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Giuseppina Di Leo POESIE INEDITE da “Incerte” con un Appunto dell’autrice e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Le poesie ruotano intorno al tema della memoria, quasi che la parola scritta possa consentire la ripresa di un dialogo interrotto”; “la frammentarietà della forma è un tutt’uno con la frammentarietà della memoria“; “Le parole in quanto figlie legittime di Mnemosyne, vengono attecchite dall’oblio della Memoria”; “L’eventologia estetica”

Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); la plaquette Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Numerose poesie e scritti vari sono ospitati su riviste, antologie, blog e siti dedicati alla poesia. Dilettandomi di pittura, ho partecipato a collettive d’arte.  Alcune poesie sono state musicate dal M Giovanni Castro ed interpretate dal soprano Monia Massetti.

Appunto di Giuseppina Di Leo

 Caro Giorgio,

un procedimento in divenire, così realizzo mentalmente parlando di queste mie poesie. Le poesie brevi risalgono agli anni 2009-2011, altre sono recenti. Ma tutte ruotano intorno al tema della memoria, quasi che la parola scritta possa consentire la ripresa di un dialogo interrotto.

Caproni, a proposito di Res amissa, diceva che «la poesia muove spesso da un fatto quotidiano e perfino banale», come era stato, nel suo caso, la perdita di una lettera di un «carissimo amico». Può darsi allora che la poesia sia possibile solo in presenza di un assente? Che potrebbe essere il luogo, il volto o il tempo.  A volte succede che il pensiero stesso si atomizza e ci si dimentica la ragione stessa che aveva dato luogo ad una materia come la scrittura. Quando questo avviene, il fine da perseguire cambia direzione in corso d’opera, in modo che di quel fine non ne resta traccia. O meglio, il pensiero iniziale si perde lungo il tragitto in altri percorsi, i quali si moltiplicheranno ancora generando così una serie svariata di nuovi intrecci. L’idea del viaggio, altro tema a me caro, è parte del processo di trasformazione.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione» (R.B. Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis).

La poesia di Giuseppina Di Leo si pone nel solco dell’orizzonte posizionale della perdita della memoria, fenomeno del tutto nuovo e contemporaneo che noi stiamo da tempo indagando. Essa si presenta subito come una tessera scollegata dal tutto, come frammento di un tutto andato disperso e dimenticato. Leggiamo un verso incipitario:

I ragazzi sono di là. Prendo a leggere Elicura,

Si dà per scontato che c’è una situazione eventica isolata e scissa, priva di causa e di nesso logico. Qualcosa che è stata perturbata da qualcosa d’altro, dalla intervenuta rimozione della memoria. E il discorso poetico diventa franto, deturpato, franoso.

Io direi che la frammentarietà della forma è un tutt’uno con la frammentarietà della memoria. Le parole in quanto figlie legittime di Mnemosyne, vengono attecchite dall’oblio della Memoria, e chi parla di Spirito del mondo o di Spirito della storia dovrebbe essere interdetto dagli uffici pubblici. Il modo nel quale oggi si dà Mnemosyne è un modo frammentato, graffiato, le parole diventano isotopi che, durante la traslazione dalla memoria alla pagina scritta, perdono qualcosa, si impoveriscono, diventano cronotopi di antiche parole. Le parole sono enti speculari alla frammentarietà ontologica del nostro modo di vivere.

La frammentarietà della forma
per dire la non-possibilità di «leggere
il reale, di parlare al reale». Vige
la «forma informe» del verso libero
per poter parlare
a una realtà che non può più essere
rappresentata, ma solo citata.
La poesia non rappresenta più nulla.
Della realtà coglie i frammenti. La poesia.
Del nulla dice tutto quello che sa.

bello angelo androginoIl verso si è finalmente liberato di se stesso, ed è diventato qualcos’altro che fatichiamo a riconoscere. Ecco perché è così difficile, oggi, distinguere la poesia dalla prosa. È per via della libertà, quella libertà che i poeti si sono conquistata, che hanno pagato a duro prezzo durante il Novecento e che ancora stanno pagando. Quella antica libertà oggi si è tramutata nella peggiore delle reclusioni: la reclusione del verso liberato, cosiddetto «libero», in realtà zoppo e frammentato. Fatto sta che quel verso, rectius, quel frammento di verso, quel relitto malmostoso, ci parla molto meglio di quanto potrebbe fare un verso sinuoso e rotondo, un verso compiuto, ammesso che esista e sia possibile, oggi, scrivere un verso rotondo e compiuto! Nel verso informale e franto di Giuseppina Di Leo c’è una inevitabile frammentazione, quella frammentazione che è quasi un singhiozzo metrico, una aritmia del battito metrale che, come una oloturia, si nutre della «cancellazione» della memoria e dei vuoti dell’esistenza, quasi che fosse un avvoltoio che becca le carni dei cadaveri dell’esistenza. Nel mondo frammentato e tellurico di oggi, il poeta non può adire ad altro se non al frammento, alla interruzione, alla cancellazione, alla amnesia, alla ametria, alla diplopia, alla distopia quali elementi costitutivi della «solidità» ontologica della «nuova» ontologia estetica. Ma probabilmente è errato parlare di ontologia estetica, la poesia è evento, come ci ha insegnato Carlo Diano, un accadimento assolutamente singolare che ha significato solo per me e per nessun altro. Quanto più fragile è l’ossatura di questa eventologia estetica, tanto più vigorosa e forte sarà la vita della poesia. Paradossale. Così, la fragile barchetta di carta della poesia di Giuseppina Di Leo potrà forse varcare il mare del futuro. È incredibile, ma penso che si vada più spediti verso l’ignoto del futuro con la fragile barchetta di carta di Giuseppina Di Leo che non con i piroscafi dei poeti che fanno altisonanti dichiarazioni di fede poietica. Non era Rilke che nei Quaderni di Malte Laure Brigge raccomandava di rimuovere il ricordo perché «neppure i ricordi sono esperienze»?. E allora cosa sono le esperienze? Cosa sono gli eventi della poesia? Di cosa tratta la poesia? Giuseppina di Leo non può dare nessuna risposta, perché non la sa, può soltanto individuare l’evento: i ricordi sono scomparsi per loro conto per lasciare spazio all’evento della poesia. Incredibile, no?

da Incerte (inediti)

I ragazzi sono di là. Prendo a leggere Elicura,
l’oralitor, «in ossequio all’importanza che hanno
la recitazione e l’oralità nella cultura poetica
del suo popolo ».
Elicura mi sta accompagnando.
*
Lungo un altro percorso
nello stesso paesaggio scoperto
eguale importanza
hanno parola e silenzio.
Lo spazio obbligato necessario
da sondare.
Permettere alla memoria di ritornare.

*

Resto a guardare
per riflettere. E portare indosso
domande senza risposta. Anni passati
a riproduzione casuale in bianco e nero.
Se un sentire c’è, dentro è un sentimento.
Senza finzioni per l’oggi.
Faccio un passo indietro, mentre intorno
tutto gira come vento.

(2009 / 2016)
*

Bislacca, come una tenebra
partorita d’inverno, un’ombra
sfugge la mano. Ogni sole riluce
su fogli spazientiti di sonno.
Occhi di vento marciscono in bottiglia;
domande precipitano da torri tarocche.
D’inverno si annida il fiume del ricordo.
In giostra brulica in fondo la strada.
Volteggia scemando il carteggio d’amore.

(2010)
*
Quest’aria preserale di fine gennaio
è un gioco di dadi. La veste viene scommessa
tra le quattro mura domestiche del nulla.
Se mi addormento un nome nuovo
paurosamente cercherò d’imparare.

(2010)
*
Fino a quando avvertirò lo stacco?
Manca l’illusione di vita.

(2009)
*

Ma in realtà la scelta più saggia da farsi
sarebbe quella di vivere se stessi
in solitudine. Sto riprendendomi il mio tempo,
concetto dimenticato che torna amico.
Il mio tempo. In solitudine. Essere soli
vuol dire dimenticare, tornare
al punto del proprio limite
essere in sé, tornare con sé. Oltre
sono con me dentro la parte
più appartata, sconosciuta: sono dentro-
in-me. Riesco a sentirmi persino
felice.
Che il vecchio venga spazzato via:
volti nomi articoli famosità fumose poeti.
Spazzati via come foglie, bruciati come ossessi.
Evviva! Riesco a sentirmi
più intima di ago nella carne.
Viva!
E nessun dolore: nessun dolore, nessuno.
Niente. Nessuno.

(2009)
*

Provo il piacere della mia femminilità,
calda nel sangue la voglia pulsa.
Vino dolce da bersi a sorsi
piccoli piccoli, da gustare a morsi.
Liberato il desiderio padrona l’ossessione.
L’anima scivola dolcemente dal dolore.
*

Nell’invadenza delle ore d’ombra
senza suono, unita al silenzio della sera,
nessuna alba finge. Interiore,
silenziosa davanti alla notte.
Lieve il passo.
Il mondo ritorna un pensiero convesso
Il senso di colpa smerlato nel trabiccolo.
Lucida follia. Cuprea voglia.

(2011)

 

La nudità dell’aria apre spiragli
blu cobalto in sfondo nero fumo.
Un senso di tristezza stempera
insieme a ciò che l’ha portato ad essere
interminabili attese diventate tristi.
Anch’esse.
Fiore da preservare nel suo seme.

2011)

*
La luce del sole liquida pagine nel bianco.
Prendere le restie forze è ciò che bisogna fare.
Dalle mani ai piedi. Sollevarle.

(2011)
*
Quanta luce stamani intorno
su di me. Immensa
voglia rovesciata dentro.
Non saprei esprimere
una pace tormentata.
La ricerca che non trova pace.
2012

*
Cieca d’amore
m’ invaghisco e mi lascio prendere.
Dovrei forse cambiare?
Questi miei forse è un bene che si ripetano
sempre uguali, originali ogni volta.
Peccati da museo dell’innocenza.
Ripeto a me stessa avvertimenti
che non vorrei osservare mai.

Oscena è tutta questa luce
quasi una carezza
dopo una cattiva azione.
Imparare a soffrire senza soffrire
a ridere senza ridere.
Possibilmente
accettare quanto ci viene dal mondo.
Annullare la presunzione di cambiarlo.
(2009)

*
Enorme è la luce in questa stanza.
Parola e silenzio.
Ascolto come arte da imparare.
C’è dolore in tutto questo.
Mi urlano parole d’amore a bassa voce.

*
Certe volte il tempo sfora su se stesso
quasi avesse altro da confidare:
il momento di un altro, un momento
differente dal medesimo. Il tempo
estraneo a quello unico.
A quello stesso mio.
*
Gli istinti più feroci.
Basta poco in fondo
per tradire.
Tradire!
Che parola romantica!
(2011)

*
L’idea

A me piace molto
trovare posto per altri libri.
Ne vado alla ricerca
incessantemente: sposto di qua
faccio un po’ d’ordine di là
intanto che sfilo tra pile
muschio, campanule e qualche
tordo addormentato. Li sistemo
anch’essi su di un’altura
dove il fagiano becchetta
qualche foglia di scarola.
Volendo immaginare
il senso di questo cercare mio
lo vedrei alla maniera del restare
di certi anacoreti.
E intanto accosto
l’intransigenza della parola
stessa
al parallelo tra
volere
potere.

Sì, viaggiare significa forse restare.
Un restare pigiati insieme
a tanti altri di cui non importa:
se sapremo, mai ne ricorderemo i nomi.
E giù, più in basso andando,
ne verrebbe un altro controsenso
il dadaismo della contrizione
nella descrizione del dolore.
E mancare persino di speranza.

Restare, esser fogli da tenere in grembo.
Una voce, due voci, un quartetto
esser fogli, senz’altro chiedere.

Temere la mano che – ohi! – ruppe il mio naso
in cambio di un occaso (oibò!)
o la parlantina veloce di chi non ha tempo.

Con la leggerezza dei sassi.
Restare. Fogli, appesi ad un ramo.
E andare lontano
dove restare fogli
per sempre. Vorrei. – Alé!

(2015)

*
Quello della memoria è un sogno dimenticato.
Sulle ali dorme
finché, sveglio, velocemente vola.
Il prima, un attimo dopo, non c’è mai stato.
Nulla ricorda. Fino al punto in cui
dove avesse sostato non gli importa.
Sveglio. La ragione ne tenta i passaggi
nei quali a lei sola sembra possibile tornare.
Questioni di attimi.
Un vortice appena.
Ancora.
(2016)
*
a Mimmo Nappi

Si risolvono male le questioni di cuore
quando sopraggiunge la notte.
Un giorno diverso, così vedremo il mondo,
abbacinati, senza poter guardare. Il mondo
si farà una percezione dei sensi
o più semplicemente non esisterà più.
Sarà un po’ come dormire o correre
impauriti. Se dormiremo
ci prenderà il sonno profondo del tempo.
E sarà un tempo senza ritorno
per noi che appena fanciulli,
specchiati sul filo d’acqua lucente,
sentiremo il cielo tra le ciglia.
Vaga senza una meta il pensiero
in questo giorno triste. Eppure
io non credo alla morte del sole,
né penso la luna possa lasciarlo
scomparire mai, né io vorrei finire
il filo corsivo del dubbio.
La notte più nera
è nella paura di perdersi, per questo
penso non vero nel suo assoluto,
il nero della notte.
Di una notte è la linea ondeggiante.
Il filo corsivo del silenzioso sapere.

(13 genn. 2016)
*
L’indivisibilità del silenzio.

Il silenzio è un monolite
situato in un paesaggio
in cui si è persa la parola.
Anche i silenzi richiedono ascolto.

(2014)

*
La frammentarietà della forma
per dire la non-possibilità di «leggere
il reale, di parlare al reale». Vige
la «forma informe» del verso libero
per poter parlare
a una realtà che non può più essere
rappresentata, ma solo citata.
La poesia non rappresenta più nulla.
Della realtà coglie i frammenti. La poesia.
Del nulla dice tutto quello che sa.

05/06 nov. 2015 – Leggendo la nota di Giorgio Linguaglossa sul post della poetessa irachena Dunya Mikhail (in pari data)

Si risolvono male le questioni di cuore
quando sopraggiunge la notte.
Un giorno diverso, così vedremo il mondo,
abbacinati, senza poter guardare. Il mondo
si farà una percezione dei sensi
o più semplicemente non esisterà più.
Sarà un po’ come dormire o correre
impauriti. Se dormiremo
ci prenderà il sonno profondo del tempo.
E sarà un tempo senza ritorno
per noi che appena fanciulli,
specchiati sul filo d’acqua lucente,
sentiremo il cielo tra le ciglia.
Vaga senza una meta il pensiero
in questo giorno triste. Eppure
io non credo alla morte del sole,
né penso la luna possa lasciarlo
scomparire mai, né io vorrei finire
il filo corsivo del dubbio.
La notte più nera
è nella paura di perdersi, per questo
penso non vero nel suo assoluto,
il nero della notte.
Di una notte è la linea ondeggiante.
Il filo corsivo del silenzioso sapere.

*

Andavo da mia madre dopo il lavoro

Andavo da mia madre dopo il lavoro,
le spalmavo una crema omeopatica contro il tempo,
manuale di serenità del pomeriggio scalda sedia.
Sul tardi, tornava di soppiatto un ritmo scolpato
in serra protetta di terra d’odio; tre simbolici ‘sì’
erano tre simboli doppi ciascuno di sé:
lo specchio da infrangere dopo la caduta,
guadato in un sorriso a strazio.
Un fastidio sentivo allora, la presenza di bocche voraci
di rimando pizzicavano la mia carne, come
sorgenti moti in simbiosi. Il suo sguardo sereno
diventava improvvisamente severo, più spesso
triste e malinconico, quasi che nell’aria
si condensassero parole di chissà quali
individui: nella loro inutile presenza pur
mortificavano la sua persona per ricordarle
i tristi eventi che avevano segnato la sua giovinezza.
(A violenza subita, non ritorna il sereno.) Ma poi
passava, e tutto si traduceva in una battuta o in un fare.
Ciò che vedevo era il risultato di una serie infinita
di apporti, la trama di una fitta ragnatela
di rapporti che erano causa ed effetto di uno stato.
Era tuttavia un guardare e non capire il cosa o
il perché di ciò che nei suoi occhi vedevo.
L’analfabetismo di mia madre, il suo non poter
essere altro della brava massaia per sempre, questo sì
era ciò che vedevo e il tarlo che la tormentava
era chiaro in quel suo quotidiano ripetere:
– Ah, se sapessi leggere, scriverei un romanzo!

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ANTOLOGIA DELLE POESIE di JAMES HARPUR a cura di Francesca Diano (Parte II)

Botticelli Le Grazie

Botticelli Le Grazie

Pubblicato sul n°304 di POESIA, Crocetti Editore (Maggio 2015)

N.B. I testi qui riprodotti sono  una parte di quelli pubblicati nella monografia del numero di POESIA succitato.

INTRODUZIONE di Francesca Diano

In un primo momento abbaglia, poi stordisce, poi oscura, poi consola. Infine illumina, seppur di una flebile luce, la tenebra in cui ti ha fatto penetrare. È quanto si prova nel leggere la parola di James Harpur e il suo inglese corrusco.

Un lungo percorso di ricerca escatologica, tanto personale quanto collettiva, il suo, che emerge chiarissimo dalle sue stesse parole. “Sono giunto alla poesia solo negli anni dell’università. D’un tratto mi sono trovato ad obbedire a un impulso sotterraneo e decisi che la poesia era un’impresa nobile e un mezzo per esplorare le fondamentali questioni spirituali, quali l’esistenza di un Dio, se la vita abbia un senso, cosa c’è dopo la morte, ecc. questioni che nella mia vita sono sempre state una forza centrale e propulsiva. Forse tutti quegli uomini di chiesa nel mio DNA… La poesia mi apparve una missione, il mezzo che mi avrebbe permesso di penetrare l’escatologia della vita o, almeno, di venire a patti con i miei rapporti personali, con i grandi temi dell’esistenza. Da questo punto di vista, per me scrivere era ed è tuttora un’attività sacra, quasi quanto la meditazione e la preghiera.” [1]

Non sono molti, oggi, i poeti che vedono nella poesia un’attività che li collega al Sacro, così com’era alle sue origini. Ma Harpur è un poeta delle origini. Un Urdichter, si potrebbe dire, poiché la sua poesia attinge proprio a quel magma originario da cui la Parola emerge come lògos, come portatrice di tutti i significati possibili e, allo stesso tempo, come potenza ordinatrice dell’universo. Che separa, distingue, nomina e ordina.

Che questa sia la funzione che Harpur le attribuisce è forse sommamente evidente nel lungo poemetto Voices of the Book of Kells, (Voci del Libro di Kells) esplorazione della genesi di questo prodigioso Evangeliario miniato, dell’animo degli anonimi monaci irlandesi che lo miniarono e, allo stesso tempo, della genesi dell’arte. In quella sfera misteriosa della creazione, che è anche lotta costante fra la materia e lo spirito.

Giuseppe Pedota, stella segreta, anni Novanta

Giuseppe Pedota, stella segreta, anni Novanta

Nato in Inghilterra nel 1956, da padre irlandese e madre inglese, di antiche ascendenze anglonormanne, Harpur tiene a spiegare che il significato originario del suo cognome, documentato già nel XII secolo, è arpista, dunque poeta. Lo fu sicuramente un suo antenato. Ma discende anche da una tradizione familiare di uomini di chiesa, Church of Ireland, come lo fu suo nonno e altri prima di lui. Tuttavia Harpur ha scelto un’altra strada.  In lui si sono fuse l’anima dell’arpista medievale e quella del mistico. Perché Harpur è un cantore del Sacro. Nel senso più ampio del termine.

La sua prima raccolta organica, A Vision of Comets, (Anvil Press) è del 1993 e raccoglie buona parte dei testi poetici scritti durante il suo soggiorno a Creta, dove ha vissuto per un anno insegnando inglese. L’isola egea gli fa esplodere dentro una potenza poetica e visionaria che diventerà negli anni la sua voce originale, e la poesia che dà titolo alla raccolta ne è riconoscimento e accoglimento.

Le raccolte successive, The Monk’s Dream, 1996 Oracle Bones, 2001 The Dark Age, 2007, Angels and Harvesters, 2012, tutte edite da Anvil Press, insieme a The Gospel of Joseph of Arimathea, (Iona Books) 2007 e Voices of the Book of Kells, (2012), confermano la natura esplorativa di questa ricerca, attraverso i due elementi che raccolgono e  alimentano la poesia di Harpur: la luce e la tenebra, che non solo non le è opposta, ma le è complemento speculare ed essenziale.

Uno degli aspetti più profondi e significativi della mentalità celtica è la fascinazione per tutto ciò che è passaggio, trasformazione, per il liminale, per quello spazio e quel tempo che si insinuano fra il momento in cui tutto finisce e quello in cui tutto inizia di nuovo, secondo un tempo ciclico, per quello iato abissale che si apre sul mistero che irrompe fra il “non più” e il “non ancora”. Il non casuale twilight di Yeats.  Questo spazio incommensurabile, temibile nel quale si inoltra il pensiero del mistico e dell’artista.

È questo spazio che Harpur esplora. Perché per lui il faticoso e misterioso processo creativo è simile a quello della ricerca spirituale. Lo afferma più volte lui stesso. Un’avventurosa, travagliata esplorazione come uomo e come artista, non immune dal dolore, che tanto somiglia al fortunoso viaggio di Brendano, cui del resto Harpur dedica in The Dark Age un testo qui presentato.

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Come dice Adam Zagajevski, “nella poesia si mette ciò che non si sa”. Ma il non sapere richiede che solidi siano i supporti da cui muovere. Per non perdersi nelle fauci del nulla. Il percorso che Harpur si è scelto quindi, chiede strumenti adatti. La sua formazione classica (conosce perfettamente il greco e il latino e gli autori della classicità, di cui ha fatto alcune traduzioni) lo spinge ad esplorare le possibilità che la metrica antica, greca soprattutto, offre alla sua lingua. Trimetro giambico, pentametro, distico elegiaco suonano nel suo inglese con lo stesso elegante equilibrio classico dei testi redatti dagli antichi monaci e santi irlandesi che preservarono la cultura antica e la mantennero viva nelle abbazie, nei cenobi e nei monasteri da loro fondati. Ma l’attingere al patrimonio metrico degli antichi non è solo un espediente tecnico, è l’attingere direttamente alla fonte poetica di quella cultura, da cui non si sente affatto separato o lontano.

Tipicamente irlandese è questa fusione armonica – quasi un fluire dell’una nell’altro –  fra l’antica cultura celtica, rutilante di meandri, miti visionari, eroi luminosi anche se sconfitti, percorsi circolari e un cristianesimo coltissimo, esplorativo, costellato di santi anacoreti, misticismo, bizzarria e magia. Una spiritualità in fondo non poi così diversa, nelle sue componenti, da quanto l’ha preceduta in quell’isola.

Ed è infatti questo momento aurorale del cristianesimo, irlandese, ma anche latino, greco e siriaco,  che affascina Harpur.  Non meno del lento estinguersi dell’antica tradizione classica nei suoi epigoni. Si veda la sua traduzione di Boezio dal titolo  The Fortune’s Prisoner, oppure L’augure a riposo, in Ossa oracolari;  non meno del patrimonio mitologico  celtico, che è costantemente presente in sottofondo.

Nell’interazione fra questi due momenti nella storia dell’Occidente, fra il paganesimo e il cristianesimo, fra l’antico e la modernità,  Harpur non legge solo il passaggio fra due epoche, fra due culture, ma un aspetto ben più profondo e inquietante; la lotta, appunto, fra natura e spirito. Come è nel mito di fondazione della conversione irlandese al cristianesimo da parte di San Patrizio, in cui i serpenti che egli scaccia dall’Irlanda, non sono altro che i pericolosi “rettili della mente” di Blake, niente affatto sconfitti.

“Il mio rapporto con la religione, col Cristianesimo e la chiesa è complesso. Mi considero un agnostico rinato, o un ricercatore spirituale. Sono attratto dai mistici di ogni religione e cultura, da Meister Eckhart a Rumi, a Kabir e dal più profondo e radicale maestro spirituale dei tempi moderni che io abbia mai incontrato, J. Krishnamurti. Nutro profonda diffidenza nei riguardi delle strutture religiose istituzionali e delle gerarchie e mi piace il commento di Blake, che, per il culto religioso, un pub sarebbe un luogo migliore di una chiesa”, afferma ancora Harpur nell’intervista già citata.

Giuseppe Pedota, L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Fra quelle che Harpur definisce “questioni che nella mia vita sono state forza centrale e propulsiva”, non di secondaria importanza è il problema del Fato, il chiedersi se un destino segnato esista, se lo si possa cambiare. È sicuramente centrale in The Monk’s Dream, raccolta pubblicata nel 1996, successivamente alla morte del padre. La poesia che dà il titolo alla raccolta si riferisce alle sospette circostanze della morte del poco amato re Guglielmo II (1056- 1100) in un incidente di caccia. Pare che un anonimo monaco avesse sognato la fine del re e l’avesse fatto avvertire, ma questo non cambiò il fato che lo attendeva. La sezione centrale di questa raccolta è dedicata interamente alla malattia, alla morte e ai funerali del padre di Harpur ed è una lunga meditatio mortis, ma anche una profonda riflessione sul destino finale di ogni vita. E ancora ritorna, come questione aperta, in Ossa oracolari, dove l’eroe nazionale Cuchulainn, protagonista del ciclo mitologico dell’Ulster, sfida il proprio destino già segnato, ignorando volutamente i segni premonitori e i tabù che non potrebbe infrangere, andando consapevolmente verso la morte. Morendo da eroe e da uomo libero.

Giuseppe Pedota L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Fondamentale è stata per lui, in età giovanile, la lettura di Jung e la scoperta della sua teoria dell’inconscio collettivo, che gli dischiudono una nuova visione del mito, quale narrazione fondante della psiche. Così Harpur legge, nelle vite dei santi, talvolta bizzarre e sorprendenti, una ricchezza di miti e leggende non meno articolati e variegati di quelli del mondo pagano e classico, tale da tracciare una mappa della psiche umana.

In questa inesausta ricerca della luce del Sacro attraverso la tenebra della psiche, individuale e collettiva, e della storia dell’uomo, Harpur conversa con i santi e i mistici e gli asceti pagani e cristiani, talvolta anonimi o immaginari, spesso realmente esistiti, ai quali non di rado dà voce. Con Jakob Böhme, con Giuliano di Norwich, con Richard Rolle, con Marguerite Porete. E, soprattutto, in un poemetto di circa 400 versi, con San Simeone lo Stilita, l’anacoreta la cui vita è una parabola della via negationis  che, non potendo fuggire dal mondo in orizzontale, lo fuggì in verticale, dimorando per trentasette anni su di una colonna alta quindici metri. Negando se stesso, la propria natura, la propria umanità, il mondo, alla ricerca dell’Assoluto. Ma solo per accorgersi poi, che il mondo accorreva a frotte verso di lui, talché sotto la sua colonna, come dice Harpur, si radunava una sorta di permanente Woodstock!

San Simeone, come lo scrittore, come il poeta, ha sete d’isolamento, di solitudine, ma come l’artista creatore, comprende poi di non poter trascendere, di non poter negare il mondo.  Così  come lo comprese Faust. Sostenute da un virtuosismo linguistico prodigioso, da una perizia tecnica degna di un antico bardo irlandese, tensione, ascensione, sete e cerca sono i punti nevralgici della sua poesia – poesia mistica, religiosa si potrebbe dire, consapevoli che per Harpur un mistico è anche l’artista – che forse ha solo in Gerard Manley Hopkins, seppur in modo e con origine del tutto diversi, un predecessore in lingua inglese. Forse soprattutto nella ricerca di un metro nuovo, di una lingua nuova, capaci di esprimere l’ineffabile, l’invisibile, l’ascesi, ma che nascono dalla consuetudine con l’antico,  ponendosi Harpur volutamente al di fuori delle correnti contemporanee postmoderne, e  tantomeno limitandosi a un chiuso mondo, in cui l’io rimane prigioniero delle cose cui arriva la sua vista fisica. No, il mondo di Harpur è fatto più di visioni, di rivelazioni che dalle cose emanano – della capacità di vedere il miracolo, il mistero,  irrompere nel quotidiano, come nel testo Angeli e mietitori che dà il nome all’ultima raccolta – e non ha confini né di tempo né di luogo. Ė terra incognita, l’oceano sconosciuto su cui si avventuravano Brendano e i suoi monaci alla ricerca dell’Isola dei Beati, incontrando nel corso del viaggio mostri minacciosi e dèmoni. È la sua stessa anima di poeta e di uomo.

 L’uso di immagini sorprendenti e inattese, il concatenarsi delle metafore, la fluidificazione del mito, che scorre potente verso di noi con l’ardore bruciante della fiamma ma con veste rinnovata, e della sua potenza visionaria, la profonda conoscenza del patrimonio culturale dell’Irlanda celtica, della cultura classica, della tradizione cristiana, l’uso sottilissimo del linguaggio, fanno di Harpur il più irlandese dei poeti irlandesi. Perché è su queste basi culturali che si è formata l’Irlanda moderna. Tutta la sua produzione poetica è un unico, ininterrotto dialogo, che fluisce lungo quel costone semi-illuminato che è il passaggio dal mondo antico e pagano alla modernità, e dalla modernità alla contemporaneità.

È una poesia fortemente impregnata di spiritualità dunque, molto nella grande tradizione  poetica bardica irlandese, ma una spiritualità che ha una profondissima connessione con la modernità. Il travaglio del passaggio da un’epoca a un’altra infatti è l’eco del nostro, le domande  che torturano i suoi asceti, cristiani e pagani, i dubbi che attanagliano i suoi uomini,  i suoi peccatori, i suoi indovini, i suoi monaci, sospesi tra un mondo e un altro, sono i nostri, la fine drammatica  di un’epoca che si avvia incerta verso l’ignoto è la nostra.

[1] Intervista su Poetry Ireland Review, N° 105 Inverno, 2011/12

James Harpur

James Harpur

Anassimene

L’anima nostra è aria, guarda il respiro
Che entra gelido, riappare
Fantasma che s’arriccia mentre cammini all’alba
Fra boschi di pini che s’estendono
Sulle colline sopra la città dormiente.

Come in basso così in alto. Un inverno in cui
Gli arbusti si rattrappirono in nudi agglomerati
Le querce e i faggi, gli sfavillanti salici
Lasciarono la luce scorrere lungo gli spogli rami;
Quando l’erba decrebbe, si sciolsero i cespugli
E la foresta spalancò i suoi sentieri
Come canali che dopo la meditazione si liberano
Quando il sole velato si fermò
All’improvviso ebbi la visione –
Creazione come momento non creato
Lo pneuma è un flusso ininterrotto
Di infinita mobilità e delicatezza
Che assume sempre rinnovate forme,
Una luce che nulla perde di se stessa
Mentre si materializza nel mondo
E si sposta come uno sciame d’api
Per dar forma a nuove particole di senso:
L’aria s’andò addensando in foschia
Poi lentamente s’ingrossò in pioggia
Che creò attrito, cadde a schizzi
Nei solchi e riempì le pozzanghere
Poi più s’addensò in fango e melma
Che il tempo avrebbe indurito come pietra
O per rarefazione ritrasformata in bruma
Per sollevarsi ancora diluendosi in aria
E rarefarsi ancora sempre più –
Raffinandosi e ancora raffinandosi
In oscillanti granuli di fiamma
Fluenti verso l’alto in piccole faville
Per riunirsi in pozze ardenti a risplendere
Dall’emisfero delle tenebre
In forma di stelle e di luna e di sole.

Anaximenes

Our souls are air, just watch the breath
That enters icy, reappears
A curling ghost on early morning walks
Through groves of pines that stretch
Along the hills above the sleeping town.

As below, so above. One winter, when
Shrubs shrank in naked tangles
Oaks and beeches, flashing willows
Let light glide through bare branches;
When grass subsided, bushes melted
And the forest opened up its paths
Like channels clearing after meditation
When the shrouded sun stood still
I suddenly saw the vision –
Creation as an uncreated movement
The pneuma in a never-ending stream
Of infinite mobility and tenderness
Assuming ever-fresher forms,
A light that loses nothing from itself
Materializing in the world
And shifting like a swarm of bees
To shape new particles of meaning:
Air was thickening into mist
Then slowly coarsened into rain
Which gathered friction, splashed
In ruts and filled up pools
Grew denser into slush and mud
That time would harden into stone
Or turn by rarefaction back to mist
To rise up thinning into air again
Then growing rarer still –
Refining and refining further
Into flickering grains of flame
Streaming up in sparklings
To coalesce in fiery pools to shine
From the hemisphere of darkness
As stars and moon and sun.
Da L’età oscura The Dark Age (2007)

.
Brendano

L’eremita nudo, scogliere di ghiaccio, il gelo
E l’isola dei santi che emerge dalla
Nera nebbia come luce, i suoi lidi di polvere d’oro

E in ogni frutteto mele che vanno maturando
La gioventù che tutti ci accolse chiamandoci per nome –
Questi morirono attorno ai fuochi stabili di Clonfert.

Ma Giuda sul suo scoglio, riarso dai venti, denudato,
Che si contorce sul massacro del mare
È ancora intatto nella mia tenebra più fonda

Gli occhi all’erta per l’approssimarsi dei demoni –
Li vedo ardere come quando remando ce ne andammo
E udimmo la sua voce sopra l’oceano rauco,

“L’inferno è stasi, continuate ad andare verso il sole
E giunti alla luce, ancora, ancora navigate.”

Brendan

The naked hermit, cliffs of ice, the cold,
The island of the saints emerging from
Black fog as light, its shore of powdered gold

And apples ripening in every orchard
The youth who welcomed each of us by name –
These died around the settled fires of Clonfert.

But Judas, on his rock, wind-burnt, stripped wise,
Writhing above the slaughter of the sea
Remains pristine inside my deepest darkness

His eyes alert for the approach of demons –
I see them glowing as when we rowed away
And hear his voice above the raucous ocean,
‘Hell is stasis, keep heading for the sun
And when you reach the light, sail on, sail on,’

James Harpur

James Harpur

L’orario astrale del monaco

“Nella santa notte di Natale
Quando vedi sul dormitorio il Dragone
E Orione sospeso sopra il tetto della cappella
Sii pronto a suonare la campana.”

Attorno a me nel convento si raggela la tenebra.
Parole su pergamena e gli astri impongono lo schema
Bisbigliando come le preghiere incessanti che rivolgiamo a Dio.
Chi ha da proteggere il mondo non può andare a dormire.

“Nella festa di San Germano
Cerca sulla freccia del Sagittario il gioiello
Sospeso sopra il centro della torre:
ecco quando iniziare le salmodie notturne.”

Le stelle sono nostre stagioni, chiavi di nostra prigione:
Nevicate invernali, sparsi brillanti di piogge in primavera
I globi dei papaveri nei campi delle messi
Le meteore morenti di faggi rossi, di querce e di sambuchi.

“Nel giorno della circoncisione del Signore
Quando la chiara stella sul ginocchio di Artofilace
S’allinea all’angolo del dormitorio
È tempo di dar luce alle lampade.”

L’emozione della fiamma viva! Spirito palpitante,
La cappella è un’anima dalla pelle di oro.
Questa luce io cerco oltre le costellazioni;
O lux aeterna incenerisci la mia vita crostosa!

“Nella festa di nostra amata Santa Agnese
Quando vedi le lance della Vergine levarsi chiare
Sopra lo spazio fra la sesta e la settima finestra
Sii pronto al santo ufficio.”

Temo le notti di nebbia, foschia, vapori, nuvole
L’assenza che s’avvinghia, il distacco da Dio.
Signore, quanto prima che in me una stella s’espanda
E l’anima e la carne mi inondi di luce della grazia?

“Nella festività di San Clemente
Orione sorgerà sull’estremo del refettorio –
Ma attendi di vedere la spada e la guaina
Prima di risvegliare i confratelli.”

L’eternità, per quante notti l’ho attesa
Atteso di sentire la musica, cercato un senso.
Ma solo ho percepito il buio fra le stelle,
Come campana il battito del cuore, frasi della mortalità.

The Monastic Star-timetable

‘On the holy night of Christmas
When you see the Dragon above the dormitory
And Orion poised above the chapel roof
Prepare yourself to sound the bell.’

Darkness freezes round me in the cloister.
The vellum words and stars inflict their patterns
Whispering like the ceaseless prayers we send to God.
No one must lie asleep who must protect the world.

‘On the festival of Saint Germanus
Look for the jewel of the Archer’s arrow
Hanging above the middle of the tower:
That is when to start the night-time hymns.’

The stars are our seasons, the keys of our prison:
Winter snowfall, glittery scatterings of spring rain
The globes of poppies in the harvest fields
The dying meteors of copper beech, oak and elder.

‘On the Lord’s circumcision
When the bright star in the knee of Artophilax
Is level with the corner of the dormitory
It is time to bring the taper to the lamps.’

The thrill of live flame! A writhing spirit,
The chapel like a soul skinned with gold,
This is the light I seek beyond the constellations;
O lux aeterna, burn off my crusted life!

‘On the feast of our beloved Saint Agnes
When you see the Virgin’s spears rising clear
Above the space between the sixth and seventh windows
Make ready for the sacred office.’

I dread nights of fog, mist, vapours, cloud
The clinging absence, the separation from God.
Lord, how long before a star expands inside me
Flooding my soul and flesh with gracious light?

‘On the feast day of Saint Clement
Orion will rise above the end of the refectory –
But wait until you see the sword and scrabbard
Before you wake the brethren.’

So many nights I’ve waited for eternity
Listening for music, looking for meaning,
But all I’ve felt is the dark between the stars,
My heart, beating like a bell, the phrases of mortality.

.
Da Angeli e mietitori Angels and Harvesters (2012)

La prima volta che vidi il Libro di Kells

Mi unisco alla lenta fila che sosta e poi riprende
Nervoso come chi a un funerale sfila accanto
A un corpo cereo in una cassa aperta,
So che avrò solamente un minuto
Circa, i miei occhi due grilletti sensibili
Ci sono quasi, ci sono quasi,
Bang –
Come venissi scaraventato su un palco
Mettendo a fuoco un pubblico seppia –
Vedo il vangelo animarsi in ghirigori
Con sovraimpresse forme oblunghe, circoli
Quali cornici atte a intrappolare api d’oro
Così veloci che il volo è invisibile
Ma lasciano tracce luminose in nastri
Di infiniti voli che si intrecciano;
Sto contemplando un sogno
Ritagliato dal sonno di qualcuno e pressato
Su pergamena in decalcomania;
O una zona di pelle assalita da
Un tatuatore folle, o una cianografia
Della creazione fatta dal Demiurgo,
I pianeti a ruotargli negli occhi
Col tocco del pennello dà vita ad ogni cosa
In ocra, in verde e in orpimento,
In lapislazzuli ed in nerofumo;
O un cervello che frulla dall’interno all’esterno
Mettendo a nudo gangli, acceso
In ogni sinapsi, o fibra che s’incurva,
Come da scariche di un mal di testa
O la visione del carro di Elia.
Su tutto questo troneggia San Giovanni
Un malinconico alchimista
In un laboratorio di cilindri ribollenti
Che di nuovo ha fallito nel trovare
Il lapis philosophorum.
Meno fisso lo sguardo più vedo,
Le lettere iniziano a muoversi e strisciare –
Dov’è il Verbo? E che mondo è questo
In cui una n con la testa di pavone
Resiste ai viticci di una vigna,
e la i finge d’essere un arpista
Che pizzica una c allungata
O una nave vichinga che si solleva al suo estremo?
Alzo la testa per vedere l’insieme
E lievemente sfoco la visione,
Le lettere paiono legarsi
Qualcuno mi spinge perché io avanzi,
Fa’che arrivi, fa’ che arrivi,
Altri trenta secondi, per favore
E sì, eccolo, perfetto e liberato
In
Prin-
ci-
pio erat
Verbum.

On First Seeing the Book of Kells

I join the shuffling stop-start queue
As edgy as a mourner filing past
A waxy body in an open box,
I know I’ll only have a minute
Or so, my eyes are two hair-triggers
I’m nearly there, nearly there
Bang –
As if I’ve just been shoved on stage
Adjusting to the sepia audience –
I see the gospel squiggle into life
With oblongs, circles branded on
As frames to trap the golden bees
So quick they fly invisibly
But leave an afterglow in ribbons
Of countless plaited flights;
I’m looking at a dream
Cut out from someone’s sleep and pressed
On vellum like a transfer;
Or a swathe of skin assaulted by
A mad tattooist, or a blueprint
Of creation by the Demiurge,
The planets spinning in its eyes
His paintbrush touching things to life
In ochre, green and orpiment,
Lamp-black and lapis lazuli;
Or a brain that’s whirring inside out
Its ganglia revealed, lit up
In every synapse, curling fibre,
As by the electrics of a migraine
Or vision of Elijah’s chariot.
Above it all St John looks down
A melancholy alchemist
In a lab of bubbling cylinders
Who yet again has failed to find
The lapis philosophorum.
The less I stare the more I see,
Letters begin to stir and creep –
Where is the Word? And what’s this world
In which a peacock-headed ‘n’
Resists the tendrils of a vine,
An ‘i’ pretends to be a harpist
Plucking an elongated ‘c’
Or longship raised up on its end?
I raise my head to see the whole
And slightly blur my focus,
The letters seem to link together
There’s someone nudging me to move,
Let it come, let it come,
Another thirty seconds, please,
And yes, it’s there, pristine and freed
In
Prin-
ci-
pio erat
Verbum.

satiro con efebo copia romana di originale greco

satiro con efebo copia romana di originale greco

Peccatore
in memoria di Marguerite Porete, morta a Parigi il 1 giugno 1310

Senza la volontà nessuno pecca, diceva.
Ma chi non pecca se non il Signore?
Di noi nessuno morta la voleva

Ma lei insisteva a spargere bugie
Fra i semplicioni e fra i miscredenti;
Le sue eresie dovevamo fermarle.

E inoltre era una pseudo-mulier
Né carne né pesce, ma puzzava di entrambi
In mezzo al fumo che mondò la piazza

Il viso un fiordaliso che avvizzisce
Sopra il sacco di tela del suo corpo.
Mantenne una certa dignità

Finché gli artigli rossi delle fiamme
Non le azzannarono la faccia
Adempiendo alla legge di dio –

Strepitando come mille oche
La folla emise un gemito corale
Quando l’oro le zampillò dagli occhi.

Ma fummo fiduciosi: la pira
Liberò l’anima in cui lei voleva che dio entrasse
E la mandò piangente al fuoco eterno.

Quella notte le ceneri le scaricammo nella Senna –
“Faccia prediche ai pesci
Sul volere ed il suo annientamento!”

Senza la volontà nessuno pecca.
Noi non peccammo: la nostra era la volontà di dio.
La nostra opera era sacra dottrina

Il nostro ragionare valido e irrefutabile,
Abbiamo mille anni di sapere.
Perché giurava ch’eravamo in errore?

A meno che non fossero sue quelle parole –
Di chi dunque? Chi diceva simili sozzure?
Chi le dava convinzioni simili

Se non il diavolo? Nessuno blatera
Con quell’intensità se non pazzo, malvagio;
O toccato da dio, cosa che lei non era.

Dovevamo proteggere gli altri da quel suo lievito,
L’odio per noi. Doveva morire.
Doveva morire – Cristo mi aiuti.

Sinner
i.m. Marguerite Porete, died in Paris, 1 June, 1310

Without a will no one can sin, she said.
Who cannot sin except the Lord?
We didn’t want her dead.

But she insisted on spreading lies
To simpletons and miscreants;
We had to stop her heresies.

Besides, she was a pseudo-mulier
Not fish or fowl, but smelling of them both
In the smoke that purified the square

Her face a wilting fleur-de-lys
Above the sackcloth of her body.
She had some dignity

Until the flame’s red claws
Were gripping at her face
And carried out god’s law –

Screeching like a thousand geese
The crowd let out a choral groan
When gold broke from her eyes.

But we were sanguine: the pyre
Released the soul she wanted god to enter
And sent it weeping to eternal fire.

That night we damped her ashes in the Seine –
‘Let her preach to fishes
About the will and its annihilation!’

Without a will no one can sin.
We didn’t sin: our will was god’s.
Our work was holy doctrine

Our reasoning was unassailably strong,
We had a thousand years of learning
Why did she swear that we were wrong?

Unless her words were not her own –
Then whose? Who spoke that filth?
Who gave her that conviction

If not the devil? No one spouts
With that intensity unless mad, evil:
Or touched by god, which she was not.

We had to safeguard others from her yeast,
Her hatred for us. She had to die.
She had to die – so help me Christ.

Francesca Diano

Francesca Diano

Francesca Diano è nata a Roma. Si è laureata in Storia della Critica d’Arte e ha vissuto a Oxford, Cambridge, Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e all’Istituto Italiano di Cultura e in Irlanda, dove ha insegnato all’Università di Cork. Dal 1981 è traduttrice letteraria di narrativa, poesia e saggistica e ha collaborato con Fratelli Fabbri, Cappelli, Neri Pozza, Donzelli, l’irlandese Collins e Guanda. È la traduttrice italiana delle opere della  grande scrittrice indiana Anita Nair. Autrice di poesia, saggi e narrativa, nel 2012 ha vinto il Premio Teramo. Ha tenuto corsi di Storia dell’Arte all’Università per Stranieri di Perugia e seminari di traduzione letteraria, ha organizzato convegni ed eventi, fra cui Terrazza sull’India per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Fiabe d’amor crudele, 2013 Edizioni La Gru e nel 2010 il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Poesia irlandese, Poesia lingua inglese

POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Adam Zagajevski, Giorgio Linguaglossa, Domenico Alvino, Francesco De Girolamo, Franco Dionesalvi, Fortuna Della Porta, Terry Olivi, Laura Cantelmo

musica tra gli egiziani Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

Il violoncello

Dicono i detrattori: è solo
un violino che, mutata la voce,
è stato espulso dal coro.
non è così.
Il violoncello ha molti segreti,
ma non piange mai,
canta solo a voce bassa.
Non tutto però si muta
in canto. Talvolta si può udire
un sussurro o un fruscio:
sono solo,
ma non posso prender sonno.

(trad. di Krystyna Jaworska)

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

Il Signor K. era là

Aveva appuntato, Cogito, l’indirizzo della Signora Marlene
su un foglietto di carta che teneva in fondo alla tasca interna della giacca.
Voleva congedarsi. Prese il foglietto in mano.

Intanto, i premorienti si affollano nei vagoni merci.
Gendarmi portano al guinzaglio i mastini,
rovistano in ogni angolo della Zentralbahnhof,
perlustrano i binari.
Nella sala d’aspetto, c’è chi gioca con i serpenti,
chi pettina i capelli alle bambole,
chi suona il violoncello.
Tchiajkovski strimpella il pianoforte,
più in là Vermeer dipinge di profilo una ragazza.

La luce si spense sul lastricato. Nella Kammerspiel
color fucsia la bella Marlene canta al pianoforte
il Lied della morte e della nostalgia.

Il Signor Cogito ama questo luogo di pace,
non saprebbe farne a meno.
Berlino. Anni Trenta.
Sulle ciglia, sulla pelliccia, sui guanti grigi
del Signor Cogito adesso cade una neve soffice.

Il lampionista si voltò, vicino a noi accese un lampione
e si mise a fischiare un’aria di Mozart.
I soldati scrivono cartoline alle fidanzate.
«Che epoca è questa?», chiede Cogito
alla bella Marlene nel salotto color fucsia.
Salieri fuma una sigaretta nel divano scarlatto,
ufficiali della Wermacht giocano a whist nel reservoir.
«Signor Cogito lei è un vero umorista», gli risponde
la Signora Marlene dall’antichambre.
C’è chi gioca con i décolleté, chi con la vedova nera,
c’è chi gioca con i serpenti, chi pettina i capelli alle bambole.
Una neve soffice si posa sulla pelliccia di Cogito
che si affaccia a una finestra. È quasi inverno.

Il cigolio meccanico degli usignoli si arrestò.
Il Signor K. era ancora là, tra lo stipite e la porta.
«Gutentag Herr Cogito…».

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel color fucsia.
Una maîtresse si trucca davanti allo specchio
con la cornice dorata. La bella Marlene
canta un Lied di nostalgia e di addio.
I treni sono carichi di soldati.
Ufficiali della Wermacht dicono «Gutentag und Gutenabend».
Il Signor K. indossa una parrucca argentata.
Il Signor Cogito inforca gli occhiali.
“Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,
lo carica –
ascolta il ticchettio del meccanismo,
che impassibile spinge avanti
le lancette e i secondi
(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)”.*
Il Signor Retro ripone l’orologio sul tavolo
e dice: «auf Wiedersehen».
Il Signor Cogito si toglie gli occhiali.
Il Signor K. si toglie il guanto sinistro.
Getta una manciata di gioielli,
(smeraldi, perle, diamanti, rubini)
sulla toeletta; il tutto, così, alla rinfusa.
L’innominato indossa una redingote
nera, lucida, lisa, occhiali di tartaruga
con le stanghette dorate.
Gli uccelli sugli alberi emettono un singulto metallico.
Marlene singhiozza il Lied della nostalgia.
I soldati sono partiti nei treni carichi di morti viventi.
Si alzano in volo col muso ad uncino i pipistrelli.
Sette corvi beccano il mangime nel letamaio.
Nella Kammerspiel è entrato il fruscio degli astri.
Il Signor K. si mette in posa nel corridoio.
«Dov’è?».
«Cosa?».
«Il quaderno nero».
* versi di Marek Baterovicz

violino_Barroco

violino_Barroco

 Domenico Alvino

Domenico Alvino

Domenico Alvino

La cantante cieca

È una cieca ora l’accompagnano
resta dietro pupille grandi.
Cerca un bandolo là sotto
medita la sua canzone al buio
dentro un buio chiuso
a lampi
aduna
corde
lorde
parole salgono a grappoli
alle note
lega
una valanga
giocata a pigli scosse luride luminose
vengon fuori anime secolari
affollano e diradano
a respiri e ad ansimi
a balzi
e poi giù ricadute
piene di salti
roteanti riverberi in sé stessi
rientri
nel buio chiuso
essi e la cieca ricurva all’applauso
infinito
di tutti
lì in piedi
annusa il loro sguardo
dietro
le loro bocche spalancate.

(Roma, venerdì, 27 luglio 2007)

La musica: il morire

Nella tua spessa ombra
tu pensi
ch’io entri
come d’un pezzo passando cellule
atomi
fra atomi
io ombra
in un corpo-ombra?
O che un non-spirito
entri in un non-spirito
ove né valva né vulva ti apri
tu spirito così addensato d’ombra
che esaurisci il dentro
tanto che i molti io e tu ed egli tutti
schiodati fuori?
Il noi – dice – è però da dentro.
Ma è un dentro vuoto
senza il tu e l’io certi
a ben vedere
anche il tu e il voi e l’egli
e il loro e l’essi
sono altri dentro
spesso anch’essi
vuoti
avidi
sfumanti in fuori
e vedi quanti fuori vuoti
adesso astri
che si girano
lenti
l’uno guarda fuori
l’altro
l’essere, io penso, non ha dove
sta a guardare a lato
scoppi
attende
crepe
nella materia obdura
fin che ne si sciolga
un dentro…
Lascio la musica lì
nel nulla
essa non entra
nella morte
bisogna andarci soli.

(inediti, Roma, 6 aprile 2001)

musica sassofono

 Francesco De Girolamo

Francesco De Girolamo

Cammina e canta

Cammina e canta
e insegui molti amori
impossibili e fieri
e disvela misteri e nascondi
i tuoi sogni ai veleni del giorno
livido e freddo e uguale.
Troppe bocche senza ansia di fiamma
bisbigliano il coro dell’ombra
alla folla disabitata.
E tu, sii il seme di un’alba
remota, mai sorta;
appartieniti, proteggiti
dalla vita già morta
che incalza; sii il cucciolo inerme
della tua rinnegata eternità.

Metamorfosi

Non è molto quel ramo dietro i vetri
per sapere che fuori impera il niente;
ma è tutto ciò che scorgi e che non vedi
che lo trasforma in una gemma ardente.
Che lo trasforma in una calda rosa
che accende il limitare dello sguardo
della sua sete indomita e operosa;
e ritrasfonde in musica il tuo pianto

Francesco De Girolamo da Paradigma Lietocolle, 2010

musica rinascimento

 Franco Dionesalvi

Franco Dionesalvi

La fragola e il pianoforte

Il lembo vellutato
del vestito a macchie di fragola
si acquattava sul cranio pallido
del maestro francese
al pianoforte.

L’ansia distratta di lei
raccoglieva
silenzi mielosi margherite di raso
nel pubblico a cappelli
raccogliticcio
dalla valanga appena sventata
di là dalla finestra
per nuovi messia
intagliati nell’alba;
girava le spalle nude
accostava la parete
si poggiava sul davanzale di neve
concepiva nella sua mente
il nano della montagna.

musica

 Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Musica di pentagramma,
infuriano le dita sui tasti.
La Moldava, come la vita,
me la svelò mia madre,
con appena tre note, l’udito lacunoso.
L’oboe delle ellittiche,
in movimento di danza,
l’appresi di notte
malgrado i corni latranti dei cani.
In spirito millimetrico, rispettoso,
ninnavano il sonno i cerchi di Saturno
con andamento adagio, molto cantabile
e al fondo, sempre udibile,
la grancassa in fff del big bang
favilla di prestoria
dove il prima e il dopo
convissero in un fulmine.
In perfezione di suoni
la legge di sassi e comete.
Al flauto delle tempeste solari
fibrillano i violini del fiume
le cui ripe in concerto
sbocciano a un giro di do.
Arpeggia lo spartito armonico
col sigillo -da sfinire- di scale avulse.

Stradivari 1681

Stradivari 1681

 

Terry Olivi

Terry Olivi

 

 

 

 

 

 

Terry Olivi

Blues all’Alberone

.
Occhi succosi estate
la cantante
ha un vestito rosso
sul palco gli acuti
i bassi
uno swing? so sad
tonight
una disperazione
così dolce così tacita
too bad

tonight

il plenilunio è
ancora lontano
l’oceano mi è testimone
una zattera insegue l’onda
una culla
la ragazza sulla zattera
nel suo vestito rosso
canta microfono in mano
è solo per il mare
per il vento per le instabili nuvole
per l’ampio cielo intorno.
Un’armonica risponde
così pura così lontana.

Eppure
svaniscono piano piano
so sad so sad so sad
tonight….

Roma 30 dic. 2011

Giuliana Lucchini violoncellista

 Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Papillons*

A Mirna amante dell’armonia

Nel coro turchino dei grilli coglie
l’allodola semi e granaglie
con le prime note del mattino.
Ha vegliato la notte di collina,
paventando fantasmi della Selva
Nera, ciclopiche illusioni
dell’Egeo cipriota con i venti
della steppa turbinanti sopra
una tastiera di farfalle. Le note
si fanno immateriali trilli
di cutrettola vibrante con le piume
che gonfiano leggere le frasi
di spartito.
Poi appare Leda, abbandonata
all’assoluta gioia d’un amore
divino, ignara dell’infimo
destino mortale.

*Robert Schumann, composizione per pianoforte Op. 2

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