La torre del faro nella pianura di neve. «Il bacio è la tomba di Dio».
C’erano scritte queste insensate parole sopra l’ingresso della torre…
Ma forse non era quella la torre ma un’altra che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico
dove sorge un’isba; nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.
Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti. C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,
le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli. [Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]
La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna. Diventa luce. […] La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda. Nella picea onda del Canal Grande.
Ponte degli Scalzi. L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.
Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica. Il vento sfoglia le pagine dello spartito. […] Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio. Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.
[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.] […] Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir. Ufficiali austriaci giocano a whist mentre il Signor K. asserisce:
«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà non può violare il principio di non contraddizione.
Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti; mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,
picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono, a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…». […] «L’universo è il cadavere di Dio e noi i suoi vermi. Anche le parole che ora diciamo, il vento nella sua rovina le porta via». […] Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto è ritratta la Peste.
La Signora Morte impugna una pertica che termina con una falce.
Ammassa i morti e taglia loro la testa. E ride.
Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo. E canta. […] Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle. Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande. Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano». […] Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti nel salotto color fucsia.
I clienti della locanda del buio brindano alla felicità i calici di Murano scintillano. […] Dio bussa alla porta d’ingresso; dice: «posso aggiustare il rubinetto,
sistemare la lavastoviglie, riparare il frigorifero, darle l’indirizzo di una casa di appuntamenti,
ho anche dei numeri per il Lotto…». Incredibile, disse proprio così. […] Ed entrammo in una stanza bianca, un pianoforte nero al centro. Un bambino vestito di bianco suonava qualcosa
che i miei cinque sensi non percepivano. Una voce dal parlatorio diceva:
«Il re morto è un dio vivente, il dio morto è un re che vive, la tomba del re è la casa del dio
che si è dimenticato di essere un dio…».
Fu a quel punto che quelle parole inaccessibili risuonarono in me mentre calpestavo il pavimento di linoleum bianco… […] Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano. “Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito
quel pensiero molesto. Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:
«Non c’è più lutto tra i morti». «Non c’è più lutto tra i morti».
*
[postilla dell’autore]
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Si tratta di un «polittico», parola che ritengo idonea, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto: cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia. Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.
Foto di Evgenia Arbugaeva, Weather man, Siberia, la Torre
Giorgio Linguaglossa
Appunti sul Nichilismo
Nietzsche definiva il nichilismo il processo di «svalutazione dei valori finora supremi»,
i quali soli conferiscono all’ente il suo «valore». «Unospite inquietante» lo definiva Heidegger. Diceva del nichilismo, che ormai è impossibile «metterlo alla porta», e invitava a «guardarlo bene in faccia». Nietzsche osava affermare di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé».
Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzitutto Heidegger. Dalla metà degli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente Nietzsche (1961), Heidegger individua nel nichilismo la traiettoria dell’Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari ottocenteschi, ma fin dalle origini greche.
Il concetto di nichilismo assurge dignità di elemento portante nella filosofia in Nietzsche. Ne La gaia scienza, infatti, il filosofo tedesco annuncia la «morte di Dio» e la vacuità di ogni valore, auspicando l’autosoteria dell’Übermensch, dell’Oltreuomo, unico modello in grado di sottrarre l’uomo europeo dalla decadenza in cui l’ha precipitato la religione cristiana.
Heidegger individua la causa del nichilismo nella metafisica,
sostenendo che: «La metafisica in quanto metafisica è l’autentico nichilismo. L’essenza del nichilismo si dà storicamente nelle vesti della metafisica. La metafisica di Platone non è meno nichilistica di quella di Nietzsche. In quella l’essenza del nichilismo resta solo celata, in questa giunge interamente alla comparsa», dove per «metafisica» egli intende quella tradizione di pensiero che pone il problema dell’essere dell’essente, andando oltre (metà) l’essente stesso, in una irrealistica dimensione trascendente.
L’inizio del Novecento È caratterizzato dal fenomeno delle avanguardie che porteranno a compimento la rivoluzione delle arti plastiche, letterarie e figurative in un impeto di distruzione del vecchio mondo volto alla realizzazione di uno nuovo (proprio come sosteneva Turgenev nel romanzo Padri e figli!). Da questo punto di vista, le due guerre mondiali devono essere ricomprese nel quadro ideologico-psicologico del compimento della potenza detonante del nichilismo e della progressiva perdita dei nicciani «valori» orientativi di «scopo», «unità» e «verità».
Il fenomeno delle post-avanguardie letterarie
e artistiche del secondo Novecento rappresenta la stigmatizzazione del riposizionamento combattivo di gruppi artistici e soprattutto letterari che cercano di ritagliarsi un posto e una funzione nell’ambito del dispiegamento universale della forma-merce e del mercato globale che non contempla più alcuna funzione di «valore» all’arte e alla letteratura nel sistema società. È la reazione della nuova letteratura di fronte ai cambiamenti epocali che la relegano al di fuori del sistema mercato e delle nuove istituzioni culturali. La metafisica ha prodotto il mercato globale, e il mercato globale è il compimento (Vollendung) della metafisica. È qui che si apre la nuova stagione del nichilismo come «stato psicologico» del mondo contemporaneo. Il nichilismo, dirà Heidegger, viene concepito come «stato psicologico», «ciò significa allora: il nichilismo riguarda la posizione dell’uomo in mezzo all’ente nel suo insieme, riguarda il modo in cui l’uomo si pone in relazione con l’ente in quanto tale, in cui configura e afferma questo rapporto e quindi se stesso; ciò non significa altro che il modo in cui l’uomo è storicamente.»1]
«Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore» , così recitava il nono punto del manifesto programmatico del Futurismo di F.T. Marinetti e soci, pubblicato il 20 Febbraio 1909 su Le Figaro. O più ‘nichilisticamente votate soltanto alla distruzione: questo È il caso di Dada, definito dagli stessi dadaisti come: «un fenomeno che scoppia nella metà della crisi morale ed economica del dopoguerra, un salvatore, un mostro che avrebbe sparso spazzatura sul suo cammino. Un sistematico lavoro di distruzione e demoralizzazione… che alla fine non è diventato che un atto sacrilego».
Del resto come preannunziarono nel loro manifesto: «Dada non significa nulla. È solo un prodotto della bocca».
Scrive Heidegger: «Forse l’essenza del nichilismo
consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente. In effetti la si lascia inesplicata, si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale. Con l’approvazione generale si dice: o il Niente “è” “qualcosa” senz’altro nullo oppure deve essere un “ente”. Poiché però, evidentemente, il Niente non può mai essere un ente, non rimane che l’altra possibilità, cioè che il Niente sia l’assolutamente nullo.
[…]
E se il Niente, in verità, non fosse un ente, ma non fosse nemmeno mai ciò che è soltanto nullo? E se la domanda dell’essenza del Niente non fosse, sulla scorta di quell’aut-aut, nemmeno posta in termini sufficienti? E, ancor di più, se la mancanza (Ausbleiben) di questa domanda dispiegata che chiede dell’essenza del Niente fosse la ragione (Grund) del fatto che la metafisica occidentale deve cadere vittima del nichilismo? Il nichilismo sarebbe allora esperito e concepito in modo più originario ed essenziale, quella storia della metafisica che spinge a una posizione metafisica di fondo nella quale il Niente, nella sua essenza, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito. Nichilismo significherebbe allora: il non pensare, per essenza, all’essenza del Niente. (…) Nietzsche riconosce, sì, il nichilismo come movimento soprattutto della storia occidentale, ma non è capace di pensare l’essenza del Niente perché non è in grado di cercarla domandando, egli deve diventare il nichilista classico che esprime la storia che sta accadendo ora. Nietzsche riconosce ed esperisce il nichilismo poiché pensa lui stesso in modo nichilistico. Il concetto nietzschiano del nichilismo è esso stesso un concetto nichilistico. Nietzsche non è capace, nonostante tutte le intuizioni, di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin dall’inizio e soltanto in base al pensiero del valore come il processo della svalutazione dei valori supremi. Egli deve concepire il nichilismo in tal modo perché, mantenendosi nella traiettoria e nell’ambito della metafisica occidentale, pensa quest’ultima fino in fondo.»2]Continua a leggere →
Incontrai per la prima volta Kurtág nel settembre del 1945, quando entrambi ci presentammo al Conservatorio “Franz Liszt” di Budapest per sostenere la prova di ammissione ai corsi di composizione di Sándor Veress. Lui aveva diciannove anni, io ventidue. A quei tempi, pochi mesi dopo la fine della guerra, cibo e appartamenti scarseggiavano: i tre quarti delle case della città erano in rovina. Per chi veniva da fuori era dunque quasi impossibile trovare un letto per dormire; avere una camera a disposizione per studiare, il che voleva dire un pianoforte, era un sogno irrealizzabile. E così il mio “appartamento in subaffitto” consisteva in un materasso sfasciato, posato direttamente sul pavimento di una squallida cucina che puzzava di gas di città e scarafaggi. Non ricordo come e dove fosse sistemato Kurtág allora. A Budapest i vetri non esistevano più, i telai delle finestre venivano chiusi da fogli di carta, oppure – nel migliore dei casi – da sottili assi inchiodate. In autunno, quando il freddo cominciava a farsi sentire, le finestre dovevano restare costantemente sbarrate, cosicché faceva buio anche di giorno. Non c’era combustibile, e negli appartamenti sovraffollati soffiava un vento glaciale.
Ma la durezza della vita quotidiana ci sfiorava appena: la guerra era finita, e in città regnava una vita culturale e artistica intensa, molteplice e varia. La fine della dittatura nazista aveva consentito a un fiotto d’energia intellettuale di sgorgare liberamente, le arti sbocciavano. Affamati, intorpiditi dal freddo, ma con insospettabile slancio, gli scrittori e gli artisti sopravvissuti si misero al lavoro. In quei giorni spalancati al futuro non ci rendevamo assolutamente conto che stavamo passando da una dittatura a un’altra: la dittatura stalinista, comunista, che si manifestò dapprima in forma mascherata, pose termine poco tempo dopo alla libertà e allo slancio artistico e culturale.
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gyorgy ligeti
I nazisti tedeschi avevano annientato più del cinquanta per cento della popolazione ebrea di Budapest, e questo rappresentava per la vita spirituale della città una perdita grave. Prima della guerra, Budapest ospitava circa un milione e mezzo di abitanti, e più di centocinquantamila erano ebrei. Per la maggior parte erano stati deportati nei lager tedeschi, o fucilati a Budapest dalle unità armate di nazisti ungheresi, le “croci frecciate”. Quasi tutti i sopravvissuti si trovavano concentrati nel ghetto che i nazisti avevano approntato nell’estate del 1944.
Nel 1945, le forze d’occupazione sovietiche autorizzarono libere elezioni, per ragioni più tattiche che ideologiche. Il governo di centrosinistra, democraticamente eletto ma provvisorio, incoraggiò la fioritura della vita intellettuale e tollerò i movimenti artistici d’avanguardia.
Il poeta ungherese più importante dell’epoca, Miklós Radnóti, era stato assassinato dai nazisti. I poeti sopravvissuti fondarono riviste letterarie: quella forse più significativa e vivace s’intitolava “Vàlasz” (Risposta); pubblicava testi di giovani poeti di ottimo livello, come Sándor Weòres e Janos Pilinszky, entrambi seguaci di tendenze letterarie radicalmente moderne. Il poeta e pittore Lajos Kassàk fu capofila dei costruttivisti; la “Scuola europea” e il circolo che ruotava intorno al poeta Lajos Vajda, morto da poco, furono il centro d’interesse nelle arti plastiche.
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Kurtág e io fummo attirati e influenzati da questa intensa vita artistica e letteraria. Malgrado la funesta esperienza dell’epoca nazista eravamo entrambi pieni di giovanile entusiasmo, di speranza per una cultura ungherese moderna. Entrambi seguaci di Bartók, consideravamo la sua musica come fondamento di sviluppo per un nuovo linguaggio musicale cromatico-modale, che avrebbe dovuto essere internazionale pur affondando le proprie radici nella tradizione ungherese. La nostra amicizia si fece più profonda quando ci accorgemmo che dividevamo, oltre alle stesse idee musicali, anche le medesime opinioni politiche (opinioni da intellettuali di sinistra, molto radicali ma non allineate all’ideologia comunista ufficiale), e che per di più traevamo origine da una situazione familiare analoga: quella delle famiglie intellettuali ebree ungheresi (mezze ebree, per Kurtág) assimilate alla cultura ungherese. Ci sentivamo legati anche da un’altra esperienza culturale: entrambi originari di una regione della vecchia Ungheria divenuta romena dopo la prima guerra mondiale, avevamo frequentato licei di lingua rumena e sia nel nostro modo di sentire che nelle nostre concezioni artistiche ci sentivamo fortemente attratti dalla Francia, in parte per via dell’orientamento francofilo della cultura rumena.
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Gyorgy-Ligeti
Kurtág veniva da Lugoj, una piccola città nel Banat, non lontano dalla frontiera iugoslavo-rumena, e aveva studiato a Timisoara, la capitale di quella regione. Io ero nato a Dicsòszentmàrton, minuscola città nel centro della Transilvania, ed ero cresciuto a Cluj, la città più grande di questa provincia. Nello stesso momento, il settembre del 1945, affrontammo entrambi – a piedi, senza documenti, e l’uno all’insaputa dell’altro – il rischioso passaggio clandestino della frontiera rumeno-ungherese per recarci a studiare a Budapest. Il motivo che ci spinse ad affrontare questo rischio fu il medesimo: tutti e due sognavamo di studiare al Conservatorio di Budapest, la migliore scuola di musica del Sud-est d’Europa, ricca di una tradizione che risaliva a Franz Liszt.
Il vero scopo del nostro pellegrinaggio, tuttavia, non era solamente la scuola in sé, ma più ancora la persona di Béla, che nell’autunno del 1945 era atteso da New York: Bartók avrebbe dovuto occupare una cattedra al Conservatorio, oltre che una posizione eminente nella vita musicale ungherese. Sebbene nessuno di noi avesse fatto ancora la sua conoscenza, lo ammiravamo con devozione e attendevamo impazienti il giorno in cui ci sarebbe stato possibile vederlo e ascoltarlo di persona. È quindi facile immaginare il nostro scoramento quando, il giorno stesso del nostro esame di ammissione, vedemmo la bandiera a lutto svettare sul Conservatorio: quel giorno era giunta da New York la notizia della morte di Bartók, all’età di sessantaquattro anni. La gioia di essere stati ammessi ai corsi di composizione fu così del tutto offuscata dal dolore per l’irrimediabile perdita del nostro padre spirituale.
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In quella mezz’ora di attesa, nei corridoi art nouveau del Conservatorio, mentre col batticuore aspettavamo di essere introdotti nell’aula degli esami, nacque spontaneo un sentimento d’amicizia tra Kurtág e me. Sentii che in lui avevo trovato un compagno con cui dividere in tutto e per tutto le mie opinioni e concezioni di un nuovo stile musicale. Amavo la timidezza di Kurtág, il suo temperamento introverso e l’assenza totale di vanità e presunzione. Era intelligente, sincero, semplice ma in modo molto complesso. Più tardi mi confessò che m’aveva preso per uno studente di teologia protestante. Questo divertì molto entrambi: la mia timidezza provinciale era stata interpretata da lui come rigore religioso, il che non corrispondeva per nulla al mio vero carattere.
In quest’amicizia, nata nell’attesa dell’esame di ammissione, era incluso anche un altro giovane compositore: Franz Sulyok, al tempo ventenne; tanto Kurtág che io l’ammiravamo per l’eleganza, l’assoluta schiettezza e l’indipendenza di spirito. Diventammo così amici inseparabili; tutti e tre frequentavamo il corso di composizione di Sándor Veress. Sulyok proveniva da una famiglia simile alla mia e a quella di Kurtág, sebbene fosse originario non della provincia ma di Budapest; anche i suoi ideali musicali erano simili ai nostri.
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I casi della vita ci spinsero in tre diverse parti dell’Europa. Sulyok fu il primo a lasciare, già nel 1949, l’Ungheria staliniana. A rischio della vita, passò illegalmente la frontiera tra Ungheria e Cecoslovacchia prima, tra Cecoslovacchia e Austria poi. Giunto a Parigi, divenne allievo di Darius Milhaud e Nadia Boulanger; più tardi visse a Bujumbura, in Africa, e oggi si trova nuovamente a Parigi. Sándor Veress lasciò a sua volta l’Ungheria; Kurtág e io proseguimmo i nostri studi con Pal Jardanyi prima, con Ferenc Farkas poi. Nel frattempo, Kurtág studiava anche pianoforte con Pal Kadosa e frequentava i celebri corsi di musica da camera di Leo Weiner. Nel dicembre 1956 salutai Kurtág e sua moglie e mi rifugiai con mia moglie in Austria. Kurtág rimase a Budapest e divenne il più importante compositore ungherese.
Nonostante la separazione geografica, la nostra amicizia è rimasta intatta. Quando ci accade di ritrovarci, sentiamo che i nostri ideali musicali corrispondono, sebbene – dagli anni trascorsi in comune a Budapest – le nostre strade e la nostra evoluzione abbiano seguito una direzione diversa.
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Gyorgy Ligeti, Eckhard Roelcke, Lei sogna a colori?, Alet edizioni, 2004 – ISBN 88-7520-005-X
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da Associazione culturale Orfeo nella rete – Musica classica
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La concezione dell’evento sonoro.
Questa composizione è stata scritta nell’estate del 1966. La poetica di Ligeti è, tuttavia, da collocarsi fuori da quell’insieme formato dagli stilemi compositivi del secondo novecento. Ligeti non utilizza materiale dodecafonico, tecnica compositiva che aveva influenzato gran parte dei compositori fino a quel momento. Inoltre egli non scrive per strumento e nastro magnetico: altro genere di composizione che proliferava in quegli anni. Ligeti si accosta alla musica elettronica dopo essere emigrato dall’Ungheria nel 1956. Essendosi, infatti, recato prima in Austria, e poi in Germania troverà un ambiente dedito allo sviluppo delle tecnologie sonore. Lavorerà allo studio di fonologia di Colonia e da questa collaborazione nasceranno composizioni come Glissandi (1957) ed Artikulation (1958). Quella della musica elettronica è, però, per Ligeti, una esperienza che si colloca all’inizio della sua carriera ma che lascerà tuttavia delle tracce nei suoi lavori futuri.
Gli anni sessanta del ventesimo secolo, in realtà, rappresentano l’apice di uno sperimentalismo, talvolta fine a se stesso e che va oltre l’evento delle tecnologie sonore, cominciato nel decennio precedente, ed alimentato anche dalle tendenze compositive della cosiddetta scuola di Darmstadt. Questa composizione rappresenta un esempio di come si possa scrivere un’opera di grande valore artistico, senza obbedire alle sterili teorie dello sperimentalismo estremo.
D’altra parte Ligeti non ha mai assecondato le tendenze del momento, ossia ha sempre seguito un “percorso personale”, sganciato però da ciò che erano le tendenze comuni. Egli, nelle sue composizioni si rifà per lo più agli insegnamenti dei grandi maestri fiamminghi, in termini di polifonia, ed anche di organizzazione formale (cfr. oltre).
Le “nuove tendenze” investivano tutti i parametri musicali, dunque anche la notazione, che per soddisfare le nuove esigenze del linguaggio, si modificò. Con l’avanguardia postweberniana si raggiunse un iperdeterminismo del segno, nel senso che tutti i parametri venivano sottoposti ad un processo di serializzazione. La reazione a questo tipo di scrittura fu l’introduzione, da parte dei compositori, di segni ad hoc che permettessero loro di indicare intervalli di un quarto di tono, ad esempio, o i glissando. Si giunse così da un iperdeterminismo ad un indeterminismo, o per meglio dire ad un grafismo estremo, come mostra l’es.1 che riporta una parte di Zyklus per un percussionista, di K.Stockhausen.
es.1
Un altro tipo di notazione usata era quella aleatoria, che lasciava libertà all’esecutore di gestire alcuni parametri della composizione. Ne risultava che tutte le esecuzioni, dello stesso brano, erano differenti le une dalle altre. Un esempio è Quartetto IV di F.Donatoni (1963) la cui struttura è determinata dall’impaginazione di un quotidiano della località e del giorno dell’esecuzione. Si giunse, poi, ad una stretta connessione tra grafismo ed evento sonoro, nella quale il segno tende a suggerire ciò che poi sarà il suono (cfr. LaPassion selon Sade di S.Bussotti-1966). La notazione che Ligeti usa è “classica”: in essa non si apprezza l’introduzione di particolari segni o grafismi.
Quello che però il compositore rivisita, in questa opera, è il rapporta fra parola e suono, rapporto che si è modificato attraversando i vari periodi storici, ed adesso viene trattato in maniera “nuova”, tenendo conto, però, del suo passato.
Nel cantus planus la parola è la rivelazione della divinità “attraverso” il suono che, a sua volta, è la glorificazione della parola. Successivamente nella grande stagione della polifonia fiamminga si assiste, invece, alla trascendenza del rappresentato, grazie alla quale l’opera d’arte stessa è considerata essere espressione del sacro. Dal sedicesimo secolo si svilupperà poi il madrigale, cioè l’intima relazione fra parola e suono. Il suono, o meglio il profilo della melodia rispecchia la semantica della parola. Dallo sviluppo del madrigale (cfr. L’ottavo libro di madrigali di Claudio Monteverdi) nascerà poi la grande avventura del melodramma.
Dall’altra parte, dopo le due scuole liederistiche di Berlino, approderà a Vienna il Lied che raggiungerà vette altissime grazie a compositori come, ad esempio, F. Schubert.
Nel ventesimo secolo il rapporto fra parola e suono diventa “inutile”, perché si è esaurito, nel senso che la parola è “assimilata” dal suono. In alcune opere il testo e trasfigurato dal suono. Un’opera illuminante in tal senso è il quartetto “Fragmente-stille, an diotima” (1979-1980) di L. Nono, nel quale, “solo” in partitura compaiono frammenti da “An diotima”, una poesia di F. Hölderlin. I frammenti devono evocare delle sensazioni negli esecutori, ed essi poi devono trasformarle in suono.
Ligeti in questa composizione recupera, quella dimensione nella quale la parola perde la sua funzione referenziale, ossia in essa non c’è alcuna funzione dialettica tra significante e significato.
La parola si sgancia dal “sistema” della lingua per assumere una “entità sonora” unica e libera. Ligeti rimarca questo aspetto precisando in partitura, ad esempio, che alcune consonanti non vanno articolate, perché ostacolerebbero il flusso sonoro. Altrove addirittura viene cantata solo una sillaba della parola, cosicché non è possibile riconoscere la parola col suo significato. La scelta del testo, poi, è significativa: i riferimenti all’eterno si sposano perfettamente con la costante ricerca del continuum sonoro. In questa ottica la “musicalità” insita nelle parole è al servizio del continuum. In questa sede, dunque, la parola è “il luogo del suono”.
Sulla gestione dei parametri costitutivi.
“E’ una musica che suscita l’impressione di un fluire senza inizio e senza fine. Vi si ascolta una frazione di qualcosa che è iniziato da sempre e che continuerà a vibrare all’infinito. Tipico di componimenti siffatti è il non avere cesure che l’idea di flusso non consentirebbe”. Con queste parole Ligeti parla della sua musica. In effetti all’ascolto si percepisce un continuum che subisce varie metamorfosi, ma che non “inizia” e non “finisce” mai. Questo continuum ha la caratteristica di essere statico e dinamico contemporaneamente. E’ statico perché utilizza le stesse note alla stessa altezza per tutte le voci, ed è dinamico perché all’interno di questo tessuto si possono individuare linee “virtuali” (cfr. oltre), ogni micro-articolazione nasce e muore, ossia è indipendente dalle altre ma allo stesso tempo interagisce con le altre. In questo senso sono da intendersi le composizioni di Ligeti. Ad esempio, in Volumina per organo, egli propone degli accordi o meglio dei clusters nei quali però si muovono varie linee virtuali. Il suono dunque è il “protagonista” principale della composizione. Ciò spiega la minuzia con la quale il compositore indica tutti i modi di attaccare il suono e di lasciarlo. D’altra parte anche il fatto che prima di attaccare un suono ci sia una pausa sta a significare che si vuole evitare qualsiasi articolazione della voce. Le stesse parole sono “modificate”, nel senso che alcune lettere che le compongono non si devono sentire perché ostacolerebbero il flusso. Naturalmente questo non accade solo in questa sede, ma anche in partiture per orchestra (cfr. Lontano) e per altri strumenti. I colori sono tutti variazioni del p, questo a rimarcare la volontà di creare un corpus sonoro indefinito, e dunque, se vogliamo, che si colloca in un luogo “lontano” rispetto a chi ascolta.
Testo e mappa topografica della composizione.
Il testo usato è liturgico, tratto dalla “missa pro defunctis”, ed è il seguente: “Lux aeterna luceat eis, Domine, cumsanctis tui in aeternum quia pius es. Requiem aeternam dona eis, Domine, et luxperpetua luceat eis“.
Questo testo è distribuito nelle tre macro-sezioni che compongono la composizione. Addirittura in due di esse c’è un vero e proprio scivolamento di due parti di esso, una sopra l’altra. L’organico è costituito da un coro misto a cappella, formato da soprani, contralti, tenori e bassi; ciascuna voce si suddivide in quattro sottogruppi; lo schema di come si avvicendano le voci durante l’intera composizione è riportato nell’es.2.
es.2
Dall’es.2 si evince che le voci si avvicendano secondo schemi non simmetrici, che trovano la loro ragion d’essere solo nel determinare diverse macro-articolazioni, appunto, nelle quali la composizione è suddivisa. La massa sonora, infatti, può essere gestita sostanzialmente secondo tre modi: aumentazione, mantenimento e diminuzione. All’interno di una sezione cioè si può assistere ad entrate in successione delle voci (aumentazione), oppure alla gestione di linee melodiche virtuali con un numero di voci costante (mantenimento) ed in fine ad uno spegnimento progressivo del suono, cioè alla fine in successione delle voci (diminuzione). Tenendo conto di quanto esposto la composizione può essere suddivisa in tre macro-sezioni: la prima dalla batt.1 alla batt..37, la seconda dalla batt.39 alla batt.89 ed infine la terza dalla batt.90 alla batt.119. Risulta evidente che sono presenti dei suoni di collegamento fra una macro-articolazione e l’altra, non essendo esse giustapposte.
La prima macro-articolazione.
I soprani 1 ed i contralti 1 cominciano simultaneamente ad intonare un fa³. Scorrendo le linee delle due voci si evince che ad ogni nota corrisponde una sillaba: dunque alle parole lux aeterna corrispondono quattro note. Nella prima sezione le parole usate – dai soprani e contralti – sono lux aeternaluceat eis. La macro-articolazione risulta essere suddivisa in diverse micro-articolazioni, composte da quattro note ciascuna, che sono riportate nell’es.3.
es.3
Tuttavia anche le altre voci, e cioè soprani 2, 3, 4 e contralti 2, 3, 4, seguono le stesse micro-articolazioni. Ogni voce ha, quindi, una propria figurazione ritmica caratteristica: i soprani 1, 4 ed i contralti 3 hanno le terzine; i soprani 2 ed i contralti 1,4 le quintine, ed infine i soprani 3 ed i contralti 2 non hanno nessun gruppo irregolare. Questo procedimento di assegnare ad ogni voce uno stesso “modo ritmico” era peculiare nella notazione quadrata. Sotto il profilo diastematico c’è un’apertura dal sol³ al la4 e al reb³, passando per tutti i gradi cromatici intermedi (es.2). Il movimento delle voci realizza dunque un cluster diatonico. Quello a cui questa scrittura tende è a far nascere un suono “dentro” l’altro, cosicché si possa giungere all’eliminazione di qualsiasi tipo di cesura.
Da quanto esposto fino ad ora si deduce che Ligeti realizza un canone di altezze, ma non di durate. La stessa melodia è percepita simultaneamente ma con velocità diverse, cosicché si ha uno sfalsamento dei suoni e di conseguenza uno sfuocamento della melodia iniziale. La perdita della percezione dell’individuum non significa il suo annullamento: questo sta a significare l’importanza del singolo non in quanto tale, ma in relazione col tutto. Questa esaltazione della “virtualità” del suono fa si che anche i suoni che non sono scritti in maniera lineare in partitura, vengano associati dall’ascoltatore, e che si crei così una lunga linea melodica virtuale (continuum). Questa tecnica era già stata usata nella polifonia antica., come si evince dall’es.4 che mostra l’inizio del kyrie della Missa Prolationum di Ockghem; chiaramente questo è possibile se le voci si muovono in una stessa regione sonora. La linea, ad esempio, può essere quella del contratenor fa do fa la, oppure fa³, do³, do4 (seconda batt.), do³ (seconda batt.), come evidenzia la linea tratteggiata.
es.4
Queste linee virtuali si ritrovano anche in lux aeterna come si vede nell’es.5. Per esempio potremmo considerare la linea del soprano 1 fa sol fa# sol, oppure fa ³, fa³, fa³, fa# ³ (seconda batt.), come evidenzia la linea tratteggiata.
es.5
L’ambito sonoro si ingrandisce progressivamente, come mostra l’es.6.
es.6
A questa dilatazione corrisponde anche una dilatazione delle voci: i tenori, infatti, si inseriscono dalla batt.24, uno alla volta. Il testo che cantano è: luceat eis. La massa ne risulta quindi ulteriormente ingrandita. Questo modo di inserire le voci non simultaneamente era caratteristico nella scuola veneziana (cfr. le composizioni di A.Gabrieli, ad es. nunc dimittis e jubilate Deo).
La prima micro-articolazione termina con un intervallo di ottava fra due la naturali: i soprani ed i tenori hanno un la4 ed i contralti un la³. L’intervallo di ottava è una caratteristica stilistica di Ligeti e la ritroviamo infatti anche in altri lavori a delimitare delle macro-articolazioni (cfr. Lontano, fine della prima articolazione batt.41).
La seconda macro-articolazione.
Il passo omoritmico dei bassi (un cluster che si trova in una regione al di fuori della loro estensione, da qui la necessità di cantare in falsetto) conduce al secondo canone dei tenori che comincia a batt.39. Il testo di questa sezione, per le voci maschili, è: Cum sanctis tuis in aeternum quiapius est.
Anche in questo caso, come nella prima macro-articolazione, ad ogni sillaba corrisponde una nota. Lo schema della micro-articolazioni è riportato nell’es.7.
es.7
Per quanto riguarda la struttura della polifonia valgono le osservazioni fatte nel precedente paragrafo. I bassi entrano alla batt.46. A differenza della prima macro-articolazione dove i tenori andavano ad aumentare progressivamente la massa sonora, in questo caso i bassi entrano simultaneamente, però, essendo l’attacco del suono “dal nulla”, e per di più con tre tenori su quattro che cantano il re4, la massa risulta aumentata improvvisamente. Le micro-articolozioni sono le stesse dei tenori.
Dalla batt.61 entrano i soprani ed i contralti ed i bassi attaccano simultaneamente con loro. Il testo delle voci femminili è: Requiem aeternam dona eis. I soprani seguono lo schema riportato nell’es.8.
es.8
I contralti usano solo tre note, che poi vengono ripetute, e che sono riportate nell’es.9.
es.9
Esse entrano però non tutti sulla stessa nota, ma sfalsati: il contralto1 ha un do ,il contralto 2 un sib ed infine i contralti 3 e 4 un sol. Sono dunque tre livelli sovrapposti che potrebbero essere raggruppati nella maniera seguente: i soprani ed i contralti hanno lo stesso testo ma diversa struttura del canone. I tenori ed i bassi hanno stesso testo e stessa struttura del canone. Questo scivolamento non rappresenta, a ben vedere, una novità. D’altra parte anche nella sonata per pianoforte op.81a di Beethoven, che è stata scritta negli anni 1809-1810, c’è uno “scivolamento di funzioni armoniche”(es.9-batt.227-232), cioè la sovrapposizione di due livelli differenti. Nell’es.10 risulta evidente che, nella quarta battuta, mentre nel livello inferiore c’è una funzione di dominante, in quello superiore si trova una tonica; la situazione si rovescia nella battuta seguente, per poi tornare come è stata descritta in quella seguente ancora.
es.10
La massa sonora utilizzata, che ha il punto di massimo dalla batt.61 fino alla batt.76, diminuisce progressivamente, cosicché le voci man a mano spariscono. In partitura notiamo che quando una voce lascia il suono c’è sempre la dicitura morendo.
La terza macro-articolazione.
Come è accaduto alla fine della prima macro-articolazione anche qui i bassi cantano Domine secondo figurazioni omoritmiche (batt.87-91), prima della fine delle quali comincia l’ultimo macro-articolazione. Il testo è: et lux perpetua luceat eis. Anche questa risulta essere un canone – dei contralti – nel quale, come per i precedenti, ad ogni sillaba corrisponde una nota. Si avranno anche qui delle micro-articolazioni che sono riportate nell’es.11.
es.11
Le osservazioni sulla polifonia fatte precedentemente valgono anche per questo canone. La scrittura all’inizio (batt.90) è densa, poi, mano a mano, si dirada fino alle semibrevi legate delle batt.114-119. Le altre voci fanno da contorno al canone dei contralti, quasi a creare una “cornice” che include il canone stesso. Le voci in questione sono i soprano ed i tenori dalla batt.94 alla batt.102 che cantano lucea ai quali, poi, si aggiungono i bassi dalla batt.101 alla 114. I soprani di nuovo dalla batt.110 alla batt.114 cantano solo la sillaba lu. I valori di queste tre voci sono lunghi e tenuti. La scrittura ritmica dei contralti tuttavia tende a uniformarsi con loro man a mano che il canone va avanti. C’è dunque nei contralti una rarefazione del suono che porta fino al morendo di batt.119. Dopodiché è il silenzio (pause delle batt.120-126) perché il suono è andato altrove; le pause indicano dunque quell’universo sonoro al quale appartengono tutti i suoni e dal quale noi per qualche minuto ne abbiamo sentiti solamente alcuni.
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
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Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Vincenzo Petronelli La tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen.
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione delle parole e della stessa tradizione del ‘900
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano [Maria Rosaria Madonna]
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi sono le cose della vita, gli eventi che ci accadono, gli eventi omnibus»diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Il Mangiaparole n. 10
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Antologia della Poetry kitchen – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Predrag Bjelosevic
Petr Kral Il Mangiaparole
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Fernando Pessoa
Jacopo Ricciardi
Jacopo Ricciardi
Samuel Beckett
Anna Ventura, «Tra le parole e le cose occorre una grande distanza»
Guido Galdini, Le parole sono schegge di appunti precolombiani – è uno specchio per le allodole/ o sono allodole per lo specchio/ o le allodole sono lo specchio?
Guido Galdini
Mauro Pierno, Lo statuto recondito delle parole dimenticate
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.