica./ Stimo Montale, detesto Battiato./ di Pindaro amo la seconda Pitica.// ho vinto il premio “Versi a Pordenone/ ’92”. E al “Città di Torino/ ’99” ho avuto anche una menzione// per un sonetto su Sant’Agostino./ Ho due by-pass. Vivo con la pensione/ di mio papà. Possiedo un motorino

 Ben fatto, niente da dire, e divertente. Persino utile per la didattica letteraria: mettere in fila i sonetti autobiografici di Alfieri Foscolo Manzoni con questo che pure autobiografico non è, ma è di una verosimiglianza generazionale efficace, darebbe agli studenti una precisa idea su che ne è stato dell’intellettuale nella letteratura e nella società italiana.

le gambe ok

Mary non è stronza come Ambra.// Mary è molto più dolce.// Mary studia filosofia.// Mary ha i capelli biondi.// Mary non grida.// Mary ha le gambe più lunghe di Pamela

In effetti, Nove mostra di essere un buon facitore di versi, un discreto artigiano che ha mandato a mente con profitto la lezione dei maggiori e non solo, lezione che sa elaborare secondo la sua visione delle cose e del mondo. In Fuoco su Babilonia la perizia si percepisce, e si potrebbe persino per un attimo pensare, come Cortellessa, che si sia di fronte a una personalità poetica multiforme. In realtà siamo in presenza di capacità virtuosistiche, nel migliore dei casi, ma stucchevoli come a lungo andare tutti gli esercizi di stile. Lo stesso esercizio che, sempre nel migliore dei casi, io trovo in Maria.

[…]

Certo anche Nove sa darci alcune pagine in cui riesce a restituire in maniera persuasiva sensazioni o situazioni di un’esperienza umana universalmente condivisa. Mi riferisco ad alcuni passi di Amore mio infinito, opera edita nel 2000 che, seppure sempre appesantita dall’iterazione di moduli stilistici e strutturali già sperimentati, registra qualche scatto narrativo proprio là dove si toccano momenti di sofferenza del protagonista (la morte della madre, la morte del nonno, con il brano cimiteriale davvero riuscito).

Se invece ha un sapore il poemetto mariano di Nove è quello un po’ nostalgico di un crepuscolarismo epigonico, per giunta privo d’ironia. Chissà che tra le varie memorie del nostro non abbia agito anche quella della campana di vetro sotto la quale le nostre madri e nonne custodivano sul comò la statuetta di cera di Maria Bambina dormiente, adorna di mughetti finti e vestina di seta chiara. Ma, di nuovo, Maria non è che un’altra variazione sul tema, quello delle ragazzine di Non è la Rai co-protagoniste di un racconto di Woobinda che torna, dunque, a funzionare come semenzaio, come crogiolo in cui tutti gli ingredienti sono stati depositati. La Mary del 1996 si è semplicemente mutata nella sua variante estrema, la Maria bambina per l’appunto del 2007. In quel brano, intitolato Pensieri, c’era già in nuce anche il ritmo della giaculatoria. E per un abile manipolatore qual è Nove il percorso dal rap all’inno è una cover in più, un remake:

 «Mary non è stronza come Ambra.// Mary è molto più dolce.// Mary studia filosofia.// Mary ha i capelli biondi.// Mary non grida.// Mary ha le gambe più lunghe di Pamela.// Mary non cerca di rubare spazio alle altre ragazze.// Mary mi fa vivere la speranza di un mondo migliore.// Mary mi fa battere il cuore fortissimo.// Mary è più bella di Miriana.// Mary è molto riservata.// Mary ha il sorriso più bello che esiste.// Mary è del segno dei Pesci.// Mary parla tre lingue.// Mary sconfiggerà questa noia che non ha mai fine.// Mary guarda di profilo con le sue labbra grandi e impazzisco.// Mary balla con moltissima grazia.// Mary ha la pelle profumata.// Mary è tutto quello che possiedo.»

 In mezzo, tappa intermedia tra i due estremi, ci stanno la Chiara e la Maria di Amore mio infinito da cui infatti Nove riprende, di poco variato, l’incipit del poemetto («Lei era una bambina che qualunque collina /avrebbe voluto avere come sole»). Dalla Mary dell’estasi terrestre alla Maria dell’estasi celeste. Ma è un percorso senza sviluppo. Sono le due facce della stessa medaglietta.

le gambe

Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore

Nove mi pare bloccato entro quella intuizione originaria, utile e intelligente, dalla quale è partito per una descrizione sociologica e culturale della generazione a lui contemporanea prima in chiave cannibale poi in chiave nostalgica, sempre con rattenuto sdegno etico: e da lì non si è più mosso, ci gira intorno con varie evoluzioni senza trovare, per ora, un nuovo diverso oggetto di descrizione e di riflessione, a differenza di quanto avvenuto per altri compagni di strada degli esordi. Insomma tra il 1996 (Woobinda) e il 2000 (Amore mio infinito) Nove elabora e immagazzina tutto il materiale di costruzione degli scritti successivi e da lì in poi procede per gemmazione. Ancora un ultimo esempio: il primo capitolo del romanzo Amore mio infinito intitolato “Prima cosa”. La bambina, 1982 è connotato stilisticamente dalla resa in chiave imitativa dello sguardo infantile sul mondo; La più grande balena morta della Lombardia riprende e ripropone questa medesima cifra stilistica, con tutto il buffo corredo delle fantasie e delle percezioni abnormi e iperboliche dei bambini, ma dilatandola all’intero libro.

 Quanto alla questione se Nove «c’è o ci fa», mi piacerebbe sapere quante copie abbia venduto Maria tra i seguaci di Comunione e Liberazione o nelle innumerevoli parrocchie italiane. Non avendo a disposizione questo dato, la mia impressione è che il successo di Nove si debba in buona misura al fatto che è un autore redditizio, i suoi libri hanno un mercato assicurato e come è comprensibile l’editoria tende a sfruttare il fenomeno. Ma anche Aldo Nove è ben in sintonia con tale logica e sa individuare di volta in volta il pubblico giusto per il nuovo prodotto. Quindi Nove «ci è», perfettamente consapevole della situazione. E anche qui non c’è niente di cui scandalizzarsi.

Gif Malika Favre 1

Pseudo commento di Giorgio Linguaglossa

Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore, il quale sicuramente apprezzerà la mia ironia. Sicuramente, la ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia (o meglio, dell’anti poesia) di Nove, il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è stata una operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che STA IN ALTO. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale», siamo già scesi così in basso che ogni forma di ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Semmai, il problema è il «vuoto» della società italiana. Ma lasciamo stare e torniamo alla anti poesia di Nove che riscuote il caldo abbraccio critico di Cortellessa. Personalmente, ho dei dubbi sulla utilità e sull’efficacia di ogni pratica di «carnevalizzazione» della poesia per le ragioni su dette.
Per Bachtin il «carnevale è una forma di spettacolo sincretistica di carattere rituale… e che la vita carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario» (Dostoevskij. Poetica e stilistica 1968). «Il sentimento carnevalesco del mondo» e la «letteratura carnevalizzata» si fondano su una sospensione temporanea e rituale della «normalità» che consente di istituire «un mondo alla rovescia» nel quale per Bachtin si risolve la parodia. E aggiunge il critico russo che, come il riso carnevalesco, così la parodia è «ambivalente», nel senso che non è «mera negazione del parodiato» ma tende ad obbligarlo «a rinnovarsi e a rigenerarsi».

La poesia di Aldo Nove rientra in questo schema categoriale, la sua poesia sospende la «normalità», la «rovescia» ma, purtroppo, la lascia intatta, anzi, la invita a riprendere fiato e a sopravvivere. È questo l’appunto che mi sento di fare alla poesia di Aldo Nove, che la sua parodia (qua e là anche divertente, lo ammetto), lascia le cose della poesia come stanno, anzi, ne rafforzano le componenti conservatrici (cioè, come dice Bachtin «normali»). Devo però ammettere che trovo più effervescenti e divertenti i suoi romanzi piuttosto che le sue poesie, ma anche per la sua narrativa valgono le considerazioni già espresse.
Ho forti dubbi che la anti poesia di Aldo Nove riesca a svecchiare la poesia italiana, la ironizzazione e la parodia la lasciano purtroppo intatta, non la scalfiscono, non la rinnovano. E, alla lunga, leggere questa anti poesia alla fine annoia.

Per chiudere la questione della poesia di Aldo Nove, io direi che essa si situa, in continuità con una impostazione neo (o post) sperimentale della poesia italiana del secondo Novecento, all’interno dell’orbita della Anti-poesia. Ovviamente, questo tipo di impostazione categoriale rende questa poesia sì divertente (a volte) ed effervescente (a volte), ma anche innocua, non innova, anzi, non vuole innovare, vuole soltanto dilettare e divertire il lettore. Non innova la poesia italiana per il semplice fatto che non può nulla né contro né in pro di essa, perché si situa al di fuori della «forma-poesia».

Riporto uno stralcio di un articolo di Corrado Ruggiero del 2008:

«L’uomo occidentale. Cerchiamo allora di ricostruirne i tratti fondamentali. Partiamo dalle pietre che ne sono a fondamento. I libri e gli autori che l’hanno fatta, ci hanno fatti quali siamo. Bisogna arrampicarsi sugli scaffali alti delle nostre biblioteche. Andare alla ricerca di un libro fondamentale per ognuno di noi. Un libro che, forse, finì a suo tempo nel tritacarne dei recensori di professione, quelli che consigliano i libri da leggere settimana per settimana. Laddove questo cui mi riferisco è un libro da leggere e rileggere: per sapere chi siamo, per conoscere come siamo diventati quello che siamo diventati, per decifrare quale destino ci aspetta dietro l’angolo – almeno in termini di perdita – se gettiamo via l’universo di fantasmi e di sogni che abbiamo costruito in tanti secoli. Sto parlando di Harold Bloom e delle 428 pagine del suo Canone occidentale. Un libro che, quando uscì, provocò qualche fuoco di paglia tra gli “addetti ai lavori” ma che, appena appena uscito, finì sugli scaffali alti delle biblioteche. Dove vanno i libri nobili, magari, ma poco sfogliati. Eppure le domande che poneva e ripropone (che cosa vale la pena leggere all’interno della grande tradizione letteraria occidentale? e che cosa è, poi, che fa il letterario essere letterario, appunto? qual è il rapporto tra la letteratura e il Tempo, tra la letteratura e la morte?) sono domande serissime. E fondamentali oggi, a inizio del nuovo millennio tanto più se l’occidente, sopraffatto da una incondita e molteplice globalizzazione, sembra che stia per chiudere bottega.

Che cosa è il canone? e che senso ha l’aggettivo, occidentale, che lo accompagna? Il canone, in un senso immediato e banale, altro non è che l’elenco, il catalogo – normativo – dei libri che ogni studente dovrebbe leggere per essere padrone del filo conduttore, almeno, della tradizione letteraria occidentale. Ma a Bloom non basta tracciare il diagramma dei 26 grandissimi che hanno fatto l’immaginario letterario della nostra civiltà. Per canone, Bloom sottintende la lotta tra il Tempo e la Memoria. Tra il Tempo che si fa ininterrottamente tra infiniti episodi di cui pochissimi sono significativi e moltissimi sono, invece, scorie, ridondanze che ripercorrono sentieri già percorsi, e la Memoria che è costretta a scegliere – per volgari ragioni economiche: non si può ricordare tutto di tutto! – se vuole veramente conservare. Pretendere di conservare tutto significa, in effetti, non conservare niente, alla fine. Un coacervo mostruoso di fatti più simile all’inverosimile catalogo di Bouvard e Pécuchet che all’ordine, distillatissimo, in cui la Memoria previdente e paziente sa conservare ciò che è significativo conservare. E non altro. Se si vuole avere Speranza. Anche se, oggi, “la speranza si vede ridotta”. Leggere, e tanto più leggere opere letterarie, è, dunque, innanzitutto un trovare se stessi al di là delle croste che ci hanno attaccato addosso le ideologie, le storie, le società con i loro assetti, pregiudizi e contrasti. «Di contro all’atteggiamento che riduce l’estetica a ideologia», Bloom sollecita

«una testarda resistenza il cui unico scopo consiste nel preservare la poesia nella sua pienezza e purezza».

Ma quali caratteri deve avere un’opera letteraria perché possa entrare nel canone? perché Dante sì e Petrarca Ariosto Leopardi no (tanto per restare nei confini della nostra provincia)? e perché è Shakespeare a occupare il vertice del canone? Per rispondere bisogna partire da capo. Anzi da un punto insospettabile: dalla nozione di angoscia. «C’è sempre qualcosa in anticipazione della quale siamo ansiosi, se non altro di aspettative che saremo chiamati ad attuare» e «un’opera letteraria suscita anch’essa aspettative che deve soddisfare o cesserà di essere letta». Deve soddisfare letterariamente nel senso che gli sbandamenti dell’umanità, di cui la letteratura si carica, vengono presi in carico, vengono trasferiti in letteratura, appunto. La letteratura è, in fondo, un’isola fatta di parole che, a loro volta, danno vita a immagini che, a loro volta ancora, assumono su di sé i drammi radicali dell’uomo: a partire da quello della paura della morte che «nell’arte della letteratura viene trasmutata nella cerca della canonicità, per congiungersi con la memoria comunitaria o societaria». A questo punto non c’è spazio per una letteratura che aspiri a essere tale solo per il fatto di essere portatrice di una determinata ideologia. Non basta, insomma, essere politicamente corretto per essere – un romanzo, una poesia, un dramma – anche letterariamente accettabile e degno di entrare nel canone letterario. È l’opera letteraria che, con la sua “originalità”, la sua “capacità cognitiva” ovvero la capacità di aprirci gli occhi su mondi sconosciuti, la sua “esuberanza espressiva” che investe il “politico” (corretto o scorretto che sia!) e lo fa diventare poesia, appunto. E l’isola letteraria non è del tutto un’isola! Shakespeare non ha limiti che lo frenino: né in alto né in basso. Niente gli è estraneo e niente gli è precluso: perché non ha fini precostituiti, obiettivi prefabbricati, convinzioni da trasmettere. La sua opera non ha quella pregnanza profetica che è la forza ma anche il limite, se è un limite, di Dante: per cui Dante – con Cervantes – si pone a ridosso, appena a ridosso, di Shakespeare. E, nel mettere questi paletti, Bloom risponde anche al quesito del perché Tizio sì e Caio no!

Ma se Shakespeare è il vertice del canone, è – poi – Amleto il centro di questo vertice. In Amleto si riassumono i drammi e le debolezze radicali dell’uomo. E dell’uomo, anche o soprattutto, in quanto uomo che legge e legge opere letterarie. Leggere è, in generale, un atto solitario. Leggere un’opera letteraria lo è ancora di più. Una pratica che ognuno può affrontare/deve affrontare solo nel chiuso di se stesso. Ed è sempre un dialogo e una lotta, un fare i conti con il se stesso più profondo. Un fare i conti con il Tempo, con il cambiamento, con la Memoria, con la morte in definitiva. Ed è questo appunto, quello che fa dal primo verso del primo atto all’ultimo verso dell’ultimo atto, Amleto. Anche quando non è in scena ma se ne sente, comunque, la presenza. Inquieta. Inquietante: per chi sa leggerlo, per chi sa leggersi. Questo siamo noi, fissati nei nostri libri: secondo i raffinatissimi parametri di Bloom».

(Corrado Ruggiero dalla Rivista “Nuova Secondaria, 8 – 2008”).

La dizione di «forma-poesia» era già stata usata da Franco Fortini nei lontani anni Novanta, quindi ha una lunga gestazione, non è quindi una mia invenzione; me ne sono appropriato perché in modo incisivo serve a far comprendere di che cosa stiamo parlando. Se dicessi semplicemente “poesia“. questo termine sarebbe troppo vago, con la dizione «forma-poesia» intendo una costruzione stilistica tipica di ogni Lingua e di ogni società, essa cambia con la mutazione della Lingua e della società.
Con il termine «Anti-poesia» intendo qualcosa che ognuno può intuire. Detto in parole semplici, dirò che ciascun poeta quando mette sulla carta qualcosa che per lui è “poesia”, ha chiara in mente anche la nozione opposta di «Anti-poesia» che implicitamente e esplicitamente nega la categoria di «poesia».

 Nota

La versione integrale del saggio di Angela Borghesi è pubblicata su Dieci libri. Letteratura e critica dell’anno 2007-08, Libri Scheiwiller, Milano.

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Marco Onofrio: La “lingua di plastica della middle class alfabetizzata” che cancella il mondo. Riflessioni in margine ad alcuni libri sull’italiano di oggi (Giorgio Linguaglossa, Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio, Filippo La Porta)

italia tripartita 

Le celebrazioni del 2011 per il 150esimo dell’unità d’Italia hanno dato ampio e giusto spazio al ruolo della lingua come cemento della nazione; ma hanno anche toccato il nervo scoperto rappresentato dalla progressiva e apparentemente inarrestabile “plastificazione” che affligge da tempo il nostro bellissimo idioma (tra i più studiati al mondo). Diversi scrittori hanno analizzato il fenomeno, che non riguarda solo l’Italia: anche in Francia parlano di “langue de bois” (lingua di legno) per indicare il logorio delle parole, soffocate dalla stereotipia dei luoghi comuni e plagiate nei meccanismi mass-mediatici di un bla bla ipnotico, privo di senso. Dunque, un fenomeno transnazionale: determinato probabilmente dalle condizioni di usura e obsolescenza cui è sottoposta la lingua nella società contemporanea, strutturata come un villaggio global-mediatico che in realtà è un emporio mondiale e aggregante di merci (parole comprese). La letteratura stessa è stata di conseguenza sottoposta – con la definitiva perdita di “aura” umanistica – a un processo di de-significazione, di neutralizzazione semantica del significante, corollario del generale indebolimento della segnicità delle parole, che ormai girano a vuoto, consunte, sbiadite, banalizzate.

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poetico

Si chiede opportunamente Giorgio Linguaglossa (nel suo volume Dalla lirica al discorso poetico, 2010): «È ancora possibile in questo fiume dalla corrente incessante (che è dato dalla fluidificazione di tutte le forme e dalla fluidificazione dei vasi comunicanti, delle segnaletiche, del mondo dei segni propria dell’universo internettiano) stabilire con oggettività la comunicazione dalla in-tensione significante?». La peste che colpisce la lingua, peraltro, diventa terreno di coltura per la proliferazione di certe storture tipiche – nell’accentuazione di alcuni “difetti” connaturali – della “civiltà” letteraria contemporanea, incline a degenerare in un «micidiale guazzabuglio di servilismo mimetico e conformismo, che si propaga alla velocità della luce» (Linguaglossa). Già nel 1994 il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sulla rivista «Poiesis», poneva all’attenzione dei lettori tre domande urgenti e ineludibili: «è ancora possibile nominare il mondo? è ancora possibile rendere abitabile la lingua? è ancora possibile l’autenticità nella posizione estetica?»

filippo la portaIn ragione degli scenari aperti dall’analisi oggettiva di queste problematiche, sono recentemente usciti dei volumi sulle dinamiche in corso nell’uso della lingua italiana. Proprio nel 2011 il raffinato enigmista Stefano Bartezzaghi ha pubblicato per i tipi di Mondadori Non se ne può. Il libro dei tormentoni, dove si studia appunto il “tormentone”, questa particolare escrescenza del luogo comune attraverso la banalizzazione fraseologica del potere linguistico di nominare il mondo: un fenomeno non soltanto spontaneo, endogeno alla lingua, ma strumentalizzato, coniato a tavolino come utilmente strategico alla diffusione sociale di un dato consenso che si vuole imporre (si pensi agli slogan politici e pubblicitari). La maggior parte del flusso comunicativo viene infatti sottomesso a meccanismi subdoli, mistificatori: l’omologazione linguistica è in realtà funzionale alle logiche di potere, poiché tende a veicolare l’affermazione del “pensiero unico”, schiacciando le pulsioni divergenti – malgrado la sconfinata, simultanea molteplicità dei messaggi in gioco. Sempre del 2011 è La manomissione delle parole (Rizzoli) di Gianrico Carofiglio, dove l’analisi viene approfondita all’origine del fenomeno degenerativo: secondo Carofiglio «le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli», per cui oggi si rende necessario «smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti». Dopodiché, verificato il danno, toccherà «montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non-significati». Le parole, così, verranno rianimate, restituite cioè alla dignità costitutiva del loro senso, solo se riusciremo a de-automatizzare l’accettazione acritica e la ripetizione ipnotica delle loro formule plastificate.

filippo la porta

filippo la porta

Ma già in precedenza, nel 2009, Filippo La Porta aveva intavolato la discussione, con il suo agile e divertente È un problema tuo (Gaffi editore). Su questo libro intendo soffermarmi in modo particolare. Si tratta di un excursus ironico attraverso i territori dell’omologazione linguistica, del conformismo che risuona, come un ronzio corale, all’interno delle fraseologie standardizzate nella koinè semplificante della middle class. Naturalmente La Porta tiene conto del cambio di registro che generalmente avviene nel passaggio dalla langue alla parole, cioè dalla convenzione linguistica istituzionale alla prassi comunicativa, legata quest’ultima al contesto, al luogo, al tempo, agli attori implicati, a ciò che di volta in volta si dice, performando certe parole, veicolandole a certi tratti paralinguistici, etc. La lingua quotidiana, così, è da sempre intessuta di stereotipi, intercalari, espressioni gergali, modi convenzionali, zeppe, imperfezioni, opacità. Però – e qui sta il punto: mai come oggi.

gianrico carofiglio

gianrico carofiglio

Affrancato dai ceppi dell’ideologia e dalle sue precettistiche, talora ancorate alla  retorica di un vero e proprio dogmatismo espressivo, pieno di slogan e frasi fatte, il gergo verboso o afasico del Sessantotto si è trasmutato nell’amalgama informe di una lingua media banalmente rimasticata, che dà voce alla middle class alfabetizzata a livello mondiale. Una lingua ancor più infarcita di tic, luoghi comuni, metafore stantie, repertori pronti all’uso e al consumo (dall’eponimo “è un problema tuo” a “non c’è problema”, dal famigerato “un attimino” a “in qualche modo”, da “esatto” a “tipo che…”, etc.). Si rileva dunque una corruzione ulteriore dell’efficacia delle parole, dovuta a tutto ciò che, nell’età contemporanea, esenta l’individuo dal dover pensare in prima persona, offrendogli la possibilità di simulare, riciclare, ripetere, usare formule vuote. Una “lingua di plastica” che corrompe il pensiero, con uso spesso improprio dei termini, cannibalismo delle parole e loro progressiva insignificanza, che rinvia alla progressiva insignificanza delle nostre vite, al senso di irrealtà che ci sta intorno. Si parla di “italiano neostandard, o “italiano dell’uso medio” (middle italian), che rispecchia e insieme concorre a plasmare la grande bolla del ceto medio, di stampo piccolo-borghese. Così, insomma, parla e scrive la “gente comune”. L’italiano neostandard tende ad accogliere elementi del parlato generalmente rifiutati dall’italiano standard, più normativo. Ad esempio “lui” “lei” “loro” usati come soggetti; “gli” generalizzato con valore di “le” e “loro”; “ci” attualizzante («che c’hai?»); anacoluti non percepiti come errore; imperfetto al posto del congiuntivo e del condizionale, etc.

Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua; ma vale anche in senso reciproco. È secondo questa valenza bipolare che il libro si trasforma, nel suo “sottotesto”, virando oltre la dimensione da repertorio divertito e divertente di tic linguistici, o esercizio di “pedante vigilanza” sulle parole che usiamo, verso quella più complessa e ampia di un’analisi critica della società attuale. La Porta sviscera le caratteristiche peculiari della middle class in questione, enumerandole come:

italia che tace

1)  pigrizia e inerzia creativa. Voglia di non impegnarsi più di tanto, di avere tutto e subito, di improvvisarsi esperti. Ostilità per la cultura in quanto tradizione, sforzo, lenta assimilazione individuale;

2) snobismo di massa, desiderio di distinguersi in senso esclusivo. Ad esempio, quel tipico compiacimento nel simulare ed esibire un gusto linguistico nobile e selettivo, tra cui il vezzo di criticare i tic verbali, lamentandosi per la catastrofe linguistica in corso («dove finiremo di questo passo?» ‒ e si fa bella figura);

3) spettacolarizzazione di tutto, anche delle tragedie private e collettive;

4) trasgressione controllata e ribellione conformistica. Provare il brivido senza rinunciare alle sicurezze acquisite, alla mentalità assistita: posto fisso e famiglia;

5) omologazione (società piatta e immobile, livellata e soporifera: consunzione degli ideali) ma anche differenziazione: eclettismo, anzi camaleontismo (bancari-sassofonisti, postini che aprono creperie, commessi librai che diventano romanzieri, etc.) e quindi bovarismo diffuso (attitudine al travestimento, impulso di apparire diversi da se stessi, per fuggire da una vita che non ci piace);

6) narcisismo, che nasce dall’insicurezza, dal continuo bisogno di conferme;

7) fuga dall’esperienza reale delle cose: si preferisce la realtà mediata, illimitata, reversibile, manipolabile, telecomandabile, digitalizzabile;

8) fascinazione tecnologica, corsa all’up to date, al possesso dell’ultimo ritrovato;

9) dominio del chiacchiericcio pseudo culturale, del “si dice”, del commento parassitario, del “cazzeggio” lieve da bar sport;

10) culto della leggerezza e della superficie, frivolezza esibita. Velocità compulsiva, pillole di senso, tempi televisivi. Guai alla pesantezza di chi vuole approfondire: rischia di passare per noioso moralista;

11) minimalismo etico e affettivo. Avere dei valori-guida ma essere pronti a modificarli nel più breve tempo possibile.

Italia tricolore

È questo lo Zeitgeist postmoderno da cui esce la società attuale, da cui a sua volta esce (o, se si vuole, a cui è stata sdoganata) la variante neostandard dell’italiano, con i suoi molteplici addentellati televisivi e internettiani. Il problema linguistico – essendo la lingua non solo specchio ma organo del pensiero, modo di guardare alle cose: le parole, a ben vedere, rappresentano i “mattoncini” del mondo – implica anche quello fenomenologico: “cosa è realtà?” si chiede, in ultima analisi, La Porta. La risposta sfugge come non mai, poiché la realtà, oggi, è quanto di più complesso da definirsi. È sempre più difficile distinguere tra realtà e fantasia, io e non-io. Per sentire “reale” un evento dobbiamo addirittura vederlo o rivederlo in televisione. Per vivere una scena come se fosse vera, sembra che occorra immaginarla finta. Osserva La Porta: «Mi sembra che proprio la “realtà” (sempre scandalosa, terribile, misteriosa) è ciò che la classe media, almeno nel nostro Paese, non intende vedere: le sovrappone scenari suggestivi, la nasconde dietro veli scintillanti, la occulta con maschere seduttive, la esorcizza attraverso un’ironia spesso volgare e protettiva».

La “lingua di plastica”, così, fungerebbe da anestetico: velo ulteriore mediante cui nascondere la verità ed eludere un contatto diretto, troppo fastidioso, con le cose. Stratagemma di economia semantica, utile a meglio assecondare il crepuscolo dei grandi sistemi di pensiero, nonché  l’ottundimento generale e collettivo delle coscienze. A forza di alleggerire, di rendersi agili e volatili, si finisce per smarrire la capacità di fare esperienza autentica del mondo. La coscienza del “reale” nasce anzitutto dalla percezione dell’alterità, dal riconoscimento dell’altro, dal dialogo. Il dialogo, anzi, è insito nella struttura stessa del linguaggio: per questo il monologo solipsistico e narcisistico gli nuoce. Gli occhi dell’uomo contemporaneo sono rivolti all’interno; infatti il cono della realtà circostante tende ad assottigliarsi, a soffocare, ogni giorno di più. A tal proposito La Porta propone una nuova “ecologia della lingua” come antidoto alle sue perniciose degenerazioni. Linguaggio e pensiero, data la loro stretta interdipendenza, sono strutturati in modo tale da condizionarsi vicendevolmente. Bonificare la lingua sarà dunque il primo passaggio indispensabile a riaccendere la luce del pensiero. Continua a leggere

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QUATTRO POESIE di Giorgio Linguaglossa da “Blumenbilder (Natura morta con fiori)” [2013] Commenti di Letizia Leone e di Navìo Celese(pseud. Luigi Manzi)

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

 Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha fondato il blog lombradelleparole.wordpress.com e-mail: glinguaglossa.@gmail.com

 da Giorgio Linguaglossa Blumenbilder (Natura morta con fiori) Passigli, 2013 pp. 90 € 12

venezia 5*

Rugiada. Nella lastra gelatinosa
della fotografia è entrato un bosco
pieno di foglie… hai ripreso a respirare
come il profilo di Simonetta Vespucci!
all’orizzonte, dietro il tuo ritratto,
s’intravedono uomini armati che
scherniscono un prigioniero con le mani
legate che sostiene una croce;
una folla di pellegrini e pastori
li seguono; più oltre non posso gettare
lo sguardo: il limite esterno rivela
la cornice – la storia disegna il teatro
del mondo, sopprime le comparse
inutili e resuscita i fantasmi –
ma noi, dietro il diaframma, enigmatici…
il mio ritratto osserva il volto
del tuo ritratto; due parvenze, o due essenze!
stormiscono gli alberi; un lieve vento
inanella i tuoi capelli; tu sorridi
come la vittima al carnefice; sei sola
nella tua casa veneziana, slacci
il busto e ti avvicini alla mia ombra;
una farfalla si arresta sul tuo gomito
e tu sorridi fra i tre alberi in fiore
e i tre ritratti…
in una piega del tuo volto abita una stella.
dietro la parete vi sono tre vascelli
idrocaedro invisibile che non hai mai
visto; ma tu sospetti… e aspetti
che da una fessura esca uno stormo di uccelli
e una nuvola di anelli…

ma noi, dietro il diaframma, prismatici

*

… forse ci siamo incontrati in un budello
di Istanbul – io ero il portantino e tu
la regina assira distesa sulle mie spalle
rigonfia di perle e altezzosità… forse
siamo stati catturati nel tranello
di Abu Talal, il sultano celeste, prigionieri
del suo celeste gineceo… forse siamo
entrati nel mantello di Samelech
il diavolo dalle quattro corna e sbucati
in una notte di luna piena a Taskent
soldati del crudele emiro turco… forse
siamo lèmuri di disertori sgozzati
per ordine dello scià di Persia, dopo
una notte di orgia, nel cortile della
prigione al rullo dei tamburi… forse
siamo saltatori di Marrakesch, defunti
dopo un triplo salto mortale: le mie
mani non hanno agganciato le tue tese
allo spasimo… siamo i domatori
delle tigri del Bengala, belli come dèi,
strangolati dalla nostra impari audacia,
o contorsionisti cinesi dalla strabiliante
flessuosità che irridono il rozzo pubblico
bulgaro in un circo della lontana provincia
dell’imperatore…
forse siamo illusionisti della notte,
brilliamo come fari nella tenebra

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

* …

è probabile che ci siamo incontrati
in qualche hall d’albergo di terza categoria,
tu facevi la ballerina ed io
il perdigiorno…
o alla biglietteria di qualche aeroporto:
Santa Fè, Lisbona, Madrid, alla fine o all’inizio
di una tournée, oppure in una latrina di Mogadiscio
al termine di una soirée…
sono indizi che mi tornano alla memoria
ora che ti rivedo in un ritratto
che forse ti assomiglia…
forse progettammo di prendere un tè
in un bar di sottoripa, a Venezia; dovevamo
essere in tre: io il tuo doppio e te;
sì, il tuo doppio! che adesso si vendica
della tua esistenza!
Eravamo drasticamente giovani
questo lo rammento – quanto al resto
non mi dà tormento la stanza sprangata,
ha l’odore d’un vassoio di crisantemi…
ti sei seppellita con le tue mani
in un cunicolo dell’oblio… «ma perché?»
– mi chiedo – «perché?»
saggiamente, sono rimasto a debita distanza,
la memoria è una stanza chiusa
dove non si entra senza bussare…
dovremmo essere in due a chiedere
il permesso…
ma questo il fato non l’ha concesso

*

Dalla prospettiva isometrica dell’aria
guardo il ragno dodecapodo che risale
il margine ove dormi. Il tuo argine,
la sponda che ti raggriccia alla vita,
la sonda lasciata nell’adipocera
il sigillo nascosto nel cronometro.
Acrostòlio e termometro dell’esilio.
…………………………………..
Rammento il tuo olofrastico ritegno.
Il libro di poesie aperto come un pegno
alla sorte, la farfalla di Dinard,
Dora Markus, e non v’era bufera o segno
di ventura, né stetoscopio per ascoltarti
il cuore. Le tue mani accese dal
fiore di aconito e di belladonna così
singolari da rammentarmi le manette.
Rammento il tuo teocratico disdegno.
Vincere le barriere, essere come l’aria!
Oh, il ragno improvviso che risaliva
la tua guancia… il cammeo appeso al collo…
…………………………………………
Per chi guarda con un occhio centrale
dallo spioncino di un oblò, il reale
appare tradire il principio di costanza
il malessere quieto dell’esistenza,
l’abisso di là dal gradiente terminale…

particolare dei volti

particolare dei volti

Commento di Letizia Leone

Giorgio Linguaglossa lo dichiara già dal primo verso, in una sorta di protasi implicita nel senso delle parole assolute e metaforiche che aprono il libro, «Rugiada. Nella lastra gelatinosa / della fotografia è entrato un bosco pieno di foglie…hai ripreso a respirare»; come un poeta classico, mette subito le carte in tavola e dice chiaramente che questo poema è un modo di “guardare-attraverso”, in una doppia e tripla rifrazione di specchi. Il primo specchio potrebbe essere addirittura la goccia di rugiada (la prima parola isolata dal punto e gravata da una sua obsolescenza poetica), convocazione quasi favolistica e provocatoria di aurore primordiali, per poi ricollocare la visione in una modalità di percezione contemporanea, «dentro la lastra gelatinosa di una fotografia», o schermo liquido che sia. Questo il nostro sguardo oggi, la nostra realtà, graduata da un filtro: «Noi dietro il diaframma»:

ma noi, dietro il diaframma, enigmatici… il mio ritratto osserva il volto del tuo ritratto;

E la Storia di mezzo. Si, ma storia malinconica di Arte e Bellezza e dunque lente d’ingrandimento luminosa, a voler suggerire, nonostante tutto, che la nostra carne umana è ormai impastata nel colore della Pittura, nelle parole di Shakespeare, nei gesti di Ofelia o di Fidia che leviga il marmo. Nonostante la grande dimenticanza di una tradizione messa in rovina. Linguaglossa con una poesia raffinata e colta è qui a ribadircelo che la bellezza è vivo accadimento degli occhi e del cuore: «…hai ripreso a respirare/come il profilo di Simonetta Vespucci». Innumerevoli fantasmi artistici, alter ego, angeli e demoni, si aggirano e si specchiano in queste sontuose stanze gravate da un incantesimo saturnino tra gli emblemi e i correlativi di un tempo defunto. E siamo trascinati dalla forza poetica di un moderno gongorismo in paesaggi di drastica lussuria, risucchiati dentro i quadri del tempo appesi alle «pareti infernali»,

acclamiamo le virtù del paesaggio: stemmi, stendardi, bandiere dal tortile profilo, spadini che feriscono Balena a tratti lo sgomento di un «io» rapito dentro l’ambiguità di una percezione in bilico tra sonno e veglia, sogno decadente o allucinazione del tempo. «Sono io me stesso? -Io mi travesto a me stesso», come nella «Commedia degli errori» di Shakespeare io sono qui: lo spadino che scintilla cinto alla vita come un catetere… …Ero bello ma mi arrestai sull’orlo di un pensiero quando lo spadino mi ferì alla gola / io non sono. Io ero.

helmut newton modella che fuma

helmut newton modella che fuma

Vocazione barocca in questa proliferazione di immagini rare e preziose, in questa spirale regressiva in tanta «materia culturale remota», e per citare il Graciàn, «le cose rare sono immortali». La metafora dello specchio, in tutte le sue varianti fonda l’economia della narrazione poetica, sebbene poi la narrazione proceda per inquadrature iconiche in un «montaggio fascinatorio» sotteso dalla logica ferrea del pensare per immagini. Quella potenza immaginativa che Henry Corbin chiamò himma nel suo studio su Ibn ‘Arabī: «questa potenza del cuore è espressa in modo specifico dalla parola himma, un termine al cui contenuto si avvicina forse più di ogni altra la parola greca enthymesis, che designa l’atto del meditare, concepire, immaginare, progettare, desiderare ardentemente: cioè avere una cosa presente nel thymos, che è forza vitale, anima, cuore, intenzione, pensiero, desiderio…». La stessa potenza di rendere reali i propri fantasmi, le figurazioni dei sogni, le maschere del grande teatro della memoria. Di conseguenza una ricca nominazione di strumenti per la visualizzazione attraversa tutto il libro, a volte anche in cadenza anaforica: cornice che abbaglia, diaframma, spioncino dell’oblò, fotogrammi, vetrate screziate e specchi ustori, arricchita da un’oggettistica di richiamo, clessidre, orecchini brillanti, vaso di vetro e quadrante, monocolo e dagherrotipo ecc. Sebbene il motivo dello specchio sia generatore di effetti illusori e ingannevoli, come se leggendo camminassimo sull’orlo di un precipizio, sul muro in rovina rifratto da un caleidoscopio, accecati nella visione dei mille riflessi sgargianti di luce e di tenebre. Lo spirito di Eliot, tra i tanti evocati in queste pagine, aleggia e fosforeggia: puntellare le rovine con i frammenti della Poesia. Linguaglossa con le sue poesie ci concede un ultimo giro di walzer:

…oh, la veste sfarzosa cui seguivano i tuoi passi rutilanti e il valzer notturno di Chopin…

(…)…la tua veste di raso cremisi ondeggia come il volo di Iris l’uccello di fuoco… (…) il tuo minuto piedino accenna un’aria di minuetto

…i tuoi lenti passi sono una danza macabra di cigno, volteggia il tuo azzurro guardinfante sul giallo bosco autunnale… Allora se la Bellezza forse è il vizio cardinale / maschera da teatro, ciarpame dozzinale, questi lemuri aristocratici e galanti con passo leggero scrivono nell’aria una danza, e noi con loro ad affollare la lussuosa festa funebre, prima che tutte queste nostre rovine franino definitivamente in deserto.

(Letizia Leone)

venezia balloCommento di Navìo Celese (pseud. Luigi Manzi)

Blumenbilder mette sotto assedio il concetto di realtà, lo sospinge giustamente nel limbo dei “falsi problemi”. Nel libro si entra attraverso una vorticosa galleria degli specchi (l’occhio con il quale ti guardo è l’occhio/ con il quale tu mi guardi); o una sequenza di fotogrammi labirintici, più irreali della nebbia gelata, in cui spazio e tempo si avvolgono su se stessi, come nel nastro di Möbius. Il lettore incauto si ritrova diffratto dietro prismi e diaframmi. O addirittura sperso in una sequela di loculi occlusi, riverberati da cunicoli illusori. Avviene che, in Blumenbilder, i materiali (antropologici) della nostra cultura vengano utilizzati in un bricolage che ricompone e decompone – appunto – la realtà (l’ideale chincaglieria) e la metta in crisi: la renda fantasmatica nel momento stesso che viene asservita al poetico. Il lettore non può entrare che in ceppi, sottomesso e stordito dagli echi che s’infrangono sulle pareti, su fondali mobili e avvolgenti. La letteratura – l’arte in generale – viene riassemblata per frammenti memoriali ancora attuali e inquietanti. Nient’affatto vintage. Nel frattempo l’autore si è allontanato, eretto a pieno busto, in vedetta da un estremo punto di fuga (l’asse/ fagocitante ove si celebra il rito/ dell’oblio). Da lì egli guarda con un occhio centrale/ dallo spioncino di un oblò la minutaglia che si riflette in basso e si aggira come un ragno dodecapodo o un astruso ghirigoro di ofidi: (il reale che appare tradire il principio di costanza). L’autore ha abbandonato cinicamente il lettore al proprio destino, l’ha consegnato a una irrisolvibile antinomia; e da un lembo di galassia lo irride. Egli, infatti, come tutti i poeti, è un bugiardo. Blumenbilder è la dichiarazione di totale libertà del poeta, fino al visionarismo destrutturante e distruttivo. Fino alla dichiarazione che il reale non esiste, ma è appena un’accozzaglia babelica di figure mitiche, allegoriche; di ritratti che si accalcano, di singulti smembrati dalla memoria e dall’intelletto. A rimanere intatto, di volta in volta, è appena un oggetto inutile quanto coreografico: il «guardinfante» che nasconde e rende vieppiù seduttiva la nudità dell’essere. Anche la letteratura, la poesia più o meno recente, viene offerta al riuso. Lacerti di futurismo (pag. 48, per intero), stilemi barocchi (es. pgg. 64, 66); tentazioni gotiche (pg. 35); Mallarmé, Eliot, Montale. Ovunque il mito; e poi musica di sottofondo, e pittura; senza la volta sovrastante di un pantheon; ma in cumuli disordinati dentro fondachi e latomie. Bazar. Tanta paccottiglia che diviene orpello di nobiltà: adatta a illuminare di splendori obliqui l’irrealtà: la tortuosa irrealtà che si esplica nelle ombre problematiche di chi scrive o di chi ascolta. La parola stessa è stata indotta a un accoppiamento incestuoso, per generare mostri. Ciascuna “parola” in Blumenbilder è ridotta alla propria autonomia significante; spesso viene aspirata come dalla cannula di un sontuoso quanto sensuoso narghilè, in un budello di Istanbul…

L’autore ora è fuori da Blumenbilder: ne è uscito scalando l’albero sciamanico che lo ha proiettato nello spazio libero, dopo un’immersione visionaria quanto allucinata allorché dichiara arrendevolmente: sapevamo che il nostro marciapiede/ non era il Sipario della Storia. Un “percorso poematico”, quindi, tutto d’un fiato. Liberatorio. Il ritmo versale ha sostenuto l’escursione ipnagogica, come il rullio assordante d’un tamburo – quasi un rumore cardiaco – fino all’estasi. Salvaguardando tuttavia l’inconfessabile. Poi, l’abbandono e la distanza. La consegna al lettore.

(Luigi Manzi) Roma 26 aprile 2013

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QUESTA È L’ETÀ DELLA STANCHEZZA di Paolo Lagazzi “Ciò che resta” “questa è l’età della stanchezza” “quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia” da La stanchezza del mondo (2014)

Foto Scala con ombra

 Paolo Lagazzi è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano. Critico letterario, studioso di cose giapponesi e autore di fiabe; collabora con diversi quotidiani e riviste. Ha scritto numerosi saggi, e con Garzanti ha pubblicato uno studio sulla poesia di Attilio Bertolucci, Rêverie e destino (Garzanti 2008). Tra gli altri ricordiamo: Per un ritratto dello scrittore da mago (Diabasis 1994, Moretti&Vitali 2006) Vertigo. L’ansia moderna del tempo (Diabasis, 2002), Per un ritratto dello scrittore da mago (Moretti & Vitali, 2006), La casa del poeta (Garzanti 2008), Forme della leggerezza (Archinto, 2010), Otto piccoli inchini (Albatros 2011), Le lucciole nella bottiglia (Archino 2012). Ha realizzato inoltre un libro intervista con Atilio Bertolucci (Guanda 1997). Ha curato cinque antologie di poesia giapponese (fra cui Il muschio e la rugiada, Rizzoli 1996) e, per i Meridiani Mondadori, le opere di Attilio Bertolucci (1997), Pietro Citati (2005) e Maria Luisa Spaziani (2012).

Pubblichiamo il capitolo “Ciò che resta” del libro di saggi sulla poesia contemporanea di Paolo Lagazzi da La stanchezza del mondo Moretti&Vitali 2014 pp. 257 € 18

Paolo Lagazzi

Paolo Lagazzi

«Ripensare il senso, il valore e il ruolo che la poesia può ancora avere nel mondo è un compito che va ben oltre le questioni di linguistica o di poetica, il vaglio degli strumenti retorici o le annose discussioni sul canone: è un compito che chiede a tutti noi, poeti o critici, scrittori o lettori, il coraggio di considerare con chiarezza la situazione generale dell’uomo in questo momento storico. Per quanto mi riguarda, se mi fosse chiesto di indicare il sentimento prevalente nei nostri anni, non avrei esitazioni: questa è l’età della stanchezza. Innumerevoli opere, non solo di poesia, grondano oggi stanchezza: sono voci opache, espressioni di apatia, testimonianze di una vitalità ottusa e perplessa benché spesso ammantata di colori sgargianti, di abiti alla moda e di più o meno capziosi maquillages.

Tutti, ormai, sembrano diventati narratori e poeti: nessun campo di ricerca è precluso a nessuno, i segreti e le finezze più sottili dell’arte sono a portata di chiunque… Eppure in questo dispiegarsi apparente dell’“intelligenza” e della sapienza cova un senso evidentissimo di spossatezza, come se il “tutto per tutti”, o l’eccessivo flusso delle forme, delle idee e dei segni, non fosse che l’espressione di uno svuotamento radicale del senso dei linguaggi. Presi in un intreccio inestricabile fra la stanchezza delle parole e le parole della stanchezza  gli uomini appaiono sempre più rassegnati, incapaci di credere davvero che qualche grande novità possa trasformare in meglio la storia. Se qualcosa di nuovo incombe sul nostro tempo, è un sentimento di fine prossima del mondo non più vissuto col terrore degli antichi di fronte alle immagini fiammeggianti dell’Apocalisse, ma quasi accettato, o assorbito mollemente, giorno per giorno, come l’aria inquinata che respiriamo. Di recente la NASA ha reso ufficiale una notizia che aveva già cominciato a circolare (se non ricordo male) nel 2001:

Paolo Lagazzi cop

fra pochi anni, precisamente il 13 aprile 2036, è possibile che un enorme asteroide, in viaggio verso la terra a folle velocità, centri in pieno il nostro pianeta: la collisione causerebbe un contraccolpo tale da distruggere in modo completo la vita degli esseri umani. Occorre aggiungere, per onestà, che a questo evento viene assegnato un indice probabilistico bassissimo, ma il fatto stesso che non lo si escluda per nulla, anzi si cerchi fin d’ora di mettere in cantiere una costosissima operazione aerospaziale (un’astronave che dovrebbe essere in grado di deviare l’asteroide), è piuttosto inquietante. Il pensiero di un’eventualità simile non dovrebbe colpire la fantasia di milioni di persone, tanto seria e drammatica è l’ipoteca che essa pone sul futuro dell’umanità? Di fronte a un allarme del genere, suffragato dai più raffinati scienziati, non dovrebbe mutare il nostro stesso senso del tempo? Da questo momento in poi non sarebbe giusto scandire il tempo, sia pure in termini possibilistici e non certi, come un conto alla rovescia?

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

Umberto Eco

 

Infinitamente remota da questo scenario, tanto da riuscire quasi patetica, appare la riflessione, sviluppata da Umberto Eco nel 1964, sulle ideologie parallele e opposte degli “apocalittici” e degli “integrati”. Anche a chi non voglia considerare la notizia della NASA, non può non riuscire evidente che da quegli anni ’60, così allegri e vitali a osservarli con gli occhi di adesso, il mondo è andato accrescendo il suo potenziale autodistruttivo, malgrado la fine della cosiddetta guerra fredda, in modo esponenziale: mille nuove paure, generate dal terrorismo fondamentalista come dai cambiamenti climatici e da inedite minacce epidemiche, sono emerse e continuano a emergere, giorno per giorno, da un abisso che non pare aver fondo. Chi non sarebbe tentato di dire, oggi, che gli “apocalittici” sono non più dei visionari ma i soli veri realisti? Eppure ho l’impressione che nei nostri anni non si viva tanto nel terrore quanto nella rassegnazione, o in un’assuefazione progressiva al terrore. Se coscienza c’è (e indubbiamente c’è) del tramonto ormai non lontano del mondo che abbiamo conosciuto, essa è come ovattata dalla stanchezza; se è chiaro che i destini generali stanno precipitando verso il disastro, questo movimento ha in sé qualcosa di tanto inesorabile quanto irreale, flaccido e vischioso, un po’ come il lento affondare d’un corpo in un magma di sabbie mobili. Si potrebbe aggiungere che una tale lentezza è, più che altro, un’impressione illusoria, una specie di suggestione ipnotica indotta dal carattere ripetitivo dei meccanismi sociali e mediatici: sul piano dei fatti, gli studi non solo della NASA ma anche degli esperti dell’inquinamento, dell’effetto serra, e di tutti gli altri fenomeni di degenerazione ambientale, sono d’accordo che c’è pochissimo tempo per tentare di fare ancora qualcosa, per cercare un’inversione di rotta e, in essa, una via di salvezza. Ma non sembra proprio che i potenti della terra si stiano dando molto da fare per cercare questa via; forse la visione pragmatica delle cose che ha sempre impregnato fino al midollo il capitalismo, e che domina tutti i fautori della globalizzazione, comporta un pessimismo misto a cinismo impossibile da contrastare? Forse loro stessi, mentre in pubblico continuano a inneggiare alle “magnifiche sorti e progressive”, sono in realtà convinti che non c’è più nulla da opporre allo sfacelo, e che tanto vale vivere alla giornata, spremendo dal pianeta tutto quello che si può spremere, in una corsa sempre più spasmodica verso il tracollo finale?

Di fronte a questo quadro, torna urgente chiedersi quale senso, quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia. Illusorio è pensare, come troppo di frequente si è fatto negli ultimi venti o trent’anni, che la poesia non possa non essere l’estremo baluardo dell’umano mentre tutto intorno va in malora. Anche la poesia è figlia della propria epoca, e il suo primo compito, la sua prima verità è pur sempre di carattere testimoniale. Non è un caso, dunque, se fra i molti poeti che ho letto in questi anni proliferano le figure della stanchezza, della “spossatezza” e della “sfinitezza”. E’ come se, in tante raccolte recenti, risuonasse una sorta di sazietà radicale, una specie di volontà di arrendersi, di rinunciare a tutto, o un bisogno di prendere atto che nessuna risposta può più essere in grado di aiutarci veramente. Espresso in versi spesso inappariscenti, fragili e sordi, o, per così dire, tra le righe, questo disgusto non è più riconducibile nemmeno al nichilismo: semplicemente è la voce di una mancanza di voce, è la forma di un nodo informe, di un viluppo insolubile.

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Tra le opere minori di Pessoa ce n’è una, L’ora del diavolo, che forse riesce, per l’ultima volta, a dare fiato a questa sazietà, a riconoscerla e a dichiararla come il solo orizzonte di senso concesso alla senilità del mondo. In essa il protagonista – il Diavolo, appunto – rivela a una donna di essere “soprattutto stanco”, stanco “di astri e di leggi, e un po’ con la voglia di restare fuori dall’universo e ricrearmi sul serio con cose di nessuna importanza”. Abbandonandosi al desiderio di confessarsi finalmente all’umanità, il Diavolo afferma che tanto lui quanto Dio dormirebbero ben volentieri un sonno che li liberasse dalle “cariche trascendenti” di cui sono stati investiti a loro insaputa; nemmeno loro due, infatti, sono in grado di fornire una risposta assoluta al perché della realtà: “tutto è molto più misterioso di quanto si creda”, e le cose non sono che “un cantuccio menzognero della verità inattingibile”. Proprio perché al di là della contrapposizione tra il Diavolo e Dio, fra il bene e il male o tra l’essere e il  nulla, la stanchezza messa in scena da Pessoa nel suo racconto non può catturarsi in categorie, in princìpi morali o filosofici: è un puro,  ineludibile orizzonte dell’esperienza: è un quid sfuggente a tutti i nomi che potrebbero afferrarlo e contenerlo in un’interpretazione: è un “a priori” e insieme una fine: è un dato trascendentale votato a perdersi nell’insignificanza del tempo. Proprio questo mi sembra il genere di stanchezza entro cui si dibatte la società dei nostri anni: uno svaporare di ogni forza ideale e reale, un franare dei pensieri e un indurirsi dei nervi, un calo di pathos o il montare nel sangue di una specie di anemia incurabile, mentre l’orologio della fine incombente non arresta mai il suo battito, il ticchettio freddo dei propri quadranti…

Entro questa scena, quale vitalità può avere la poesia d’oggi? La sola, non ideologica prospettiva di verità rimasta ai poeti è forse quella di farsi testimoni, come il Friedrich di un quadro famoso, del naufragio della Speranza? Forse soltanto al fondo della stanchezza e della debolezza essi potranno ancora trovare la via della loro luce? La stanchezza è l’unica, paradossale forma d’infinito concessa a coloro che si sentono ormai sull’orlo della dissoluzione di tutti i fini e i confini, di tutte le forme, le poetiche e le scelte di campo, di tutti i discorsi e i rapporti, di tutte le architetture e le distanze, di tutte le isole di bellezza e le oasi del sogno?

Malgrado la parte di stoicismo resistente in molte anime amareggiate, non credo che i poeti potranno mai adattarsi a essere il puro e semplice specchio del naufragio dell’esistenza. Già Hölderlin aveva osservato, in limine alla grande crisi del moderno: “Ciò che resta, lo fondano i poeti“. Riportato alle prospettive un po’ tremende del nostro futuro, tale pensiero potrebbe significare che solo i poeti sapranno custodire la fede, la speranza e la carità fino all’ultimo istante del mondo. Questo avverrà non perché essi si sentiranno investiti di una missione profetica o salvifica, né tantomeno perché la società li assillerà con la richiesta di farsi cavalieri dei Valori, ma perché sapranno mantenersi, nel cuore stesso della stanchezza, liberi d’immaginare un luogo di grazia, un altrove che potrebbe essere anche il più piccolo dei nostri qui, il più umile e segreto dei nostri passi.

Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

Il poeta del Novecento italiano che ho amato e continuo ad amare di più, Attilio Bertolucci, è lontanissimo da ogni pratica di profetismo, eppure nella sua voce pacata e naturale, nutrita del sentimento della quotidianità, vibra una fede irriducibile nella vita, nella luce della bellezza. Senza mai confessarlo esplicitamente, forse addirittura senza saperlo, le sue parole hanno in sé molto di cristiano e di buddhista: sanno esprimere l’incanto annidato anche nello strazio, nel sangue dei momenti; sanno mostrarci tutte le vie per fare del nostro cuore, attraverso e oltre le voragini della stanchezza e dell’ansia, la trepida cassa di risonanza del mistero gaudioso dell’universo (“Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato”; “Gli occhi stanchi colpisce di lontano / il rosso papavero in mezzo al tenero grano”)…

Idealmente fraterni a Bertolucci, altri poeti continueranno a resistere nonostante gli spettri della fine, della distruzione e del caos. Anch’essi, senza inalberare proclami apocalittici e senza pretendere alcuno  speciale miracolo, continueranno a scrivere testimoniando la loro fede nel “qui e ora”, nel dono del presente. Liberi dall’enfasi e dal patetico, immuni dai timbri oracolari come da quelli pietistici, i loro versi saranno forse le ultime preghiere gettate al cielo per la salvezza di uno sguardo, di un bacio, d’un albero, d’un bicchiere di vino condiviso, d’una stretta di mano, di un momento di luce su un angolo di muro.

(Paolo Lagazzi)

Commento di Giorgio Linguaglossa

Paolo Lagazzi ama i poeti che hanno un linguaggio poetico “appropriante”, che tendono a fondersi con l’”oggetto”, in una sorta di fusione panica tra l’io e il paesaggio, tra l’io e il mondo, di qui la sua predilezione per la poesia di Attilio Bertolucci. Lagazzi ama la poesia quale «atto di fede», e la poesia può anzi forse deve considerarsi come un atto di fede; il suo impegno critico va per la poesia che non teme di denudarsi di fronte al mondo, che non teme di presentarsi ignuda o, addirittura, quasi ingenua, priva di protezione. È una predilezione auspicabile, rispettabile. Il Novecento è finito da molti anni ormai, e sembra che nessuno abbia più la forza e forse la voglia di aprire una nuova stagione della poesia; la poesia italiana sembra ristagnare, anzi, molti poeti dichiarano apertamente che ormai non c’è nulla che possa esser detto in poesia e che essa non possa che ripercorrere stancamente i luoghi da già frequentati nel Novecento.

Personalmente, io invece tendo ad apprezzare una poesia che abbia in sé una forza «dis-propriante», che guardi alla tradizione con occhi diversi; penso che non bisogna fare poesia per legittimare e giustificare un linguaggio poetico, ma per «oltrepassarlo», magari in diagonale. Di fatto, oggi la tradizione ha cessato di funzionare come «regolo», principio regolatore, non è più vista come una  rassicurante terraferma ma come un luogo dal quale allontanarsi, prendere il largo, come un’isola che sia stata inghiottita dalle onde.
Ci sono però, oggi, autori che costruiscono le loro opere come un atto di responsabilità verso l’«invisibile», che fanno una poesia senza aggettivi, che tentano di fissare i segnavia che indicano la responsabilità della forma-poesia, che pensano, che elaborano, con diverse modalità, un metalinguaggio, che operano una individualizzazione e una personalizzazione del ritmo, della sintassi e del lessico, che creano un tonosimbolismo: penso alla poesia di Roberto Bertoldo, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura, che sono stati capaci di fare una sorta di énchantement musicale, lontana dalla coazione a ripetere delle linee maggioritarie della poesia che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni.

Intendimento di questi autori è saltare le artificiosità della mediazione della tradizione, considerata corresponsabile di una certa stagnazione stilistica e tematica; giungono, magari e a modo loro, ad una nuova forma di artificiosità attingendo a piene mani all’anacronismo del dettato, mettendo in gioco direttamente il lettore secondo le nuove regole del gioco, fondando un «nuovo» patto di riconoscibilità e di responsabilità che renda irricevibili gli stilemi della codificazione stilistica pregressa; questi autori hanno tentato e tentano, lontani dal frastuono delle officine maggioritarie,  di rifondare l’«antico» patto di riconoscibilità del discorso poetico nel mentre che edificano un «nuovo» concetto di responsabilità della forma-poesia. E forse nelle condizioni di oggi è bene ripartire dalla «responsabilità» e dalla «onestà» della poesia bertolucciana. Anch’io penso che si debba ripartire dalla responsabilità della forma-poesia. La sofisticata elaborazione formale di questo «antico» patto di autenticità con il lettore che Bertolucci ha inaugurato deve e può diventare il minimo comune denominatore della nuova poesia. È forse la tardiva rivincita che l’artigianato dello stile si prende sulla miscellanea degli stili e delle iperscritture letterarie molto ben confezionate di oggi.

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Marco Onofrio La dimensione poetica – Dalla lingua delle origini alla torre di Babele: l’iperdenominazione del mondo, Dioniso Apollo Eraclito, Il divenire (Parte III)

de chirico il ritorno di Orfeo

de chirico il ritorno di Orfeo

 

de chirico ettore e andromaca

de chirico ettore e andromaca

La poesia è da sempre tesa alla presunta “lingua pura” delle origini: cerca di afferrare l’“essere linguistico” delle cose, il nome segreto e cifrato di ogni essere, come traduzione del suo “quantum”, della sua quiddità energetica, della sua scintilla creatrice, della sua peculiare nota metafisica. Come la “lingua nuova” di cui ad esempio Hugo von Hofmannsthal (nella Lettera di Lord Chandos) articola l’istanza-ipotesi: una lingua «di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto». Una lingua che incorpora l’oggetto, che lo crea nominandolo, che lo manifesta in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide con lo stato paradisiaco delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. La parola umana nasce dalla rottura di questa unità originaria. Il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale” che ancora Platone può difendere nel Cratilo. Da allora c’è la torre di Babele: iperdenominazione del mondo; pluralità di linguaggi e ingorgo di gerghi strumentali; pletora di nomi vuoti: un immenso fragore di segnali: un boato di fondo che sfuma nel silenzio dell’insignificanza…

 LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

A questo può servire la poesia, nel suo valore ontologico, oggi più che mai. Ad aggiustare la frequenza del suono: a riagganciare la giusta armonia: ad ascoltare il silenzio delle origini. Ben diverso da quello fragoroso dei linguaggi: profondo, questo, e limpido, e creativo. È in questo silenzio originario che si è andato a nascondere l’indicibile della conoscenza perduta, che si esprimeva nella pienezza del nome. Il silenzio del mondo che tace la verità. È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità, che attinge nello scrivere il poeta. Deve portare le cose all’essere, lasciandole affiorare e rivelare. La parola, allora, diventa simbolo pieno: nome che contiene mille voci, tutte le voci. E che, talvolta, vuol dire la realtà in tutta la sua fulgida pienezza, sublimandola e magnificandola.

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Ma una rappresentazione sublimata e solare delle cose è, forse, migliore premessa all’insorgere dell’ombra che, forte della stessa negazione, preme con urgenza da fuori, o da dentro – come il disturbatore della conferenza –,  per conquistare o riconquistare il centro della scena. Rivendicando i suoi diritti. Urlando le sue incognite ragioni. Ecco perché ad ogni epoca di armonia succede inevitabilmente una di crisi. Si passa così dal meriggio rinascimentale al crepuscolo inquieto del barocco. Dal chiarore dei lumi alle ombre gotiche del romanticismo. Dalle certezze positive dell’Ottocento all’angoscia decadente del Novecento, ecc. Ciascuna di queste trasformazioni  esclude dal suo corso i salti netti: procede dunque con una dinamica di passaggi intermedi e sfumature che solo a posteriori, e forzandone la straripante complessità, è possibile storicizzare e/o classificare.

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

Accade anche nell’antica Grecia, quando si passa dall’età mitica delle origini alla grande età del sapere tragico. Apollo è il dio che sovrintende alla poesia come accordo universale, come canto armonico, come sinfonia. Sin-fonia: suonare insieme: alle cose del mondo, alle stelle del firmamento, alle vibrazioni energetiche della materia. Obbedire ai sacri vincoli del ritmo. Essere parte del concerto cosmico. L’armonia del canto è la forza che purifica il dolore, che scioglie dai mali, che dice la verità. Apollo è un dio sublimante e, in quanto tale, riduzionistico. A-pollon: non molti. È l’Uno che nega il molteplice. Per questo può permettersi di essere il dio della pienezza e della luce. Ma, a un certo punto, viene a noia pure il paradiso. Certo, è bello cantare il migliore dei mondi possibili: ma come evitare, al tempo stesso, di avvertire che un poco ci si inganna? Ecco il brivido d’ombra nel fulgore più accecante. Un brivido che punge, da qualche parte: cattiva coscienza del rimosso che torna ad affacciarsi, prima o poi. È un’armonia piena ma falsa, in fondo, poiché intentata: non generata dalla lotta strenua col suo contrario. Allora le grandi narrazioni mitiche non bastano più. C’è bisogno di un senso ancora più profondo, legato al destino dell’uomo, alla sua verità autentica. E si esce dall’infanzia del mondo, dal tempo delle favole.

Costantino Kavafis

Costantino Kavafis

C’è un grido terribile, nel Declino degli oracoli di Plutarco, che segna questo termine epocale: «Il grande Pan è morto». Come poi dirà Nietzsche all’alba del Novecento: «Dio è morto». È Eraclito il Nietzsche dell’antichità: lo spirito illuminante e perturbante che sottrae all’uomo il terreno sotto ai piedi, prescindendo dalle certezze acquisite. Eraclito non teme di rivelare che gli uomini sono «stranieri in mezzo a cose straniere», sonnambuli che «non sanno ciò che fanno da svegli, così come da svegli dimenticano ciò che fanno nel sonno». Il mito non serve più a spiegare il senso delle cose, giacché «la natura ama nascondersi». Occorre trovare una strada verso la reale costituzione dell’essere. C’è un logos abissale che sfugge allo sguardo, perché è invisibile, ma domina il mondo dall’interno di tutte le sue manifestazioni. Se guardi bene scopri che c’è un “oltre” in tutto (lo dice fra gli altri Pirandello, all’inizio del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio): che al di là del visibile si apre il mondo dell’invisibile, dei rapporti nascosti, dei legami interstiziali. Come scrive Baudelaire nella lirica Corrispondenze: «La Natura è un tempio dove colonne vive / lasciano a volte uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli /che l’osservano con sguardi familiari. /Come echi lunghi che da lontano si fondono / in una tenebrosa e profonda unità / vasta quanto la notte e quanto la luce».

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Occorre distinguere, nella fitta trama del tutto, le tracce di questa armonia, tesa e sottesa, che si rivela più forte di quella in superficie. È la relazione che lega l’uno al tutto: è la forza che tiene insieme il molteplice. C’è bisogno di un’armonia più autentica e complessa, un’“armonia discorde”. È l’armonia dei contrari: il logos eracliteo che sottende le tensioni contrastanti. Sintesi dinamica di attrazione e contrasto, di amore e guerra, di essere e divenire. Per arrivare a questa ragione sottile, e dunque all’essenza costitutiva delle cose, occorre passare attraverso l’esperienza del molteplice, fuori e dentro di noi. Perdersi nella selva oscura. Smarrire le coordinate. Aprirsi al rischio della-peiron, dell’aperto, dell’abisso privo di fondamenti. Il sapere tragico nasce dalla frattura del mondo: e dalla scissione che apre il soggetto alla visione consapevole di questa frattura. L’uomo si raggiunge in ciò che più gli appartiene, finendo per coincidere con la propria condizione. Apre gli occhi e si vede come “dal di fuori”, così come è: nodo di autocoscienza riflessa, individuo, soggetto distinto, posto dinanzi alle cose, non più parte di esse. Come accade, nella Genesi, ad Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito della conoscenza: «Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e si accorsero che erano nudi».

Mandel'stam a Firenze 1913

Mandel’stam a Firenze 1913

Ci vuole un principio energetico, attivo e propulsivo, per rimettere in moto, cioè in discussione, l’astratto e sublimato cosmo apollineo. Anche a costo di mandarlo in frantumi. Sola armonia credibile, dunque, sarà quella scaturita dalla crisi; sola luce vera, quella accesa dal cuore stesso della tenebra, trafitta e oltrepassata. È Dioniso: il dio dell’ebbrezza, della leggerezza, della libertà, della dispersione e della spersonalizzazione; il dio-capro tellurico, oscuro ed inquietante, ma anche affrancatore dai vincoli che ci tengono legati al carcere di un tempo e di uno spazio, volta a volta unici ed esclusivi, quindi escludenti. Quando Dioniso sfiora Apollo, Apollo cambia per sempre: cambia la sua musica, la sua armonia: comincia a parlare per “geroglifici”, segni ambigui e indecifrabili, attraverso la bocca delirante della Pizia delfica: cose cupe, straniere, informi, “altre” e refrattarie; difficilmente componibili in un symbolon, un’unità di senso in superficie. La musica solare di Apollo si sporca di pulsioni notturne e risonanze umane: diventa gioia del dolore, diventa tragica. D’ora in poi sarà più difficile sostenere un riduzionismo incapace di sorgere da un confronto serrato, corpo a corpo, con la complessità.

Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

L’Apollo tragico nasce dall’assimilazione di Dioniso, dal superamento della musica, nel sogno «abitato da immagini plastiche» (Dino Campana). La visione tragica apollinea sorge dalla potenza della musica dionisiaca. Il cosmo nasce dal caos. Per crescere ed evolversi c’è bisogno prima di entrare in crisi, per poi superarla. E che cosa scopre Apollo, quando Dioniso lo mette in crisi? Altrimenti detto: di che cosa diventa capace la poesia quando l’accende il fuoco della musica, l’“oscuro turbine” di un canto che viene dal basso, dalle viscere, dal sangue, dal vino, dalla terra? Risposta: che l’uomo è il “soggetto dei contrari” che non si possono risolvere, e non devono essere risolti – se la parola vuol darne cenni di verità autentica: senza falsi inganni, oltre le favole, oltre le illusioni. Il mistero stesso che abbiamo in noi è espressione del logos abissale. Dice Eraclito l’oscuro: «Per quanto tu possa viaggiare, non riuscirai mai a scoprire i confini dell’anima». La verità che la parola tragica ci svela è che siamo complicati e ambivalenti, perché partecipiamo della natura dei contrari che riuniamo dentro noi stessi. Scrive Marco Aurelio, nei suoi Pensieri, che siamo fenditure di tempo fra due eternità: quella che ci precede e quella che ci seguirà. Labili, effimeri, passanti. Fiamme tremolanti di candela. Abbiamo i piedi che sfumano nel vuoto. Soglie di transito fra notte e giorno, luce e tenebre, vita e morte. Il nostro essere è il divenire.

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La dimensione poetica della parola. Il suono che guarisce e che ricrea (Ariosto, Ungaretti, Zanzotto, d’Annunzio, Montale) Saggio di Marco Onofrio (Parte I)

Parnaso

Parnaso

I

Donde nasce la magia della parola poetica? Perché quelle parole, in quella sequenza, dentro quel verso, suonano in quel modo? Diversamente, cioè, da quando le troviamo isolate, a se stanti, sul vocabolario?

Prendiamo il celebre incipit leopardiano de La sera del dì di festa: «Dolce e chiara è la notte e senza vento». I due aggettivi donano un afflato rasserenante, rafforzato dalla congiunzione che chiude l’endecasillabo. Se proviamo a sostituire anche una sola parola, o a scompaginare l’ordine di quelle che ci sono, l’effetto non è più lo stesso: si spezza per sempre l’armonia melodica, la callida iunctura delle forme. Lo dice ad esempio Orazio Flacco, nell’Epistola ai Pisoni: una parola logora e pedestre riceve nuova luce a seconda delle virtù combinatorie cui è sottoposta, cioè della sua posizione nell’ordine della scrittura; così come una parola “nobile” può, per motivi opposti, infiacchirsi. Questione di alchimie, di energie che sprizzano dall’incontro sonoro delle parole, che sono vive, plastiche, malleabili come creta. La parola poetica, spesso avvincendo, avvolgendo sensualmente, cullando la percezione in termini di incanto, ci trasporta sotto il piano razionale della parola utilitaria, tipica del linguaggio-comunicazione. È un “massaggio acustico” che può liberare, come per una sorta di “regressione” freudiana, energie nascoste e associazioni latenti, comunicando l’inconoscibile e tentando di ristabilire l’armonia perduta: come una “lingua primordiale”.

 LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

La parola poetica s’iscrive in un sistema diverso da quello corrente. Il dire del poeta è ambiguo, irrazionale, evocativo. Talvolta neanche lui ha ben chiaro, se non a livello intuitivo, ciò che sta dicendo. Più che scrivere, è scritto dalla poesia che lo sceglie per manifestarsi. Ovviamente, dinanzi a contenuti così oscuri (l’altro, l’ignoto, il sublime), non gli basta più il linguaggio comune di stampo referenziale. Ha bisogno di inventarsi un’altra lingua, o almeno di forzare quella che già esiste. Una lingua con referente diminuito, o addirittura senza referente: che costruisce da sé altri e nuovi referenti. La poesia si produce, dunque, come “eversione” – voluta cercata organizzata dal poeta – rispetto al linguaggio di uso pratico. Il poeta trasforma dall’interno la parola, le fa dire e non dire e, in questo modo, esprimere più di quel che in prosa potrebbe. Egli oscilla di continuo fra due poli espressivi: la tentazione del canto (in cui le parole tendono a perdere il proprio valore significativo per suonare ed evocare attraverso un alone di suggestione sonora, ritagliandosi una frangia di senso che tocca più contenuti mentali non chiaramente comunicabili – l’istinto, l’inconscio, il preverbale – che l’intelletto) e la necessità del discorso (laddove deve emergere la chiarezza analitica dell’intelletto: necessaria ad esempio se vogliamo raccontare una storia in poesia).

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Ciò che insomma distingue un testo poetico da un normale testo comunicativo, i Sepolcri di Foscolo dal bugiardino di un farmaco o dalla lista delle cose da comprare, è che nel testo poetico il “senso” nasce anche e soprattutto dal legame tra le unità che lo compongono, non solo dal loro significato. In poesia è più importante il “modo” che l’“oggetto”: più di cosa viene detto, come viene detto.

Precisa Gian Luigi Beccaria in un suo fondamentale saggio, L’autonomia del significante: «In poesia il significato del discorso non è mai in grado di accogliere tutto il senso (né lo è il significante da solo). Il senso poetico si compie nella combinazione di un significato calato in convenzioni ritmiche vincolanti e liberato in significazioni di suoni».

pier paolo pasoliniIl segno poetico ricrea gli elementi della lingua-comunicazione, aprendoli ad una nuova ricchezza di senso che emerge dal rapporto delle unità significanti, “orchestrate” nella struttura del testo. Un testo, quello poetico, che sintetizza ad ogni livello un altissimo grado di informazione. È un “ipersegno”. Spiega Maria Corti nel saggio Principi della comunicazione letteraria: «in poesia tutto è pertinente a livello fonico e semantico, tutto significa». E, secondo Beccaria, «la poesia è fra tutte l’arte più gravata di significati». Il discorso poetico esalta la funzione del linguaggio che Jakobson definisce per l’appunto “poetica”, cioè autoreferenziale, per cui ogni autentico testo poetico genera (e si genera come) uno speciale codice, “altro” e autonomo rispetto al linguaggio comune, dove è il linguaggio, anzitutto, che comunica se stesso. Una poesia non è soltanto “logos”, o – men che mai – dimostrazione scientifica, o nota informativa: il suo messaggio non è altro che la poesia medesima, nella pienezza delle sue molteplici possibilità espressive. La funzione “poetica” esautora quella “referenziale”, la rende complessa, ambigua, polivalente. Densità semantica e polisemia: ogni parola, in un testo poetico, è un fascio di significati che s’irradiano in diverse direzioni. Non solo le parole, dunque, ma anche le strutture retoriche che le organizzano nel quadro complessivo del testo, sulla sua superficie spaziale e tipografica, macro-struttura ad elevata formalizzazione: figure ritmico-sintattiche, parallelismi, iterazioni, assonanze…

andrea zanzotto

andrea zanzotto

Tutto è segno e senso in poesia: anche e soprattutto il suono. La poesia stessa è suono che produce conoscenza. Il suono e il ritmo della poesia hanno un valore iconico speciale, autonomo, determinante. Sono in grado di evocare e rappresentare essi stessi il significato della cosa. Ecco ad esempio come, in suoni scoppiettanti, rende il temporale Ariosto nel Furioso:

con tanti tuoni e tanto ardor di lampi
che par che ‘l ciel si spezzi e tutto avvampi

o, con lo sgusciar del ferro, il sibilo di una spada Pulci nel Morgante:

.
rizzossi in sulle staffe, e ‘l brando striscia
che lo facea fischiar come una biscia

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Così, senza ricalcare le suggestive arbitrarietà di Rimbaud, con la sua poesia sul colore delle vocali (e, per quella via, le astruse teorie dell’abbé Bremont), possiamo parlare di fonosimbolismo poetico, di significato referenziale dei suoni; per cui la [s], ad esempio, si presterebbe allo strisciare delle serpi, la [r] al fremito e al movimento, la [i] sembra più chiara di [u] e [o], ecc. Scrive Donatella Bisutti nel delizioso libro La poesia salva la vita: «una parola non è solo il significato di una cosa, ma anche un po’ l’immagine di quella cosa». Una parola come raffica, ad esempio, è veloce e turbina come un colpo di vento improvviso, grazie a quelle [f] che soffiano. Stuzzicare sembra qualcosa che punge, per via di quelle due [z] e di quella [i] sottile: come una zanzara. E ancora: farfalla, con quelle due [f] svolazzanti e quelle due [l] che la sostengono in volo, è «in realtà il perfetto ritratto di una farfalla». La poesia sa adoperare le parole come oggetti, come pennelli intrisi di colore, come tasti di un pianoforte. Ci sono parole «veloci o lente, leggere o pesanti, tenere o aspre, morbide o dure, carezzevoli o taglienti». Prescindendo dalla trascrizione onomatopeica dei suoni (si pensi a Pascoli e a Palazzeschi), leggiamo qualche magnifico esempio di significato rappresentato per vie irrazionali, anche e soprattutto attraverso il suono.

“La luna” di Andrea Zanzotto:

.
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
Distonia vita traviata,
Atonia vita evitata,
Mataia, matta morula,
Vampirisma, paralisi,
Glabro latte, polarizzato zucchero,
Peste innocente, patrona inclemente,
Protovergine, alfa privativo,
Degravitante sughero,
Pomo e potenza della polvere,
Phiala e coscienza delle tenebre,
Geyser, fase, cariocinesi,
Luna neve nevissima novissima,
Luna glacies-glaciei
Luna medulla cordis mei,
Vertigine
Per secanti e tangenti fugitiva
 

La mole della mia fatica
Già da me sgombri
La mia sostanza sgombri
A me cresci a me vieni a te vengo

Luna puella pallidula.
 

Eugenio Montale

Eugenio Montale

 

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mare slavato e disilluso di Ungaretti:

.
Più non muggisce, non sussurra il mare,
Il mare.

Senza i sogni, incolore campo è il mare,
Il mare.

Fa pietà anche il mare,
Il mare.

Muovono nuvole irriflesse il mare,
Il mare.

A fumi tristi cedé il letto il mare,
Il mare.

Morto è anche lui, vedi, il mare,
Il mare.

W.H. Auden

W.H. Auden

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(si noti l’eco del “mare”, ripetuta in a capo, che equivale all’inerzia stanca della risacca sul bagnasciuga, quando il mare è plumbeo, inerte, quasi fermo). La freschezza spumeggiante dell’onda di d’Annunzio:

Nasce l’onda fiacca,
subito s’ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene
rincalza, ridonda.
Altra onda s’alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, procede.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s’arruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L’onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s’infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l’alga e l’ulva;
s’allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui ‘l vento
diè tempra diversa;
l’avversa,
l’assalta, la sormonta,
vi si mesce, s’accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d’iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca,
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.

E lo sconquasso simbolico della “bufera” di Montale:

… e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…

Nel messaggio poetico risulta dunque determinante l’aspetto fonico-timbrico della lingua. La poesia è, in questo senso, la risultanza dell’incontro-incrocio degli elementi metrici, ritmici e metaforici. Il piano dei significanti e quello dei significati sono i due poli entro cui oscilla mutevolmente l’ago della comunicazione poetica. Lo stesso ritmo si gioca nel conflitto perenne tra metro e sintassi: il discorso non coincide puntualmente con i versi, tende a forzarne la misura orizzontale in strutture foniche verticali, tessute di corrispondenze e bilanciamenti.

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INTERVISTA SULLA POESIA a Giorgio Linguaglossa di Ambra Simeone, 4 maggio 2014, Ritengo che il futuro della poesia sia la «forma ibrida». Oggi non è più possibile né ragionevolmente concepibile scrivere in endecasillabi tonici come faceva il Pascoli o nelle forme chiuse artatamente chiuse in base ad un programma elitario ed olistico della poesia. La forma-poesia, come ci ha insegnato Miłosz, deve essere «una forma più spaziosa»

 gif occhiali colorati

primo: a me piace pensare che la poesia debba prima di tutto dire qualcosa a chi legge, secondo lei esiste ancora in Italia un certo tipo di poesia che serva a questo scopo?

Rispondo dicendo che la vera poesia è quella scritta da un uomo libero per cittadini liberi. Ma, le chiedo: siamo oggi liberi? È possibile scrivere per uomini che si credono liberi ma che nella realtà non lo sono? È possibile scrivere sapendo di già che c’è una menzogna sotto stante che ciascuno fa finta di non vedere? È possibile scrivere una poesia o un romanzo senza prendere atto di questa ipocrisia macroscopica?. Ma non mi voglio sottrarre alla responsabilità di abbozzare comunque una risposta, e  rispondo citando per esteso la poesia di Czesław Miłosz con un commento di Alfonso Berardinelli, uno di Giovanna Tomassucci e uno mio:

Czeslaw Milosz 1

Czesław Miłosz

Ars Poetica  – Czesław Miłosz, 1957

Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.

(Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani)

Scrive Alfonso Berardinelli: «È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento, un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere, e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic, entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia; (…)».

Paul Valéry

Paul Valéry

 Commenta Giovanna Tomassucci: «Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile, negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa), atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie e se mai errate’».

Il punto centrale della riflessione  della poesia viene introdotto subito nei primi versi: «una forma più capace», che non sia « né troppo poesia né troppo prosa». Una forma ampia dunque che consenta l’ingresso nella forma-poesia della forza rigenerante della «prosa». Miłosz caldeggia una nuova poesia che sia al contempo riflessione sulla storia e una selezione di immagini povere, prosaiche; di qui la scoperta che «nella poesia c’è qualcosa di indecente», la presa di distanze dalla poesia dell’ego, tutta incentrata su «ciò che è morboso» in quanto oggi «molto apprezzato dai poeti», una poesia che tratti dell’«uomo ragionevole», poiché « il mondo è diverso da come ci sembra / e noi siamo diversi dal nostro farneticare». Di fatto è questo il primo altissimo documento poetico di un poeta europeo  in favore di una poesia di ampio respiro, che contemperi l’ampio sguardo sulla storia degli uomini e i piccoli fatti del quotidiano.

secondo: se la poesia contemporanea è spesso eclettica ed eccentrica, secondo lei qual è e dovrebbe essere, invece, il ruolo della narrativa?

dylan thomas 1941

dylan thomas 1941

 La narrativa viene scritta avendo presente il mercato. La poesia la si scrive avendo presente un Interlocutore posto al di fuori del mercato (questo è il senso inteso da Osip Mandel’stam espresso nel suo saggio Sull’interlocutore scritto negli anni Venti). La differenza è tutta qui. Ma le differenze in questi ultimi decenni si sono allentate perché oggi se si vuole scrivere un romanzo di intensità lo si deve pensare a prescindere dal mercato editoriale, altrimenti si scrivono anche dei buoni romanzi ma di intrattenimento. Con il che non voglio disistimare l’intrattenimento piacevole di un pubblico di acquirenti, che ha ragione di esistere, ma certamente così scrivendo e facendo il pubblico dei lettori rimarrà confinato nella zona grigia dell’intrattenimento e dell’imbonimento culturale.

terzo: ultimamente alcuni autori hanno riadattato al contemporaneo la forma ibrida di prosa poetica, lei cosa ne pensa di questa commistione?

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Ritengo che il futuro della poesia sia la «forma ibrida». Oggi non è più possibile né ragionevolmente concepibile scrivere in endecasillabi tonici come faceva il Pascoli o nelle forme chiuse artatamente chiuse in base ad un programma elitario ed olistico della poesia. La forma-poesia, come ci ha insegnato Miłosz, deve essere «una forma più spaziosa» che consenta la ricezione della «prosa». Il futuro della forma-poesia è in questa direzione.

quarto: la sua opera di critica e la sua ricerca poetica, si pongono lo stesso obbiettivo? se sì quale?

 Anche la mia critica e la mia poesia si muovono in questa direzione. Devo dire con scarsi risultati a giudicare dalla ostilità con cui le mie riflessioni sono state recepite dal ceto letterario. Ma questo l’avevo già messo in conto dall’inizio. Inoltre, io non ho alle mie spalle alcuna cattedra universitaria né occupo un posto di rilievo presso gli uffici dei grandi editori, perché mai si dovrebbe prestare attenzione al mio discorso critico e a quello poetico?, anzi, proprio la libertà e indipendenza dei miei interventi critici è una ragione in più per circondarmi con il silenzio, non crede? – Il fatto che io sia un isolato è sia il mio punto di forza che il mio punto di debolezza.

quinto: da poeta cosa consiglierebbe a un altro poeta?

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vladimir majakovskij

 Leggere molto, di tutto, di filosofia, di scienza, di poesia, i grandi romanzi. Pensare a vivere. E, soprattutto, non accettare nessuna idea in modo acritico, sottoporre ogni ideologema ad attento controllo critico. E poi, in fin dei conti, un grande poeta sorge soltanto quando ci si è impregnati della cultura di un’epoca e si riesce a rappresentarla in una «forma», in un nuovo linguaggio, direi quando accade un «evento» che mette in azione una «forma».

sesto: un suo motto letterario per salutarci

Non accettare mai di fare un passo indietro.

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Che posto ha il «Bello» nell’impero del «male»? (nel pensiero di Giacomo Leopardi) di Giorgio Linguaglossa

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Leggiamo la conclusione del Cantico del gallo silvestre di Giacomo Leopardi:

«Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà neppure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».

La frase chiave di Leopardi sulla «natura» è questa: «perpetuo circuito di produzione e distruzione». Sembra una frase di Albert Caraco. Nessuna illusione sulla bontà della «natura» nel pensiero di Leopardi della maturità ma uno sguardo oggettivo che osserva le cose nella loro aseità. La «natura» non mira alla felicità o all’infelicità degli uomini. L’uomo non è il suo fine, la «natura» non si accorge dell’uomo, va, segue le sue leggi e non si accorgerebbe nemmeno se in un colpo solo uccidesse ed estinguesse la razza umana. La «natura» è indifferente e cieca, non sa quello che fa, è innocente. Se ancora nel 1821 Leopardi accettava le leggi della natura in quanto «benignissima», nelle Operette morali la legge di «natura» è «spaventevole».

Nel “Dialogo della Natura e di un islandese” Leopardi afferma che l’ordine dell’universo è cattivo, forse per qualche creatura l’ordine può sembrare «perfettamente buono», ma è un inganno. Così commenta il filosofo e poeta recanatese: «Ammiriamo questo ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme». Il «male» nel mondo non è accidentale, non è un disordine straordinario, no, «il male è nell’ordine, e «esso ordine non potrebbe star senza il male». L’ordine dunque è fondato sul «male», il «male» è ordinario, il «male» è essenziale. Non c’è altro che «male».
Leopardi scrive queste parole sul «male» il 17 maggio 1829 a Recanati, due anni prima aveva composto il Dialogo di Plotino e di Porfirio nel quale c’è ancora una illusione sulla bontà primitiva della «natura».

Il 22 aprile 1826 scrive: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male e ordinata dal male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male». Leopardi è un materialista che odia la materia, in essa vede annidarsi il «male», il «male» è il «tutto». Per Leopardi il «tutto» non è il «tutto», che c’è qualcosa oltre di esso: «Non v’è altro bene che il non essere… Non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose». E Dio? «L’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta», risponde Leopardi. Derubricando a mera «possibilità» l’esistenza di un dio.
leopardifoto Commenta Pietro Citati nel suo monumentale lavoro sul recanatese: «Leopardi non conosceva i tempi e i luoghi moderni. Aveva vissuto in un grosso paese come Recanati: aveva abitato per qualche mese a Roma e per quasi due anni a Bologna, città avvolte dal tedio pontificio: Non leggeva i giornali e i romanzi francesi, che rivelavano la straripante, quasi mostruosa, vitalità di Parigi: non avrebbe dunque dovuto comprendere il moderno: le sue idee, le sue tendenze, le sue passioni, la sua forza metamorfica. Ma, come dicono Timandro ed Eleandro, il suo cervello era «fuori moda». Questa era una delle sue più grandi facoltà: non appartenere a nessuna epoca, né a quella presente né a quella passata; non viveva nel quarto secolo prima di Cristo né nel 1750 o nel 1826. Era a casa dappertutto e da nessuna parte. La sua radicale estraneità al tempo gli permise di comprendere il diciannovesimo secolo, la società borghese e quella di massa. Se leggiamo lo Zibaldone, lampi ci richiamano di continuo alla memoria Nietzsche e Spengler, Adorno e David Riesman. Così Leopardi, il non moderno, ci sembra straordinariamente moderno, come se abitasse e guardasse e studiasse cosa avviene oggi». (p. 298 “Leopardi” Mondadori, 2010)

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Resta una singolare interrogazione: perché mai Leopardi non ha mai pensato sul concetto di «Bello» nell’arte? Come mai questa lacuna? Ma è una vera lacuna del suo pensiero?, o, nel quadro del suo pensiero il «Bello» afferirebbe a quella «seconda natura» che per il recanatese costituisce la società degli uomini?, e quindi non altro sarebbe che un modus, una secondarietà della categoria centrale della «natura» intorno alla quale il suo pensiero ha incessantemente tentato una ricognizione la più esaustiva possibile in quella monumentale indagine che è lo Zibaldone.
Leopardi non si è mai posto la domanda fondamentale che per noi  che veniamo Dopo il Moderno invece è essenziale: Che posto ha il «Bello» nell’impero del «male»? Che posto ha il «Bello» nel mondo dominato dalla Tecnica? Che posto ha il «Bello» nel mondo delle sorti progressive? Forse perché Leopardi già intuisce, come nessun altro intellettuale del suo tempo e di quello seguente, ciò che accadrà nella futura società dell’organizzazione amministrativa degli stati moderni, nella società della mercificazione e del mercato.

Leopardi con straordinario acume non ha mai considerato la problematica del «Bello» degna della sua attenzione. Non la considera affatto una problematica, la considera una categoria sussidiaria e secondaria, affetta, cioè, da secondarietà, e quindi epifenomenica.

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

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Paul Valéry: «L’arte ha preso posto nell’economia universale. È più ottusa e meno libera»,«L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche» (Un inedito)

Paul Valéry1.

Paul Valéry: «L’arte ha preso posto nell’economia universale. È più ottusa e meno libera» Sab, 14/12/2013 – Il Giornale.

Anticipiamo in questa pagina una prosa inedita, di Paul Valéry (Sète,1871-Parigi,1945) pubblicata sul numero in uscita della rivista del Pen club Italia diretta da Sebastiano Grasso. Si tratta di una lezione tenuta nel corso di Poeti¬ca istituito appositamente per Valèry al Collège de France nel ’37 (mai pubblicata finora neppure in Francia); traduzione di Marina Giaveri.

Paul Valéry

“L’Arte, considerata come attività svolta nell’epoca attuale, si è dovuta sottomettere alle condizioni della vita sociale di questi nostri tempi. Ha preso posto nell’economia universale. La produzione e il consumo delle opere d’Arte non sono più indipendenti l’una dall’altro. Tendono ad organizzarsi. La carriera dell’artista ridiventa quella che fu all’epoca in cui egli era considerato un professionista: cioè un mestiere riconosciuto. Lo Stato, in molti Paesi, cerca di amministrare le arti; procura di conservarne le opere, le «sostiene» come può. Sotto certi regimi politici, tenta di associarle alla sua azione di persuasione, imitando quel che fu praticato in ogni tempo da ogni religione. L’Arte ha ricevuto dai legislatori uno statuto che definisce la proprietà delle opere e le condizioni di esercizio, e che consacra il paradosso di una durata limitata assegnata a un diritto ben più fondato di quelli che le leggi rendono eterni. L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, eccetera… paul_valeryL’Arte si pone così a lato dell’Industria. D’altra parte, le numerose e stupefacenti modifiche della tecnica, che rendono impossibile ogni ordine di previsione, devono necessariamente influire sull’Arte stessa, creando mezzi del tutto inediti di esercizio della sensibilità. Già le invenzioni della Fotografia e del Cinematografo trasformano la nostra nozione delle arti plastiche. Non è del tutto impossibile che l’analisi estremamente sottile delle sensazioni che certi modi di osservazione o di registrazione \ fanno prevedere conduca a immaginare dei procedimenti di azione sui sensi accanto ai quali la musica stessa, quella delle «onde», apparirà complicata nel suo meccanismo e superata nei suoi obiettivi. \. Diversi indizi, tuttavia, possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Senza dubbio Valéry oggi ci appare un poeta «inattuale», finanche «illeggibile» e «conservatore», ma proprio in quanto «conservatore» e «illeggibile» la sua teoria della creazione poetica e i suoi Quaderni sono le riflessioni forse più profonde che un poeta del novecento rivolge al proprio secolo. Poi, la mummificazione di Paul Valéry a poeta ufficiale non è certo da addebitare al poeta francese ma riguarda piuttosto la storia dei costumi e della «autostima» che la Francia ha sempre avuto per i suoi artisti, fa parte della retorica di ogni Paese, così come fa parte della retorica dell’Italia la magnificazione di alcuni poeti, uno per tutti: Ungaretti, anch’egli conservatore e, probabilmente, oggi sopravvalutato.

Né Leopardi né Hölderlin si sono mai occupati nella loro ricerca speculativa del problema del «bello» o sulla «creazione poetica». Questa che potrebbe sembrare una lacuna non è invece affatto una lacuna, è la conseguenza del fatto che al loro tempo il problema del «bello» e della «creazione poetica» ancora non si era profilato, non era diventato problema, e quindi non costituiva un campo specifico di ricerca speculativa.
Le cose cambiano con Hegel, con la sua triadica tripartizione dello Spirito del mondo e della dialettica come superamento di momenti contraddittori dello Spirito. Con l’ingresso dell’«età della prosa» (dizione di Hegel) ha inizio la speculazione su il «bello», i filosofi e gli artisti cominciano a interrogarsi su ciò che è «bello» e su ciò che non lo è. Il «bello» è diventato un problema, difficile da risolvere perché la società borghese è sostanzialmente allergica e sfavorevole all’arte e al bello, l’organizzazione della divisione del lavoro e lo sfruttamento capitalistico del lavoro rappresentano un insormontabile ostacolo alla creazione del «bello». E qui la riflessione di Valéry coglie con esattezza il punto della questione. Per Valéry i mercato e l’etica utilitaristica del capitalismo sono assiologicamente ostili allo sviluppo dell’arte e del «bello», e direi anche ontologicamente. Valéry si chiede: Può esistere il «bello» al di fuori dell’economia universale?, direi di più: può esistere un’arte bella in un mondo capitalistico?, può esistere un’arte bella nella barbarie?, può esistere la barbarie senza il bello? – Interrogativi inquietanti, quantomeno che Valéry aveva sollevato con grande tempestività e acume.

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Il «Bello» tra alienazione (Entfremdung) ed estraneazione (Entäusserung) – Il Bello nel pensiero di Giacomo Leopardi Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac e Steven Grieco Roma giugno 2015

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac, Steven Grieco e Rita Mellace Roma giugno 2015, Isola Tiberina

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il Bello non può essere disconnesso dal nesso fondamentale dell’alienazione di ogni attività umana. Ritorniamo quindi al pensiero marxiano contenuto in proposito nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Per Marx il nesso ontologico fondamentale è costituito dalla alienazione. Il rapporto che lega l’uomo all’«industria» non può essere esaminato oggettivamente se non facciamo riferimento al concetto di alienazione che investe ogni prodotto dell’attività umana produttiva, e quindi anche del prodotto cosiddetto artistico in quanto rientrante anch’esso nell’attività umana produttiva.

«L’alienazione, nella sua essenza, implica che ogni sfera mi imponga una norma diversa e antitetica, una la morale, un’altra l’economia politica, perché ciascuna è una determinata alienazione dell’uomo e fissa una particolare cerchia dell’attività sostanziale estraniata e si comporta come estranea rispetto all’altra estraneazione». (338)

Il processo di disumanizzazione e alienazione dell’arte.

«Tanto più praticamente la scienza della natura è penetrata, mediante l’industria, nella vita umana e l’ha riformata e ha preparato l’emancipazione umana dell’uomo, quanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione. La industria è il reale rapporto storico della natura, e quindi della scienza naturale, con l’uomo. Se, quindi, essa è intesa come rivelazione essoterica delle forze essenziali dell’uomo, anche la umanità della natura o la naturalità dell’uomo è intesa. E dunque le scienze naturali perderanno il loro indirizzo astrattamente materiale, o piuttosto idealistico, e diventeranno la base della scienza umana, così come sono già divenute – sebbene in figura di alienazione – la base della vita umana effettiva; e dire che v’è una base per la vita e un’altra per la scienza, questo è fin da principio una menzogna. La natura che nasce nella storia umana – nell’atto del nascere della società umana – è la natura reale dell’uomo, dunque la natura come diventa attraverso l’industria – anche se in forma alienata – è la vera natura antropologica». (Manoscritti economico-filosofici. 330-331)

Nel pensiero marxiano critico (e quindi anche l’arte in quanto produzione rientrante nel concetto di produzione alienata) sia la filosofia che le scienze naturali sono considerate dal punto di vista dell’alienazione quale nesso fondamentale di ogni attività produttiva; sia l’umanizzazione della natura sia la disumanizzazione operate tramite l’industria attecchiscono (in quanto alienate) anche alla sfera (separata) dell’arte.

Paul Valéry 2

Paul Valéry nel suo studio

Paul Valéry 3

Paul Valéry

Il pensiero marxiano posteriore a Marx

Il pensiero marxiano posteriore a Marx non è mai stato capace di indagare la problematica dell’arte dal punto di vista dell’alienazione e dell’estraneazione che attecchisce il piano dell’arte in quanto attività produttiva. E questa macroscopica lacuna favorisce ancora oggi gli indirizzi positivistici che pensano l’arte in sé, come un assoluto astrattamente slegato dal nesso concreto che lo lega all’industria.

L’«industria» è la causa della crescente complessità della società umana (in quanto crea nuovi bisogni mentre soddisfa i vecchi). «La produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica» scrive Marx. In tal senso, anche il bisogno di arte è una «azione storica» e come tale storicamente condizionata e determinata. Come ha scritto Adorno (Teoria estetica), nelle società di massa anche il bisogno di arte non è poi così certo come può apparire, anzi, per il filosofo tedesco il bisogno di arte sembra essere stato abolito, o comunque sostituito con l’arte di massa, ovvero, con il kitsch.

In questo orizzonte problematico anche il «bisogno» del «Bello» non è un fatto così scontato come potrebbe apparire a prima vista, anch’esso soggiace alla alienazione fondamentale che attecchisce la produzione del «Bello». Secondo Adorno, nelle condizioni attuali delle società di massa, il «Bello» si muta in Kitsch. Detto in altri termini, l’umanizzazione dell’arte sventolata in buona fede da ardenti apologeti da tanti pulpiti si muterebbe nella disumanizzazione reale dell’attività produttiva alla quale essa soggiace.

Ritengo che la difficoltà di speculare su di una estetica critica dipenda dalla assenza di un pensiero critico che ponga al centro dell’Estetica i concetti di alienazione (Entfremdung) e di estraneazione (Entäusserung).
E qui si pone il paradosso della posizione estetica: come è possibile che una situazione alienata come quella dell’opera d’arte possa condurre, attraverso l’estraneazione (Entäusserung) propria della attività artistica, ad una messa in risalto di quella alienazione (Entfremdung) che dà piacere al fruitore? Che produce piacere?
Il paradosso della sfera dell’arte, in nuce, è tutto qui.
Per dirla con Valéry, l’arte che non pensa se stessa in rapporto all’industria «è più ottusa e meno libera».

Elio-Germano-Giacomo-LeopardiIl «bello» nel pensiero di Giacomo Leopardi

Il pensiero di Leopardi anticipa in qualche modo il pensiero di Nietzsche in ordine al concetto di «bello». Per Nietzsche «C’è un solo mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso […] Un mondo così fatto è il mondo vero […]. Ni abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa “verità”, cioè per vivere… L’uomo dev’essere per natura un mentitore, dev’essere prima di ogni altra cosa un artista».1

Mezzo secolo prima di Nietzsche Leopardi pensa il «bello» all’interno di una categoria più vasta e fondante, quella della «natura» (che noi possiamo tranquillamente aggiornare con la parola di «essere»). Scrive Leopardi: «L’esistenza, per sua natura ed essenza, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità (P 1474. «Le contraddizioni palpabili che esistono in natura» mettono in percicolo il fondamento della «ragione», il di non contraddizione» (P 4099). Il «misero e freddo vero», la «verità dura e triste» rendono «dannosissima» la filosofia come pura «ragione» (vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro).

Leopardi volta pagina nel modo più radicale ad ogni prospettiva teologico-metafisica, la sua categoria centrale è il «nulla»: tutto è nulla, tutto ciò che esiste è nihil negativum in quanto è un effimero sortire dalla negatività del «nulla» per precipitarvi nuovamente. E tutto ciò che esiste è «amor proprio», volontà di esistere e di vivere, di evitare la consapevolezza angosciante che tutto è nulla. La colpa di Adamo è aver voluto conoscere. Tutto ciò che esiste è illusione di esistere, illusione di non essere un non-nulla. L’arte e la poesia non sono negazione della volontà di vita, ma la sua forma più alta e potente, sono l’«ultimo quasi rifugio».

Nel pensiero di Leopardi il «bello» vive in una zona liminale e periferica, non è una categoria fondante. Anzi, tutto ciò che rende potente l’arte avvicina ognor più l’arte al «nulla»; quindi il «bello» (in termini leopardiani ciò che rende alta e potente l’arte) altro non è che un derivato dell’«amor proprio», della «volontà di vivere», e quindi una illusione che, fatto deprecabile, rende la vita da misera ad accettabile. L’arte quindi è una menzogna. Ma necessaria per la sopravvivenza dell’umano.

Leopardi può pensare al «bello» con una libertà di pensiero inimmaginabile ai nostri tempi, perché il recanatese pensa l’arte nel momento della ascesa della borgesia europea, quando ancora non sono state esperite de mostruosità della affermazione della volontà di potenza in termini di stati nazionali e di imperialismo. Leopardi è un pensatore che pensa nel momento dell’alba, quando ancora tutti gli orrori che verranno non sono ancora visibili. E il suo pensiero è profondamente ancorato alla nullità di tutte le cose. E quindi anche del «bello» che, nel suo orizzonte di pensiero non occupa alcuna posizione chiave.

Compito dell’arte e del «bello» è quello di «dilettare», in quanto illusione, perché «le illusioni, per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo e compongono la massima parte della nostra vita. e non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane» (P 213)

1 Opere, Adelphi, VIII, 2, pp.396-97

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