Andrea Margiotta, Poesie dal libro Diario tra due estati, Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2000, con uno scritto di Fernando Bandini, una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e un Appunto di Giorgio Calcagno

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Man Ray, rue de la transfusion

Prefazione di Fernando Bandini.

Ecco come ho conosciuto il poeta Margiotta. Sedeva in fondo all’aula, staccato di una o due file, nel laboratorio di scrittura poetica che tenevo a Bologna, organizzato dal «Centro di Poesia». È un elemento costante della mia esperienza didattica, realizzata nei più diversi contesti e situazioni, l’immaginare che ci sia tra chi mi ascolta qualcuno molto informato e criticamente attento che soppesa senza pietà quanto vado dicendo. Durante quelle lezioni avevo individuato il personaggio di questi miei timori in quel giovane uomo.

Alla fine ho letto le poesie di Margiotta ed è nato un rapporto di confidenza, come sempre succede quando qualcuno ti affida un testo perché tu lo legga e ne dia un giudizio. Andrea Margiotta conferma una tendenza fondamentale della poesia d’oggi, che si riscontra, sull’estremo confine di questo secolo, in altre notevoli giovani voci: da una parte una attenzione alle esperienze pregresse del Novecento, non più marcate da rigide scelte di poetica né tanto meno da costringenti fedeltà a ideologie. Quanto viene offerto dai lavori della poesia del Novecento (un secolo poeticamente fertile come furono soltanto il Due – Trecento) viene espropriato e assunto nel proprio dire con una disinvolta ma meditatissima libertà, il cui unico rischio è forse quello, nei meno rigorosi, di un certo eclettismo dello stile. E tuttavia le ragioni della poesia, le attestazioni – immanenti ai testi – della sua necessità, appaiono (come nel caso di Margiotta) lampanti. La poesia diventa strumento di un’operazione autre (il «dirsi» e il senso nascosto), che riscopre la lezione di Rimbaud e tuttavia trascende l’orfismo come si è affermato da noi nelle sue concrezioni passate e recenti. Limite dell’orfismo era la nebulosità del linguaggio poetico (non l’oscurità, che è inevitabile, ma la nebulosità, l’incapacità cioè di ritagliare e incidere oggetti fermi e chiari nel proprio discorso, il vizio di confondere l’approssimativo col numinoso). Nel Margiotta degli esiti migliori la cosa autre irrompe nella compagine del vissuto, in una verità umana che precede il possibile (indispensabile ad ogni non caduca poesia) arrivo del nume. Lì, in forme talvolta anche di elegia, Margiotta affida ai tempi verbali del racconto la propria verità. Ma l’elegia non è in lui la rinuncia agli «universali», non è il rifugio dopo la sconfitta nelle serre di una ingannevole «calda vita». Per questo può scrivere singoli versi bellissimi, pieni di profonde risonanze, anche dove il contesto può sembrare qua e là non del tutto compiuto e risolto. È perché Margiotta mantiene una costante fedeltà a una sua idea alta della poesia, idea nella quale confluiscono anche i suggestivi e pertinenti ricordi di pregressi dettati danteschi e stilnovistici, quasi un segnale di appartenenza a qualcosa che si pretende staccato da mode e maniere, che però cerca, anche tra gl’inevitabili scacchi, una diversa collocazione della propria modernità. Margiotta, nelle sue dichiarazioni verbali, dice di amare molto Conte e il suo «mito del mito». Ma da Conte lo distanzia l’attenzione allo smalto del linguaggio (proprio nell’ accezione di materiale netto e duro), la sua attenzione a una misura nitida del verso, oltre che la renitenza a farsi divorare e cancellare dagli dei. Conte, nella sua poesia, realizza un monologo dilagante dell’io, che si fonde entusiasticamente nel risucchio delle proprie immagini, mentre la poesia di Margiotta sembra sbattere, come quella di Ritsos, contro un muro che non permette nessuna sacrale fusione, anzi il suo discorso si rivolge a interlocutori che, ahimé, non rispondono. Ma non gli si può muovere rimprovero di questa sua contestabile opinione di sé, fenomeno che è abbastanza frequente anche in poeti importanti. In verità il lettore dei versi di Margiotta avverte il confluire, nella sua poesia, della doppia suggestione di Luzi e Caproni. L’ircocervo – di un Luzi attento in prima istanza ai sensi metafisici che gravitano sul mondo, e di un Caproni che parte materialisticamente dalla storia per incontrare quei medesimi sensi, – realizza questa vicenda sospesa della poesia di Margiotta, che indica e promette territori ulteriori nei quali forse potrà sfociare con maggior sicurezza e perentorietà. Ma cosa può dire un poeta vecchio mentre affettuosamente sta presentando un poeta giovane? Questi futuribili si estendono oltre la sua esistenza, sono una scommessa, e se Margiotta vivrà nel discorso della poesia futura, spero che almeno si ricorderà di me.

Fernando Bandini 

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Pensiamo per un momento se tutti i poeti di oggi scrivessero come impone il modello magrelliano o come impone il modello della poesia deangelisiana o cucchiana, ecco che accadrebbe che, molto semplicemente, non ci capiremmo più, parleremmo tutti lo stesso linguaggio, lo stesso lessico, la stessa sintassi, lo stesso fono simbolismo, lo stesso tono simbolismo. Sarebbe una ecatombe, non riusciremmo più a capirci, a comunicare, perché parleremmo lo stesso linguaggio! Parleremmo tutti con il linguaggio delle «didascalie in margine a un giornale» con le didascalie lessicali dei libri della poesia maggioritaria! Sarebbe un disastro, non riusciremmo neanche a dire una frase semplice semplice come «andiamo a prendere un caffè?» perché non ci capiremmo più, non sapremmo se parliamo come una didascalia, e quindi usiamo una domanda retorica, o se parliamo di un nostro bisogno esistenziale, e quindi di una cosa per «noi» importante.

Questo concetto lo spiega molto bene un poeta oggi dimenticato, un poeta intellettuale di una generazione lontana, nato nel 1914, contemporaneo di Pasolini e di Moravia, che si poneva domande che nessuno oggi, dei poeti attuali dico, si pone, Piero Bigongiari il quale si chiede:

«Linguaggio dunque come atto integrale dell’uomo prima che l’uomo accetti di dividersi nella parzialità delle proprie attività operative. È questa l’”attualità” che il linguaggio “improbabile” premette a ogni momento della prassi. Diciamo insomma che l’uomo può parlare in quanto i poeti parlano al limite del possibile stesso del linguaggio, e ogni volta lo portano più in là, ogni volta con la difficoltà on cui mettono l’istituto linguistico aprono all’infinito per l’uomo la possibilità d’intendersi anche sul piano più comune e utilitario. Diciamo di più: se non esistessero i poeti, arriverebbe il momento in cui gli uomini, per usura, non riuscirebbero più a intendersi fra loro».1

Bigongiari si pone qui un problema molto importante (che nessuno oggi si pone più), che una storia letteraria che dimentica la scrittura che la precede, o che, peggio vuole soffocarla e farla dimenticare, come accade ed è accaduto in questi ultimi decenni, dicevo che una storia letteraria che fa questo si pone nella condizione della «pattumiera della storia», precipita tutta intera nella insignificanza, nella letteratura di consumo e di vetrina…

È chiaro che questa problematica sta molto a cuore alla «nuova poesia» della nuova ricerca che abbiamo chiamato la «nuova ontologia estetica», ed è questa consapevolezza che ci spinge alla ricerca di un nuovo linguaggio, di un nuovo sguardo sul mondo. E sarà la nuova poesia della nuova ontologia estetica che riscatterà, forse, un giorno lontano o non lontano, la poesia di oggi di precipitare anch’essa, tutta intera, con le scarpe e il maglione, nella «pattumiera della storia».

Sarà chiaro a questo punto che il ritorno ad una poesia rimata e ritmata come questa di Andrea Margiotta si collochi in un contro movimento, in un punto di rifrangenza rispetto alla generale tendenza alla narratività presente nella poesia italiana di questi ultimi decenni; la funzione della rima in questa poesia è importante; innanzitutto, una funzione segnaletica e fono simbolica; in secondo luogo, per un prendere le distanze da quella diffusa dispersione delle energie poetiche verso la narratività che ha finito per disossare la poesia italiana nella sua versione generalista ed epigonica. Margiotta reagisce come può e come la sua intelligenza gli suggerisce, facendo un passo indietro, saltando all’indietro la poesia generalista e narrativa degli ultimi decenni e ripristinando il concetto di una poesia degnamente orfica, riprende dal primo Montale saltando tutto ciò che è venuto dopo il secondo Montale; non costruisce un nuovo linguaggio, il neolatino, come farà Maria Rosaria Madonna con Stige nel 1992 (libro ora riproposto con gli inediti da Progetto Cultura, Stige. Tutte le poesie 1990-2002, nel 2018) ma si accredita come uno degli autori più rappresentativi del fono simbolismo che ha il suo esponente più autentico nella poesia di Roberto Bertoldo (in proposito, il primo e l’ultimo dei suoi libri: Il calvario delle gru del 2000, e Il popolo che sono, Mimesis Hebenon del 2017). Io non privilegerei, come fa Bandini, il parallelismo con la poesia di Giuseppe Conte, piuttosto, la sua presa di distanze dalla poesia di ligure, mi sembra fuori discussione; qui l’operazione di Margiotta è diversa: è la presa di distanze dal semplice ritorno alla rima con un linguaggio neoclassico come quella del Conte, il tentativo di Margiotta è ripristinare la linea centrale della poesia fono simbolica e tono simbolica che vede nella rima l’asse semantico da privilegiare.

1 P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972, p. 31

Andrea margiotta Diario tra due estati cover

Testi da Diario tra due estati  

DOPO LA PIOGGIA

La città rischiarata dai lampioni verdi
dopo la pioggia e il silenzio.

Ondeggiano le nuvole d’argento
sulla piazza dove è passato il vento.

Dall’altra parte del ponte
entrano i giocatori nelle osterie.

Zampilla l’acqua dolce da una fonte
oltre i giardini e gli alberi,
sale alle luci ferite degli angeli.

La luna rotola sulle tue gambe,
s’infrange la bellezza
negli specchi dell’estate.

Di nuovo il traffico lungo le strade.

(Grecia, 1995)

.
LA NAVE

Idra, tra una folla di ombre, l’acqua
si rompe sulla chiglia, la donna è una
verde conchiglia corrosa dal sale.

L’ufficiale, osso di balena, ha un amore
annegato negli occhi
(muschio la ciurma ed alghe sulle mani).

Le verdi e bianche anime dei pesci
illuminano il buio,
frugano tra i relitti nelle celle del mare.

La nave folle uccello nel silenzio
del dio marino, Paros nella fredda
perla dell’alba.

E la donna – dal vento dei suoi anni –
non parla e dentro lei torna la sera.

.

DUE SULLA RIVA

La notte respira tra le tue gambe
hai i seni bagnati d’uva e di luna.

Un gambero respinto dal mare
si spegne sulla riva.

Tuo marito, il mercante di liquori,
ha comprato cavalli più veloci

lasciandoti sola, troppo sola.

.

CITTÀ DI MARE

Ancora il caldo sulla città, non
abbiamo più troppo tempo.

Il mare ha lasciato sabbiosi granchi
e pesci d’argento nelle reti.
Il faro, a tratti, illumina le grotte –
una piccola chiesa sta sospesa
sull’acqua. (Tre polipi appesi ai legni
pallidi e ciechi
sotto la luna).

Ragazzi annuvolano in bar azzurri,
fumano nel cielo della sera.
Un luogo dall’insegna antica. Entriamo,
balliamo, beviamo birra.
La luce scompare. La ballerina
apre una tristezza lunare,
bella e flessuosa
come un’idra nel buio.

Usciamo: è tardi.
Né più nessuna luce sulle case.

Passeggiamo lungo i legni del molo,
guardi gli yacht ancorati
e lontano una bianca nave
aprire le sue bocche nella notte.

Ancora il caldo sulla città, non
abbiamo più troppo tempo
mentre il vento inghiotte il tuo sguardo nero
e luminoso.

.

LA NOTTE

Le mele sono assenti nella cesta,
l’accendino scintilla, non dà fiamma.
Schiudo i battenti della mia finestra,
vedo la viola scura del giardino
sotto il bianco coltello della luna.
Il silenzio vola come l’ala del
pipistrello. Non sfiora.

Oh notte, tu non plachi la tua infamia!

.
LA NOTTE II

Nella notte di luglio
tace la terra.
(Con un cavallo azzurro
Dio passeggia?).

.
CONGEDO

I

Siamo rimasti soli al tavolino del caffè
e il mare è divenuto roccia. Il vento
suona sul vetro verde delle onde,
roveti e fiori nascono dall’acqua.

Loro ci guardano, non hanno più
la schiuma del mare ma
alghe sulle mani. E impagliano pallidi
discorsi sotto lampade marine…

II

Così in aprile giungerà una nave
a inondare di bagliori la baia
e usciranno i tuoi occhi da una folla
salendo fino al santuario di Tinos.

Il pane breve acre il vino brullo
(il tuo viso nel viso delle icone).
Poi il gelo notturno – la processione
dei tre bianchi leopardi e di altre fiere

e signore come perle morenti
e iene e uomini mutati in piante
ed angeli con lance d’oro e di sangue…

.
III

Sono rimasto solo al tavolino del caffè
e tu sei come un’eco sulle acque al tramonto.

*

ad Anushka

La notte ha luci gialle di gas sui vetri
sporchi delle finestre:
tu sei la rosa, nella molta morte.

Tu sei la rosa, nell’impura furia
dei perdoni, tra le bottiglie rotte
delle metropoli, tu sei la rosa.

Sei apparsa e dispersa nel
tempo, fuori dal tempo

e in te respiro, non ho paura del tempo.
ADE

E quando sarà scesa oltre le ombre
la tua mutevole anima e il grembo
del mattino avrà sciolto
sperando il mio ritorno

quando si sfascerà
la viola nella sera
e il bacio per sempre dato, per sempre
disperato

allora potrai dire
d’avere amato
oltre le notti, i sensi, le apparenze.

Allora nascerà quell’alba verde
sopra i picchi dei monti,
a ridonare quei grappoli d’uva
a noi e ai morti.

*

Dio è innocente
Platone

Io non ho mai temuto la mia morte
perché se fosse il nulla io non sarei
e non essendo non avrei passione
né amore né tormento né terrore.

Ma se quel folle teschio, sopraggiunto,
mi mostrasse i salmoni luminosi
e gli abeti bagnati e i verdi fiumi
sarei al tuo sole pronto a ricongiungermi.

Tanto da esser nelle mani tue
la rosa più preziosa della rosa
candida, che di notte la mia donna

aveva chiusa nelle mani sue.
O tu, che muto il mare muti e il vento
e ricolmi d’argento i giorni bui

fulminami di grazia cuore e mente,
tu che sei il Dio innocente, ch’io sappia finalmente
quel che sarò e quel che sono e fui.

Afferra
il fiore dalla terra
ora che la rugiada è sulle spade.

Perché l’estate, schiusa
di cecità e di morte,
forse sarà l’ultima.

.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

versi e fotocomposizione di Lucio Mayoor Tosi

Appunto di Giorgio Calcagno

“Tu sei la rosa, nella molta morte”, dice uno fra i versi più belli di Andrea Margiotta, in Diario tra due estati. Sono molti i versi più belli di Andrea Margiotta. Ricchi di sensi imprevisti, condotti per progressivi spostamenti di segno: dove le donne hanno “i seni bagnati d’uva e di luna” , il vento “suona sul vetro verde delle onde” e il vino è “brullo”. Sono così belli che talvolta danno l’impressione di spiccare isolati “in un contesto non del tutto compiuto e risolto” come osserva Fernando Bandini, maestro di poesia, nella nota introduttiva.

Bandini ha ragione. Ma quel non risolto è la spia di un cammino in fieri, che può portare a risultati alti. Questo giovane scrittore, così coinvolto nella ricerca della parola significante da rischiare la discontinuità, accende la pagina con immagini fulminanti e, per loro natura, contraddittorie.

Il suo mondo vive nel gioco della luce e dell’ombra, proiettato verso l’amore e insieme consapevole dello stretto intreccio con la morte. Non è un caso che i suoi modelli, trasparenti nelle citazioni testuali, oltre che nella sintassi poetica, siano Montale e Caproni: i due autori che hanno più bisogno dell’oscurità per esprimere la loro tensione verso la luce; portati, sempre, ad affermare negando.

Margiotta, sulla loro scia, procede per cancellazioni, antifrasi, ossimori; la sua sola luminosità possibile è nel chiaroscuro. Come in Montale, c’è sempre un tu , accennato, smentito, a cui egli si rivolge: la donna, stella polare del suo insicuro firmamento, “rosa dolorosa”, angelo “con la luce d’oro e di sangue” . Donna e angelo, fra loro sinonimi, sono due fra le parole decisive di questo canzoniere, popolato di albe che hanno il colore delle notti e di sguardi “neri e luminosi”, come quelli della nascosta ispiratrice.

La terza parola, allusa e non pronunciata, perché non pronunciabile, è Dio. Come in Caproni, l’uomo può dargli la caccia, “preda tra i rami nudi e i monti”, solo sapendo che non sarà mai certo di trovarlo. Il tu della donna angelo rimanda all’interlocutore più alto, per l’interrogativo ultimo, che resterà sospeso.

Da “Quaderni del Premio di Poesia Achille Marazza – Città di Borgomanero – Edizione 2001”

andrea-margiotta-al-bar

Andrea Margiotta è nato a Lecce nel settembre del 1968; ha vissuto in varie città tra le quali Forlì, Torino, Bologna e Firenze, per poi trasferirsi a Roma, lavorando come sceneggiatore di cinema; benché appassionato di cinema d’autore (allievo di Gianni Rondolino nei primi due anni di università a Torino), ha collaborato come sceneggiatore con firma a grandi successi di pubblico quali Natale sul Nilo e, senza firma, a Manuale d’amore, prodotti da Aurelio De Laurentiis; e come lettore di sceneggiature per Fandango, autore televisivo per la Rai e ricercatore di filmati d’archivio in un programma per Sat 2000 (oggi Tv 2000). In poesia, ha pubblicato alcuni testi sulla rivista clanDestino e il libro Diario tra due estati, Edizioni l’Obliquo, Brescia, 2000, con il quale ha vinto il Premio Marazza  – Città di Borgomanero, nell’edizione 2001.

http://lnx.fondazionemarazza.it/premio-marazza/

È stato tra i segnalati principali nell’edizione 2001 del Premio Internazionale Eugenio Montale (con giurati quali M.L. Spaziani, Mario Luzi, Franco Loi, Marco Forti, Sergio Zavoli, Giovanni Macchia e Goffredo Petrassi).

Tra quelli che hanno apprezzato il libro pubblicamente, in recensioni o segnalazioni, si possono ricordare, tra gli altri, Maurizio Cucchi su La Stampa, Roberto Carifi su Poesia di Crocetti e Gianfranco Lauretano sulla rivista clanDestino. Testi di Andrea Margiotta sono presenti nell’antologia: Riccione Parco Poesia 2004 edita da Guaraldi ed una poesia è contenuta nella bella pubblicazione artistica dallo spettacolo del poeta Stefano Maldini: Foglie di luce dal mare, ediz. Risguardi (Cartacanta) di Forlì, rappresentato in vari luoghi.

Per la Rai Tv, ha ideato, scritto e condotto un programma di cose poetiche e di poeti trasmesso, in dieci puntate, su Rai Due e un altro su Dante e Beatrice, in tre puntate su Rai Uno (replicato, un anno dopo, su Rai Scuola). Negli ultimi anni, ha lavorato come assistente del regista Ruggero Cappuccio in tre opere liriche (di Rossini e Donizetti) rappresentate al Teatro dell’Opera di Roma (Costanzi) ed ha terminato il suo secondo libro di testi poetici, ancora inedito.

9 commenti

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9 risposte a “Andrea Margiotta, Poesie dal libro Diario tra due estati, Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2000, con uno scritto di Fernando Bandini, una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e un Appunto di Giorgio Calcagno

  1. Ringrazio Giorgio Linguaglossa per questa ripresa di testi tratti dal mio primo libro e per la sua ermeneutica. Piero Bigongiari lo conobbi a Firenze: ricordo la sua casa, come un’arca sull’Arno, piena di quadri del Barocco fiorentino… Oltre ad essere un poeta e un critico letterario di grande finezza, si occupava pure di critica d’arte…

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  2. copio e incollo dal blog di Lucio Mayoor Tosi una sua poesia inedita:

    Vincent van Gogh.

    di Lucio Mayoor Tosi

    Van Gogh dipinse i suoi ultimi uccellacci
    e non si vide più un iris.

    Eppure da quell’istante la sua guarigione
    avrebbe potuto avere inizio.

    «Il male come cura? No, Vincent non vuole».
    Aveva Ingres per memoria.

    «Qualsiasi cosa. Un posto da bidello». Accanto
    alle parole che escono

    capovolte. Davanti alla scolaresca.

    Luglio non ha ombre. Tutto è come sembra.
    E uno resta indietro. Respinto!

    Solo le campane, qualche volta e per pochi minuti
    «…fanno l’uovo».

    Iniziano il mattino e fino a sera «Quei gialli…»
    L’arancio nel blu.

    A chiunque darebbe il marrone. Civetta.
    E un sigaro.

    Pubblicato: 19 settembre 2018
    One Comment to “Vincent van Gogh.”

    giorgio linguaglossa

    19 settembre 2018 alle 9:43 am

    caro Lucio,
    mi convince pienamente questa tua com-posizione in distici, una sorta di incastro verbale a ripetizione che va a finire in una enorme superlingua che dice tutto e il contrario di tutto, che dice e non dice, ma non per amore della ambiguità del significato o del significante, quanto perché ormai non c’è più nulla da dire, forse, e forse chi ha qualcosa da dire lo dice non più con le parole ma con delle pennellate o dei suoi musicali o delle pernacchie…

    Parlavo pochi minuti fa con Laura Canciani al telefono e le dicevo che siamo entrati ormai in una crisi di sistema; non più una crisi della identità antropologica come quella paventata da Pasolini negli anni settanta ma una vera e propria crisi di identità di un popolame ormai ridotto a corpo in dissezione. La poesia non può essere estranea a questo processo di dissoluzione, e l’Italia è il paese europeo che sta in posizione più avanzata, come negli anni Trenta con il fascismo. In un certo senso l’Italia è di nuovo un po’ più in avanti rispetto agli altri paesi europei… il forte richiamo che le ricette dei due Masaniello di Milano e di Napoli (due capitali un tempo lontano) riscuotono presso il popolame qualcosa vuol dire… come vuol dire qualcosa l’abbraccio di due cialtroni: Salvini e Rondoni, personaggi alquanto simili in fatto di cialtronaggine e di fortune elettoralistiche…

    La poesia, dicevo, quella sensibile, non sfugge a questo generale processo di decomposizione del corpo sociale… e allora ecco la camicia di forza della severità del distico che tu ti ingegni di far indossare alle tue parole e ai tuoi frasari poetici…

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  3. La scrittura di Margiotta possiede doti per me imprescindibili per la qualificazione poetica, che la differenziano da stantii epigonismi neoclassici e dagli artificiosi e inespressivi labirinti verbali della koine’ post-ermetica: capacità di trasfigurare percorsi concettuali in intuizioni e architetture iconiche che, preservandone mistero e trascendenza, ne dilatano e moltiplicano confini e sfumature semantiche. Una espressiva pregnanza emozionale e affascinante sensualità, che sfuma il realismo magico di istantanee e frammenti diegetici in contemplazione mistica sospesa in atmosfere oniriche, dense di nostalgia e presagio.
    La qualità delle scenografie denota la passione per il cinema che, diceva Breton, sarebbe il linguaggio più adeguato per il surrealismo, ma, a parte poche eccezioni (Bunuel, Wenders) ha sempre deluso tali aspettative, eppure forse solo in un contesto multimediale la poesia potrà sopravvivere e diffondersi.

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  4. Carlo Livia

    La scrittura di Margiotta possiede doti per me imprescindibili per la qualificazione poetica, che la differenziano da stantii epigonismi neoclassici come dagli artificiosi e inespressivi labirinti verbali della koine’ post-eermetica: capacità di trasfigurare percorsi concettuali in intuizioni e architetture iconiche che, preservandone mistero e trascendenza, ne dilatano e moltiplicano confini e sfumature semantiche. Una espressiva pregnanza emozionale e affascinante sensualità, che sfuma il realismo magico di istantanee e frammenti diegetici in contemplazione mistica sospesa in atmosfere oniriche, dense di nostalgia e presagio.
    La qualità delle scenografie denota la passione per il cinema che, diceva Breton, sarebbe il linguaggio più adeguato per il surrealismo, ma, a parte poche eccezioni (Bunuel, Wenders) ha sempre deluso tali aspettative, eppure forse solo in un contesto multimediale la poesia potrà sopravvivere e diffondersi.

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  5. Entrati a distanza,
    nell’essere schivi, l’abitudine
    un sollievo che ancora rammarica.
    Ti racconto
    allora una crosta. Un diverbio.
    Una esagerazione da dandy.
    Un passo da bar.
    Osservo un orlo ancheggiare,
    claudicante realtà fatti ammalare.
    Nel riverbero alcune parole nel segno.
    A quest’ora siam desti.
    Alle ombre sottili pavimentano strade,
    riconducono esagerazioni bestiali,
    riproducono a stento un suono mnemonico.

    La brezza ha forma di scorza, lievemente
    imbandita, lo shaker sbalzato, interrotto.

    Grazie OMBRA.

    in distici:

    Entrati dalla distanza,
    nell’essere schivi, l’abitudine, un sollievo

    che ancora rammarica. Ti racconto
    allora una crosta. Un diverbio. Una esagerazione da dandy.

    Un passo da bar.
    Osservo un orlo ancheggiare, claudicante.

    Nel riverbero alcune parole nel segno. A quest’ora siam desti.
    Alle ombre sottili pavimentano strade,

    riconducono esagerazioni bestiali,
    riproducono a stento un suono mnemonico.

    La brezza ha forma di scorza, lievemente
    imbandita, lo shaker sbalzato, interrotto.

    [caro Mauro, mi sono preso la libertà di riscrivere la tua poesia in distici, con qualche piccola deviazione]

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  6. Il nuovo, l’interessante, è l’attuale. L’attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’Altro, il nostro divenir-altro. Il presente, al contrario, è ciò che siamo e proprio per questo, ciò che non siamo più. Dobbiamo distinguere non soltanto il passato dal presente, ma, più profondamente, il presente dall’attuale.

    Deleuze – Guattari, Che cos’è la filosofia?
    (Citazione tratta da Stefano Berni e Ubaldo Fadini, Linee di fuga, Firenze University Press, 2010)

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  7. Il commento di Carlo Livia (che ringrazio) mi pare perfettamente centrato, al pari di quello di Salvatore Martino, in una precedente proposta di questi testi.
    Come pure, mi fa piacere che Giorgio Linguaglossa abbia ripreso un brano di Bigongiari che, come dicevo, conobbi a Firenze.
    Tralasciando il mio rapporto con Giuseppe Conte (di consanguineità, nella diversità) e di grande stima, vorrei dire solo una cosa, con Rimbaud: “Je est un autre” (Io è un altro)…

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  8. Qualche anno fa, mi colpì una cosa che disse lo storico dell’Arte e, al tempo, soprintendente per il Polo museale romano, Claudio Strinati: «L’opera d’arte non è legata alla notizia».
    Ovviamente, intendeva la singola opera, non certo il tam-tam degli uffici stampa o addetti alla comunicazione di un evento (chissà perché, oggi, sono tutti «eventi»… Nostalgia di Heidegger o di Cristo?).
    Strinati parlava di arti figurative o plastiche ma l’idea potrebbe estendersi anche alla poesia.
    Nel suo discorso, vedeva questa cosa come un problema, per la conoscenza e permanenza della singola opera d’arte nella vita quotidiana della massa.
    Mi viene in mente un’altra cosa che diceva Manlio Sgalambro, il filosofo amico di Battiato: «Gli insetti comunicano; gli uomini si esprimono»…
    Oggi viviamo un tempo dove la comunicazione (più che l’espressione artistica) è al centro di tutto: dai grandi mass-media, ai social, agli uffici stampa. Si potrebbe quasi dire, con Derrida (spesso citato da Carmelo Bene) che i giornali (ma estendiamo a tutti i mass-media) non informano dei fatti ma informano i fatti (cioè danno forma). Somiglia un po’ a quel che diceva Nietzsche: «Non esistono i fatti ma solo le interpretazioni». La comunicazione informa anche i fatti artistici…
    Questo eccesso di comunicazione, commenti, opinioni, chiose, commenti al commento, dibattiti (etimologicamente differenti dalle cosiddette dispute del Medioevo), social, cinguettii su twitter, porta a una conseguenza già individuata da Giovanni Testori (ma, per certi versi, anche da Pasolini): ovvero che, all’esperienza delle cose, si sostituisce il discorso sulle cose. Mi pare che anche nell’educazione (pure intesa come insegnamento nelle scuole secondarie e nelle università) accada questo. In più, si aggiunga che viviamo nell’epoca della comunicazione ma anche delle immagini…
    Ecco: il passo di Bigongiari citato (ma anche il libro dal quale è tratto e la sua opera critica e poetica, stranamente emarginata, già ai tempi della nota antologia di Mengaldo, alla fine degli anni Settanta) mi pare sia un rilancio del linguaggio poetico e artistico come forma di espressione umana: come espressività artistica, come apertura all’Altro.
    Perché, ritornando alla frase di Sgalambro, non siamo insetti ma uomini… La comunicazione è controllabile in termini quantitativi e di marketing, l’espressione qualitativa, no… La poesia (ma tutta l’arte, in genere) dovrebbe stare dalle parti dell’espressione qualitativa.
    Per quanto mi riguarda, non sono strettamente un discepolo di Bigongiari (come qualche altro autore: Carifi, Mussapi, Iacuzzi ecc. E perfino Milo De Angelis che lo ha sempre considerato un Maestro pur – al tempo stesso – rivendicando la sua estraneità alla poesia orfica).
    Lo conobbi, certo, e disse ad altri di aver apprezzato alcuni miei testi pubblicati sulla rivista clanDestino; ma ho frequentato di più Mario Luzi e letto molti altri poeti, da Caproni ad Eliot e Pound e altri grandi stranieri.
    Anzi, proprio da Eliot e Pound ho pescato il cosiddetto metodo mitico e la contemporaneità di tutti i tempi. Un’idea metafisica della poesia? Non so, non spetta a me dirlo.
    Rivendico soltanto la libertà di usare il linguaggio in funzione espressiva e in modi autentici e originali, fottendosene delle mode… Altrimenti la poesia diverrebbe ancillare rispetto alla Storia. Questo soprattutto nel libro dal quale sono tratti i testi scelti da Giorgio Linguaglossa.
    Nel secondo, ancora inedito, le cose si complicano, guardando soprattutto a Campana, Baudelaire e Pasolini…

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