Adam Vaccaro Quale tempo? – Tempo fermo, Tempo reale, Tempo mentale; Quale poesia? l’interazione con l’Altro da sé; La questione del soggetto; temporalità lineare e temporalità ciclica; La comunicazione come comunione; Una percezione non più separata, ma con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro

(Il testo che segue è versione più ampia della relazione svolta in occasione del convegno “Scritture / Realtà, Linguaggi e discipline a confronto” – organizzato dall’Associazione Culturale Milanocosa e tenuto a Milano il 18 e il 19 novembre 2000. Ed è uno dei capitoli della Parte Introduttiva di Ricerche di Adiacenza, Satefi, Milano, 2001)

Forse tutti non desideriamo altro che entrare nella realtà, non rimanere come astronauti persi nell’universo. Forse tutto il lavoro di ognuno e di tutti consiste nel tentare di entrare, nel bene e nel male, nella realtà. Ma già dire così si rischia grosso. Si rischia di riproporre l’errore originario della filosofia occidentale di parlare di doppi: esterno e interno, spirito e corpo, ecc..
Nella nota che accompagnava la prima lettera di proposta di questo convegno, ricorrevo all’immagine della Cacania, inventata da Musil ne L’uomo senza qualità, per contrapporre la realtà prodotta dalle ritualità ufficiali a quella disegnata da ogni forma di espressione, e della poesia in particolare. Parlavo per quest’ultima di tensione utopica, diciamo pure rivoluzionaria, verso possibilità non contemplate dal vestito ufficiale dell’esistente.

Basta forse questo esempio a far saltare in aria ogni partizione di esterno e interno. Qual è l’esterno e quale l’interno? Quale è più falso e astratto? Quale è più reale? Quale è rimasto più presente nella realtà mentale degli uomini, la qualità del ritualismo di Cecco Peppe o la mancanza di qualità (rispetto alla prima) di chi costruisce un universo parallelo e immagina un altro e oltre rispetto all’esistente?
Due forme di realtà compresenti, come quella di ogni soggetto (singolo o collettivo) rispetto al Resto, che in un modo o nell’altro interagiscono e sono ognuna parti di un Tutto, metafisico e irraggiungibile, per cui collocarne una dentro e l’altra fuori è un’operazione astratta e priva di senso.

Ogni identità si costituisce e assume senso, diventa reale, nell’interazione con l’Altro da sé. È anche la tensione profonda di questo convegno. Che tende a suo modo a ripensare “la questione del soggetto”, come dice Francesco Leonetti (1), quale luogo e nodo centrale in cui ricollocare l’Uno, il Tutto e ogni metaforizzazione o categoria mentale; tra le quali quello di realtà.
Leonetti fa riferimento alle ricerche più “recenti della biologia e della neurofisiologia” (2); e richiama (chi ha letto qualcosa di mio sa quanto possa concordare) Francisco Varela, che (con Maturana) ha elaborato la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente; e tra essi si attuano infinite combinazioni temporanee, reali e virtuali al tempo stesso, in rapporto all’intreccio di esperienze che il soggetto va elaborando.
Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale. Ma allora perché è abbastanza anomalo questo stesso convegno, rispetto alla tendenza alla chiusura autoreferenziale di ogni disciplina e soggetto culturale? Chiusura che produce sempre paranoie e forme ideologiche, quale quella per es. della Verità. Questo convegno riprende in qualche modo l’affermazione “La verità non esiste” di Antonio Porta, che distingueva con la fenomenologia di Luciano Anceschi, tra vero e verità, intendendo il primo quale “punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza”, “un punto fermo che però non è definitivo come la verità” (3).

Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad es. quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo.
Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.
C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile lago nero (diciamo pure che è il nostro personale buconero) o come tanti recipienti chiusi (vedi le “giare” di Proust), o un grande tamburo, che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la sua (e la nostra) distruzione. Contiene credo il senso del limite del mito di Orfeo e tante altre immagini a noi più vicine, per es. “l’acqua ferma“ dei laghi mantovani di Gilberto Finzi, materia espressiva de “L’oscura verdità del nero“, che richiama fra l’altro l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce, e in cui la luce può praticare solo fori per lampi precari e fuggevoli. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no.
Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo; ma il termine può essere fuorviante, forse è meglio dire ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Che vuole tacere e muore dalla voglia di parlare. Che vuole custodire, ma anche dire ciò che custodisce. Lo dice (ovvio), a suo modo, se sollecitato ad es. con ritmi adeguati, quali ad es. glossalalìe tipo ambarabà ciccì coccò, tali da far vibrare il grande tappo di pelle che lo ricopre.

In altri termini, nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, che contiene il segreto di tante nostre cose: problemi irresolubili intrecciati a contraddizioni vivificanti: per es. è disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è forse fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra irriducibile, fondante corporalità, materiale e immaginale insieme, in cui i linguaggi ri-diventano cosa; sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso e dei linguaggi …dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.

C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.
È peraltro in tale galassia che troviamo le modalità operative del c.d. tempo reale, riferito con ironia involontaria alla virtualità dei processi informatizzati; che, nel contesto socioeconomico attuale è ridotto, come tutto il resto, a cosa (con senso ben diverso della cosa vista nell’area dominata dall’Es), merce, nel caso di pacchetti di linguaggio da trasferire a tempo zero, per massimizzare la produttività.

È l’area che accoglie come un trionfo la velocità della comunicazione multimodale contemporanea, che combina velocità e quantità e impone spesso, più che un processo di comunicazione, di commutazione: una operatività da semaforo, che si riduce a far passare o no un’informazione. Tali condizioni sono vissute dal corpo e dalle modalità lente dell’area dell’Es come invasione e violenza, che non si ha il tempo di elaborare. Sono temi affrontati nel n°10-11 de “Il Verri” da Giovanni Anceschi, il quale utilizza le osservazioni di “Paul Virilio (l’urbanista francese…dromologo, cioè studioso della velocità)” e aggiunge che nel “corpo, invaso per commutazione, transitano stimolazioni anche massicce…senza interferire veramente con la mente”.

La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali, non diventa mai corpo nel corpo, rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.

Con modalità tendenti alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro.
Se quest’area viene adeguatamente fatta interagire, ci aiuta a capire che dobbiamo porci oltre ogni termine, non solo di mimetismo o di cognitivismo speculare tra mente e mondo, ma anche di ibridazione tra soggetto e Altro, naturale o artificiale che sia. Ci aiuta a capire (anche) che non possiamo più beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, o in esaltazioni percettive e sensitive, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni (compresi quelli di un territorio) non ci trasmettono, contemporaneamente, collegamenti complessi con una (purchessia) visione di idee.

Senza di essa il messaggio non raggiunge un grado minimo di autonomia (4), né riduce il disperato senso di solitudine, cioè di assenza di realtà, in cui siamo; diventa un dono vuoto, più che inutile. Nel messaggio, in ogni messaggio ricevuto (artistico e no), cerchiamo un senso di pieno, di cosa materiale che ci tocca. Un senso che va oltre, sia la funzione salvifica e consolatoria dell’arte, che la sua funzione catartica.
Vogliamo semplicemente vivere e trovare, in particolare nell’oggetto poetico o artistico, il senso di un contatto adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati. Non è che ci si vuole fare carico della salvezza del mondo, ma è inevitabile che l’area mentale del Superìo, se viene fatta interagire, tenda a costruire un atto critico prodotto dallo sguardo verso l’orizzonte sociale, se è vero che “L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico” (5).

Beninteso, ciò non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), intesa come marketing e maquillage cero-ideologico (vedi le statue di cera di gran parte dei politici); vuol dire porsi (almeno!) il problema del vuoto di “progettazione alternativa” (6); da cui forse nasce, proprio in chi vuole esprimere opposizione all’esistente, un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.
Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce a immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica di significati irripetibili; che non è più un soggetto-motore, con pensieri ed emozioni, che opera/genera sui/nei linguaggi, ma è il mezzo che diventa generatore autonomo.
Questa è ciò che si chiama totalizzazione di una parte: il mezzo, il linguaggio, il testo – rimasticando (male) il mezzo è il messaggio di Mc Luhan – non sono più cosa materiale di un soggetto, col quale inventare uno scambio, ma sono il tutto, un simulacro da accogliere supini. È ciò che chiamo ideologia del testo.

Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica indubbiamente ridefinire “a quale semantizzazione ci interessiamo”, rispetto a “l’attuale superficializzazione mediale, dominante” (7).
Per quanto mi riguarda, tendo (come altri più autorevoli di me) a cercare sviluppi rispetto alle “valenze proprie delle discipline innovative del Novecento, psicoanalisi e semiotica” (8); e provo a superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana dei tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva: Io, Es e Superìo.
Le ricerche e le applicazioni su analisi testuali, effettuate e in corso, mi spingono a dire che è solo la compresenza adiacente di questi tre ambiti che può donare all’invenzione una capacità “di rottura innovativa…non meramente ‘formale’” (9).

L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione non più separata, ma con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, che potremmo anche considerare, come dire, momenti di orgasmo mentale. L’identità soggettiva produce realtà, quando costruisce oggetti posti in una contemporaneità mentale (di tipo quantistico perché sono oggetti presenti contemporaneamente in più luoghi mentali), che diventa casa del tempo, cioè spazio fatto di tempo.
Spazio-tempo capace di vedere: “Una casa sperduta là in cima/ alla costa – anni luce/ di distanza”, luogo dalle parti di Casalecchio, in versi inediti di Giuliano Gramigna; o “viali colle ali” di G. Majorino (10). Luoghi mentali, capaci di prendere per la coda i frammenti del caos vitale che ci esalta e ci uccide, riuscendo a sorridergli in faccia o di sottecchi.

Questo luogo anomalo, inventato dall’intreccio adiacente tra le varie aree mentali, è a mio parere anche l’ante-rem, o la condizione intrasoggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere a mettere in comune (come già diceva Antonio Porta), che concepisca quindi la comunicazione come comunione. Per poter cioè sviluppare il massimo livello di comunicazione inter-soggettiva, occorre partire da una realtà di comunione intra-soggettiva. Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale.
Proviamo ora a immaginare una combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo), non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella spesso citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (11). Forma che può avere infinite varianti, a seconda del peso nella struttura di un testo degli elementi riconducibili alle varie galassie. Ad es., in Per quante vite di Marosia Castaldi, troviamo una forma a vortice, prodotta dalla combinazione particolare tra le modalità di linguaggio dell’Es (come la ossessività delle ripetizioni) e il forte peso interno di un’indignazione dell’area etica, che (com)porta il climax solo alla fine.

La realtà (ma non solo) è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale, con una forma di tempo mentale. Tempo piuttosto lungo perché deve elaborare le perdite e i guadagni delle esperienze (12). Questo lavoro di elaborazione mentale adiacente, che tende a coinvolgere tutte le galassie mentali, risponde alla necessità di recuperare tempo mentale per sé (13). È un tempo che può anche essere chiamato otium, ma è tutt’altro che ozioso. Perché costruisce metamorfosi autopoietiche di sé: lavoro del Sé per-sé. E dico lavoro perché modifica qualcosa di fisico, a cominciare da sinapsi inusitate tra neuroni, che forse sono così salvati dalla morte. L’ecosistema mentale in questo tempo resiste concretamente alla morte.
L’ecologia della mente è, per me, questo. È la poesia? Penso di sì. Ma quale poesia?, quella fatta solo di righe spezzate? Penso di no. Non sono solo le ricerche teoriche e artistiche di tutto il ‘900 che hanno mostrato 10, 100 e più forme sotto il nome di poesia. Abbiamo ad es. le intuizioni geniali di un Leopardi o di un Vico che ci parlano di un piano ulteriore, o di strani oggetti come la fisica poetica, o la chimica poetica, ecc.. (vedi paragrafo successivo). Certo, la poesia intesa in tale senso non fa miracoli, non dona e non salva la vita se trova il nulla o un tempo mentale uguale a zero. Ma se trova un lavoro mentale in atto, può essere la migliore medicina contro la depressione, come ha detto recentemente un gruppo di medici inglesi. Per questo, scherzando ma non troppo, dico che la poesia è spietata quanto una banca, che in genere dà soldi solo a chi li ha già.

In definitiva, la poesia e l’arte in genere resistono e sono inesauribili perché, più che utili/inutili, sono indispensabili; in quanto recupero di tempo mentale che consente al soggetto di diventare reale, nel momento in cui costruisce una forma di sé in un determinato linguaggio; forma che ha bisogno di costruire per dare materialità (ritorna la necessità della poesia come cosa) alla virtualità e precarietà dell’autocomposizione soggettiva.
È un lavoro inevitabilmente oppositivo rispetto alla prassi corrente, in cui lo scambio energetico appare al Sè vano, mercificato da un fine dominato da un altro; alienato e subìto dall’operatività della sopravvivenza dell’Io, che è così spinto a dare il meglio di sé nelle peggiori condizioni.
L’Io, da operatore unico, viene a sua volta ridotto (è, credo, la radice reale della c.d. riduzione/scomparsa dell’Io) a imperatore del nulla, se il suo tempo si riduce a un angoscioso vuoto, dopo che è stato reciso il rapporto, sia con la prillazione nelle profondità del lago nero del passato affettivo-inconscio, sia con la tensione etico-progettuale volta al futuro.

Note
1) Francesco Leonetti, “Campo – la ricerca in letteratura, arti, scienze”, N° 12, 1999, p. 286 – Suppl. al N°150 (ott.. ’98) di “L’immaginazione”.
2) Ibidem
3) “Porta”, Luigi Sasso, Firenze 1980.
4) F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura; Torino 1971.
5) Romano Luperini, “Campo” N°12, p.287
6) Francesco Leonetti, ibidem
7) Francesco Leonetti, “Campo”, N° 12, p. 285.
8) Ibidem
9) Ibidem
10) Giancarlo Majorino, Autoantologia, p. 270 – Milano 1999
11) Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994
12) A questo proposito, un piccolo esempio è ricordato da Ernst von Glasersfeld: “a ‘stessizzare’ una localizzazione tattile con una visiva,…il bambino ci mette parecchie settimane per impararlo – e lo impara interpretando certe esperienze SENSOMOTORIE” (Working Papers della Soc. di Cult. M-O, cit.).
13) Potremmo definire il tempo mentale come percezione di attimi d’infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella categoria definita da Platone nel Timeo “immagine mobile dell’eternità”. Il rettiliano e il limbico costituiscono invece forme e luoghi di materializzazione di un tempo fatto di lunghissimi accumuli di tempi esperienziali, ben diverso dunque da quello platonico.

adam vaccaro 4Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. Diversi i premi e riconoscimenti ed è stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra le quali: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

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  1. LA POESIA E IL TEMPO. IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO COME L’ESSERCI DEL TEMPO da lombradelleparole.wordpress.com

    Heidegger confuta il luogo comune secondo cui il linguaggio è considerato in termini di comunicazione verbale, come un ente che ha la proprietà di essere segno o uno strumento per informare sugli enti e, in tal modo metterli a disposizione dell’ uomo. Il dire è prendere qualcosa come costantemente presente. In tal modo, però, l’essere continua a rimanere celato. L’ uomo non crea il linguaggio, ma nascendo trova già da sempre il linguaggio, che è «la casa dell’ essere», il luogo in cui le cose si mostrano all’ uomo. «Il linguaggio è ad un tempo la casa dell’essere e la dimora dell’essere umano. Solo perché il linguaggio è la dimora dell’essenza dell’uomo, le umanità storiche e gli uomini possono non essere di casa nel loro linguaggio, cosicché questo diviene per loro l’abitacolo delle loro macchinazioni».1)

    Proprio in quanto predeterminato dal linguaggio in cui storicamente via via si trova, il parlare dell’ uomo poggia sull’ascolto e appropriazione di quel che è detto nel linguaggio: propriamente non è mai l’ uomo che parla, ma il linguaggio stesso, che però ha sempre a che fare con l’ uomo e dispone dell’ uomo, facendolo essere quel che è. Nel linguaggio è rivolto un appello all’uomo, cosicché il pensiero diventa ascolto del linguaggio, un porsi «In cammino verso il linguaggio», dal titolo dell’opera pubblicata da Heidegger nel 1959. Il linguaggio è esperito come «la casa dell’ essere», il luogo dell’ accadere della verità, in cui l’essere è custodito e protetto nel suo manifestarsi e nascondersi e in cui l’ uomo può trovare il cammino verso la sua essenza che è il pensiero: è nel linguaggio, infatti, che si decide sempre il destino e si prepara una nuova epoca, in quanto ogni mutamento che avviene nelle parole essenziali del linguaggio determina, al tempo stesso, il mutamento del modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l’ uomo. Ogni accadere della verità è, infatti, essenzialmente un accadere linguistico.

    Ma Heidegger non pone mai la scissione tra linguaggio ed essere, trascura il problema della scissione. Tra essere e linguaggio si apre un abisso entro il quale precipita ogni sforzo di giungere all’essere tramite il linguaggio. Il linguaggio può parlare dell’essere come da una estrema lontananza, evocandolo e rievocandolo dalla profondità del tempo tramite la memoria. Questo è il momento in cui il linguaggio gode della massima vicinanza all’essere. Una vicinanza che è anche una infinita distanza. Questo è propriamente il compito della poesia: il giungere in quel punto del linguaggio che è il più vicino all’essere, per poi scoprire che questo punto è infinitamente distante da esso. È lo scacco che arride al linguaggio poetico, ma è anche, al contempo, la sua vittoria.

    Quando Emanuele Severino dà all’essere due, diciamo così, caratteristiche: «L’immediatezza e incontraddittorietà dell’essere»,2 fa un passo decisivo in avanti rispetto a Hegel che lo aveva definito l’«immediato indeterminato». E già in questa «nuova» postazione filosofica taglia fuori il linguaggio da ogni possibilità di giungere in contatto con l’essere essendo il linguaggio il luogo per eccellenza «contraddittorio» e «mediato».

    E con ciò il problema del linguaggio poetico nei confronti dell’essere apparirebbe risolto una volta per tutte. Ma resta il problema più importante, ancora affatto rischiarato dal pensiero filosofico e dalla scienza odierna: il problema del Tempo e il problema dell’esserci come entità temporale. Problema dinanzi al quale Heidegger disse che per proseguire l’indagine dopo Essere e tempo (1927) non possedeva il linguaggio adatto. Una dichiarazione di impotenza?. Si, forse una dichiarazione di impotenza ma che lasciava trasparire l’intento che la prossima indagine avrebbe avuto il «tempo» al centro della speculazione nel rapporto con «l’esserci».

    Per Heidegger il pensatore «dice l’essere», cioè porta ad espressione il non detto tramite quel che è detto nel pensiero della metafisica, mentre il poeta «nomina il sacro», vale a dire che inventa un nuovo linguaggio e in tal modo inaugura una nuova apertura dell’ essere, preparando l’ avvento degli dei, che nell’epoca attuale, come aveva presagito Hölderlin, «hanno abbandonato la terra». Pensare e poetare sono imparentati fra loro, sono come due montagne divisi da una vallata. Per questo Heidegger torna più volte a esercitare il suo pensiero sui versi di Trakl, George e soprattutto di Hölderlin, nella intuizione che lì si cela la possibile apertura alla visione dell’essere, ma da una immane lontananza.

    Per Heidegger l’essere-nel-mondo si realizza nel segno del «progetto»; anche la pre-comprensione si attua in questo modo, intendendo appunto il «progetto» sia come una sorta di guida delle nostre idee che nel significato corrente di abbozzo o piano di lavoro, che per essere realizzato necessita di elaborazioni successive, esattamente come quel che, per esempio, accade in vista della costruzione di una struttura edilizia o d’altro genere. Comprendere è progettare dal momento che include anche la disposizione e la programmazione di tutto un complesso. La poesia sarebbe questo mondo di significati che costituiscono e rappresentano il mondo. Non dunque l’entrare dentro l’oggetto ma l’apertura al mondo è costitutiva della comprensione dell’esserci e del suo essere-nel-mondo.

    1) M. Heidegger Essere e Tempo 1927 trad. it. Paolo Chiodi Longanesi, Milano 1970.p. 207
    2) E. Severino La struttura originaria 1958 ristampa anastatica, 1970 p. 53

  2. Premesso che, se la terra non avesse un’orbita ellittica attorno al sole e non ruotasse sul proprio asse il concetto di tempo che ci siamo fatti scandito dal giorno e dalla notte e dal ritmo delle stagioni non esisterebbe. Ho molto apprezzato la definizione di “ecosistema mentale”, ma conosciamo pochissimo del nostro cervello e ne utilizziamo solo poche parti.

  3. Anna Ventura:

    I critici sensibili riescono ad immaginare anche fisicamente l’autore che stanno esaminando.Una volta, una mia lettrice mi descrisse come piccola, magra, scura di pelle e di capelli.Aveva sbagliato in pieno circa l’immagine reale, ma aveva intuito pienamente la mia fisionomia dello spirito.

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  5. Il tempo sembra nato con la civiltà. Pensiamo ai Maya, non conoscevano la ruota, ma possedevano calendari sofisticatissimi.

  6. Nel Seminario VII L’etica della psicoanalisi (1959-60), Lacan affronta la problematica centrale del seminario, ovvero das Ding, la Cosa.

    Scrive Roberto Terzi in http://riviste.unimi.it/index.php/noema

    Lacan ricava questo termine da Freud, che con esso indicava l’oggetto di un primo mitico godimento, di un soddisfacimento pieno e impossibile; oggetto quindi che è essenzialmente perduto, ma la cui perdita lascia una traccia nell’apparato psichico del soggetto.
    Lacan valorizza il termine caricandolo di una serie di connotazioni e gli conferisce così un ruolo strategico. Lo si può osservare già richiamando alcune delle numerose espressioni utilizzate da Lacan per caratterizzare la Cosa e che permettono di cominciare a delinearne la funzione e lo statuto: «È attorno al Ding come Fremde, estraneo, e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto» 40; «Altro assoluto del soggetto» 41; «Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato» 42; «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung» 43; «Das Ding, infatti, è proprio al centro nel senso che è escluso. […] Questo Altro preistorico impossibile da dimenticare […] che mi è estraneo pur essendo al centro di me» 44; «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» 45; «fondamentalmente velata» 46; «quel luogo centrale, quell’esteriorità intima, quell’estimità che è la Cosa» 47.

    Das Ding sta dunque a indicare qualcosa di essenzialmente estraneo (in quanto straniero e straniante, non in quanto indifferente) per l’esperienza dell’io: è il primo esterno, l’altro assoluto del soggetto, che rimanda a un tempo letteralmente «preistorico», anteriore a tutta la storia del soggetto, in quanto passato primordiale che non è mai stato presente. Questo «altro» è quindi irriducibile anche alla dinamica del principio di piacere, alle leggi dell’inconscio strutturato come linguaggio, così come all’ambito del significato, all’esperienza come totalità di significati per un soggetto: la Cosa è «fuori significato». Che la Cosa sia un’estraneità radicale non significa tuttavia che essa non riguardi il soggetto o meglio che il soggetto non sia riguardato da essa: proprio nella sua estraneità la Cosa condiziona in modo decisivo il soggetto, diventando il centro di gravità attorno a cui ruota tutta la sua attività inconscia, rappresentativa e linguistica; un centro che tuttavia non è esso stesso rappresentabile, non si dà come tale, rimane velato. Da qui le espressioni ossimoriche e paradossali che Lacan è condotto a utilizzare, come «interno escluso che […] si trova così escluso
    all’interno» ed «estimità»: la Cosa è simultaneamente esteriorità e intimità, è un’esteriorità e un’alterità intima al soggetto, e questo significa che quel che è più intimo al soggetto si rivela essere un’estraneità radicale ad esso. La Cosa non è «centro» in quanto fondamento, perché questo centro è essenzialmente un vuoto: l’esperienza del soggetto si struttura e si muove attorno a un vuoto, che, alle spalle di esso, ne calamita e mette in movimento l’attività rappresentativa e quindi il desiderio.

    Questo rimando al vuoto ci conduce al secondo riferimento essenziale che Lacan richiama nella sua analisi della Cosa, vale a dire la famosa conferenza di Heidegger intitolata precisamente Das Ding, La cosa, tenuta nel 1950 (48). Heidegger pone qui la questione semplice e insieme decisiva «che cos’è una cosa?», «in che cosa consiste la cosalità delle cose?», cercando di pensare il darsi della cosa al di qua delle categorie scientifiche, ontologiche e metafisiche tradizionali: la cosa come oggetto rappresentato per un soggetto, come sostanza, come risultato di una produzione, come materia fisica quantificabile. Heidegger sviluppa la sua analisi con l’esempio della brocca e si chiede che cosa faccia della brocca una brocca, cioè innanzitutto un recipiente che contiene e in cui possiamo versare qualcosa. La parete e il fondo della brocca sono ciò che impediscono al liquido di uscire, ma non sono ciò che propriamente realizza l’atto del contenere:

    Quando noi riempiamo la brocca, nel riempimento il liquido fluisce nella brocca vuota. È il vuoto ciò che, nel recipiente, contiene. Il vuoto, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene49.

    È il vuoto che propriamente riceve il liquido e che fa della brocca un recipiente. Il vuoto, «questo nulla nella brocca», struttura la brocca come tale: la brocca, in un certo senso, è il proprio vuoto. Il vasaio che crea la brocca, allora, propriamente non fabbrica la brocca, né si limita a dare forma all’argilla:

    egli dà forma al vuoto. Per esso, in esso e da esso egli foggia l’argilla in una forma. Il vasaio coglie [fasst] anzitutto e costantemente l’inafferrabile [das Unfassliche] del vuoto e lo produce come il contenente [das Fassende] nella forma del recipiente [Gefäss]. Il vuoto della brocca determina ogni movimento della produzione. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui esso consiste, ma nel vuoto, che contiene (50).

    Indicando il vuoto come ciò che rende la brocca quel che è, Heidegger non si limita a operare uno scarto rispetto a una comprensione scientifica o comune della cosa. Il vuoto è un «nulla nella brocca» e questo significa che quel che fa essere una cosa non è a sua volta una cosa, non è dell’ordine dell’ente, ma è l’altro dall’ente e da ogni determinazione oggettiva: il nulla, di cui il vuoto è qui una figura.

    Nella sua analisi della Cosa Lacan si richiama al testo di Heidegger, introduce a sua volta l’esempio del vaso con il quale riprende questa funzione del vuoto, cerca così di chiarire il rapporto tra il significante e la Cosa attraverso la nozione di creazione ex nihilo. Cerchiamo di sviluppare e ordinare secondo la sua logica l’argomentazione di Lacan. Per quanto la Cosa sia come tale irrapresentabile, essa incide nell’esperienza del soggetto e si pone dunque il problema di come questa esperienza possa in qualche modo entrare in contatto e in rapporto con la Cosa, più precisamente di come in questo rapporto giunga a costituirsi quel termine estraneo attorno a cui però gravita la mia esperienza. Sebbene le leggi del significante e le sue strutture abbiano una priorità e un potere determinante sull’uomo, resta il fatto che è l’uomo a foggiare i singoli significanti: bisogna quindi chiedersi «che cosa fa l’uomo quando foggia un significante»51 o, più in generale, quando crea degli oggetti in quanto significanti, così come Heidegger si chiedeva che cosa fa il vasaio quando crea la brocca.

    Lacan introduce allora l’esempio del vaso per poi accostarlo alla funzione del significante, enunciando in partenza la sua tesi: «Io sostengo che un oggetto può svolgere una funzione che gli permette di non evitare la Cosa come significante ma anzi di rappresentarla, in quanto è un oggetto creato»52. Se ciò che caratterizza il vaso è il suo vuoto, creando il vaso io creo anche il vuoto, il vuoto specifico del vaso, che non c’era come tale prima che il vaso venisse prodotto. Creo il vuoto e così anche la possibilità di riempirlo: con la fabbricazione «il vuoto e il pieno vengono introdotti dal vaso in un mondo che, di per sé, non conosce niente di simile»53.

    Questa creazione, dunque, in un solo atto produce due risultati, il vaso e il vuoto, e questi si pongono insieme, in unico accadimento, per differenza l’uno dall’altro, modellandosi l’uno sull’altro. Creando il vaso creo il vuoto, ma il vaso consiste proprio del vuoto che lo struttura. Per Lacan bisogna parlare, più precisamente, di una vera e propria creazione ex nihilo: creo il vaso a partire da e attorno a un vuoto, modellando il vuoto, quindi di fatto a partire da un nulla. Sebbene Lacan non lo precisi esplicitamente, per l’intelligibilità e le implicazioni del suo discorso, in questi passi come nel seguito del seminario, questa creazione deve essere intesa in un doppio senso, nelle sue due facce correlate:
    creazione dal nulla (creare il vaso a partire dal vuoto) e creazione del nulla (creando il vaso creo anche il vuoto).

    Si può allora comprendere l’analogia verso cui si dirige Lacan, se si ricorda che la Cosa è essenzialmente un vuoto che tuttavia struttura dall’interno l’esperienza: creando un oggetto pongo anche per differenza il vuoto della Cosa che permette a questo oggetto di emergere come tale e così entro in rapporto con il vuoto stesso, con la Cosa, senza però fornirne una rappresentazione o un concetto che lo presenterebbe «come tale». Il vaso è dunque «un oggetto fatto per rappresentare l’esistenza del vuoto al centro del reale che si chiama la Cosa»54.

    Il rapporto tra vaso e vuoto è pertanto trasposto analogicamente da Lacan al piano del significante attraverso la nozione di creazione nel suo doppio legame con il nulla. In primo luogo, creando un significante linguistico si crea in un certo senso dal nulla: se si considera il linguaggio nel suo carattere strutturale di catena significante, non c’è una materia da cui creo il linguaggio o una causalità naturale che lo produce; il linguaggio è un accadimento e non l’effetto di una causa. In altri termini, il linguaggio, e quindi l’inserimento dell’uomo nella rete dei significanti, non è spiegabile causalisticamente come il prodotto di un’evoluzione, ma è un accadimento simbolico ex nihilo. È proprio in quanto sospeso a un nulla e fondato su nulla che il linguaggio caratterizza l’esperienza umana: dal momento in cui abbiamo a che fare con una qualsiasi cosa nel mondo, che si presenti nella forma della catena significante, allora da qualche parte, ma sicuramente fuori dal mondo della natura, vi è l’al di là di tale catena, l’ex nihilo su cui essa si fonda e si articola come tale 55.

    In secondo luogo, creando un significante si crea il nulla: il linguaggio, agendo sul reale e trasformandolo, lascia un resto, crea per differenza anche l’altro da sé, cioè un vuoto non-linguistico. Come il vasaio plasmando il vaso introduce al tempo stesso un vuoto, così creando un significante io creo per differenza anche il vuoto di ciò che rimarrà irriducibile al significante. È il senso della formula fondamentale di queste pagine, con cui Lacan definisce la Cosa: questa Cosa è quel che del reale – intendete qui un reale che non dobbiamo ancora limitare, il reale nella sua totalità, tanto il reale del soggetto quanto il reale con cui esso ha a che fare in quanto gli è esterno –, è quel che del reale primordiale patisce del significante 56.

    La Cosa, quindi, non è in realtà «qualcosa», una cosa in sé ineffabile o un noumeno, ma è un risultato dell’azione del linguaggio sul reale. Il linguaggio, agendo sul reale, lo trasforma e lo negativizza, ma così facendo produce per differenza anche un resto della propria azione: la Cosa, resto reale che non si lascia più assorbire nel significante.

    Tra il linguaggio e la Cosa si dà dunque quel legame strutturale di implicazione reciproca che Lacan indica nell’altra proposizione fondamentale di questa analisi: «c’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nella realtà di un’apertura beante, di un buco»57, perché sono le due facce di un medesimo evento, che accadono insieme l’una per differenza dall’altra. È anche in rapporto al linguaggio che si può parlare di un’estimità della Cosa: la Cosa è un’esteriorità radicale al linguaggio perché come tale è indicibile e irrapresentabile, è «fuori significato», ma insieme è intima al linguaggio perché è un risultato del linguaggio e, una volta accaduto, il vuoto della Cosa si installa nella catena
    significante impedendone la totalizzazione.

    Da qui derivano quelli che Lacan indica come i caratteri essenziali della Cosa:

    1) la Cosa è radicalmente «fuori significato» e quindi fondamentalmente «velata», estranea e irriducibile a ogni significato con cui possiamo tentare di esprimerla; l’installarsi di questo piano al di là del significato intacca il soggetto stesso nella sua esperienza.

    2) La Cosa è sempre perduta: una volta entrati nel linguaggio, l’oggetto del primo mitico godimento è per sempre perduto. Ma in realtà bisogna dire «già sempre perduto»: l’esperienza inizia con la perdita e la cancellazione dell’origine e, se l’oggetto del godimento è per sua natura un oggetto ritrovato, «che sia stato perduto è la conseguenza – ma a posteriori.
    Quindi, esso viene ritrovato, senza che vi sia per noi altro modo di sapere che è stato perduto se non attraverso questi ritrovamenti»58.

    3) In quanto fuori significato e già sempre perduta, la Cosa non è mai rappresentata in se stessa ma sempre in modo sostitutivo da «Altra cosa»59: proprio per questo essa «sarà sempre rappresentata da un vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualcos’altro – o, più esattamente, per il fatto di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro»60.

    Lacan trova dunque nel testo di Heidegger e nel suo tentativo di pensare la cosa al di là delle categorie metafisiche un modello descrittivo che gli consente di pensare il ruolo del vuoto nell’esperienza e il suo rapporto con gli oggetti.

    Ma, evidentemente, lo spunto offerto da Heidegger viene piegato da Lacan in una direzione profondamente diversa: in Heidegger questa analisi si inserisce nel quadro di una descrizione fenomenologico-ontologica che cerca di pensare l’accadere del mondo nel rapporto con la singola cosa e nell’incrocio tra mortali e divini, terra e cielo, quindi pur sempre nel quadro di un pensiero che cerca il senso dell’abitare «poetico» dell’uomo nel mondo come una certa costellazione di significati; Lacan utilizza invece il tema del vuoto per installare nel cuore dell’esperienza un rapporto irriducibile alla pulsione e al godimento, una relazione con qualcosa che è radicalmente «fuori significato» e, potremmo dire, «fuori significante».

    Questo vuoto della Cosa, già nel Seminario VII e poi in seguito con l’elaborazione del concetto di oggetto a, diventa un vuoto causativo del desiderio: che la Cosa sia «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung»61 significa che essa non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto causa del desiderio, il vuoto che alle spalle del soggetto ne causa il desiderio mettendolo in movimento. L’esperienza del soggetto gravita attorno a questo vuoto inafferrabile che lo muove. Tra il soggetto e il godimento della Cosa si installa «il cerchio incantato»62 del linguaggio: la tensione verso il godimento assumerà così la forma della trasgressione di una barriera e quello del Seminario VII, come osserva Miller, è il paradigma del godimento impossibile63. Il vuoto mette in movimento il desiderio del soggetto verso la Cosa come oggetto del godimento pieno e assoluto, il cui raggiungimento tuttavia comporterebbe la distruzione dell’esperienza del soggetto, perché questa si sostiene precisamente sulla distanza tra i due poli: «la distanza tra il soggetto e das Ding […] è appunto la condizione della parola»64.

    In questo modo è la concezione stessa del soggetto che si modifica significativamente rispetto alla tradizione e all’esserci heideggeriano: l’accadere di questo «fuori significato» che è la Cosa intacca il soggetto e si incide nella sua carne, perché condiziona tutta la sua esperienza. Per richiamare l’espressione shakespeariana evocata dallo stesso Lacan, è quella «libbra di carne pagata dalla vita per farne il significante dei significanti»65: il soggetto paga il proprio ingresso nell’ordine simbolico con la perdita del godimento pieno e con la propria istituzione come soggetto radicalmente eccentrico in quanto desiderante. Come abbiamo letto, il reale primordiale che patisce del significante è sia quello del
    soggetto sia quello «esterno»: l’«al di là del significato» agisce dunque nell’istituirsi del soggetto come tale, per rimanere poi inscritto nello svolgimento di tutta la sua esperienza successiva. Il soggetto si istituisce proprio scindendosi tra l’ambito significante-linguistico e quel resto «fuori significato» che è la Cosa e tutta la sua esperienza consiste nell’oscillazione di questo rapporto, che è quel che ne scandisce il ritmo e ne scrive il dramma. In un certo senso, il soggetto stesso è la Cosa, non è più il Ci dell’essere, ma ex-iste la Cosa e il suo vuoto.

    Questo legame costitutivo tra soggetto e Cosa porta con sé anche l’importanza dei temi del supplemento e del resto per ripensare lo statuto del soggetto. Se il soggetto accade in quel movimento differenziale tra linguaggio e reale, se la Cosa è già sempre perduta e rappresentata da altra cosa, l’esperienza si istituisce a partire dalla cancellazione dell’origine e consiste nella serie dei ritrovamenti di oggetti sostitutivi che suppliscono a un’origine che non ha mai avuto luogo come tale. L’esperienza del soggetto si svolge dunque in quella che Derrida descrive come «la strana struttura del supplemento: una possibilità produce a ritardo ciò cui è detta aggiungersi» 66.

    Il linguaggio fa accadere correlativamente la Cosa come un resto reale al di là del simbolico: resto prodotto dal linguaggio e tuttavia non più assimilabile da esso, resto che il soggetto espelle da sé per costituirsi e che tuttavia continua ad accompagnarlo e a ossessionarlo, perché senza di esso in realtà il soggetto non si formerebbe. Il resto è il vuoto che permette il formarsi dell’esperienza «normale» del soggetto, la quale, pur rimuovendo quel vuoto o cercando di assimilarlo, resta sospesa ad esso.

    Il rapporto tra significato e al di là del significato è dunque anche il rapporto tra il soggetto e il suo resto, che resiste all’incorporazione dell’io sovrano ripetendosi e ritornando in ogni suo atto. Resto del simbolico e del suo soggetto, ma anche resto dell’essere, come abbiamo visto, in quanto è ciò che la questione dell’essere lascia fuori da sé determinando l’io come esser-ci. Il resto è tale innanzitutto rispetto al linguaggio, al sapere, alla teoria, ma non si dà se non per differenza da questi, non accadrebbe se il soggetto non si fosse innalzato al sapere e al linguaggio divenendo così il resto di sé, in questo doppio movimento che è tutta l’aporia del soggetto 67.

    40 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 61.
    41 Ivi, p. 62.
    42 Ivi, p. 64, corsivo nostro.
    43 Ivi, p. 67.
    44 Ivi, p. 84.
    45 Ivi, p. 119.
    46 Ivi, p. 141.
    47 Ivi, p. 165.
    Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan Nóema, 4-1 (2013)
    48 M. Heidegger, Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, HGA 7, 2000; tr. it. di G. Vattimo, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124. Sul rapporto Lacan-Heidegger a proposito di questa tematica cfr. M. Recalcati, La Cosa e la verità. Attraversare Heidegger, cit. 49 Ivi, p. 112.
    Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan Nóema, 4-1 (2013)
    50 Ibidem.
    51 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 142.
    52 Ibidem.
    53 Ivi, p. 143.
    Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan
    Nóema, 4-1 (2013)
    54 Ivi, p. 144.
    55 Ivi, p. 250. Questo passo si inserisce nel contesto di un’analisi del tema della pulsione di
    morte in Freud, analisi che mira a distinguere la nozione di pulsione dall’ambito della natura e della tendenza per farne emergere i legami con il significante e la storia. Da qui Lacan muove per criticare la prospettiva evoluzionistica, contro la quale intende mostrare «la necessità di un punto di creazione ex nihilo da cui nasce ciò che è storico nella pulsione. […] Senza il significante in principio, è impossibile articolare la pulsione come storica. E questo basta a introdurre la dimensione dell’ex nihilo nella struttura del campo analitico» (ivi, p. 251): quel che l’evoluzionismo non può spiegare è la produzione come «un ambito originale, un ambito di
    creazione ex nihilo, in quanto introduce nel mondo naturale l’organizzazione del significante»(ivi, p. 252).
    56 Ivi, p. 140.
    Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan
    Nóema, 4-1 (2013)
    57 Ivi, p. 144.
    58 Ivi, p. 141. Cfr. anche pp. 67-68.
    59 Ivi, p. 141.
    60 Ivi, p. 154.
    61 Ivi, p. 67.
    Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan
    Nóema, 4-1 (2013)
    62 Ivi, p. 160.
    63 Cfr. J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento, in Id., I paradigmi del godimento, introduzione di A.
    Di Ciaccia, tr. it. di S. Sabbatini, Astrolabio, Roma 2001, pp. 9-41, in particolare pp. 16 sgg. Rimandiamo a questo testo per una ricostruzione del ruolo del concetto di godimento e dei suoi rapporti con il significante nelle diverse fasi dell’opera di Lacan.
    64 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 81.
    65 Id., La direzione della cura, cit., p. 625. Lacan richiama la «libbra di carne» anche al termine de Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 373.
    66 J. Derrida, La voix et le phénomène, PUF, Paris 1967; tr. it. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno,
    introduzione di C. Sini, postfazione di V. Costa, Jaca Book, Milano 1997, p. 128.
    Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan Nóema, 4-1 (2013)

  7. Nutro il sospetto che l’essere dell’esserci (per usare una terminologia heideggeriana) non sia altro che una «Forma» con cui si presenta il «Tempo». Ovvero, la materia del nostro corpo è nient’altro che una concrezione del «tempo». E che il Linguaggio sia una concrezione secondaria del «tempo».

  8. Più che di tempo, io parlerei di metamorfosi; l’inevitabile evolversi delle cose scoraggia ogni tentativo di stabilità, intesa come approdo definitivo; ciò non ci impedisce, tuttavia, di essere, in ogni occasione,”testimoni”(osservatori/martiri) di ciò che accade, e tentare di migliorare per il futuro.Se riusciamo a lasciare un segno del nostro pensiero ,siamo dei privilegiati.

  9. L’esperienza ultima della fine .L’acquietarsi del tempo, la smaterializzazione dell’oggetto in se;il presupposto punto zero è un futuro inesistente.Dire il contraddire.

    L’stante stesso è quella che noi definiamo fine.

    L’istante, s.m. e la fine, f.s.

    L’uniformità dei generi.

    La creazione in vitro ,la stasi.

    La fissità:il presente , il passato, il futuro.

    L’autocombustione delle parole, la poesia.
    (da perseguire perseguitandola)

    (e poi non voglio sottrarmi: un libro meraviglioso
    La chimera di Sebastiano Vassalli)

    grazie per l’ospitalità
    Mauro Pierno

    p.s. nell’esposizione quantistica del tempo il contraddire è pasoliniano o brechtiano, in senso più europeo, è presuppone un linguaggio chiaro, didascalico,popolare. Uno sforzo, professori.

  10. Ricevo e pubblico il seguente Commento di Adam Vaccaro:

    Commento al post su Tempo e Adiacenza del 7/9/2016 di G. Linguaglossa

    La mia linea di ricerca, ribadita in scritti dedicati a un singolo autore o di impianto più generale, come in questo che l’amico Linguaglossa ha voluto riproporre e che ringrazio, prima di tutto perché è uno dei pochissimi capaci di dare spazio a concezioni e testi anche molto diversi dai propri. È un merito raro che ho perseguito anche con la mia ricerca, che con tutti i suoi limiti si è dedicata a forme persino opposte alla mia visione e alla mia scrittura.
    È la ricerca di un metodo che può risultare troppo articolato o complicato. Pazienza, certo è nata intrecciata a letture e scritture non solo di poesia, mai per me disgiunte da percorsi filosofici, sociologici, psicologici e scientifici. È stata sicuramente alimentata e si riallaccia alle visioni aperte dalla fenomenologia e dalle Nuove Scienze. Nel lungo percorso che da Kant perviene alle più recenti analisi dell’operatività mentale (compresi Ceccato e C. della Società di Metodologia Operativa), ho trovato poi corrispondenze – nel campo specifico delle scritture poetiche – in alcuni autori e critici, tra i quali Luciano Anceschi e Antonio Porta, che pervengono a una idea di poesia contraria “agli essenzialismi ante rem della poesia degli anni Trenta,  a favore di una poesia in re…, in cui il colore del suono nasce come dall’immagine…Una poesia che si faccia corpo, che si possa vedere e toccare… E nessuna resa alla natura, alle macchine, ai dati… l’oggetto è sempre una libera, impreveduta costruzione”, che rimarrebbe inerte, insignificante senza “una carica intensa di forze interiormente organizzate”.

    Gli oggetti, la Cosa, l’Altro, non possono attivare da soli quella interazione complessa tra soggetto e oggetto che chiamiamo esperienza. Altrettanto, non possono determinare da soli l’oggetto poetico, che (quanto più viene coinvolto il livello inconscio) rimane progetto ignoto anche per chi lo costruisce. Tuttavia, senza di essi (oggetti, ecc.) non esistono ipotetici ante schematicamente immaginati, né si costruisce un testo per partenogenesi linguistica autonoma, se non è attivato da un operatore (un operatore, beninteso, che non è solo l’Io, se si apre lo spettro del cristallo soggettivo).
    L’olio e l’aceto rimangono irriducibilmente e reciprocamente altro, non possono fondersi e far nascere l’acetolio, possono al massimo essere emulsionati riducendo le separatezze macroscopiche, al fine di far sentire il sapore complesso degli umori dell’uno e dell’altro. Ma occorre un operatore che lo sappia fare.

    La lingua che parla da sola è un mito visionario lacaniano, di una lingua-soggetto che non esiste. La mia ricerca è perciò fuori da ogni fuoco chiuso nell’esercizio linguistico, in autoappagati jeu de mots iperletterari, con correlativa ideologia del testo per la quale “il testo è tutto”. Il testo è parte (della vita) che, come ogni altra cosa, non basta a se stesso. È una linea anomala e minoritaria, dantesca, rispetto a forme più consone a petrarchismi o a impostazioni ontologiche astratte, spiritualismi di qualunque tipo o separatezze insormontabili tra arte e vita.
    Per me Poesia, non ha a che fare con l’Essere, che agnosticamente non conosco, ma con gli esseri che vivono o sono vissuti dando sangue, emozioni e pensieri al flusso incessante della vita. Per me il fare del poièin è qualcosa di materico e fortemente innervato nell’esperienza dolorosa-gioiosa che ognuno fa nel corso della sua esistenza. Un filo d’erba o un tronco, senza scambi col terreno del contesto, non esisterebbero. La poesia non è niente di diverso da ogni processo di metamorfosi che prende e restituisce qualcosa del processo vitale.

    Tale processo, da me chiamato Adiacenza, si fonda su tensione alla totalità e sulla molteplicità di cui siamo fatti. La nostra soggettività, come tutto il resto, è molteplice, non nel senso di banali sfaccettature e modalità d’essere che si succedono, ma di un intreccio fenomenologico tra fondamentali operatori mentali dei vari livelli della nostra identità (biologica e psico-sociologica), individuati in modi diversi prima da Freud e poi approfonditi dalle Nuove Scienze. I vari livelli – per semplificare: testa-pancia-cuore o Io-Es-Superìo che dir si voglia – sono sempre variamente coinvolti in tutto quello che facciamo e diciamo, ed è possibile vederlo attraverso i vari linguaggi (algoritmici e dei sensi) di cui è fatto il nostro corpomente.
    Prima di elaborare una critica, per me è prioritario aprire e dis-piegare i vari microtesti costituenti un testo, riconnettendoli alle modalità di questo o quell’operatore mentale (Io/Es/Sup). È un lavoro di analisi che evidenzia anche nodi linguistici riconducibili a più operatori. Vedi ad esempio il dantesco: “E caddi come corpo morto cade”, in cui operano le modalità narranti dell’Io, la condivisione emozionale dell’Es, intrecciate al giudizio etico del Superìo sulle logiche del contesto. È un esempio di bilocazione dello stesso frammento di testo in più operatori e livelli mentali, che moltiplica sensi e rottura degli scudi, e riconduce alle ricerche della fisica quantistica su particelle subatomiche contemporaneamente presenti in più luoghi, per cui ho chiamato tali frammenti di testo “Gatti di Shroedingher”, dal nome del fisico che per primo fece queste ipotesi.

    A considerazioni analoghe sono pervenuto quando ho analizzato un testo come L’infinito leopardiano, in particolare il finale “naufragar m’è dolce in questo mare”, verso che articola e trasmette uno di quei momenti (fragili quanto necessari) in cui la prassi di guerra ordinaria tra le parti del Sé si interrompe, per un attimo di pace, un attimo che è di orgasmo mentale, attraverso una forma che dice e fa (per chi l’ha scritta e per chi legge) un’azione liberante, perché riproduce la dinamica fisiologica dell’Eros. Vediamo anche questo brano di Antonio Porta, che esprime bene la tensione adiacente tra frammento di vita/testo e totalità: 

    Ogni gesto è infinito
    quando uno è solo in una stanza
    rallentato quasi allo zero
    anche solo stappare una bottiglia
    osservare un bicchiere vuoto
    alzarsi per nascondere l’orologio
    (un suono spalanca il silenzio
    dichiara il tempo abolito). 

    Un testo che genera sensi dell’esperienza in atto tra sé e altro da sé, che ha bisogno di generare musica e calore di un corpo vivo. Poesia in azione (pur in un paradossale fermo immagine di “tempo abolito”, di un platonico attimo d’infinito). L’importante è, come dice Alfredo de Palchi, che il testo si muova, trasmetta moto di carne e pensiero, parola materiale e lirica, come auspicato da Leopardi.

    L’Adiacenza alla propria molteplicità intrasoggettiva e a quella intersoggettiva non vuol dire né vicinanza né confusione tra Cosa e Parola, vuol dire un aiuto a fare quella “cultura di chi ha coscienza di sé e del tutto” (come diceva Gramsci), cercando continue messe a fuoco, tramite i mille linguaggi interni ed esterni che fanno la vita…parlare di “linguaggio” (pensando che quei segni algoritmici che ci siamo costruiti siano i soli alimenti di pensiero) è impoverire la Cosa immensa che siamo. E che la poesia incarna quanto più tutte le lingue del corpo entrano nel corpo del testo. 

    La mia tensione è quella di cavalcare ogni frammento (Il titolo di un mio libro è “Strappi e frazioni”) per ricondurlo a lampo orgasmatico di totalità, pur sapendo che questa è imprendibile. Ma è questa tensione che mi spinge e mi ha spinto a scrivere. Che nasca da questa o quella parte o livello (mentale) della soggettività, da un frammento o l’altro di esigenze e mancanze che dettano suoni e immagini, e sembra vengano dal nulla, è secondario. Sarà sempre una chiamata verso l’altro da sé, perché non può bastare come in biologia un atto masturbatorio per dare vita e mettere in azione il poièin.

    12 settembre 2016
    Adam Vaccaro

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