Giorgio Caproni (1912-1990) – Poesie  – Antologia – con un Commento di Rossana Levati

bello il vuoto

Ad portam Inferi (da Versi Livornesi ne Il seme del piangere, 1952-1958)

Chi avrebbe mai pensato, allora,
di doverla incontrare
un’alba (così sola
e debole, e senza
l’appoggio di una parola)
seduta in quella stazione,
la mano sul tavolino
freddo, ad aspettare
l’ultima coincidenza
per l’ultima destinazione?

Posato il fagottino
in terra, con una cocca
del fazzoletto (di nebbia
e di vapori è piena
la sala, e vi si sfanno
i treni che vengono e vanno
senza fermarsi) asciuga
di soppiatto – in fretta
come fa la servetta
scacciata, che del servizio
nuovo ignora il padrone
e il vizio – la sola
lacrima che le sgorga
calda, e le brucia la gola.

Davanti al cappuccino
che si raffredda, Annina
di nuovo senza anello, pensa
di scrivere al suo bambino
almeno una cartolina:
“Caro, son qui: ti scrivo
per dirti…” Ma invano tenta
di ricordare: non sa
nemmeno lei, non rammenta
se è morto o se è ancora vivo,
e si confonde (la testa
le gira vuota) e intanto,
mentre le cresce il pianto
in petto, cerca
confusa nella borsetta
la matita, scordata
(s’accorge con una stretta
al cuore) con le chiavi di casa.

Vorrebbe anche al suo marito
scrivere due righe, in fretta.
Dirgli, come faceva
quando in giorni più netti
andava a Colle Salvetti,
“Attilio caro, ho lasciato
il caffè sul gas e il burro
nella credenza: compra
solo un po’ di spaghetti,
e vedi di non lavorare
troppo (non ti stancare
come al solito) e fuma
un poco meno, senza,
ti prego, approfittare
ancora della mia partenza,
chiudendo il contatore,
se esci, anche per poche ore”

Ma poi s’accorge che al dito
non ha più anello, e il cervello
di nuovo le si confonde
smarrito; e mentre
cerca invano di bere
freddo ormai il cappuccino
(la mano le trema: non riesce
con tanta gente che esce
ed entra, ad alzare il bicchiere)
ritorna col suo pensiero
(guardando il cameriere
che intanto sparecchia, serio
lasciando sul tavolino
il resto)
al suo bambino.

Almeno le venisse in mente
che quel bambino è sparito!

E’ cresciuto, ha tradito,
fugge ora rincorso
pel mondo dall’errore
e dal peccato, e morso
dal cane del suo rimorso
inutile, solo
è rimasto a nutrire,
smilzo come un usignolo,
la sua magra famiglia
(il maschio, Rina, la figlia)
con colpe da non finire.

Ma lei, anche se le si strappa
il cuore, come può ricordare,
con tutti quei cacciatori
intorno, tutta quella grappa,
i cani che a muso chino
fiutano il suo fagottino
misero, e poi da un angolo
scodinzolano e la stanno a guardare
con occhi che subito piangono?
Nemmeno sa distinguere bene,
ormai, tra marito e figliolo.
Vorrebbe piangere, cerca
sul marmo il tovagliolo
già tolto, e in terra
(vagamente la guerra
le torna in mente, e fischiare
a lungo nell’alba sente
un treno militare)
guarda fra tanto fumo
e tante bucce d’arancio
(fra tanto odore di rancio
e di pioggia) il solo
ed unico tesoro che ha potuto salvare
e che (lei non può capire)
fra i piedi di tanta gente
i cani stanno ad annusare.
“Signore, cosa devo fare”
quasi vorrebbe urlare,
come il giorno che il letto
pieno di lei, stretto
sentì il cuore svanire
in un così lungo morire.

Guarda l’orologio: è fermo.
Vorrebbe domandare
al capotreno. Vorrebbe
sapere se deve aspettare
ancora molto. Ma come

come può, lei, sentire,
mentre le resta in gola
(c’è un fumo) la parola,
ch’è proprio negli occhi dei cani
la nebbia del suo domani?

bello Ferdinando Scianna 6

Ferdinando Scianna, fotografia

Commento di Rossana Levati

Il primo Caproni propone spesso al lettore testi di dimensioni inusuali per l’epoca: testi lunghi, con un impianto colloquiale-narrativo, in anni in cui la poesia italiana è attraversata dalle prove di una lirica condensata, di stampo ermetico, che predilige le folgorazioni, le illuminazioni, la proposta di un linguaggio criptico e alto.
Tuttavia, sia ad una impressione visiva che alla prova di una lettura ad alta voce, qualcosa nel ritmo non è così apertamente esplicito, così apertamente narrativo come l’impianto apparentemente colloquiale  può far sembrare a prima vista.
Colpiscono infatti le parentesi, che spezzano il verso, che inseriscono un contro-canto a voce bassa, la rifrazione interiore del pensiero del poeta, come se la poesia scorresse su due tempi, uno esterno, dichiarato al lettore, e uno interno che scorre sui suoi binari (le parentesi appunto) nella mente dell’autore. Uguale funzione hanno i continui enjambement che prolungano il verso nel successivo ma impongono per ciò un ritmo diverso, inaspettato, quasi claudicante, con il verso che va spesso a spezzarsi e concludersi là dove non ci si aspetta. In questo ritmo così frantumato tuttavia la musicalità, quella di Caproni, di cui vale la pena ricordare gli studi di violino e di armonia musicale e la grande passione  per le opere liriche (da Mascagni a Weber), è continuamente ricercata in un gioco di rime e assonanze che prosegue regolarmente, da un verso all’altro.
“Ad portam Inferi”  fa parte della raccolta Il seme del piangere,  composta per la morte della madre Anna Picchi, e presenta i nuclei principali della poesia di Caproni; quello che Omero, agli inizi della letteratura occidentale, immagina come luogo dell’ultimo incontro tra Odisseo e la madre Anticlea, l’oscuro paese dei Cimmeri avvolto dalle nebbie, dove i morti non hanno più memoria di sé è una stazione piena di fumo e nebbia, in cui la madre è passeggera provvisoria; il tavolino freddo su cui poggia la mano, il cappuccino freddo che cerca di bere sono i segni di questo luogo di attesa; siamo fuori dal tempo, l’orologio è fermo, e nessuno può dare indicazioni sulla meta del viaggio, il capotreno non c’è o non può dare notizie, i treni “vengono e vanno senza fermarsi” e aprono e chiudono le porte vuote da cui nessuno sale o scende. I segni della non-vita  ci sono tutti: le chiavi di casa sono state scordate, l’anello del matrimonio di Anna non è più al dito, lei stessa vorrebbe ricordare ma non ricorda e nella sua mente marito e figlio si sovrappongono, né sa concludere le frasi appena iniziate sulla cartolina di saluti… Nell’inquietante e angosciosa sala d’aspetto si aggirano solo cacciatori e cani, che annusano il fagottino di Anna e riflettono nel loro sguardo liquido e triste “la nebbia del domani” che la attende: forse ultima allusione alla caccia infernale, non più violenta come quella dantesca ma mesta e dimessa, dove la preda – Anna si è già arresa da tempo. Il “cane del rimorso” ancora invece insegue il poeta che, come dice in un altro testo della raccolta, “Ultima preghiera”, vorrebbe pregare la sua anima di consegnare ad Anna-Annina un ultimo saluto, che la farebbe arrossire perché è una parola d’amore mandatale da “suo figlio, il suo fidanzato”.

bello Ferdinando Scianna 7

Ferdinando Scianna fotografia

Il fischio (1961), da Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1960-1964)

(parla il guardacaccia)

Non credo che questo sia
il fischio del bracconiere.
C’è troppa nebbia. Comunque
(qui son le carte) finite
voi la partita. Io
(potete continuare a bere
anche per me) conosco,
né posso esimermi, quello
ch’è il mio preciso dovere.
Qualsiasi richiamo nel bosco
oda insolito, uccello
o altro agente ce sia,
devo andare a vedere.
Porgetemi per cortesia,
è lì a quel chiodo, il fucile
ed il mio cartucciere.
Intanto (scusate: ci vuole,
col freddo che m’aspetta)
lasciate ch’io mi versi ancora
-ultimo- quest’altro bicchiere.

Nel vino, a saper ben vedere,
c’è scienza-c’è illuminazione.
Ma voi, senza una ragione
al mondo, voi perché ora
ch’io sono pronto, e il cuore
già ho fatto allegro, ancora
voi mi state a guardare
a quel modo, quasi
con l’aria di chi sospetta
qualcosa, né si vuol pronunciare?

Vi vedo, o mi sbaglio, tremare,
agli angoli, la bocca?
Amici, posso anche sbagliare;
ma questo, comunque, vi dico,
e una volta per tutte:
temere fuori il nemico
(vi ripeto: il fucile!)
è cosa, prima ancora che vile,
a parer mio troppo sciocca.

Porgetemi anche le cartucce
e rimettetevi a bere.
Dovreste almeno sapere
che quando s’è avuto una piuma
sul cappello, e in sorte
stivali e gabbana verde,
per non dir altro si perde
il tempo, pensando alla Morte.

Vedete, una volta vivevo
sul mare. Stavo a Livorno.
Che città! Dal Forno
Mascagni fino ai Quattro Mori,
un vento profondo sbiancava
le piazze, mentre vibrava
nei vetri la sirena
marittima dei vapori.

Uscivo di rado. Fuori,
rammento, circolava
un’aria che mi sgomentava
di solitudine. Eppure,
sapeste come si popolava
quel vento, e che figliole
passavano, tra sassaiole
fitte di ragazzacci
aizzati, che si sgolavano,
per troppo amore, in ingiurie.

Traetene la conclusione
che più v’aggrada. Io…
Non so se voi crediate in Dio
o ad altro. Per conto mio
– occhio! La stufa fuma,
e può annerirvi la piuma
annerendo la stanza-
tutto ciò ha un’importanza
relativa. Piuttosto
(ne parleremo insieme
qui, al mio rientro)
ficcatevi bene in testa
quanto ancora vi dico:
che vale temere il nemico
fuori, quand’è già dentro?

Il guardacaccia, caccia
od è cacciato. Questa
è una norma sicura.
Al diavolo perciò la paura,
giacchè non serve, Tanto,
in tutti noi non resta
-sola- che la certezza
già da tempo in me sorta:
chi fabbrica una fortezza
intorno a se’, s’illude
quanto, ogni notte, chi chiude
a doppia mandata la porta.

Lasciatemi perciò uscire.
Questo, io vi volevo dire.
Per quanto siano bui
gli alberi, non corre un rischio
più grande di chi resta, colui
che va a rispondere a un fischio.

Quanto l’immagine del cacciatore, presente in “Ad portam Inferi”, sia destinata a diventare ricorrente nella poesia di Caproni si vede già dal secondo testo, anch’esso della prima fase dell’opera di Caproni: “Il fischio”. Ancora un impianto narrativo, pronunciato dal guardacaccia, pronto a prendere il fucile e a uscire in perlustrazione in un imprecisato “fuori”, luogo da cui proviene un misterioso richiamo, forse il fischio di un bracconiere. Nel timore di tutti gli ospiti del tranquillo rifugio, turbati dal fischio, ai quali trema la bocca, il guardacaccia accetta serenamente il suo compito di uscire in perlustrazione, alla ricerca di un “nemico” oscuro, sapendo bene che il fuori non è più pericoloso del “dentro” e che chiudere la porta a doppia mandata non rende il luogo più sicuro. Tra i ricordi di una vita più libera, in un luogo diverso, a Livorno, sul mare, ma altrettanto attanagliato dalla solitudine, si fa strada una prima traccia, forse associabile al nemico: “Dio”, forse il nemico, al quale si potrà dare la caccia o da cui essere cacciati- inseguiti: “il guardacaccia, o caccia o è cacciato”. Nessuna certezza comunque emerge nella poesia sulla sua presenza o non-presenza nel mondo.

L’IDALGO (1965) da Il muro della terra (1964- 1975)

Deo optimomaximo

«Ma,» domandai (il vinaio
si forbiva la bocca
col pollice), «che ne è,» domandai,
«di quel vecchio (alto,
bell’uomo – un cappellaio,
credo) che tutte le sere
(lo chiamavano l’Idalgo)
“Salute a lei!” squillava
sollevando il bicchiere?»

L’altro, che ricontava
e ricontava sul banco
il contante, «ah Franco,
già…» ma io intanto
(io intanto) io dove ormai svagavo
con la mia mente – dove
finivano le parole
distratte, al grido
(«Salute a lei!» squillava)
già alzato dal rimorchiatore
allo scalo?… Udii,
di piombo, cadere le ore
dalla Torre. Pagai.
Uscii. E mai,
mai io (un cappellaio,
certo; bell’uomo) mai,
nel buio di quelle gialle
luci d’acqua, mai
io avevo avuto più freddo
nel mio gabbano – il solo
ricordo che di mio padre morto
(lo chiamavo l’Idalgo)
quel giorno, come ogni altro, ancora
mi coprisse le spalle.

Ed è alla figura di Dio che rimanda “L’Idalgo”: una fase diversa della poesia di Caproni, in cui il testo si abbrevia e diventa più enigmatico e denso, pur non perdendo il suo impianto colloquiale; permangono le frantumazioni del verso, le parentesi che apparentemente danno informazioni secondarie sul luogo, un’osteria avvolta dal fumo, e sul personaggio a cui si chiedono notizie, il vinaio. Ma è comunque in parentesi (“lo chiamavano l’Idalgo” tramutato in “lo chiamavo l’Idalgo) che avviene la rivelazione del personaggio di cui si chiedono notizie: il padre morto, di cui è rimasta l’eredità di un gabbano giallo, il cui nome viene al culmine di una lunga catena di ripetizioni: “mai, mai io, mai, mai io avevo avuto più freddo”); ed è però il sottotitolo, “Deo optimo maximo”, che ci rivela come padre e Dio si sovrappongano in questa poesia di dichiarata disperazione per una solitudine, un abbandono da parte di chi nessuna traccia della propria presenza ha lasciato nel mondo

giorgio caproni

Giorgio Caproni

Dopo la notizia, (1972) da Il muro della terra (1964 -1975)

Il vento… È rimasto il vento.
Un vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
muove su e giù sul grigio
dell’asfalto. Il vento
e nient’altro. Nemmeno
il cane di nessuno, che al vespro
sgusciava anche lui in chiesa
in questua d’un padrone. Nemmeno,
su quel tornante alto
sopra il ghiareto, lo scemo
che ogni volta correva
incontro alla corriera, a aspettare
diceva – se stesso, andato
a comprar senno. Il vento
e il grigio delle saracinesche
abbassate. Il grigio
del vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta. Un vento
lasco e svogliato – un soffio
senz’anima, morto.
Nient’altro. Nemmeno lo sconforto.
Il vento e nient’altro. Un vento
spopolato. Quel vento,
là dove agostinianamente
più non cade tempo.

 

Lasciando Loco (stessa data, stessa raccolta)

Sono partiti tutti.
Hanno spento la luce,
chiuso la porta, e tutti
(tutti) se ne sono andati
uno dopo l’altro.

Soli,
sono rimasti gli alberi
e il ponte, l’acqua
che canta ancora, e i tavoli
della locanda ancora
ingombri – il deserto,
la lampadina a carbone
lasciata accesa nel sole
sopra il deserto.

E io,
io allora, qui,
io cosa rimango a fare,
qui dove perfino Dio
se n’è andato di chiesa,
dove perfino il guardiano
del camposanto (uno
dei compagnoni più gai
e savi) ha abbandonato
il cancello, e ormai
– di tanti – non c’è più nessuno
col quale amorosamente
poter altercare?

Andantino (1973), da Il muro della terra (1964- 1975)

Così di rado l’ho visto
e, sempre, così di sfuggita.
Una volta, o m’è parso,
fu in uno dei più bui
cantoni d’un bar, al porto.

Ma ero io, era lui?

C’era un fumo. Una folla.
A stento, potei scorgerne il volto
fisso sulla sua birra svogliata.
Teneva la mano posata
sul tavolo, e piano
piano batteva le dita
sul marmo – quelle sue dita
più lunghe, pareva, e più magre
di tutta la sua intera vita.
Provai a chiamarlo. Alzai
anche un braccio.
Ma il chiasso.
La radio così alta.
Cercai,
a urtoni, d’aprirmi un passo
tra la calca, ma lui
(od ero io?) lui
già s’era alzato: sparito,
senza che io lo avessi incrociato.

Mi misi, muto, a sedere
al suo posto, e – vuoto-
guardai a lungo il bicchiere
sporco ancora di schiuma:
le bollicine che ad una
ad una (come nella mia mente
le idee) esplodevano
finendo – vuote – in niente.

Restai lì non so quanto.
Mi scosse la ragazza del banco,
e alzai il capo. Ordinai.

Poi, anch’io mi eclissai.

Foto Oxford

Il cercatore (1972) da Il muro della terra (1964- 1975)

Aveva posato
la sua lanterna sul prato.
Aveva allargato
le braccia. Tutto
quel sole. Tutto
quel verde scintillio d’erba
per tutto il vallone.
Era scoraggiato.
«Come
può farmi lume,»
pensava. «Come
può forare la tenebra,
in tanta inondazione
di luce?»
Piangeva,
quasi. S’era
coperta la faccia.
Si premeva gli occhi.
Aveva
perso completamente,
con la speranza, ogni traccia.

Determinazione (1976) da Il franco cacciatore (1973-1982)

Non è arrivato nessuno.
Tutti sono scesi.
Uno
(l’ultimo) s’è soffermato
un attimo, il volto nel lampo
dell’accendino, poi
ha preso anche lui – deciso –
la sua via.

Ci siamo
guardati.

Lo avremmo
pugnalato, lui
(l’ultimo!) che pur poteva,
doveva necessariamente
esser lui, se lui
non era giunto.

Lo abbiamo
lasciato passare diritto
davanti a noi.

E solo
quand’è scomparso, il deserto
ci è apparso chiaro.

Che fare.

Inutile aspettare,
certo, un altro treno.
Il testo
era esplicito.
O qui,
e ora,
o…
nulla.

Siamo
venuti via.

Abbiamo
voltato le spalle al vuoto
e al fumo.

Abbiamo
scosso le spalle.

Faremo,
ci siamo detti, senza
di lui.

Saremo,
magari, anche più forti
e liberi.

Come i morti.

È lui, Dio, (“doveva necessariamente essere lui”), colui che se ne va sceso dall’autobus in “Determinazione”: così si comprende lo strano esordio che ha un senso capovolto: “tutti sono scesi” sì, ma “non è arrivato nessuno”, non è arrivato chi era atteso. Un Dio che si vorrebbe raggiungere come preda, conquista della propria caccia, che si vorrebbe “uccidere” per poterlo almeno possedere, ma che è sparito così in fretta che non resta che rassegnarsi a “fare a meno di lui”, pur sapendo che quello che rimane intorno a noi è, per vari motivi, interni o esterni alla storia dell’uomo, nient’altro che un “deserto”.
Del resto in “Lui” si descrive una caccia collettiva, in cui tutti sono nel bosco, “alla battuta”, da molto tempo, più di un anno. Ma al loro ritorno troveranno quello che non si aspettano: “lui, / che loro hanno ucciso, qui/ più vivo e più incombente / (più spietato) che mai”.
Una variazione, ma ancora più disperata, sul tema è la poesia “Andantino” del 1973: ancora un’osteria piena di fumo e di un vociare indistinto, un volto appena intravisto nella calca, il tentativo della voce narrante di prendere il posto lasciato vuoto da “lui”, il dubbio angoscioso sull’assenza di identità: “ero io, era lui?”, il niente in cui esplodono le bollicine del bicchiere di birra lasciato a metà, e l’eclissi totale, prima di Dio, poi dell’io del poeta.
E se numerose sono in Caproni le figure della guida, del cacciatore, nessuno dei quali sa però dare indicazioni sulla meta del viaggio e neppure su cosa si cerchi, colpisce la figura del “Cercatore” che da’ il titolo a una poesia: il suo pianto perché ha perduto ogni traccia di ciò che cercava, perché la lanterna (lo strumento della ricerca) si rivela inutile in un mondo dove tutto è troppo chiaro, manifesto, dove tutto assume la parvenza della esemplarità e della semplicità: “troppa luce” ha cancellato le tracce e la ricerca si deve interrompere, perché ogni vera ricerca deve avvenire al buio, nella paziente indagine delle tracce, nel faticoso inseguimento dell’obiettivo.
“Lasciando Loco” e “Dopo la notizia” tornano a uno scenario apocalittico, da fine del mondo, a cui si allude anche in altri testi come “L’idrometra”. La fine del mondo è la notizia che il foglio di giornale, non più letto da nessuno (il “vento analfabeta”) ma sollevato da un vento “lasco”, porta nelle vie disabitate. Nel mondo vuoto, dove non c’è nemmeno il “cane di nessuno”, dove il tempo si è fermato (“agostinianamente più non cade tempo”), dove “perfino Dio se n’è andato di chiesa”, rimane un deserto con una inutile lampadina “lasciata accesa nel sole sopra il deserto”, inutile ancora una volta per far luce, la locanda dove si cercavano notizie dell’Idalgo è vuota, con i tavoli ancora ingombri ma privi di avventori, poiché tutti sono partiti. In questo mondo vuoto non ha più senso restare, né fare domande. “O qui, e ora, o..nulla”, come si dice in “Determinazione”: le parole ridotte a un aut-aut; la musicalità frammentata, e il “nulla” che occupa l’intero verso.
E ancora, in un altro testo insolitamente lungo e narrativo in questa fase della poesia di Caproni come “Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia” l’ultimo abitante di un borgo montano, legato ai suoni di un bosco, di un fiume e dell’erba, mentre “tutti/ han preso la stessa via” dichiara di prepararsi al suo viaggio, diretto verso un luogo ambiguo, evocato con un termine dantesco, un “vallone”: “Staccherò/dal muro la lanterna/un’alba, e dirò addio/al vuoto. A passo a passo /scenderò nel vallone”.

giorgio caproni (2)CAPRONI, Giorgio Nacque a Livorno il 7 gennaio 1912, secondogenito di Attilio, ragioniere, e di Anna Picchi, sarta e ricamatrice.  La città portuale toscana si iscrisse nel mondo dei suoi ricordi più antichi, nella mitica luce delle origini e degli affetti primigeni, trasfigurati, attorno alle figure dei genitori, in un coefficiente poetico sentimentale e metricamente impeccabile. Esemplari di questa idealizzazione furono i Versi livornesi, concepiti dopo la morte della madre e pubblicati nel suo libro più fine e popolare, Il seme del piangere (Milano 1959).

Le figure dei genitori

Anna Picchi era nata a Livorno nel 1894, da Gaetano e da Fosca Bottini. Impiegata sin da ragazza nel magazzino Cigni, rinomata casa di moda livornese, dopo il matrimonio continuò a lavorare come sarta in laboratori che attrezzava in casa. Amava suonare la chitarra, frequentare i circoli cittadini e ballare. Morì a Palermo il 15 febbraio 1950 e fu sepolta nel cimitero di S. Orsola presso il fiume Oreto.

Meno fertili poeticamente ma non meno intensi furono i rapporti di Caproni con il padre che la domenica lo guidava, mano nella mano, in compagnia del fratello Pier Francesco, di lui maggiore di due anni, in lunghe passeggiate presso le livornesi piane degli Archi a spiare il ritorno dei cacciatori di lepri. Oppure, durante le vacanze estive, organizzava le gite a San Biagio, nelle campagne dell’Alta Maremma, nella tenuta di Cecco, un allevatore e domatore di cavalli che segnò in modo indelebile la sua personalità. «Lontano dalla mal’aria,/ domerò la mia vita/ come domavi le tue cavalle/ ombrose,/ tutte slanci ed inutili corse» (A Cecco, in L’Opera in versi, 1998, p. 9). Attilio lavorava in una ditta di importazione del caffè e si occupava dell’amministrazione del teatro Avvalorati di Livorno. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, rimasto disoccupato per il fallimento della ditta livornese dei Colombo, fu assunto dall’azienda conserviera Eugenio Cardini situata a Genova nel palazzo Doria. Suonava il violino e il mandolino e amava leggere la poesia italiana delle origini e la Commedia, che acquistava in edicola nell’edizione in dispense pubblicata dalla casa editrice Nardini di Firenze con le illustrazioni di Gustave Doré. Morì a Bari il 21 febbraio 1956.

L’infanzia di Caproni fu condizionata dalle difficili condizioni economiche in cui la famiglia precipitò dopo il richiamo in guerra del padre e i tumulti sociali e politici che prepararono l’avvento del fascismo. Da un’elegante palazzina di corso Amedeo (ove Giorgio era nato), presto dovettero trasferirsi nella popolare via Palestro in un appartamento dove conobbero i disagi della coabitazione forzata con una coppia di lontani parenti, Itala e Pilade Bagni. Nel 1922, dopo la nascita della terzogenita Marcella e una breve sosta a La Spezia, si trasferirono a Genova dove continuò la ridda dei traslochi: da via S. Martino a via Michele Novaro, da via Bernardo Strozzi a piazza Leopardi. Se Livorno era stata la simbolica città della madre, Genova rappresentò per Caproni il luogo della formazione umana e culturale: «Genova sono io. Sono io che sono ‘fatto’ di Genova» («Era così bello parlare»…, 2004, p. 107). Ma segnò anche l’inevitabile epilogo della infanzia: «Genova della Spezia./ Infanzia che si screzia./ Genova di Livorno,/ partenza senza ritorno» (Litania, in L’Opera in versi, 1998, p. 178).

Scuola, musica e poesia

Iniziati gli studi elementari presso le suore dell’Istituto del Sacro Cuore, li proseguì nella scuola comunale del Gigante, «un quartieraccio» di Livorno («Era così bello parlare»…, 2004, p. 81) e li completò a Genova, nella scuola Pier Maria Canevari. Si iscrisse quindi alla scuola tecnica Antoniotto Usodimare, contemporaneamente dedicandosi, incoraggiato dal padre, allo studio del violino. A 13 anni si diplomò in composizione all’istituto musicale Giuseppe Verdi, in salita S. Caterina. Di giorno si esercitava su corali a quattro voci prima pescando le parole da Poliziano, Tasso, Rinuccini, poi provvedendovi di testa sua. Di notte suonava il violino nell’orchestrina di un dopolavoro. A 18 anni, dovendo contribuire al magro bilancio famigliare, accettò l’incarico di fattorino presso lo studio legale dell’avvocato Colli in via XX settembre. Alla fine, con una sofferta decisione, rinunciò agli studi musicali.

La musica tuttavia restò in lui viva per sempre, quasi come una controprova all’armonia intrinseca alla poesia. Il classicismo dissonante di Stravinskij fu riversato nel pathos esclamativo dei sonetti sperimentati negli anni Quaranta e la sua passione per il melodramma romantico influenzò la struttura delle ultime raccolte. Il franco cacciatore (Milano 1982) prese il titolo dall’omonima opera di Carl Maria von Weber, mentre Il conte di Kevenhüller (ibid. 1986), titolo scelto «per il suo sapore operettistico» fu diviso in tre sezioni: Il Libretto, La Musica e Altre cadenze (v. Apparato critico, in L’Opera in versi, 1998, pp. 1627 s.). Nei lavori preparatori della raccolta postuma Res amissa (Milano 1991) alcune poesie furono scandite in sillabe e trascritte direttamente sui righi di uno spartito musicale.

Sempre di più la poesia occupava i suoi giorni e la sua mente. Già con i compagni di studio del violino e in particolare con l’amico Adelio Ciucci, «in quella brulla Piazza Martinez» dove si recava ogni giorno dalla sua casa di S. Martino, aveva scoperto in «disordinate e infatuate letture» la poesia moderna, contrapposta, «con una boria scusata soltanto dall’età», alla poesia insegnata a scuola (Un ricordo un debito, in La Fiera letteraria, 28 giugno 1959). Nel 1932 inviò i suoi primi versi ad Adriano Grande, direttore della rivista genovese Circoli, che li rifiutò. Pochi mesi dopo, portando dentro di sé «una specie di minima antologia del cuore» composta da Ungaretti, Montale, Saba, Sbarbaro, se ne andò «a far da cappellone» nel 42° reggimento fanteria di stanza a Sanremo, dove rimase dal settembre 1933 all’agosto  1934 (Attorno al 1930, in Il Caffè politico e letterario, IV [1956], febbraio, pp. 13 s.). Maturò nelle lunghe ore di guardia molti fra i nostalgici idilli dai contorni stilnovistici che sarebbero confluiti nella sua prima plaquette: Come un’allegoria (Genova 1936). Avendo perso tempo con il servizio militare, si preparò agli esami delle magistrali privatamente, supportato da un professore di larghe vedute, l’antifascista Alfredo Poggi che lo introdusse alla riflessione filosofica. Per conto suo lesse Agostino, Kierkegaard e scoprì lo scetticismo leopardiano di Giuseppe Rensi. Approfondì Dante e i classici italiani, appassionandosi soprattutto agli autori latini, non solo Catullo, Virgilio, Lucrezio, ma anche Cesare e Minucio Felice. Si diplomò nel 1935, al cospetto di una commissione presieduta da Ugo Spirito.

Maestro elementare e poeta

S’iscrisse quindi all’istituto superiore di magistero di Torino ma a soli 23 anni prese servizio come maestro elementare a Rovegno, «un adorabile paesino montano» dell’Alta Val Trebbia, situato al 54° chilometro della statale numero 45 tra Genova e Piacenza (Due inediti di Giovanni Boine, in La Fiera letteraria, 6 settembre 1959). Cominciava una faticosa carriera che si protrasse dal dicembre 1935 al dicembre 1973: una scelta professionale quasi obbligata e tuttavia mai rinnegata, anzi stoicamente difesa dalle accuse che scaturivano dall’«ignoranza» presuntuosa dei tecnici ministeriali (I due analfabetismi, in Il Caffè…, III [1955], luglio-agosto, pp. 14 s.).

La frazione Loco di Rovegno divenne la sua ‘piccola patria’, snodo e paesaggio chiave di un destino. Nel marzo 1936 la sua fidanzata Olga Franzoni, una ragazza genovese che lo aveva seguito nonostante la salute precaria, morì di setticemia poco prima delle nozze. Travolto dallo choc, sprofondò in una grave crisi psicologica. Al poeta Carlo Betocchi, primo recensore di Come un’allegoria, con il quale intrecciò dal 1936 al 1986 uno splendido diario epistolare, il 7 aprile 1937 confessò la tentazione di farla finita con la poesia: «Forse tutto il mio mondo era legato a quella che se n’è andata. Forse su lei poggiava tutta la mia certezza» (Una poesia indimenticabile…, 2007, p. 64). Fu quello il primo dei suoi innumerevoli congedi.

Nell’anno scolastico 1936-37 insegnò ad Arenzano, cittadina della Riviera di Ponente e a Casorate Primo, in provincia di Pavia. Superò la crisi del 1937 grazie a una ragazza di Loco, Rosa Rettagliata che sposò nella chiesina del suo villaggio nell’agosto 1938, dopo aver pubblicato la sua seconda plaquette, Ballo a Fontanigorda (Genova 1938). Da allora trascorse tutte le sue estati in Val Trebbia nella casa della moglie.

Olga Franzoni e Rosa, indicata anche con il nome di Rina, inizialmente si sovrapposero nell’immaginario caproniano, per divergere poi radicalmente fino a incarnare i due opposti poli di un’antitesi. Il fantasma della fidanzata defunta lo perseguitò con l’effigie di una stagione sensuale e illusoria rappresentata nella gesticolazione sonora dei Sonetti dell’anniversario confluiti in Cronistoria (Firenze 1943). Nel poemetto Le biciclette, pubblicato dapprima nelle Stanze della funicolare (Roma 1952) e poi nella raccolta complessiva Il passaggio d’Enea (Firenze 1956), il suo ricordo, velato dal travestimento ariostesco di Alcina, divenne la perturbante icona del «tempo ormai diviso» dalla guerra (Le biciclette, in L’Opera in versi, 1998, p. 128). All’inverso Rina «dalle iridi grandi e azzurre e così delicatamente silenziose» (Alta Val Trebbia, in Augustea, 31 agosto 1939) incarnava le gioie e le angustie dell’amore coniugale sia in pace sia in guerra e fu spesso celebrata come il tenace strumento della vita che continua. «Se il mondo prende colore/ e vita, lo devo a te, amore» (A Rina, II, in L’Opera in versi, 1998, p . 911).

La guerra

Si trasferì a Roma il 1° novembre 1938. Ottenuto un posto di maestro di prima categoria, prese servizio nella scuola Giovanni Pascoli a Trastevere. Ma il suo primo soggiorno romano durò poco: con l’entrata in guerra dell’Italia, nella primavera del 1939 venne richiamato alle armi e rispedito a Genova, presso il distretto di Sturla. Nel giugno 1940 fu inviato tra i monti dell’estrema frontiera occidentale a combattere la fulminea campagna di Francia, raccontata nel diario di guerra Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali (Roma 1942). Quella esperienza che molti anni dopo avrebbe stigmatizzato come «un capolavoro di insensatezza» (C. D’Amicis, Caproni, in l’Unità, 21 agosto 1995), pur non annullando del tutto gli accenni celebrativi al vigente regime presenti in alcuni articoli pubblicati nella rivista Augustea tra il 1938 e il 1940, vi aveva però spalancato profonde crepe. Da Mentone fu dislocato ai confini orientali, a Vittorio Veneto, e tra il 1940 e il 1942 cominciò un periodo di continui spostamenti, tra Genova, la Val Trebbia, Roma e varie altre località dell’Italia centro-settentrionale, come Udine, Pisa, Assisi, Foligno, Tarquinia e Subiaco.

A Roma tornava ancora volentieri. La capitale infatti lo attirava, anzi lo «abbagliava» (Cronologia, in L’Opera in versi,, 1998, p. LV) con le vestigia e le rovine di un glorioso passato, dietro cui però scorgeva un retroscena luttuoso e magniloquente in cui il giovane provinciale si aggirava smarrito. Sin dal primo momento risolutore fu l’incontro con Libero Bigiaretti, narratore e intraprendente giornalista il quale gli aprì le porte dell’ambiente letterario e artistico legato all’editore romano Luigi De Luca, che gli pubblicò Finzioni (Roma 1941): raccolta lapidariamente definita dal ventinovenne poeta «l’epitaffio della mia gioventù» (Una poesia indimenticabile…, 2007, p. 65). Tramite Piero Bargellini entrò in contatto con Enrico Vallecchi, il prestigioso editore degli ermetici fiorentini che, dopo qualche esitazione, accettò di pubblicare Cronistoria, in cui, a una scelta delle poesie giovanili, si aggiungeva un sostanzioso nucleo di composizioni scritte nel 1942 durante i suoi coatti vagabondaggi.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo sorprese a Loco, in congedo provvisorio presso la famiglia dei genitori della moglie, accanto a Rina e ai due figli ancora piccoli: Silvana nata nel maggio 1939 e Attilio Mauro nel giugno 1941. Ripugnandogli l’idea di unirsi alle brigate della Repubblica di Salò, entrò nella resistenza partigiana attiva in Val Trebbia, pur svolgendo, in qualità di commissario del Comune di Rovegno, compiti quasi esclusivamente civili, come l’approvvigionamento del cibo e la riorganizzazione della scuola. Le scene di orrore di quei tragici 19 mesi, le violenze praticate dai mongoli alleati dei tedeschi sulla popolazione inerme, gli dettarono, accanto agli struggenti racconti della sua saga partigiana, tra i quali lo splendido Il labirinto (L’Opera in versi, 2008, pp. 138-164), i suoi versi più cupi e chiusi: I lamenti composti tra il 1944 e il 1947, raccolti nella sezione Gli anni tedeschi de Il passaggio d’Enea. Da allora in poi i monti della Val Trebbia gli offrirono il paesaggio più idoneo alla rappresentazione della guerra via via sempre più allegorica, dopo la svolta metafisica della sua poetica evidente in Acciaio, sezione centrale de Il muro della terra (Milano 1975).

Roma: angosce e amicizie

Nell’ottobre 1945 tornò a Roma, dove fino al 1949 trascorse «interminabili inverni di angoscia», abitando da solo prima a via Merulana, poi al quartiere Prati, poi ancora presso il cavaliere Domenico Gazzillo che gli affittava una camera della sua casa al n. 40 di via Goffredo Mameli, in Trastevere, ov’era situata anche la scuola presso cui aveva ripreso l’insegnamento (Frammenti di un diario (1948-1949), 1995, p. 44). Infine si trasferì a Monteverde, in viale Quattro Venti 31, in una piccola casa Incis, senza caloriferi e proprio «dirimpetto al lussuoso appartamento» di via Giacinto Carini dove, abbandonando Parma, era andato ad abitare Attilio Bertolucci (Una poesia indimenticabile…, 2007, p. 364).

Nel 1951 passò alla scuola Francesco Crispi per rimanervi sino al pensionamento. Non bastandogli il risicato stipendio di maestro correggeva le bozze nella «benedetta e dannata tipografia Tumminelli» (ibid., p. 74). Nella Roma del dopoguerra riprese i rapporti con Bigiaretti, divenuto direttore dell’ufficio stampa dell’Olivetti di Ivrea: a lui dedicò Le biciclette, scritto nel 1947 per le Olimpiadi della poesia di Londra, in cui si premiavano testi letterari ispirati allo sport. Rivide Giorgio Bassani, in cui si era imbattuto durante il servizio militare a Sanremo. Nel 1949 pubblicò su Botteghe oscure, La funivia, primo abbozzo, subito tradotto in inglese da William Weaver, del poemetto Stanze della funicolare, nucleo fondante del libro stampato con lo stesso titolo da De Luca nel 1951.

Grazie al critico fiorentino Ferruccio Ulivi nel 1950, pochi giorni dopo la morte della madre, conobbe di persona Betocchi, che a Roma alloggiava in via Soana vicino a piazza Tuscolo e la domenica riceveva volentieri gli amici. Caproni vi si recava spesso, da solo o insieme a Pasolini e Bertolucci. Betocchi si dimostrò un amico attento e generoso e più volte lo invitò alla rassegna radiofonica L’Approdo, commissionandogli tra l’altro i copioni, oggi perduti, di due puntate sulla Riviera ligure, la famosa rivista fondata e diretta da Mario e Angelo Silvio Novaro. Andate in onda il 29 novembre e il 20 dicembre 1954 furono poi sviluppate in una serie di articoli sulla cosiddetta linea ligustica nella poesia novecentesca italiana apparsi sulla Fiera letteraria nel 1956 e sul Corriere mercantile nel 1959.

Con il tempo aveva imbastito nuove amicizie: Giacomo Debenedetti lo pregò di aiutare il figlio Antonio per l’esame di ammissione alle scuole medie nell’anno scolastico 1946-47, e Pier Paolo Pasolini, fortunosamente sbarcato a Roma con la madre Susanna nel 1950, per qualche anno gli fece visita quasi ogni giorno instaurando uno scambio critico vicendevolmente proficuo. Determinante fu anche l’incontro con Bertolucci che – dal Seme del piangere in poi – avrebbe patrocinato il suo approdo alla Garzanti, per di più cercando di fargli ottenere dal ministero della Pubblica Istruzione un periodo di congedo dall’insegnamento. Il tentativo fallì a causa del suo carattere fiero e indipendente. Per lo stesso motivo non accettò mai un impiego stabile alla Rai, mentre dal 1966 al 1972, come consulente editoriale della Rizzoli, esaminò i manoscritti di testi narrativi inediti, italiani e francesi. Dal 1958, anno in cui Betocchi assunse l’incarico di redattore della trasmissione ribattezzata L’Approdo letterario, si moltiplicarono le letture radiofoniche delle sue poesie che trovavano spazio sulle pagine dell’omonima rivista durata fino al 1977.

Nell’estate del 1959 a Spotorno fu presentato dal poeta ligure Angelo Barile all’amatissimo Camillo Sbarbaro con cui mantenne sporadici, ma saldissimi rapporti. Sempre di più al lavoro poetico affiancò il mestiere del traduttore e del giornalista letterario. La politica attiva, nel senso militante del termine, non lo interessò mai fino in fondo. Vicino al Partito socialista italiano (PSI) nel 1945, non negò la sua firma ad alcuni dei più significativi giornali della sinistra, tra i quali Avanti!, l’Unità, Italia socialistaIl Politecnico, Il Lavoro nuovo, Vie nuoveMondo operaio di cui diresse la pagina letteraria. Nel 1948 si unì al I Congresso internazionale degli intellettuali per la pace tenuto a Breslavia in Polonia. In quell’occasione fece visita ad Auschwitz e ne rimase fortemente scosso. Ma negli anni Sessanta, al culmine della ripresa economica della nuova Italia consumistica, non tardò a esprimere la sua delusione e a deplorare le inadempienze dei politici nei confronti delle speranze del dopoguerra. Esemplare l’invettiva intitolata Lorsignori, una feroce requisitoria consegnata insieme al poemetto Lamento (o boria) del preticello deriso a Cesare Vivaldi per un’antologia di versi satirici («Han la testa sul collo,/ dicon loro. Di pollo./ I piedi sulla terra./ lavoran per la pace/ preparando la guerra» (Vivaldi, 1964, p. 127).

Il traduttore e il pubblicista

Il suo curriculum di traduttore vantò imprese di straordinaria importanza: il Tempo ritrovato di Marcel Proust, su incarico di Natalia Ginzburg (Torino 1951), Poesie e prosa di René Char (Milano 1962) poeta aristocratico e concettuale, di rocambolesca difficoltà, che Caproni sarebbe andato a visitare nel suo rifugio all’Isle-sur-la-Sorgue soltanto nel 1986. Altri titoli memorabili furono La mano mozza di Blaise Cendrars (Milano 1967), Il silenzio di Genova e altre poesie di André Frénaud (Torino 1967) che lo aveva aiutato nell’ardimentosa traduzione di Morte a credito  di Louis-Ferdinand Céline (Milano 1964). A quattro mani con Rodolfo Wilcock voltò in italiano Tutto il teatro di Jean Genet (Milano 1971) e nello stesso anno Rizzoli pubblicò le sue traduzioni dalla raccolta Non c’è paradiso di Frénaud che gli valsero nel 1973 il Premio Città di Monselice. Varie altre versioni da poeti francesi e spagnoli del Novecento sono state poi raccolte in un Quaderno di traduzioni postumo (1998). Con un caloroso elogio Mario Luzi lodò il suo proverbiale métier in grado di svelargli, magari proprio attraverso il confronto con poeti da lui diversissimi, le sue più segrete qualità: «Lo sviluppo della poesia di Caproni offre anzi un esempio raro nel panorama del tempo di maturazione sostanziale che si attua dentro un progressivo amoroso affinamento del mestiere; e dico del concreto mestiere di armeggiare con le parole e con i metri che è qualcosa di diverso dal puntualizzare la propria tecnica, lavoro che compete a ogni scrittore serio» (Ama davvero il mestiere, in La Fiera letteraria, 2 novembre 1967).

Frenetica, ma dall’autore ritenuta di minore importanza, fu anche l’opera del pubblicista che annoverava recensioni, elzeviri, interventi di poetica, riflessioni sul costume della nuova società nata con la Repubblica. Il rapporto più longevo fu con La Fiera letteraria. La collaborazione iniziò nell’ottobre 1946, s’intensificò nel 1957 in una specifica rubrica di poesia a lui intestata e nel 1958 continuò con «Il taccuino dello svagato», che ospitava una prosa in qualche modo inattuale sospesa tra elzeviro e memorialistica. Il contatto con la Fiera s’interruppe nel 1961 in segno di protesta contro la pubblicazione di un saggio di Vintilă Horia, scrittore franco-rumeno di tendenze antisemite e filonaziste. Nel 1962, su proposta di Romano Bilenchi, sostituì il critico letterario Giuseppe De Robertis nel giornale fiorentino La Nazione. L’ultimo articolo uscì il 24 aprile 1970.

Critico verso l’ideologia dell’impegno assunta dalla rivista Nuovi Argomenti fondata a Roma nel 1953 da Alberto Moravia e Alberto Carocci, manifestò dubbi anche nei confronti dell’eccessivo filoermetismo manifestato dal mensile di letteratura e d’arte diretto da Enrico Vallecchi, La Chimera, dove in ogni caso pubblicò Sono i poeti i misconosciuti legislatori del mondo, ispirato al famoso saggio di Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia. Pur esprimendo perplessità sulle potenzialità conoscitive del linguaggio, caldeggiava lo «scopo pratico» dei versi dei veri poeti «i quali devono essere anch’essi dei veri utensili per essere veramente utili e perciò per essere autentica poesia» (Versi come utensili, in Mondo operaio, 25 dicembre 1948). Nel 1957 si schierò in difesa della semplicità della poesia contro l’eccessiva intellettualizzazione auspicata dalla rivista Il Verri, fondata da Luciano Anceschi nel 1956.

Il «Grande Caproni»

Erano i tempi in cui le Stanze della funicolare resuscitavano il mito sbarbariano di una Genova sognata che il confronto con Roma, città ormai quasi aborrita, arricchiva di nostalgici sensi riposti. O in cui Il passaggio d’Enea riproponeva lo struggente mito dell’Enea genovese, inteso non come «la solita figura virgiliana, ma proprio la condizione dell’uomo contemporaneo della mia generazione» uscito dalla guerra da solo e con un imponente carico di responsabilità (Caproni, 1998, p. 1262). Mentre nel Seme del piangere, «in fondo, un libro-ricordo» («Era così bello parlare»…, 2004, p. 65) la leggenda di Annina, ricreata sfogliando vecchie foto di famiglia, aveva riportato in vita Livorno restituita a un suo mitico e indelebile spazio ideale per i morti più che per i vivi.

Il 26 gennaio 1960 esponeva a Betocchi il desiderio di «una fede più solida, non poetica né intermittente» (Una poesia indimenticabile…, 2007, p. 205). Erano i primi sintomi della crisi religiosa che si sarebbe manifestata nel tema della discesa al Limbo e dell’incontro con i morti affrontato con lucido disincanto nei poemetti del Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (Milano 1965) dedicato all’attore Achille Millo che ne fu per anni elegante e discreto lettore.

Nello stesso anno fu operato allo stomaco per un’ulcera gastrica. Nel 1968 prese in affitto un appartamento a via Pio Foà 49 dove visse fino agli ultimi suoi giorni. Nonostante il successo lo assillavano la solitudine e una tormentosa e paradossale patoteologia. Nel 1978 in una «Genova sepolta dalla neve» moriva il fratello Pier Francesco (Una poesia indimenticabile…, 2007, p. 319) e nel 1987 la sorella Marcella. Si moltiplicarono gli inviti e i viaggi all’estero. Nel giugno 1978, con la figlia Silvana, visitò per la prima volta Parigi, per una lettura di versi tenuta al Beaubourg, con Mario Luzi, Vittorio Sereni e Delfina Provenzali. Ne nacque la plaquette Erba francese (Luxembourg 1979). Tornò poi in Francia nel 1985 per conferenze e letture a Parigi, Grenoble, Avignone, Arles, Lione. Nel settembre 1978 fu invitato dall’Istituto italiano di cultura alla Columbia University di New York e alle Università di Berkeley e di Stanford in California a San Francisco. Nel maggio 1985 si recò a Vienna e nel 1986, sempre con Silvana, fu in Germania, a Münster e a Colonia, dove concepì lo spunto per la poesia Res amissa che avrebbe dovuto dare il titolo alla raccolta rimasta incompiuta e pubblicata postuma da Giorgio Agamben (Milano 1991). La sua opera cominciò a essere sistematicamente tradotta in francese da Philippe Renard e Bernard Simeone.

Numerosi i premi e i prestigiosi riconoscimenti. Con Stanze della funicolare vinse il premio Viareggio. Assieme a Montale, vincitore con La bufera e altro del premio principale e più cospicuo, Il passaggio d’Enea si aggiudicò il premio selezione Marzotto. Con Il seme del piangere (Milano 1959) tornò a vincere per la seconda volta il Viareggio e con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (ibid. 1965) il premio Chianciano. Nel 1982, in occasione dei suoi settant’anni, gli venne attribuito il premio Librex Eugenio Montale per la poesia e il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei. Il Conte di Kevenhüller è stato insignito con i premi Chianciano, Marradi Campana e Pasolini. Il 1° dicembre 1984 ricevette da Carlo Bo, rettore dell’Università di Urbino, la laurea honoris causa in lettere e filosofia, mentre nel 1985 gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Genova. Con la svolta de Il muro della terra che inaugurò la trilogia del «Grande Caproni» non modificò tanto le forme o i contenuti, ma ampliò la propria sfera di influenza nella poesia contemporanea. In seguito all’edizione economica complessiva di tutte le sue poesie dal 1932 al 1986 (Milano 1989) molti lo avvicinarono ai grandi maestri della poesia del Novecento, da Paul Celan a Samuel Beckett. Morì a Roma il 22 gennaio 1990 nella sua casa di via Pio Foà e fu sepolto nel cimitero di Loco, dove riposa accanto alla moglie Rina, morta nel 1993.

Opere Poesie 1932-1986,

 Milano 1989; Frammenti di un diario (1948-1949), a cura di F. Nicolao, con una nota di R. Debenedetti, introd. di L. Surdich, Genova 1995; La scatola nera, prefaz. di G. Raboni, Milano 1996; L’Opera in versi, ed. critica a cura di L. Zuliani, prefaz. di P.V. Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di A. Dei, ibid. 1998; Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, prefaz. di P.V. Mengaldo, Torino 1998; «Era così bello parlare»: conversazioni radiofoniche con G. C., prefaz. di L. Surdich, Genova 2004; G. Caproni – C. Betocchi, Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, a cura di D. Santero, prefaz. di G. Ficara, Lucca 2007; Racconti scritti per forza, a cura di A. Dei e con la collab. di M. Baldini, Milano 2008.

Rossana Levati_jpg 2Rossana Levati è nata a Ravenna il 30/03/1963. Dopo gli studi classici, si è laureata in Lettere Moderne all’Università di Torino con una tesi in Letteratura Teatrale Italiana con il prof. Guido Davico Bonino.
Insegna  Lettere al Liceo Classico “V. Alfieri” di Asti dal 1990; presso il Liceo astigiano ha contribuito, dal 1997 al 2012, alla organizzazione del Certame Alfieriano ( una gara per studenti di tutte le scuole superiori italiane sulla interpretazione delle opere di V. Alfieri) e ha fatto parte della giuria.
Nella sua esperienza didattica ha sviluppato negli ultimi anni un particolare interesse per la persistenza del mito nelle letterature moderne e ha cercato soprattutto di seguire percorsi di raccordo tra le letterature greca e latina e la letteratura italiana ed europea  moderna e contemporanea.
Ha realizzato nel corso degli anni diversi ipertesti su personaggi del mito (Antigone, Orfeo ed Euridice) e recentemente alcuni e-book sul personaggio di Elena e sull’Orestea; sta seguendo la produzione un e-book sulle Odissee moderne.

 

 

17 commenti

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17 risposte a “Giorgio Caproni (1912-1990) – Poesie  – Antologia – con un Commento di Rossana Levati

  1. gino rago

    Gino Rago
    (omaggio poetico a Rossana Levati,alla maniera di Ewa Lipska)

    “Cara signora Schubert, e p. c. Cara Signora Levati,
    ancora si chiede dove andremo ad abitare ‘Dopo’?
    Dopo. Cioè là dove prima c’era una fabbrica strana
    che produceva la vita d’oltretomba.
    E inquinava le menti. Avvelenava il mondo.
    Ha riconosciuto la mia scrittura.?
    Sì sono io. Sono l’autrice di tutte le lettere.
    Si chiede sempre dove andremo ad abitare ‘Dopo’?

    Senza timori vada
    al Quartier Generale dell’Aldilà.
    Al numero civico 777, piano terzo, scala D,
    attigua alla abitazione di Dio.

    Al Quartier Generale tutti e tutte lo sanno.
    Il ‘Dopo’ sarà tra ciò che non facemmo
    e ciò che non faremo più.

    Cara signora Schubert, e, per conoscenza,
    Cara Signora Levati,
    al Quartier Generale dell’Aldilà ben sanno
    [ lo sapete bene anche voi]
    che l’onda d’urto dell’Oscurità
    assale i poeti alla stessa ora del mondo.

    Cara signora Levati, e per conoscenza,
    Cara Signora Schubert,
    forse vi chiedete: ” Perché non scrive mai alla Signora Wagner?”

    Non capirebbe nulla della mia scrittura
    perché si è fermata ai Nibelunghi.
    In sogno ama Sigfrido. Di giorno cavalca con le Valchirie.
    Non sa che la vita è un negozio di ferramenta.
    E che Dio è un meccanico supino che stringe i lenti bulloni del mondo.

    Cara Signora Levati, e, per conoscenza,
    Cara Signora Schubert,
    Al Quartier Generale dell’Aldilà
    l’acqua si beve in bicchieri di plastica.
    Nessuna fa poesia coi tacchi a spillo.
    Un caicco taglia il blu della laguna. Il cielo è fermo.
    Chi interroga il destino?
    A nessuno più interessano i moti dell’alta e della bassa marea.”

    G R

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  2. gino rago

    Glossa nella sua nota Rossana Levati:
    “Colpiscono infatti le parentesi, che spezzano il verso, che inseriscono un contro-canto a voce bassa, la rifrazione interiore del pensiero del poeta, come se la poesia scorresse su due tempi, uno esterno, dichiarato al lettore, e uno interno che scorre sui suoi binari (le parentesi appunto) nella mente dell’autore”.
    Per la prima volta negli studi sulla poesia caproniana viene considerata la coesistenza nei suoi versi dei due tempi, un tempo interno e un tempo esterno, frutto della capacità dell’autrice del saggio di comprendere la poesia di Caproni stabilendo con il poeta il “contatto” dopo averne compreso il codice linguistico.
    Questa novità d’interpretazione della poesia di Caproni credo che vada annoverata fra i meriti della Ombra delle Parole e delle sistematiche e appassionate battaglie condotte dal suo coordinatore Giorgio Linguaglossa e dalla Redazione della nostra Rivista proprio in tema di “Tempo interno” della poesia, tema che in Critica della Ragione Sufficiente occupa peraltro una sua centralità.
    Mi piacerebbe sentire su questo specifico tema i pareri di tutti, in particolare quelli di Antonio Sagredo, di Sabino Caronia, di Claudio Borghi, di Salvatore Martino.
    Gino Rago

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    • ti rispondo io caro Gino Rago,

      condivido la diagnosi fatta da Rossana Levati sull’uso del verso interrotto e ripreso di Giorgio Caproni e l’impiego del parlato in tempi, gli anni cinquanta, di linguaggio ancora ermetico e postermetico. Il tragitto di Caproni è stato un importante esempio di sprovincializzazione della poesia italiana e dello sviluppo di una poesia modernista, dopodiché va anche detto che Caproni non è stato capace di bucare la struttura strofica e metrica che prediligeva e con la quale andava un po’ a memoria. Caproni non ha sfondato il metro breve perché non aveva intuito le possibilità che si sarebbero aperte con un metro più lungo, dando un respiro maggiore alla suoa versificazione chiusa e intermittenta, quasi claudicante, qua e là; un altro limite che mi sentirei di indicare è che non è stato capace (forse i tempi non erano maturi) di fare una poesia compiutamente esistenzialistica e che si sia arrovellato in tematiche, come quella del suicidio di dio, un po’ troppo semplicizzate e semplicistiche…

      Poesia alla maniera di Ewa Lipska

      Caro Gino Rago, cara Rossana Levati,
      e compagni di cordata, senza escludere Mario Gabriele e
      Donatella Costantina Giancaspero e Anna Ventura, e Francesca Dono,
      e tutti gli altri che non nomino…
      dico che non è più l’ora del congedo cerimonioso,
      che Giorgio Caproni si è sbagliato,
      Enea non passa di qui, non prende il tram
      forse non è mai passato per queste spiagge,
      qui siamo in pieno Dopo il moderno. Tu mi chiedi cosa ci sarà
      Dopo il moderno? Bene, ti rispondo come posso:
      ci saranno avanzi, scarti, residui, rottami,
      non useremo più francobolli, non spediremo più
      lettere affrancate alla maniera di Ewa Lipska,
      non avremo più bisogno di comunicare i nostri pensieri,
      non scriveremo poesie sui vetri, non lasceremo
      cicatrici sui vetri…
      sommessamente dimenticheremo anche
      i nostri pensieri, non avremo altre parole che quelle di plastica,
      quelle raffreddate, non per via del raffreddore, no,
      ma per via del gelo universale…
      e dopo di ciò scrivo una lettera ai morti
      su una macchina da scrivere che ha un nastro nero che inghiotte
      tutte le lettere
      percuoto con forza i tasti… ma c’è un abisso nel quale
      le parole scompaiono

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      • Rossana Levati

        Mentre in questi giorni sto leggendo C. Milosz, sono stata colpita dalle strofe iniziali di “Un povero cristiano guarda il ghetto”, nella raccolta “Salvezza”, composta negli anni ’40. Il riferimento così dettagliato a ciò che si è frantumato (carta, fibre, cellulosa ecc.) mi ha fatto pensare agli “avanzi, scarti, residui, rottami” citati da Linguaglossa e ad alcune poesie di Gino Rago come “16 Ottobre 1943”, con i “cenci cuciti alle intelaiature della storia” e la “Lettera della sopravvissuta di Theresienstadt” con l’elenco degli “stracci” e “le parole di cenci nel fango”:

        Un povero cristiano guarda il ghetto

        Le api ricoprono il fegato rosso,
        Le formiche ricoprono l’osso nero,
        Comincia: lacerate, calpestate le sete,
        Comincia: frantumati vetro, legno, rame, nickel, argento, schiuma di
        Gesso, latta, corde di strumenti, trombe, foglie, sfere, cristalli –
        Puff! Dalle pareti gialle un fuoco fosforescente
        Inghiotte il crine di uomini e animali.
        Le api ricoprono il favo dei polmoni,
        Le formiche ricoprono l’osso bianco,
        Stracciata è la carta, il caucciù, la tela, la pelle, il lino,
        La fibra, le stoffe, la cellulosa, il capello, la squama di serpente, i fili di ferro,
        Crollano nel fuoco il tetto e i muri, la brace avvolge le fondamenta.
        Sabbiosa, calpestata, con un albero spoglio, non c’è ormai che
        La terra.
        (…)

        Mi hanno inoltre colpita le strofe di apertura di questa poesia, “Due a Roma”, del 1946, appartenente alla raccolta “Luce del giorno”, in particolare “la ruggine di penne fatte cadere di mano” e l’inaspettato ritratto del poeta di questo tempo:

        Due a Roma
        (…)
        Il poeta di quest’epoca non scopre il suo volto
        Per non mostrare i lineamenti contratti dalla paura,
        I denti sporgenti beffardi alla luce della pallida luna.
        Il labirinto delle parole non gli serve come serviva
        Ai poeti in cerca dell’estasi delle parole.
        Pensa con freddezza e misura lo spazio aperto.

        La sua abitazione con l’eco nella muffa delle fondamenta,
        Sospiri spezzati, ruggine di penne fatte cadere di mano.
        (…)

        Non credo tuttavia che “la ruggine di penne fatte cadere di mano” stia a indicare la morte della poesia né la sua inutilità oggi, benchè viviamo in un’epoca di “gelo universale”. Credo che piuttosto la poesia si collocherà su un altro livello che è tutto da inventare e da ri-definire; e credo che la frase di Giorgio Linguaglossa, “sommessamente dimenticheremo anche i nostri pensieri” , voglia indicare che il poeta non avrà verità assolute e certezze ma continuerà a proporre, in una nuova costruzione, la sua conoscenza del mondo (lo farebbe anche con la bocca chiusa) e potrà ancora condividere le parole di Milosz:

        “sono qui con la speranza di poter ricominciare da capo
        (..)
        e tutto durerà più vero di com’era.
        (…)
        Ricomincio continuamente da capo, perché ciò che dispongo in racconto
        si rivela una finzione, comprensibile per gli altri, non per me”
        (“Verso la fine del ventesimo secolo”, 1980)

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  3. A leggere bene tutte le opere di Giorgio Caproni dall’iniziale “Il passaggio di Enea” 1956, a “Il seme del piangere” 1959 , da “Congedo del viaggiatore cerimonioso” 1965, a “Il terzo libro” 1968 , fino a “Il muro della terra” 1975, si rimane alla fine di fronte a tre topografie spirituali che hanno come riferimento: la città natale, il ricordo della madre e il tema assiduo della ricerca di Dio.
    Insolita è la struttura poetica che si rifà alla ballata del duecento con vigore linguistico novecentesco particolarmente documentabile nel “Congedo del viaggiatore cerimonioso” e ne “Il muro della terra.”
    Qui si reputa opportuno indicare alcuni esiti poetici che riguardano il tema del “viaggio” che il poeta intraprende, di volta in volta, nelle pluralità delle cose e degli eventi, anche dolorosi, che lo portano a chiedere, a fare domande, a insistere su alcuni aspetti “oscuri” della vita e dell’esilio di ognuno di noi: tutti “viaggiatori” in procinto di partire o già partiti “ Sono partiti tutti.” / Hanno spento la luce; / chiuso la porta, e tutti / (tutti) se ne sono andati / uno dopo l’altro /…… “ E io, / io allora, qui, / io cosa rimango a fare, / qui dove perfino Dio / se n’è andato di chiesa /”
    Quella di Giorgio Caproni è una denuncia amara dell’esistenza che ci conduce alla fine nello stesso luogo dove si è partiti per cercare un senso a questa vita. Il luogo è spesso oscuro e misterioso. I segni sono pochi e tra l’altro anche indecifrabili.
    La ricerca di Dio diventa affannosa e inconcludente.
    “Caproni non ha fatto altro che “ congedarsi”…. dalla terra e dalla speranza, come se davvero fosse venuto per lui, poeta viaggiatore, il momento di “chiedere l’alt (La citazione è di Giovanni Raboni che ha firmato la prefazione al volume L’ultimo borgo, di Giorgio Caproni-Poesie1932-1978,Rizzoli Editore, Milano1980, pag. 13),. come se fosse uno di troppo, un intruso in un mondo di rovesciamento dei dati delle mappe nautiche il cui Zenit è sempre puntato davanti a un “Muro”, che va comunque scalfito per aprire una breccia che possa alla fine porci nella condizione di rimanere “viaggiatori” in una città di sole. Il risultato è soltanto un’avvilente avventura al di qua di tante rese e sconfitte:“Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia / Anche se non so bene l’ora / d’arrivo e neppure / conosca quali stazioni precedano la mia”.
    Il “viaggio”, assai disorientato, non può che portare al fallimento dell’avventura iniziata senza alcun progetto metafisico: “Ho provato anch’io. / E’ stata tutto una guerra d’unghie. Ma ora so. Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra” , pervenendo semplicemente a: “Un semplice dato: / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato” /. In questo suo “congedo” di “viaggiatore cerimonioso”, Caproni riesce , pur nell’assenza di guide sicure e di indicazioni precise per tutti, a picchettare un territorio dell’anima dove aridità e desolazione, amarezza e spaesamento, lasciano alla fine un messaggio di umana partecipazione al dolore degli uomini.

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  4. Concordo con il giudizio critico di Mario Gabriele:”Aridità e desolazione,amarezza e spaesamento,lasciano alla fine un messaggio di umana partecipazione al dolore degli uomini”;anche a me la poesia di Caproni comunica questa sensazione.Per Giorgio Linguaglossa: anche le” parole raffreddate”possono esprimere un sentimento; perchè il sentimento è più forte delle parole.Dice una leggenda abruzzese che gli abitanti di di Tufara, un giorno, partirono per cercare il sentimento.Non ci dice se lo trovano,ma questa mancata conclusione non ci turba:la ricerca è più importante della partenza e dell’arrivo.

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    • Cara Anna,
      ti sono riconoscente per l’adesione al mio commento su Caproni. Ora ti chiedo una cosa; quando nomini Tufara, ti riferisci al piccolo paese del mio Molise?

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      • Caro Mario, Tufara è come Macondo, un paese tra fantasia e realtà.Ho fatto, a suo tempo, delle ricerche per individuare questo luogo; ho trovato un paese,in un vallone intorno all’Aquila, che si chiama Tufillo; i giovani ,la sera, scendono verso San Demetrio per divertirsi.Tufillo mi piacque tanto che stavo per comprarci una casa,ma fui scoraggiata dal fatto che nessuno di famiglia voleva averci a che fare; sarei stata sola nella solitudine di Tufillo, troppo anche per me.

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        • Cara Anna, scusami se la mia richiesta ti ha portato ad una faticosa ricerca. Tufara, in effetti, era incorporata storicamente nell’unica regione a suo tempo legata all’ Abruzzo-Molise; per questo ti ho posto la domanda. Tufara esiste.E’ un piccolo paese al di sotto dei mille abitanti nella provincia di Campobasso, e deve il suo nome all’abbondanza di rocce di tufo sul suo territorio. Un saluto.

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  5. gino rago

    La sella vuota

    “Cari signori poeti delle parole morte,
    Il vostro viaggio è finito.
    La corsa senza freni sui prati
    è terminata. A che vi serve il cavallo?
    Restituite al mondo la sella ormai vuota.
    Né più vi serve l’aria.
    Restituite l’ossigeno a chi saprà ingoiarlo.
    Scrivere per sé stessi
    carezzando l’io, il mio, il soltanto io
    spinge le parole nell’abisso di ghiaccio.
    Regalate il cavallo. Restituite l’aria.
    Lasciate la sella vuota a chi saprà usarla.
    Cari signori poeti delle foglie appassite,
    se dite ‘futuro’ il presente vi divora.
    Se dite ‘vita’ la morte vi frantuma.
    Giorgio ha ragione. Non c’è destino
    per le parole morte. Trascinate versi,
    amori, parenti, amici nella valigia
    congedandovi dal mondo senza cerimonie.
    Siete già nel gelo universale.
    Restituite agli altri l’aria e la sella vuota.”

    N.B. L’autrice di “La sella vuota” ama restare anonima. Segue da anni
    la nostra Rivista di Letteratura Internazionale.

    Gino Rago

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  6. Il fatto è che Giorgio Caproni non aveva letto le poesie di Tomas Tranströmer, altrimenti avrebbe accusato il colpo, o forse si sarebbe rinnovato, sarebbe riuscito ad andare oltre il limite del metro stretto da ballatetta, e il suo stile si sarebbe evoluto, avrebbe oltrepassato l’endecasillabo. O forse no, non lo avrebbe riconosciuto.
    Leggiamo qualcosa di Traströmer:

    Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi
    *
    Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.
    *
    Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
    per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
    a quello che IO sono, quello che IO sono.
    Ma non appena sono riuscito a vedere IO
    IO è scomparso e si è aperto un varco
    e io ci sono cascato dentro come Alice
    *
    Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
    *
    Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
    *
    Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota
    *
    … una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…
    *
    … e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
    su una macchina che non ha nastro solo una linea
    d’orizzonte
    sicché la parole battono invano e non resta nulla
    *
    Io sono attraversato dalla luce
    e uno scritto si fa visibile
    dentro di me
    parole con inchiostro invisibile
    che appaiono
    quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!
    *
    Leggevo in libri di vetro…
    *
    Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
    parole ma nessuna lingua
    sono andato sull’isola coperta di neve
    […]
    La natura non ha parole.
    Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
    *
    …la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

    ***

    Sono versi di Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE.

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  7. Il puro suono così come la struttura verbale e il “ significato” sono elementi che noi sentiamo e pensiamo, ma nella poesia essi si fondono per costituire un solo omogeneo “movimento “ o “ fluire”, e non è possibile separarli.
    I suoni singoli non simboleggiano niente di per se stessi ( Ivan Fonagy). Serie ritmiche di fonemi e di strutture grammaticali e le immagini e le idee e i concetti suggeriti dalla dimensione semantica delle parole, che agiscono tutti insieme in concerto ( concertamen) presentano alla nostra coscienza una qualità unica di suono ritmico che ci dà la sensazione di avere una consapevolezza infinitamente incrementata, – quasi un senso di certezza.
    Ma che cosa è il “ significato” della poesia? Certamente ci saranno elementi o almeno accenni di “ significato” nella poesia, ma è improbabile che quella poesia presa nel suo insieme abbia un solo significato. Come disse felicemente il poeta americano Archibald MacLeish, “ una poesia non deve significare ma essere “.

    Io direi che si si debba preoccupare di comporre e di “comprenderla” lungo due assi biologici diversi. La singola poesia sarà in parte il prodotto di una coscienza individuale, avente però contenuti più meno sub- inconsci provenienti da ogni stadio della vita dall’ovulo sino alla vecchiaia. Ma molti di questi contenuti inconsci saranno non ricordi di esperienze personali bensì presenze collettive arcaiche troppo remote per essere definite precisamente.

    Quindi dobbiamo essere consapevoli di contenuti che sono in parte ontologici e in parte filogenetici. Ma le due tipologie sono divenute non un miscuglio inestricabile, bensì un composto. Questo singolo composto può benissimo condurre il poeta ad una sorta di coscienza cosmica o cosmologica ( Bucke, 1900)

    Non ho parlato di FORMA e mi limiterò a dire che la forma esteriore, ossia metro, rima, stanza, ecc. è una tecnica relativamente facile da apprendere, ma che la forma interiore è un tema che presenta enormi difficoltà. La forma interiore è essenziale per il vers libre tanto quanto la metrica strettamente formale ed implica tutti i rapporti strutturali, semantici e sonoro-ritmici.
    Potremmo parlare di “ dense bonding” come un nucleo aromatico. Questi sono effetti assolutamente intangibili che non è possibili analizzare.
    Direi che è possibile scrivere una sorta di verso libero che consiste di brevi frasi alternate a lunghe pause, ciascuna delle quali diventa un punto o locus di contemplazione. Il lettore silenzioso potrà soffermarsi per secondi o minuti su di esse. Nella recitazione il lettore deve accennare, senza prolungare troppo, queste pause. In queste poesie è più probabile trovare ritmi stocastici che non ritmi lineari.
    FORMA DI ESSE potrebbero essere un riassunto di questo problema. Per spiegare ciò che intendo qui per “ esse” dovrei analizzare l’idea arcaica del canto come “sacrificio” ( yagnya e arka dei poeti visionari vedici, Maius Schneider). Basti per ora ricordare le parole di Aitareya Brahamana. ( II,40):
    La dimora di Brahman è nell’orecchio
    E S.Paolo, più di mille anni dopo disse:

    Fides ex auditus
    E S.Giacomo:
    L’uomo intende attraverso l’orecchio

    L’analisi e l’interpretazione dei suoni del linguaggio sono, come la cognizione l’attività motoria e il pensiero razionale, attività che spettano all’emisfero sinistro del cervello. D’altra parte, i suoni musicali vengono ‘ elaborati’ nell’emisfero destro. ( Jayne, The Origin of Consciousness in the Breakdown of Bicameral Mind, 1976).

    La canzone vocale e la poesia è al medesimo tempo suono lessico-semantico e ritmato ( i.e. musicale nella sua prosodia) vengono interpretati come double crack da entrambi gli emisferi.
    E’ importante notare che i ritmi del linguaggio verbale sono un elemento semantico fondamentale e richiedono l’interpretazione da parte dell’emisfero sinistro, mentre sound patterning, l’inclinazione alla musica, l’essere dotati di un senso estetico e la propensione agli affetti sono tutti analizzati nell’emisfero destro ( New Princeton Encyclopedia of Poetics, 1993, p.1174).

    Per quanto concerne la lettura a viva voce delle singole poesie direi che ci possono essere altrettanti modi di recitarle quanti sono coloro che le leggono. Questo perché l’attore deve accordare il suo ritmo interiore, che è unico, con quello del poeta, il quale ha già accordato se stesso ai ritmi dell’ ‘intero’.

    Per i motivi esposti sopra mi sia concesso dire che la poesia nel mondo anglofono della seconda metà del ventesimo secolo mi interessa assai poco. Difetta di ritmo intrinseco ed è priva di qualità semantica o affettiva che sia. Ho il sospetto che in Inghilterra e negli Stati Uniti l’emisfero destro del cervello stia diventando sempre più ozioso sotto l’influenza della tecnologia.

    Robert Frost, non proprio l’ultimo arrivato, sosteneva che “ il suono è l’oro che sta nella vena minerale”.

    Peter Russell, Pian di Scò 5 gennaio 2000
    Traduzione di Peter George Russell
    (Senecta ipse morbus!)

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  8. antonio sagredo

    Ciò che si evince di Caproni dalla presentazione appassionata di Rossana Levati e da scritti di altri studiosi della sua poesia, è che fu un uomo onesto che disprezzava gli intrighi fra poeti e artisti – specie di quelli che conobbe – poi secondo quanto di lui ho letto e soltanto poesie nei trascorsi anni lontani che fu più un poeta che un intellettuale, e non di certo di carriera o di corsa. Allora lo avvicinai molto a Alfonso Gatto, a Bigongiari, Calogero insomma di quei poeti che non amavano affatto il clamore, quasi timidi ma rigorosi nella loro etica da sfiorare la cocciutaggine: essere fedeli a se stessi… il che li portava a chiudersi e a non accogliere con entusiasmo novità svariate. Non era un intimista il Caproni, ma ne aveva i tratti, non so se avesse frequentato teatri d’avanguardia, specie romani degli anni ‘60/70. Ma non disdegnava l’amicizia degli “eretici” (Pasolini p.e.) e di questi ne percepiva le rivolte senza parteciparvi, ma approvandole nell’intimo.
    Fu più un poeta accorto che imprudente, attento dunque a centellinare nei suoi versi novità stilistiche, o delle novità formali della poesia del ‘900 europeo prenderne quelle ortodosse, standosene lontano dagli eccessi p.e. dei surrealismi e espressionismi ecc…. insomma assorbendo da quei movimenti quel che in questi movimenti più o meno rivoluzionari era restato di eredità classica delle varie letterature.
    Caproni, che di recente – per merito di una intelligenza ministeriale della Pubblica Distruzione (diceva il Carmelo Bene) – post mortem ha dovuto subire l’affronto di un ludibrio da ogni parte – dai giovanissimi incolpevoli a quella intellettualità nostrana imbelle che detiene il potere – che di intelletto non ha nulla se non la vuotaggine di cui se ne fa vanto – di recente ha subito proprio lui così lontano dagli intrighi e dai pettegolezzi quel martirio italico di bassissima lega.
    La sua poesia è chiara, pulita, sembra limata ma non lo è, quotidianità degna d’essere ascoltata per quella che è senza fronzoli o ipocrite finzioni. Lo lessi come tanti altri con caratteristiche simili a lui… ma nulla di nulla m’è restato. Comunque il ludibrio l’avrebbe meritato il Raboni e altri similari, burocratico e tuttofare delle lettere, carrierista ecc.
    Mi dispiace… fu tirato in ballo senza colpa, fu gettato in pasto alle iene e agli sciacalli che infestano oggi più che ieri la nostra Poesia (posso fare i loro nomi e cognomi senza paura, ma il solo nominarli mi causa il vomito).. Caproni stava bene dove stava, in un silenziario come tanti poeti, ma almeno dignitosi col loro disprezzo verso la chiacchiera.

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  9. antonio sagredo

    “dal pozzo aspetto la risposta
    dalla luce taurina la domanda”

    IMEROPA

    Tessere volevo con l’ombra la mia mente
    sotto i portici della ragione estrema,
    là, dove l’essere s’incarna non generato
    da pensieri. E nel passaggio, sola,
    sospeso il gesto, mi venivi incontro
    privata al canto: unico mestiere
    il tuo freddare nella mano, rotta
    al volo, il nucleo intemporale.
    È il disegno a simulare l’Opera!
    La nota è in corsa con la lingua
    se il mercurio scorre ancora tra universi
    e tumuli di grida. Non più scarniti
    spirito o fantasmi attendono la voce.
    Oltre sei dovunque, e al di qua
    del fatuo orrore che ci governa.

    E io mi so più tenera che viva
    nel battito del tasto e nella frode
    asettica… e so come nessun dio
    fermare il mio futuro sulla soglia.
    Spio il silenzio della particella
    viva e il mio corpo vinto dai capricci
    e dall’orecchio, che al panico non presta
    sibili e promesse. O ponti, una volta
    arcobaleni! Ora ho nelle mani solo
    il disegno di un gesto – non le muovo!
    E nego alla nota il suono che mi deve.
    Alla gola nego la bianca fusione,
    lo spettro che dalla torre in giù
    è lo zero assoluto nel verso dell’evento.
    La pietra lima i passi, e io svanisco!

    Lauri, cembali e clamori, schizzi
    in noi d’energia, miti
    e la ragione cercheremo, vili!, in una bolla
    e nelle tracce che neri suoni
    pensano. In gramaglie ti seguirò
    forgiato da miraggi reali o immaginari:
    numeri incurvati in cerca di una teoria
    e di un cuore inattuale. E nella stanza vuota
    dei proscritti c’è il punto, il limite
    di un principio. Sento la smorfia del tuo canto,
    sembiante, io, senza voglie e trucchi!
    Altari vi aspetto, capezzali, meridiani e dita
    per misurare i tempi con cifre immaginarie,
    spazi espansi confusi dalle rotazioni,
    fuochi animosi, traiettorie, collassi.

    Quale sorte le mie mani nell’offerta?
    Ai suoni il centro e il principio
    quando il gesto non era il canto,
    l’idea di un dio l’immaginario che ci opprime.
    E tu m’insegni la musica e l’orrore,
    la domanda nel caos priva della mente
    la risposta in cui derisi siamo ciechi.
    E chiusi nei quadranti le radici,
    il dubbio strazio e il riso ellittico,
    l’ostile dimensione che travasa il corpo.
    Nell’acrostico giocasti sofferente, serio,
    col mio sorriso vinto da nastri funebri.
    Debutto manovre d’escrementi…
    ti trasformi sedotto ai cardini.
    Tu, morto, Padre, mi fai vivo!

    antonio sagredo
    Roma, 20/26/28 marzo 1990

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  10. una amica mi ha sussurrato all’orecchio che Antonio Sagredo dovrebbe tagliare del 95% i suoi versi… allora farebbe belle poesie. Io non le ho risposto… perché…

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  11. L’ultima poesia di Margherita Guidacci, a pagina 514 del libro “Le poesie” a cura di Maura Del Serra, Le Lettere, 2010, è forse la più bella del libro, è anche la poesia più breve:

    Punti di vista

    Da una finestra alta
    è più vario e più bello il panorama.
    Da una finestra bassa
    più facile la fuga
    se per caso s’incendia la tua casa.

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  12. Mi piace moltissimo, questa breve poesia della Guidacci; c’è tutta lei, nella capacità di cogliere il sogno senza tuttavia trascurare la realtà,di stare al mondo oltre ogni ostacolo o dispiacere,resistendo sempre,con la forza immane della matriarca.I suoi amori tardivi convalidano il suo grande slancio verso la vita,l’indifferenza ad ogni umana costrizione.

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