Francesco De Girolamo, Luci segrete (haiku), Ed. Il ramo e la foglia, 2023 pp. 64 € 12, Lettura di Giorgio Linguaglossa

Non è stato Thomas Stearns Eliot che in La terra desolata, ha scritto: «Aprile è il più crudele dei mesi … Fiorirà quest’anno? … Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine» (This fragments I have shored against my ruins). Molti si sono chiesti cosa significasse la parola «rovine», senza trarre le dovute conseguenze da quella parola. Le «rovine» siamo noi, sono le nostre «parole», sempre fuori-luogo e fuori-significato, con le quali non possiamo comunicare alcunché di significativo. E allora la poesia più attenta di oggi torna a rivolgersi istintivamente a quelle «rovine» che in un altro tempo, in altre civiltà sono state «parole» vive e pregne di significato.

In questo libro di haiku di Francesco De Girolamo c’è l’esposizione della biplanarità del testo-haiku: da una parte l’io, dall’altra la realtà. L’haiku è storicamente la forma che per eccellenza punta sulla evanescenza della realtà e sulla de-localizzazione dell’io. Il soggetto scopre che «non è più padrone in casa propria» (Freud), che i pensieri e le parole sfuggono, si muovono indipendentemente dalla volontà della «mente», e che questo ininterrotto peregrinare  è nient’altro che il luogo della soggettività. L’itinerario della soggettività risiede nella distanza tra: a) la parola e l’immagine; b) tra l’immagine e la realtà; sul presupposto che l’immagine è già una rappresentazione della parola, e che la parola (e quindi l’immagine) è l’atto del pensiero.

Per noi, in Occidente, la poiesis non è soltanto un «dire», un «dire» autosufficiente, ma un «fare», un operare concreto. La poiesis in Occidente mette in atto una «pratica» del non dire i significati noti e acclarati, infatti, non dà luogo a significati già noti, ma deve essere intesa come un «dire» significati che un attimo prima dell’atto del gramma non erano neanche immaginabili, quindi per noi in Occidente la parola è un segno, un atto più o meno «arbitrario» nel senso che può conformarsi o no ai significati già noti, un gesto performativo. In questi haiku di De Girolamo invece si ha un esercizio «inoperoso», il «dire» è un «fare inoperoso», un fare ricco di «inoperosità» (nel senso in cui lo intende Agamben), quando si riferisce a «un operare che, in ogni atto, realizzi il proprio shabbat e in ogni opera sia in grado di esporre la propria inoperosità e la propria potenza». (Giorgio Agamben)

Il modo in cui il pensiero può ancora distinguersi dal comune opinionare è fare ciò che né la doxa né la scienza possono fare. Questo è il compito storico della poiesis: menzionare l’ombra che altro non è che la distanza tra la parola e la medesima parola pronunciata un attimo dopo la prima volta; l’ombra non coincide con il percetto né con l’atto del pensiero ma rivela una distanza, è la difference tra la parola e la ripetizione della parola medesima (1 non è mai eguale a 1). L’ombra è quella realtà che sempre accudisce la forma della luce. Gli haiku di De Girolamo hanno sempre a che fare con l’ombra, non si accontentano dei significati consolidati, anzi, dirò di più, è un raffigurare la distanza tra la parola e la parola ripetuta, è un volgere la raffigurazione all’orlo, al limite, alla condizione di possibilità della significazione.

Muro di sabbia

una mano di piombo

soffoca l’onda.

*

Dietro il cristallo

della neve ferita

soffia l’azzurro.

*

Entra il libeccio:

la tenda del balcone,

velo da sposa.

La raffigurazione in questi haiku è un esercizio etico, un «fare» (che è anche un «dire») che si indirizza sulle tracce del punto cieco di ogni conoscenza per mettere in luce il limite dei suoi presupposti. La parola è qui lo specchietto retrovisore che accudisce il punto cieco della visione. La parola non è tutto, non può essere tutto, qualcosa sfugge sempre alla parola, anche in questi haiku, è questa la ragione della vitalità della lingua, che la parola, ogni parola è insufficiente ai fini del «dire».

Questa pratica-haiku è un abitare il mondo delle parole senza adottare i significati consolidati che corrispondono storicamente a quel mondo di parole. Questa pratica, questo esercizio quotidiano implica e richiede una «torsione» delle parole per rivelare la loro ombra, quell’ombra che infirma i significati consolidati.

Ad esempio, nel terzo haiku riportato, il «velo da sposa» richiama alla mente, per via di un correlativo oggettivo, l’atto del primo verso che si presenta con la personificazione di un inanimato (il libeccio): «Entra il libeccio»; il secondo verso funziona come trait d’union tra le immagini del primo e del terzo verso, funziona cioè come mediazione. Gli haiku di De Girolamo funzionano tutti secondo questo schema: dove il secondo verso agisce come momento di mediazione tra il primo e il terzo verso, in ciò rendendo evidente che si tratta di haiku modernissimi, di haiku dove agisce una sensibilità squisitamente occidentale, modernistica.

(Giorgio Linguaglossa)

.

Francesco De Girolamo è nato a Taranto, ma vive da molti anni a Roma, dove, oltre che di poesia, si è occupato di teatro, avendo curato la regia di diversi spettacoli, tra cui: “Le sette maschere” ispirato a Kahlil Gibran (1992) ed “Il piacere di dirsi addio” da Jules Renard (1996).
Ha pubblicato: “Piccolo libro da guanciale” (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; “La lingua degli angeli” (Edizioni del Leone, 1997); “Nel nome dell’ombra” (Ibiskos Editrice, 1998), con una nota critica di Gino Scartaghiande; “La radice e l’ala” (Edizioni del Leone, 2000), con prefazione di Elio Pecora; “Fruscio d’assenza” – Haiku della quinta stagione – (Gazebo Libri, 2009); e “Paradigma” (LietoColle, 2010), con introduzione di Giorgio Linguaglossa.
E’ presente nelle antologie: “Poesia dell’esilio” (Arlem Edizioni, 1998), “Poesia degli anni ’90” (Edizioni Scettro del Re, 2000), “Haiku negli anni” (Empiria, 2005), “Calpestare l’oblio” (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana), Argo, 2010) e “Quanti di poesia” – Nelle forme la cifra nascosta di una scrittura straordinaria – a cura di Roberto Maggiani (Edizioni L’Arca Felice, 2011). Articoli letterari e recensioni sono stati pubblicati su: “Tempi Moderni”, “Le reti di Dedalus”, “La Mosca di Milano”, “Polimnia” e su diversi blog e siti specializzati di Poesia e Critica. Nel 1999 è stato scelto tra i rappresentanti della Poesia italiana alla “Fiera del libro” di Gerusalemme. Ha collaborato dal 1994 al 2000 con l’organizzazione di “Invito alla lettura” a Castel Sant’Angelo e nel 2006 con il “RomaPoesia – Festival della Parola”. Nel 2007 è stato Responsabile Territoriale per il Lazio del Sindacato Nazionale Scrittori. Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: “Poesia”, “Folium”, “Poiesis” e “Atelier”.

22 commenti

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22 risposte a “Francesco De Girolamo, Luci segrete (haiku), Ed. Il ramo e la foglia, 2023 pp. 64 € 12, Lettura di Giorgio Linguaglossa

  1. A mio parere sono haiku validi e metricamente perfetti.

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  2. Giorgio Linguaglossa
    30 agosto 2023 alle 17:38

    I famosi jet da guerra F 16 che l’Occidente sta fornendo all’Ucraina sono congegni talmente sofisticati che, se in fase di decollo i motori aspirano un oggetto anche piccolissimo, il jet può deflagrare.

    Analogamente, l’estraneo, il corpo estraneo che entra in una poetry kitchen può metterne a soqquadro i motori e provocarne una deflagrazione distruttiva.

    Dobbiamo quindi tenere presente che c’è sempre un rischio nell’immettere corpi estranei nel testo di una poesia kitchen, non è sufficiente il fatto che sia stato l’inconscio a suggerire di inserire proprio quel determinato corpo estraneo in luogo di un altro. Noi sappiamo che nella attività onirica e in quella di tutti i giorni l’inconscio produce moltissimi corpi estranei, anzi, l’estraneo fa parte integrante della attività dell’inconscio, che è propriamente una officina per la produzione di corpi estranei.
    Ecco la estrema problematicità di fare una poesia kitchen: avere a che fare continuamente con i corpi estranei. È come dover attraversare un campo minato (i significati), rischi sempre ad ogni passo di saltare in aria.

    La modalità kitchen non ama gli alibi o le giustificazioni o le imposizioni che provengono dall’io (cioè dal significato), è questo che ci vuole suggerire Agamben quando parla della famosa formula Significante/significato. In questa formula non c’è posto per la «verità» (o per l’io); quel fratto, quella frattura sta ad indicare che non dobbiamo intervenire a suon di esclusioni e di abolizioni (che sono pur sempre espressioni dell’io), non dobbiamo per forza di Ragione eliminare il verbo o l’aggettivo in base a delle nostre convinzioni personali (il rischio è sempre quello di ricadere dalla parte del significato).

    Il significato sta lì, nascosto, come una mina in un campo minato, basta una disattenzione che ci metti il piede sopra. E salti in aria.

    31 agosto 2023 alle 13:44

    da Jacopo D’Alonzo:

    La semiologia da de Saussure ad oggi occulterebbe la biplanarità del segno linguistico. La barriera – del grafo S/s indicherà quella corrispondenza fra significato esignificante che sola permette la significazione. Tuttavia, «resistente alla significazione», la barra mostra l’impossibilità per il segno di prodursi «nella pienezza della presenza». Infatti «dal punto di vista del significare, la metafisica – obietta Agamben – non è che l’oblio della differenza originaria tra significante significato. Non permette cioè di «sostanzializzare i termini di quella scissione che gli (a Saussure, ndr.) si era rivelata come coessenziale al linguaggio» (ivi: 186). Occultata la differenza che è fissata nel grafo S/s, la 2 semiotica successiva a Saussure, nata su un fraintendimento del suo insegnamento, assunse il compito – «attraverso la «nozione di segno come unità espressiva del significante e del significato» (id. 161) – di presentare unito ciò che è invece scisso. Al differimento celato in simile concezione del segno, Agamben oppone il simbolo e la metafora. Nella sua forma il primo rimanda ad un significato non presente e rivela così la frattura su cui si basa ogni significare. La somiglianza inoltre non preesiste, afferma Agamben, alla metafora: non esiste alcun termine proprio o significato primo che debba essere sostituito, poiché il termine sostituito rimane presente. La natura simbolico-metaforica del linguaggio, scrive Agamben, raccoglie e divide ogni cosa nella «commessura della presenza».

    1«scissione» che può diventare la griglia interpretativa tramite la quale cogliere le costanti interne alle tradizionali riflessioni sul linguaggio, Agamben è in consonanza con la ricerca di polarizzazioni progettata da Warburg. In secondo luogo, la stessa linguistica secondo le parole di Benveniste,che diverrà di lì a pochi anni un punto di riferimento imprescindibile per il suo pensiero sarebbe contraddistinta dal principio secondo cui il linguaggio, da qualunque punto di vista venga studiato, è sempre un oggetto duplice, formato di due parti delle quali l’una è valida solo in virtù dell’altra (BENVENISTE 1994: 51). Agamben segue in queste pagine quanto sostenuto da LACAN (1966: 497). Prima di tutto2 alludendo alla grafia: l’algoritmo che rappresenta il segno linguistico deve essere letto «signifiant sur signifiè», significante su significato (S/s) e non viceversa. Inoltre Lacan era dell’opinione che la linguistica lasciasse in sospeso e per questo motivo sarebbe suspendue la relazione fra i due Etages: la barra del grafo S/s sarebbe une barrière résistante à la signification. Per inciso, il suo intento è quello di riabilitare Saussure alla luce di una critica della tradizione strutturalista, e l’unico modo per farlo non potrà che essere quello di radicalizzare un presunto rifiuto saussuriano delle pretese scientifiche della linguistica. Il tema della scissione tornerà nelle opere politiche; basti pensare alla dicotomia introdotta in La comunità che viene (1990), e poi ripresa in Homo sacer (1995), fra bios (esistenza politica, forma di vita) e zoé (vita biologica)*

    *https://www.academia.edu/14326322/Filosofia_del_linguaggio_e_critica_alla_linguistica_nei_primi_scritti_di_Giorgio_Agamben

    Noticina di chi scrive

    Il soggetto non avrà altra scelta che mettersi in sintonia (nel luogo) con il «vuoto» della barra S/s, questo è l’unico stratagemma che possiamo adottare dinanzi ad un mondo fatto di «pieno», di «pieni» a perdere. Dal punto di vista del «pieno» possiamo ipotizzare un «vuoto» solo con il segno negativo, con un meno, ma, se proviamo a pensare il «vuoto» dal punto di vista del «vuoto» che già siamo e in cui ci troviamo, cambia tutta la prospettiva, scopriamo che il «vuoto» è produttivo, è l’istanza creatrice che ci libera della presenza oziosa e ingombrante di un creatore demiurgico che ci risolve tutti i problemi. Se proviamo a pensare il «vuoto» come una istanza, cambia tutto, cambiano anche le parole e l’uso delle parole cui siamo abituati da sempre. Quello di cui l’umanità di oggi ha bisogno è sapere che c’è un nuovo e diverso modo di pensare e adoperare le parole rendendole indispositive, inoperose. Mettersi in sintonia con questo diverso «sentire» ci consentirà di fare con le parole e i pensieri delle cose nuove, diverse.

    In una certa misura, anche gli haiku di Francesco De Girolamo operano una sospensione del «dispositivo-significato», ma lo fa pur sempre dalla presupposizione di un «io», pur se in posizione contemplativa rispetto ad un di-fuori.

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  3. Pierangelo Consoli

    A proposito delle poesie di Francesco De Girolamo avevo già scritto che “Lo haiku è tutto ciò che ci rimane di un addio quando il treno è già partito.”
    Che è una cosa che penso dello Haiku in generale (componimento difficilissimo e inafferrabile come nessun altro)
    ma soprattutto di quelli composti da De Girolamo dove una leggerissima malinconia li fa tremare come il soffio con il tarassaco.

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  4. La poesia haiku, anche se intrisa di religiosità zen, agli occhi di noi occidentali arriva laica, prosastica e anti lirica (perché così è lo zen). Parliamo qui dell’haiku moderno in verso libero, libero da contenuti classici quali il riferimento stagionale, che con approssimazione possiamo interpretare con “l’aver luogo” – o la posizione del kireji (parola che taglia). Resta invariato il conteggio delle sillabe, o more.
    Lo zen non è una filosofia concettuale (si legga La via dello Zen, di Alan Watts), lo zen è principalmente far pratica di zen, serve a creare unità tra intento e azione così da favorire una esperienza trasformativa, alchemica, che in oriente viene detta Satori, di temporanea e illuminata comprensione). Ma non essendo praticanti dello zen, per noi l’haiku è principalmente un fatto estetico e stilistico. Comunque sia, è un ottimo esercizio per chi voglia addentrarsi nelle strettoie della creatività dimenticando stile, abbellimenti e descrizioni sovrabbondanti o di maniera. Francesco De Girolamo riesce a destreggiarsi su queste misure, e mi complimento. Resto però dell’idea che nel breve come nel lungo discorso i pregi e difetti di ogni autore restano invariati. Ma è Zen, se ben interpretato produce trasformazione.

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  5. Luca

    Da altre parti
    il drago mosso apre
    porta qua il cielo

    Plana nel campo
    libellula non sa
    un corvo appare

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    • francescodegirolamo

      “Solo raramente riusciamo a soddisfare noi stessi; è quindi tanto più consolante avere soddisfatto gli altri.”
      (Johann Wolfgang Goethe)
      Grazie
      Francesco De Girolamo

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  6. Giuseppe Talìa

    Il libro di poesia haiku di Francesco De Girolamo, Luci segrete, Ed. Il ramo e la foglia 2023, si inserisce nella tradizione del gendai haiku occidentale, vale a dire, haiku moderni occidentali.
    In questo senso, a differenza dello haiku tradizionale, il gendai haiku apre a nuove tematiche, dilata la prospettiva naturalistica e accoglie eventi, immagini, contenuti sociali, culturali e politici, andando spesso oltre le regole compositive proprie del genere poetico, principalmente trascurando i due elementi costitutivi dello haiku, il kigo (la stagione) e lo schema sillabico e sonoro.

    Francesco De Girolamo, con la buona fattura dei suoi versi e il virtuosismo metrico, in particolare la ricorrenza in alcuni componimenti dello stacco (kireji), del ribaltamento semantico e concettuale, di solito tra il primo verso e i seguenti due, anche se nel caso del libro Luci segrete lo schema è alquanto variabile, ci consegna un sensibile e valido esercizio fra tradizione e modernità.

    Giuseppe Talìa

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  7. Imparata la lezione, perché non inventarsi una nuova e personale struttura del testo? Ormai la brevità è di norma anche in occidente: titoli dei giornali, headline pubblicitarie. E non mancano silenzi.

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    • francescodegirolamo

      La peculiarità dell’haiku, ovviamente, non sta, comunque, solo nella sua brevità, come abbiamo già osservato, sia nella tradizione, che nelle sue espressioni più moderne, anche occidentali. Ma è una buona osservazione. Ci si può sicuramente pensare.

      Grazie,
      francesco

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  8. Critica del concetto agambeniano dell’experimentum linguae

    Una critica dello sperimentalismo linguistico è possibile soltanto nell’ambito del linguaggio, della Langue.

    Considero insufficiente ed erroneo il tentativo heideggeriano di pensare la fine della storia (dell’Essere) e il suo dispiegamento nel “concetto” di Ereignis. L’Ereignis è l’impensabile e l’impreveduto che diventa improvvisamente leggibile e pensabile. Ma qui il pensiero di Heidegger sconta la sua impostazione non dialettica, e ricade in un pensiero della storia come un susseguirsi lineare di eventi, pur se interrotta da eventi non-lineari.

    È di Agamben, l’assunzione, affermativa del «rivolgimento».
    Secondo Agamben è necessario che l’uomo si ponga nel luogo dell’in-fanzia, dell’experimentum linguae. Ma il «rivolgimento» deve essere pensato in modo dialettico. Il pensiero di Agamben soffre della medesima distassia di quello di Heidegger, Agamben non pensa in modo dialettico il passaggio dallo status quo al «rivolgimento», perché non v’è «rivolgimento» senza il suo contrario: il non-rivolgimento, la conservazione dell’esistente.

    Pensare la poiesis in modo dialettico implica aver presente che un passo in avanti spesso sconta due passi all’indietro. Posizionare il poietico nel luogo dell’in-fanzia deriva da un pensiero che non fa uso del metodo dialettico. L’experimentum linguae può essere posto soltanto nella dimensione linguistica, prima della lingua non c’è nulla che l’homo sapiens possa dire: c’è il bios, e prima ancora la zoè.

    Considero rivoluzionario il concetto agambeniano di «distruzione» contenuto nella sua prima opera, L’uomo senza contenuto (1970). in seguito il filosofo, nelle sue opere più mature, ha smussato di molto il concetto di «distruzione dell’estetica»; riporto in proposito i brani di Agamben :

    «L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica – e la sua apparente comprensione a partire dall’aisthesis dello spettatore – non sarebbe allora un fenomeno così innocente e naturale come siamo ormai abituati a rappresentarcelo. Forse nulla è più urgente […] di una distruzione dell’estetica (N.d.r.) che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’operad’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte e l’aprirsi di fronte ad essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare. Ma forse proprio tale perdita e un tale abisso sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno se vogliamo che l’operad’arte riacquisti la sua statura originale. E se è vero che è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, noi siamo forse oggi in una posizione privilegiata per comprendere il senso autentico del progetto estetico occidentale.» (USC, p. 17)

    «Se e quando l’arte avrà ancora il compito di prendere la misura originale dell’abitazione dell’uomo sulla terra, non è perciò materia su cui si possano far previsioni, né possiamo dire se la poiesis ritroverà il suo statuto proprio al di là dell’interminabile crepuscolo che avvolge la terra aesthetica. La sola cosa che possiamo dire è che essa non potrà semplicemente saltare al di là della propria ombra per scavalcare il suo destino.» (USC, p. 155)

    L’arte «è l’Annientante che attraversa tutti i suoi contenuti senza poter mai giungere a un’opera positiva perché non può più identificarsi con alcuno di essi. E, in quanto l’arte è divenuta la pura potenza della negazione, nella sua essenza regna il nichilismo. La parentela fra arte e nichilismo attinge perciò una zona indicibilmente più profonda di quella in cui si muovono le poetiche dell’estetismo e del decadentismo: essa dispiega il suo regno a partire dal fondamento impensato dell’arte occidentale giunta al punto estremo del suo itinerario metafisico. E se l’essenza del nichilismo non consiste semplicemente in un’inversione dei valori ammessi, ma resta velata nel destino dell’uomo occidentale e nel segreto della sua storia, la sorte dell’arte nel nostro tempo non è qualcosa che possa essere decisa sul terreno della critica estetica o della linguistica. L’essenza del nichilismo coincide con l’essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino in ciò, che in entrambi l’essere si destina all’uomo come Nulla. E finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’Occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo.» (USC , pp. 86-87

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    • «Il “disagio” che la forma simbolica porta scandalosamente alla luce è quello stesso che accompagna fin dall’inizio la riflessione occidentale sul significare, il cui lascito metafisico è stato raccolto senza beneficio d’inventario dalla semiologia moderna. In quanto nel segno è implicita la dualità del manifestante e della cosa manifestata, esso è infatti qualcosa di spezzato e di doppio, ma in quanto questa dualità si manifesta nell’unico segno, esso è invece qualcosa di ricongiunto e di unito. Il simbolico, l’atto di riconoscimento che riunisce ciò che è diviso, è anche il diabolico che continuamente trasgredisce e denuncia la verità di questa conoscenza. Il fondamento di questa ambiguità del significare è in quella frattura originale della presenza che è inseparabile dall’esperienza occidentale dell’essere [corsivo del redattore] e per la quale tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione [corsivo del redattore] nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare. È questo coappartenenza originaria della presenza e dell’assenza, dell’apparire e del nascondere che i Greci esprimevano nell’intuizione della verità come aletheia, svelamento […] Solo perché la presenza è divisa e scollata, è possibile qualcosa come un “significare”; e solo perché non vi è all’origine pienezza ma differimento (sia questo interpretato come opposizione dell’essere e dell’apparire, come armonia degli opposti o come differenza ontologica dell’essere e dell’essente [corsivo nostro]) c’è bisogno di filosofare. Per tempo, tuttavia, questa frattura viene rimossa e occultata attraverso la sua interpretazione metafisica come rapporto di essere più vero e di essere meno vero, di paradigma e di copia, di significato latente e di manifestazione sensibile.

      Porre all’inizio una scrittura e una traccia, significa mettere l’accento su questa esperienza originale [cioè: che l’esperienza originale sia sempre già presa in una piega, che la presenza sia ineludibilmente sempre già presa in un significare], ma non certo superarla. […] La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce, il venire in luce del suo fondamento negativo e non certo il suo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l’eredità metafisica della semiologia moderna, ciò che resta per noi ancora impossibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza, fosse soltanto una pura e indivisa stazione nell’aperto. Quel che possiamo fare è riconoscere l’originaria situazione del linguaggio, questo “plesso di differenze eternamente negative”, nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l’accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon (n.d.r. animale che ha il linguaggio), è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L’algoritmo S/s deve perciò ridursi alla sola barriera: /; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere solo la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni, il cui modello abbiamo cercato di delineare nell’ainos della Sfinge, nella malinconica profondità dell’emblema, nella Verleugnung del feticista. »

      G. Agamben, Stanze, 1977, pp. 187-188.

      Così commenta Matteo Acciaresi:

      In primo luogo, secondo quella topologia della soglia che anima (e sempre più animerà) la riflessione di Agamben, occorre assumere (e così decostruire) il lascito e l’eredità del pensiero occidentale
      ponendosi nel punto d’insorgenza della sua dialettica, che Agamben identifica (e identificherà) con una “dialettica del fondamento”, un sistema costitutivamente binario e bipolare entro il quale, a fare da fondamento è la cattura in negativo (cioè nella forma dell’esclusione) tanto della differenza, della bi-polarità stessa, quanto di uno dei due poli, sulla negazione (esclusione) basale del quale si erige l’altro.

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  9. milaure colasson

    pensare la poesia in modo dialettico è il vero discrimine tra la poesia della tradizione e la nuova poesia. E’ soltanto dalla profondità con la quale si pensa dialetticamente una poesia, un romanzo, un quadro che possiamo fare il nuovo. Francesco De Girolamo pensa in modo istintivo i suoi haiku e li pensa nel nodo borromeo della dialettica. E questo è un fattore positivo. Penso che quando un genere artistico entra nel cono d’ombra della crisi, si verificano fenomeni di disseminazione stilistica, le forme tradizionali (l’elegia, la post-lirica, la narrativizzazione delle forme poetiche e romanzesche, la cronaca assurta a forma artistica etc.) vengono abbandonate e gli artisti cercano nuove forme originali o ritornano al passato (come nel caso degli haiku), fanno un passo indietro magari per ritrovare l’autenticità perduta e disseminata; il che può essere utile in qualche misura (non è un “crimine” come dice Antonio Sagredo ma un dis-crimine). Penso anche che cercare la disincarnazione delle parole sia alla fin fine un vicolo cieco perché una volta toccato il fondo della disincarnazione non resta che l’epifania della «parola nuda» (che corrisponde alla biopolitica direbbe Agamben), ovvero, una parola che non può più significare niente. E qui siamo davvero non nel «fuori significato» ma nel «pre-significato». Ancora un passo indietro e ci ritroveremo ad una «parola assente», che non viene detta né scritta (il massimo attingibile dalla epifania) ma che viene delibata per i suoi profumi volatili. La beatificazione del mistico. Ancora un passo e ci ritroveremo a «m’illumino d’immenso». Il che sarebbe davvero un bel passo indietro.

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  10. DI FRONTE A McKARTHY

    Il meccanismo si riconosce da uno strappo
    ostile al verso che ha studiato a Cambridge.

    Fratello della cinghia, avvezzo al sudore dell’acqua
    industrioso e fine conoscitore della corrente.

    -Di cosa ci parla oggi la lavastoviglie?

    Il ritmo è calmo e senza strappi:
    si alza fumo per un sopralluogo.

    Nessuna cimice nelle laringi.
    Il conto dà una pacca sulla spalla al mutuo
    mostra la tessera al partito del ‘23

    E di certo il fiume Sand Creek ha la 110.
    Tutto in debito ai programmi del Governo.

    Nel telefono gli Apache assaltano la diligenza.
    Ci sono praterie dove la bomba H dà la mano a un bisonte.

    Sul nastro spaziotempo parte l’attacco a un tepee
    ritorna fuga da Kabul.

    Ma no, non chiamatelo nonsense
    Si tratta di nuova tecnologia.

    Questa:
    Fucilate su un groviglio di assi cartesiani.
    Dona a un branco di cinghiali un che di Armstrong.

    Binari spinati, bombe a martello, lune sgonfie
    E Cesare sconfitto alle parole crociate!

    Il risciacquo non ha immagini da mostrare
    queste invece si accompagnano ai vermi da carcassa.

    C’è del rock nell’antipasto.
    Una manciata di salnitro sugli spaghetti

    E se batte la dentiera sui piattini
    un prestigioso premio per chi rovista in fronte.

    F.P.Intini

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  11. antonio sagredo

    “pensare la poesia in modo dialettico è il vero discrimine tra la poesia della tradizione e la nuova poesia” (Colasson).

    —————————-
    e se fosse un crimine?

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  12. 2 anni fa

    Nur Asilah, Q Asi Hai Q – Quasi Haiku, Transeuropa, Milano, 2021 €10, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

    La cultura poetica italiana del novecento, primo e secondo ha mostrato un interessato disinteresse per la funzione dei poeti non allineati al sistema maggioritario, una procedura securitaria ha preso il posto del discorso critico e poeti come Ennio Flaiano, A.M. Ripellino, Emilio Villa, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Mario Lunetta, Anna Ventura, Anonimo romano sono stati collocati tra i periferici e obliterati
    Il 2 dicembre 1970, Michel Foucault tiene la lezione inaugurale per la nuova cattedra di “Storia dei sistemi di pensiero”, al Collège de France, il noto testo che verrà pubblicato con il titolo L’ordre du discours. La tesi di fondo è che «in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e ridistribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità».

    Tra tali procedure vi sono quelle di esclusione, di cui l’interdetto è la più comune: non tutti possono parlare di qualsiasi cosa in ogni circostanza: per esempio sessualità, arte, politica, poesia, letteratura, economia; un altro metodo di esclusione si ha con la partizione e il rigetto: per esempio nell’opposizione tra ragione e follia. Principio di esclusione è anche l’opposizione del vero e del falso. A prima vista, la volontà di verità ha un ruolo positivo, in realtà funziona come metodo di selezione ed esclusione. In tutti i campi del sapere si hanno delle regole che separano le affermazioni che in ogni momento storico sono accettate come vere, da altre che vengono rigettate in quanto prive dei requisiti di veredizione. Queste procedure hanno il compito di controllare e delimitare il discorso dall’esterno; vi sono anche procedure attive al suo interno: in primo luogo, il principio regolatore presente in ogni comunità: un certo numero di testi (religiosi, giuridici, letterari etc.) sono meritevoli di generare dei discorsi ermeneutici; un secondo principio regolatore interno è dato dalla autorialità dell’autore; il terzo principio è quello di esclusione: Certe discipline sono avallate da un ambito di oggetti, libri, discorsi, autori considerati come valori.
    Se un enunciato non si adegua questi valori viene considerato esterno alla disciplina ed espulso dalla narrazione; un terzo gruppo di procedure ha l’obiettivo di limitare il numero dei soggetti che può accedere al discorso, tra di esse Foucault indica ciò che definisce il «rituale»: chi parla deve non solo essere qualificato per farlo ma anche rispettare un ordine di ruoli, di gesti, di cerimoniali in modo da conferire al proprio discorso efficacia e consenso istituzionale e quindi ermeneutico. Hanno vigore le «società di discorso» che svolgono la funzione di avvalorare determinati enunciati e farli circolare negli spazi specifici; infine, vi è l’appropriazione sociale dei discorsi che avviene tramite il sistema universitario, scolastico ed educativo che non opera in uno spazio iperuranico ma viene tenuto sotto controllo dall’apparato politico dominante in funzione dei propri interessi mediante una logica di esclusione/inclusione. Il sistema della cultura tende a rafforzare questo apparato di enunciati con esclusione di quelli che lo mettono in discussione e ne dimidierebbero l’autorità. La storia delle idee risponde alla medesima logica degli altri ambiti, si cerca il punto della continuità narrazionale, il privilegio di un’opera, di un’epoca, di un tema, di un autore, si sceverano i significati reconditi, in tal modo si crea e si consolida una tradizione istituzionale ed ermeneutica.

    La cultura poetica italiana del novecento, primo e secondo, ha operato nel modo tracciato da Foucault, ha mostrato un interessato disinteresse per la funzione dei poeti non allineati al sistema istituzionale maggioritario. Le voci non irreggimentate sono state spesso considerate periferiche e minori, e quindi espulse dalla codificazione istituzionale ed ermeneutica. Compito di un discorso critico serio è quindi quello di mettere in discussione la codificazione ermeneutica delle istituzioni chiuse, è questa la ragione che mi porta a considerare con indulgente simpatia questi quasi-haiku di Nur Asilah che rappresentano la sua opera d’esordio.
    L’egemonia che la poesia del Pascoli ha esercitato sulla poesia italiana del primo e secondo Novecento e l’accademismo che ne è seguito ha avvalorato lo pseudo concetto di una poesia in chiave narrativa e sostanzialmente lirica prima e post-lirica poi. Con il primo ermetismo si istituisce un super linguaggio poetico specializzato, ad esempio una poesia come quella di Ungaretti è intuitivo-epifanica, ci si può identificare in essa come si prende parte ad un rito iniziatico, la frammentazione del metro e del verso ungarettiamo giunge ai suoi estremi limiti, oltre non era più possibile andare. Nel dopo guerra le cose cambiano, cambia l’ordine del discorso vigente nel senso che viene cooptato a quello fino allora maggioritario un altro discorso letterario che fino a quel momento era rimasto alternativo: e si ha la cooptazione per inclusione. Il Gruppo 63, lo sperimentalismo del significante di Zanzotto e la sopravvenuta poesia lombarda, hanno costruito un ordine di discorso che intendeva derubricare ogni altro diverso discorso poetico, con la conseguenza che poeti come Ripellino che privilegiava l’immagine e la metafora, o poeti diversi come Emilio Villa ed Ennio Flaiano che impiegava una poesia fondata sul riuso di citazioni anche del mondo pubblicitario, sono stati esclusi dal novero del sistema maggioritario.
    Il risultato è stato che la poesia italiana, dopo Zanzotto, si avvierà per un sentiero epigonico di matrice unilineare di derivazione pascoliana. Espunte la metafora e l’immagine dalla testualità la poesia italiana del secondo novecento resterà e resisterà sì su un pedale basso, ma oblitererà il pluristilismo e il multilinguismo per optare per la narrabilità, la cantabilità e la comunicazione di un presunto messaggio in bottiglia o in vitro che dir si voglia. La susseguente ricerca della «comunicabilità» e della «narratività» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. La lacuna che appare oggi vistosa, ci pone degli interrogativi, mi chiedo se la poesia italiana sia oggi in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro problematico fisiologicamente «patologico»; la risposta non può che essere negativa: la koiné poetica maggioritaria ha adottato una procedura securitaria, ha adottato da almeno cinque decenni un concetto narrativo e unilineare del discorso poetico, una koiné poetica di tipo derivativo e posiziocentrico. La poesia italiana, a parte eccezioni di pregio che pur ci sono state (ho ricordato sopra Ennio Flaiano, A.M. Ripellino, Emilio Villa, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Mario Lunetta, Anna Ventura, Anonimo romano), conserverà una matrice stilistica monotonale e monogamica, non riuscirà ad infrangere il modello maggioritario: una posizione di poetica diventata con il tempo una forzosa petizione di poetica. Sia chiaro che il compito di un critico non è quello di ridire quello che il poeta ha scritto, ma illuminare il sotto testo, la cornice del testo, ciò che il testo sottintende, il non detto che pure è presente in ciò che è scritto, anche se in forma di non-detto.
    «Nur Asilah – con le sue parole – è di origine maghrebina, oramai da sempre in Italia, ama credersi di nazionalità mediterranea quando non terrestre. Ha svolto numerosi lavori manuali dall’imbianchino al fabbro, dall’autista al muratore passando per il metalmeccanico».
    È chiaro che un autore non letterato non sappia nulla di tutte queste complicazioni e scrive senza preamboli e senza corto circuiti ideologici, senza petizioni di poetica, il che comporta un certo indebolimento quando i suoi «quasi-haiku» ripercorrono in modo inconscio usurati stilemi e topoi letterari epigonici, ma a volte l’autore, quando si libera delle convenzioni di scrittura, riesce a trovare delle soluzioni linguistiche efficaci in modo, oserei dire, «naturale». E noi non possiamo che augurargli buon lavoro prossimo venturo, a patto che dismetta le convenzioni letterarie che hanno ingolfato anche la scrittura di un autore non particolarmente versato nella retorica nelle discretizzazioni del mondo poetico.

    La lavastoviglie ci parla del quadricottero Rotem Alpha
    Il drone kamikaze in grado di distruggere un carrarmato
    Il monitor ci invita a difendere dio

    Di fronte all’Olimpo c’è Zeus che litiga con il ministro Sangiuliano
    La bomba H prepara gli spaghetti all’amatriciana per i cosmonauti di Bajkonur

    Dal frigorifero esce un Tank Terminator con l’alopecia sulla torretta
    I frigoglifi sono quegli esseri microscopici che abitano il freezer
    Parlano volentieri con i turisti giapponesi in giapponese

    Con Kukident plus la dentiera sta bene al suo posto riferì Odisseo di ritorno dall’isola di Ogigia alla vecchia moglie Penelope che apparecchiava la tavola per la cena

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  13. antonio sagredo

    “lo haiku è tutto ciò che ci rimane di un addio quando il treno è già partito.” (Consoli).
    —-
    Si, ma in che cosa consiste quel che rimane?
    Un fazzoletto o lo sbracciarsi fino a che il treno scompare?
    O altro?
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    o quel che scrive Pasternk nel 1913, in Stazione:

    E si placava il fischio ripetuto,
    e di lontano ne echeggiava un altro,
    e il treno spazzava per le banchine
    con una sorda bufera di neve dalle molte gobbe.
    ————————————————-

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  14. Kitchen haiku:

    Monachesimo e spiritualità nel gatto domestico.
    Alta marea.

    Versace.

    LMT

    Ps. Il problema con il pop è che nessuno ti prende sul serio.

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