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Gino Rago conversa con Letizia Leone sulla Antologia AA.VV. Alla luce d’una candela, in riva all’oceano, a cura di Letizia Leone, L’Erudita Ed., Roma, 2018 – Testi di Edith Dzieduszycka, Steven Grieco-Rathgeb, Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Davide Cortese, Lidia Popa, Giuseppe Tacconelli, Flaminia Cruciani, Rossella Seller, Giacomo Caruso

letizia leone antologia1- Gino Rago:

Di recente hai curato per l’editore romano Giulio Perrone l’Antologia poetica Alla luce d’una candela, in riva all’oceano. Quali motivi ti hanno spinto verso la realizzazione di questo ambizioso e ben riuscito progetto poetico?

Letizia Leone:

In verità ho approfittato dell’invito dell’editore Perrone a curare un progetto antologico per i tipi dell’Erudita, convogliando la meditazione poetica degli autori su un tema vincolato alla contemporaneità, esilio e migrazione. Tema politico incandescente e strumento potente di propaganda dei nuovi populismi nelle nostre democrazie occidentali che cercano capri espiatori per il fallimento delle politiche economiche neo-liberiste o per l’incapacità di affrontare l’enorme complessità delle problematiche a livello globale. Ad esempio i leader populisti in Ungheria e Polonia stanno promuovendo una tipologia di democrazia illiberale e come sottolinea M. Kisilowski della Central European University, gli elettori di questi paesi «potrebbero arrivare a considerare la stagnazione economica come un prezzo sociale accettabile da pagare per ciò che maggiormente desiderano: un mondo più familiare in cui lo Stato garantisca un senso di appartenenza e dignità a un gruppo chiuso dominante, a spese di “altri”». Ma il populismo si presenta anche come un problema linguistico: semplificazione, manomissione, impoverimento della lingua. Pensiamo alla lingua nel Terzo Reich. Una lingua quella nazista costruita sui luoghi comuni, gli slogan, le frasi fatte e ci ammonisce Klemperer «proprio le frasi fatte si impadroniscono di noi.» Inutile sottolineare come la parola meditata e lenta della poesia, anche dalla sua postazione di retroguardia, rappresenti la grande sfida immunologica in questo momento. Significa riappropriarsi dei tempi lenti della lettura e del pensiero, un tornare a riflettere, a meditare sulle cose. La sfida di una convocazione a scrivere su Esilio e Migrazione in un libro collettivo come questo è proprio quella dello sfondamento del muro della retorica mediatica imperante.

2 – Gino Rago:

In copertina leggiamo AA. VV. che suggerisce la presenza di autori vari. Quali criteri ti hanno guidato nella scelta dei poeti da antologizzare?

Letizia Leone: è stato un lavoro fatto in sinergia con l’editore, da una parte l’invito alla collaborazione con tutti quegli autori che seguono i progetti culturali della casa editrice; dall’altra una mia personale cernita tra poeti impegnati in una continua ricerca estetica e stilistica. Tenendo sempre presente la libertà, il sistema aperto delle proposte. Certo il legame con la realtà poteva risultare condizionante (dato il tema e l’urgenza del contingente) ma al di là di una «fedeltà-concretezza alla terra», come direbbe Nietzsche, si è cercato di far muovere ogni autore liberamente (sul piano metafisico o ideologico o emozionale…) alla costruzione di un testo. Certamente nella chiamata a scrivere era implicito un principio di responsabilità e condivisione.

3 – Gino Rago

Tanti gli elementi che emergono dalle poesie presenti nell’antologia. Ne vuoi sottolineare qualcuno in particolar modo legato a nuovi fenomeni linguistici?

Letizia Leone:

La varietà e la qualità dei testi ha arricchito di senso questa esperienza di scrittura comunitaria. Ciò che emerge nello svariare delle scritture, è l’accertamento dell’esilio quale parametro esplicativo della contemporaneità, e della precarietà e disperazione come tratti nuovi della condizione umana. Se il mare resta il vero e proprio Leitmotiv che attraversa i testi, mare indifferente dei naufragi o del viaggio per acqua di un’epica contemporanea, e a volte specchio cosmico e interiore della percezione di sé, lo spaesamento spaziale o psichico si fonde ad un senso di estraneità (“Mancata appartenenza” di I. M. Clementi) e a questo si aggiunge spesso anche l’oblio della memoria in molti autori. Ampie inoltre sono le variazioni ritmiche e stilistiche sulle linee maestre dell’esilio e della migrazione: l’exilium (dal lat. Ex, Fuori e Solum, Suolo) è centro, ad esempio, della meditazione poetica del sonetto metricamente perfetto di Francesca Farina, o dell’esilio archetipico di Giuseppe Gallo che lentamente trasfigura in condizione intima e interiore. E poi la migrazione e le sue isotopie, il nomadismo, l’erranza, la de-territorializzazione: la migrazione di Giacomo Caruso fissata nell’immagine degli ampi e precari arabeschi delle rondini.

Ma l’esilio diventa anche forma-ipostasi di un’immagine extratemporale. Evento: là dove l’assetto epico immunizza il testo da scontate commozioni elegiache e trasforma fatti e frammenti classici in un portato sincronico di significazioni. Alcuni autori della Nuova Ontologia Estetica esemplificano nei loro testi una scrittura per frammenti, dislocazioni spazio-temporali, locuzioni ellittiche o traslate… Eliot aveva parlato di “metodo mitico” capace attraverso il paradigma storico di ordinare il caos della contemporaneità, esemplificato in questo caso dall’Ecuba di Gino Rago, archetipo di donna vinta che sembra uscita da pagine di cronaca. Oppure le rifrazioni, quasi astrazioni nell’impermanenza de I sottili lineamenti tribali, le mille piste/che si biforcano nel deserto di Steven Grieco-Rathgeb. O ancora le irradiazioni della Storia da un vaso cretese, impercettibili e mortali, di Giovanna FreneGiorgio Linguaglossa nel suo testo In nomine lucis mette in atto un neo-allegorismo infernale carico di figurazioni limbiche, sospese tra sur-reale e iperrreale, tra oggetti estranei e frammenti incistati nella carne dell’immaginario più remoto: Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti, oppure: Il buio partorisce un uovo dal quale escono i pipistrelli ciechi…Quasi una discesa agli inferi, come nei versi di in Edith Dzieduszycka o di Francesco Di Giorgio dove la specie umana in toto assume una parvenza diabolica. L’esilio si palesa come dissociazione, malattia mentale, emarginazione sociale nei versi di Rossella Seller, La fata ora è scomparsa nelle sere/ fredde dei ponti tesi sulla testa…, o nell’affondo psichico e antropologico (se l’inconscio è lo straniero che abita in noi) di F. Cruciani,…nella giacchetta/ stretta e le scarpe sfondate/con passi gridati hai osato le costellazioni rovesciate…

4 – Gino Rago:

Una idea-guida cui ti sei magnificamente ispirata nella stesura della Prefazione è stata quella della «condizione di esilio» cara a Josif Brodskij. Credo che meriti, anche come viatico alla giusta lettura dell’antologia poetica da te curata, di essere bene approfondita…

Letizia Leone:

Si, la stessa antologia è suggellata da un verso del poeta russo esule nel 1972 dopo l’accusa di parassitismo sociale, alla luce d’una candela in riva all’Oceano. Un verso che in questo caso può essere esperito quale veglia simbolica davanti al mare, il mar Mediterraneo di questo secondo millennio divenuto tomba d’acqua per migliaia di profughi. Topos della letteratura universale, l’esilio in questa nostra modernità di guerre e migrazioni assume anche una valenza metafisica per Brodskij. L’abitare è la parola chiave mancante e il focolare, archetipo psichico del centro, dei legami comunitari e parentali e una parola vecchia, accantonata, dismessa. Smarrimento delle radici ed erranza sono la condizione attuale di un uomo decentrato, per così dire, fuori di sé: cuffie, cellulari, computer lo tengono immerso in una esteriorità liquida, al livello superficiale della chiacchiera. Al contrario lo scrittore è un esule privilegiato grazie al suo mondo interiore. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula». Ne consegue che l’esilio post-moderno, quale dimensione ontologico-esistenziale, esula dalla sola sfera politica ma configura una condizione di estraneità, disadattamento, precarietà, marginalità dove il linguaggio, la poesia, l’arte e la cultura possono funzionare da «scudo immunologico» anche per chi è geograficamente stanziale. Non dimentichiamo inoltre che i poeti antichi erano maestri dell’abitare poeticamente la terra e citando da un prezioso volumetto di Emerico Giachery (Abitare poeticamente la terra): «I versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli, sapere i gesti dei piccoli fiori…», queste sono le parole di Rilke che oggi potrebbero risultare anacronistiche. Ormai immersi come siamo nel rumore, negli spazi spogli e cementificati, nelle luci violente quanta di questa sacra spazialità è stata sottratta al nostro io? Siamo un poco tutti esuli da qualcosa di profondo, sicuramente dal silenzio…

5 – Gino Rago:

Erranze-dislocazioni-esilio stanno imponendo un nuovo fenomeno linguistico con il quale bisogna cominciare a fare i conti: il translinguismo. Vuoi dirci su questo il tuo pensiero?

Letizia Leone:

Il translinguismo letterario, fenomeno oggi molto diffuso, può rivelarsi un’occasione creativa per la lingua di un poeta e di uno scrittore. Mi piace pensare che sebbene per uno scrittore esule o emigrato la propria madrelingua possa rappresentare una sorta di «capsula» o «scudo», questi sa bene che deve immettersi anche nel flusso vivo della lingua che esperisce quotidianamente: «ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade». Così almeno per Brodskij, scrittore bilingue dopo l’esilio. Ma non dimentichiamo che realizza una sorta di translinguismo anche chi è costretto a rifiutare per orrore la propria madrelingua come Paul Celan, il quale costretto nel tedesco dei carnefici articola nei suoi testi un lingua oscura, ermetica, simbolicamente blindata … Comunque un poeta deve mettere a dimora i semi di un’altra lingua, di un altro mondo affinché l’emigrazione non sia solo una dislocazione spaziale.

6 – Gino Rago:

Hai qualche altro progetto a breve o a lungo termine, un progetto-desiderio a te particolarmente caro…?

Oltre allo scrivere, sto organizzando un seminario sull’esperienza del dolore nella letteratura (Il pathos è poesia). Nella socializzazione dei laboratori poetici la poesia celebra la sua funzione conoscitiva e realizza connessioni profonde tra le persone. Strumento prezioso di riflessione lenta, meditazione laica e amplificazione della coscienza. Aveva ragione Brodskij: la poesia è un’astronave.      

Letizia Leone:

“[…] Di fronte a smarrimento delle radici ed erranza un poeta come Brodskij eleva l’esilio a condizione metafisica di «resistenza attiva». E se l’«abitare» è la parola chiave mancante per chi è costretto ad abbandonare la casa, il proprio paese o l’idea stessa di patria, a questo sorta di sradicamento lo scrittore da esule privilegiato, grazie al suo mondo interiore, può opporre lo spazio del linguaggio. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula[…]”

Gino Rago

 

L’esilio è un fatto linguistico

Era d’inverno. Il villaggio dormiva più del solito,
ombre corte dai monti e dalla neve.

Una donna sognava di diventare un’altra persona.
Bisognava lasciare il villaggio, abbandonare la casa.

Sfidare il lago, attraversarlo dimenticando le sponde,
concentrandosi unicamente sull’altra sponda,

la più vicina. Agota diventò un’altra persona
ma non abbandonò il villaggio né sua madre.

Aveva intrapreso il viaggio in un’altra lingua.
La nuova lingua accolse la donna

come la nonna che ti attende e che ritrovi al di là dell’oceano.
La condizione che chiamiamo esilio è solo un fatto di lingua

[si può essere in esilio anche nel proprio villaggio,
nella lingua della madre, fra le ossa dei padri ]?

Agota ora scrive nuovi versi. L’esilio è in ogni lingua
che ti nega la parola esatta.

Edith Dzieduszycka

I senza nomi

In giacche d’ombra
e visiere di fango
arrancano
letali
i senza nomi
Sul ciglio del sentiero
su scogli e strapiombi
senza meta
a blocchi aggrovigliati
Le loro armature sono di pelle nuda.
Hanno perso la voce
la lingua
forse la voglia
Dai rovi
sornione s’alza
la brigata dei corvi iene sciacalli
L’orizzonte è fuggito
È andato lontano
dietro
più dietro ancora
Una mantella cupa
lo ricopre.

Gëzim Hajdari

Dove vanno questi uomini insanguinati
giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
Dicono che provengono dal Delta del Niger
e non vogliono tornare indietro.
Che ne sarà dei loro destini?
Fuggono lungo il confine
insieme alle bestie impazzite
in balia delle dimore ignote
e delle voci dei defunti.
(da Delta del tuo fiume, Edizioni Ensemble, Roma, 2015.)

Foto Saul Steinberg Masquerade

Steven Grieco-Rathgeb

I sottili lineamenti

I sottili lineamenti tribali, le mille piste
che si biforcano nel deserto:
la fine trama di logore sete,
il rosso e l’oro di vesti principesche:
tutto abbiamo visto vanificarsi, svanire
come un raggio di luce nei terreni incolti;
il volto del mondo perdere i suoi connotati,
gli stivali chiodati del Male assoluto
i pesanti cingoli nel fango
portare in offerta distanze ravvicinate.

E dalle fessure dei nostri muri disumani
spiamo quelle catapecchie a perdita d’occhio,
i mille fuochi sporchi per le vie:
gli arruffati capelli irti di polvere e ira
riavviati dalle mani materne,
i capelli sottili come seta
riavviati dalle ruvide mani materne.

Giorgio Linguaglossa

In nomine lucis

Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion

danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.

Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,

sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,

si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,

sotto gli alberi spogli.

[…]

Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.

Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…

– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…

– Dicono di aver bevuto tanta luce.

[…]

La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde

in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.

[…]

La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo

dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione

e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…

Foto fuga nel corridoio

Gino Rago

Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
Senza mai saperlo

Forse un’idea [una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro. Una forma senza carne].

Noi siamo qui per Ecuba.
Tutto le fu tolto per una bolla d’aria.

Senza senno il massacro sull’acropoli
per la spartana fuggiasca, una sposa rapita.

Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta

[a suo dire mossa dall’Olimpo].
Come fuoco nel sangue o fremito nei lombi

Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.

Noi siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Ora sconfitta va verso la nave

[lo sguardo nell’occhio dell’acheo].
Quasi a sfida delle avverse dee

Nel disastro aduna sulle schiave
La gloria d’Ilio, eterna come il mare.

La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.

La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.

L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.

Per tutto il tempo viva
[Di cetra in cetra da Oriente a Occidente

Quel sangue prillerà nel canto dei poeti,
Arrosserà per sempre il porfido del mondo].

L’unghia dell’aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo

Alla sua vela: «Si vada verso l’Isola…»
L’inno dei forti piega le Troiane.

Si scolla dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

Flaminia Cruciani

Hello Charlie

Resta una lapide oggi
fra i ragazzi distratti che giocano a palla
dove si è alzato il sipario sulla tua vita
nel carrozzone della regina degli zingari
dove tu da bambino correvi gli angoli del buio
nell’accampamento che sapeva di brodo di pollo
fra domatori di animali
mangiatori di fuoco, girotondi di sogni sdentati
nel regno d’albume dell’infanzia.
Con il bastone di bambù, nella giacchetta
stretta e le scarpe sfondate
con passi gridati hai osato le costellazioni rovesciate
hai digrignato i denti all’assurdo
nella pantomima inaudita dell’umano
coi suoi altari primitivi imbanditi di carcasse di vermi.
Svegliatevi uomini!
Se non ce la fate ad ardere voi stessi
e non vi togliete la maschera d’ossigeno
sparata dall’ostia nuda che recita il mondo
la morte vi ricompenserà ballando nel suo tutù
e tagliandovi via come unghie.
Quando l’ossame assaggerà il vostro cranio
passandolo da una bocca all’altra
non vi sarete accorti di essere stati
tenuti a galla dalla vostra controfigura
che rischia di sopravvivervi.
Dove siete rimasti fermi tutta la vita
mentre il mondo vi viaggiava intorno.
Non tornerete a casa
se non ridete in faccia alla tragedia
prima che la rappresentazione finisca
senza applausi.
 
Lidia Popa
Sentire il pianto della terra
In quest’attimo sconvolgente d’inerte esilio nell’eternità
Il cielo migra, capovolto nella trasparenza della biosfera.
Sulla sabbia scolpita tra fili secchi d’erba, gode l’inverno.
Sotto la coltre di neve, il grano si nutre dalle nuove radici.
Affonda il vecchio tempo nel fertile suolo dorato.
Secondi inafferrabili di granelli di sabbia mobile,
Scorrono dalla clessidra del cielo nel fine febbraio. 
Lasciano impronte cancellabili sulla terra deserta.
Tu, Uomo ascolta in silenzio il pianto di questa terra.
Se ti commuovi è perché non hai fatto abbastanza.
La terra vive e si ribella, arroventa il fiume di magma.
Tu, Uomo se ti commuovi, senti quando piange la terra.
La terra oppressa sotto il cemento come una tomba.
Vive e si ribella, facendo nascere la vita ovunque.

[Nota autrice: Questi versi sono la visione differente del migrante sconvolto dal suo esilio urbano, abituato a vivere in stretto legame con la Madre Natura, al quale dona considerazione e rispetto perché rappresenta la continuazione della vita, l’ossigeno per respirare e nutrimento]

Rossella Seller

Rossella Seller

Ultimo gradino

Hai preso una coperta come casa
all’ultimo gradino dell’indifferenza umana,
ma sei stato bambino anche tu
e morbido di pieghe.
Hai avuto una madre e sogni da spendere
confusi ormai nel puzzo d’alcool
che ti frana addosso.
Dov’è buio e zuppe corre alle mense
aveva mani tonde di latte, lei
gentile guida ai primi passi.
Ti guardano i fuggiaschi delle strade
disprezzo e calci alla polvere
non come ti amava lei.
La fata ora è scomparsa nelle sere
fredde dei ponti tesi sulla testa.
Un pallido ricordo ti siede accanto,
qualcuno passa, una moneta rotola e tintinna.
Come farò ad accettare il tuo saluto
e non rispondo
come farai a perdonarmi?

Giacomo Caruso

Rondini

ci sono le rondini, ti scrivo
come ogni anno alla metà d’aprile
anche se un poco hanno tardato
anche se in realtà sono rondoni
– un’altra specie proprio, dice la rete provvida al riguardo –
e gridi e voli e guizzi e salti
riempiono l’aria tiepida al mattino
e al tramonto
m’illudo che sia tutto come sempre
eternamente mutevole e cangiante
un altro anno, un cambio di stagione
e avverto un’ombra scura che sovrasta
e mai più m’abbandona
ma spero che non tutto sia perduto
se ancora e ancora tornano
le rondini
è d’altre migrazioni ora affannoso
pensiero fisso, struggente, doloroso
d’anime vive in fuga dalla guerra
dalla miseria, dall’intolleranza
tenace inconsistenza organizzata
degli stati sovrani e dei governi
impotenza, inerzia, inettitudine
incapacità complessiva e strutturale
di prevedere, predisporre, fare
di pensare, risolvere, cambiare
s’aggiunge l’egoismo e l’ignoranza
dei singoli individui, della gente
non torna la ricchezza della mente
ma spero che non tutto sia perduto
se ancora e ancora tornano
le rondini
anche se in realtà sono rondoni
come ogni anno alla metà d’aprile
ci sono le rondini, ti scrivo.

foto gunnar smoliansky - stockholm-1958

Giuseppe Tacconelli

Terra di Dio, terra di disperazione

Partiti verso le tenebre.
Coartati alla diaspora,
intrisi d’angoscia.
Con le tasche rigonfie di povertà
o dei ruggiti di letali ordigni.  
Grida di dolore strozzate in gola,
scagliate per anni come secoli.
Uomini lapidati da pensieri di morte,
lungo un’incolore esistenza.
Mani giunte alzate al cielo
implorando risposte dalle stelle.
Oltre gli astri verso il proprio Dio,
affinché riesca a scuotere l’inesorabile,
con possente spallata obliqua.
Instillando acqua tra piagate labbra.
Le ali vennero tranciate di netto
ai soggiogati da mercenarie divinità.
La caduta fu rovinosa
cedendo ad irresistibile peso.
Strappando ciò che rimarginava.
Il silenzio dilagò attorno.
Spalla a spalla con i fratelli
con i quali intonare preghiera sommessa,
nella marcia a capo chino.
Svegliarsi ogni giorno e sognare
una nuova terra fertile d’amore,
dove chiamar le stelle con voce universale.
Invocando ardentemente il Dio dei popoli.
La luna li guarderebbe con occhi invidiosi,
correre ridendo
inseguiti dalle nuvole.
Sempre più veloci,
fendendo vento e stormi di uccelli.
In armonia con il disegno celeste.
Davide Cortese
Sembra che da oriente
migri verso occidente
il sole,
per portare lontano
un nuovo inizio.
Migra verso la terra
il frutto maturo
per portare un seme
che rinnovi la storia.
Migrano, carovane di nuvole,
per portare lontano una pioggia.
Migrano, i miei pensieri,
per tornare con in dono un ricordo.
Migra, la nostra vita,
dal primo pianto
all’ultimo rantolo.
Ogni attimo è migrante.
Lo è  ogni cosa qui tra gli uomini.
Migra, la gioia,
e da remoti approdi mi scrive
che ha portato in salvo
la nostalgia che ha di me,
sigilla il messaggio nella bottiglia
e lo affida a onde di lacrime salate.
Una rondine è il mio sorriso.
Ed io so che tornerà.

Letizia Leone Viola NorimbergaLetizia Leone è nata a Roma nel 1962. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, 2000; L’ora minerale, 2004; Carte Sanitarie, 2008; La disgrazia elementare, 2011; Confetti sporchi, 2013; Rose e detriti (2015); Viola Norimberga(2018). Tra le numerose antologie si segnalano: Antologia del Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino, 1998; La fisica delle cose, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, Roma, 2011; Sorridimi ancora, a cura di Lidia Ravera, Giulio Perrone editore, Roma 2007, dal quale è stato messo in scena lo spettacolo Le invisibili, Teatro Valle, 2009; Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016. E’ presente in Dopo il Novecento, a cura di G. Linguaglossa, Società Editrice Fiorentina (2013) e in Critica della Ragione Sufficiente di Giorgio Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura (2018). Redattrice della Rivista Internazionale L’ombra delle parole e della Rivista Il mangiaparole (Edizioni Progetto Cultura). Organizza Laboratori di lettura e scrittura poetica a Roma.

Laboratorio 30 marzo Gino Rago legge_1Gino Rago,nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili diragno(1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud(EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo(Progetto Cultura, Roma, 2016).  È nella Redazione de L’Ombra delle Parole. Collabora con la Rivista cartacea Il Mangiaparole, trimestrale di poesia, critica, contemporaneistica.

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ANTOLOGIA IV PER IL PARNASO – Roberto Maggiani, Giuseppe Panetta, Chiara Moimas, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Marzia Spinelli, Davide Cortese, Stelvio Di Spigno

Parnaso 1

roberto maggiani

roberto maggiani

Roberto Maggiani

La paura

È un qualunque mattino di serenità:
il sole alto sull’orizzonte marino
la nuvola bianchissima nell’azzurro subtropicale
la palma ondeggiante lungomare
il frastuono dell’onda sulle pietre.

Minuti sospesi
sul baratro dell’inesistenza –
ma noi di questo non ci preoccupiamo.
Nell’Universo dal vuoto metastabile
(potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro)
qualcuno si spaventa per una sirena

un incendio improvviso nel bosco
un forte vento.

La paura
è solo un momento in cui vediamo
riflessa nel mondo
la precarietà
della rete che ci sostiene.

 

rene_magritte-les_deux_mysteres1966-1300px[1]

Giuseppe Panetta

Il cuore assente per il troppo battito
gli occhi riversi nel bagliore di compassione
e la luce del lavacro torbido di Giove prono nella galassia
antigene del Potere asfittico pronipote di Venere distributrice
di bevande nell’aferesi della prima spremitura di nube con la sorte
della grappetta dei fogli pidocchiosi d’inchiostro dall’alto del satellite cieco
il profilo del malaffare planetario pesca nell’idolatria rinsecchita del dio denaro
in rivoli di melma di una qualsiasi povertà che vìola e recide la protostella al nascere
della galassia del vivere nell’infrarosso interagente nel libertinaggio masturbatore
d’ogni fibra oftalmica avvelenatrice del rimpatrio delle stelle dell’orsa maggiore
che guidano i disperanti nel mare nostrum della sera con diaspore di sconforto
di speranza nei frangiflutti delle luci morte delle supernove che come fari
d’ogive e distruzione di gas e polveri in luogo del seme rifuggono
nel procellarum muto l’oscurità il riassetto del mondo per mano
d’uomo e in questo primo quarto il nulla a-cosmico
come un corno d’Africa porta fortuna

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Preziosamente

Zaffiri stemperano il cielo e l’orizzonte,
acquamarina fresca zampilla dalla fonte,
rossi rubini a coprir l’occiduo sole
e d’ ametista i petali delle nascoste viole.

Smeraldi intensi sopra i pendii e sui prati,
coralli e lapislazzuli son fiori profumati,
stille di diamanti paion gocce di rugiada
e sopra le tue palpebre il pallore della giada.

La notte si accende, son topazi le stelle,
ed è d’ambra dorata la tua pelle,
boccioli di corniola i pruni del tuo seno
racchiusi nel cristallo i colori del baleno.

Bisso prezioso e casto a ripararti il pube
e incenso conturbante che avvolge in una nube.
Un’ostrica ho divelto per cullare il tuo riposo;
opalescente perla, che toccar non oso.

untitled

Sabino Caronia

da Diario di un’assenza

È il vuoto che mi lasci la mia vita.
No, non manca la sedia ma il tuo posto
e più manca la voce e più il silenzio
dell’averti qui accanto, di quei grandi
occhi perduti che lasciano il mondo.
Anche la chiara luna su nel cielo
solitaria di te nel buio splende.
Tutto intorno è il diario di un’assenza.

A distanza

A distanza, dai luoghi che traversa
l’ansia d’averti, come sai, ti chiamo
ed una gioia sento in me diversa
a cui m’arrendo come pesce all’amo.

Tutta la vita in fondo è cosa persa,
l’inganno di un inutile richiamo,
la filastrocca bella e un po’ perversa
che ci seduce con il suo “ti amo”.

Pure resta un ricordo: l’usignolo
che cantava nel bosco ed era solo
e l’ombra che scendeva nella sera

dalle ciglia, materna ombra severa,
e gli angoli incurvava della bella
bocca altera e distante come stella.

 FOTO G. DI LEO

Giuseppina Di Leo

Un uomo dai quattro occhi ho guardato
due li aveva nel petto sotto la camicia
ronzavano alla maniera di un animaletto
ali le ciglia sbattevano segretamente
senza esser visti divoravano
l’eccesso del cuore facendolo sterile
gli occhi del viso erano gioiosi
si posavano curiosamente
sui platani dal bordo castano
stimme verde arancio o di morfea
nella morfallassi di un tempo intero
avanzavamo a scoprire genesi e genere
a un’età dove riposto è già ogni sgomento
con altri occhi somiglianze non ve n’erano
mai ne avevo visti di così belli;
ma i due occhi nel petto
non mi fu possibile guardare
né mi preoccupai invero di scoprirli
segreti ammorbavano chiarori in lampi
e, allontanandomi, essi trafissero il dolore.

*
C. M. E.

La cenere nuota nell’acqua
di un bicchiere mezzo vuoto.
Una cicca di primo mattino.
Qualche scatto assestato per bene
tra piccoli fiori coltivati ad arte
nel piccolo giardino davanti
l’alloggio, e se puoi dimmi
al risveglio cosa ricordi
se il bacio sulle labbra
a quale parola associare.

Aria fresca e avvio di un motore
un pensiero anche
apertosi tremando
come noi tremiamo.

Spinelli foto

Marzia Spinelli

Ti ho cercato in ogni deserto
per le strade di questa odorosa
amorosa città
ho scavato nella terra
e abbracciato la carne
disegnando un sorriso
un suono della tua voce
un profumo tuo
nel giorno
che continua il sogno di te
della notte, di notte qualcosa di te
ho immaginato
la tua lucente armatura d’eroe
e il mio abito di fanciulla perduta
per entrambi
in un trasparente corpuscolo
nella grana ruvida delle stelle
nell’aurora una nuova sembianza di noi.

(inedito)

davide corteseDavide Cortese

Vomito boschi dalle erbe odorose,
unicorni dalle storie millenarie.
Con un solo filo dei miei pensieri
giovani marinai dimenticano il mondo
intrecciando con dita di scheletro
gasse degli amanti e nodi dai nomi
che i loro figli mai nati
non smettono ancora di inventare.
Ciò che si muove nel mio ventre
è l’intero mondo,
bagnato fradicio, fino al cuore di fuoco,
dalla pioggia splendente della vita.
Ma sarò solo una gabbia d’ossa
se ora tu non verrai ad amarmi.
Sarò il cimitero dei miei popoli iridati,
degli arcani baciatori,
dei miei incendiari poeti.
Sarò maestoso nubifragio di tristezze
se solo tu ora non verrai.

(da “Anuda” Aletti 2011)

Elvio Di Spigno

Stelvio Di Spigno

Barcarola della fortuna

A Stefania Buonofiglio

Fai brillare i cavalli al tuo treno perché
è soltanto miseria il nostro mondo, anche se
si affaccia a rincuorarti mentre cammini
ai bordi di una foto, su Positano inusitata
di colori e di acacie, e a lungo la faccia che hai
perde il verde del suolo primitivo.

Brevettammo universo e allegria, come a metà
del Novecento i nostri avi, entrambi contadini,
ma su due facce di cielo distanti in fascine,
poi vennero i giorni di caduta, ora ricordo
che fosti incinta di me come una madre,
mi curavi e cercavi, mi adottavi e viravi

la tua barchetta molle delle astuzie marine
verso un’isola dove restasti sola, drammatica,
a morire di sghembo, senza essere chiamata,
più da nessuno da quel giorno, dolcezza,
signora, amore, pietà, larghezza amata.
Restano tra i vivi gli olivi calabresi,

il filmino della casa, l’anno 2006, la mente andata,
e ogni nuovo volto è un dolore che affoga:
popolammo il motore della fine, quando
tutto cominciò, in un giorno di carta, ere fa,
nessuno ancora l’ha scritto o l’ha tradito,
perché a ogni fatica noi affondammo insieme.

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