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Il menù non prevede la critica letteraria, Quando la critica diventò teoria di Alfonso Berardinelli con la replica di Javier Cercas, El critico matòn, Il critico teppista,  a cura di Matteo Marchesini, cover di Agenda con poesie kitchen di Lucio Mayoor Tosi

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Bozzetti di cover di una Agenda con poesie della poetry kitchen a cura di Lucio Mayoor Tosi

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Qualche tempo fa, sulla rivista “L’età del ferro”, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un saggio nel quale – replicando a un articolo volgarotto di Javier Cercas contro di lui – riassume molto bene la storia e lo stato della critica (non solo letteraria). Lo riporto qui, perché credo sia utile a chi discute del tema:
(Matteo Marchesini, https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754)

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IL MENU’ NON PREVEDE LA CRITICA LETTERARIA
Quando la critica diventò teoria
di Alfonso Berardinelli
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Sono cresciuto in un periodo in cui la critica era quasi tutto. Oggi è quasi niente.
Non rimpiango quei tempi, gli anni cioè fra il 1960 e il 1980. Non li rimpiango perché l’attività critica e la sua tradizione moderna, che ebbe inizio intorno alla metà del Settecento, subì un’improvvisa e accelerata mutazione che sembrò renderla più potente e autorevole, ma ne modificò rapidamente le caratteristiche. Fino a pochi anni prima, benché le diverse correnti critiche fossero influenzate da particolari ideologie, filosofie e scienze, la critica letteraria era rimasta fondamentalmente saggistica. Le idee contavano, ma la forma linguistica e letteraria, lo stile, non ne erano sostanzialmente compromessi. L’idealista Benedetto Croce, il marxista Gyorgy Lukacs, i filologi Leo Spitzer e Erich Auerbach, gli eclettici Walter Benjamin e Edmund Wilson, erano dei veri saggisti, prosatori originali di prim’ordine. Usavano certe idee, applicavano un loro metodo di analisi e restavano fedeli ai loro criteri di valutazione. Eppure il loro stile di pensiero era anche uno stile letterario. Chiunque li avesse letti appena un po’, sarebbe stato in grado di distinguere quasi a orecchio il tono, il ritmo, la qualità della loro prosa. In altri critici, meno fedelmente interessati a filosofie e metodi, come Frank R. Leavis, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, la critica coincideva interamente con il loro personale modo di leggere e di scrivere. Per non parlare dei maggiori e più noti scrittori-critici: T. S. Eliot, Paul Valéry, D. H. Lawrence, Wystan H. Auden, Octavio Paz, e più recentemente John Updike, Gore Vidal, Vargas Llosa, Italo Calvino… La critica non poteva ancora essere confusa con lo studio accademico, né con la teoria o scienza della letteratura.
Fu infatti proprio intorno al 1960 che una lunga tradizione si interruppe. Quasi tutto ciò che era stato scritto in passato, si trattasse di critici romantici o simbolisti o realisti, sembrò all’improvviso approssimativo, impressionistico, poco scientificamente fondato e ormai improponibile e impraticabile. La prima edizione di Theory of Literature di René Wellek e Austin Warren uscì a New York nel 1942: poteva sembrare solo una sintesi didattica, ma poi ci si rese conto che quel libro segnava una svolta. L’attenzione ormai si concentrava, come mai prima, sulla teoria generale della letteratura e sulle metodologie dello studio letterario. Fu così che, fra teoria e metodi, la precedente accezione saggistica e valutativa della critica si indebolì fino a sparire. Letterarietà (o “specifico letterario”), autonomia del Testo, Funzione poetica del linguaggio, prendevano il posto di una più generica, empirica nozione di letteratura e dei suoi generi. Così la teoria e la metodologia svalutavano la lettura come esperienza personale e la critica come attività tipica di singoli critici.
La cosa andò avanti per circa un ventennio, dal 1960 al 1980: e sono proprio quelli gli anni gloriosi e noiosi della Nuova Critica che mi sembra difficile rimpiangere. La teoria della letteratura divorò, ingoiò la letteratura. Ci furono anni in cui sembrava che gli scrittori scrivessero per ubbidire e piacere ai teorici, prevedendo la loro “scientifica” approvazione. Con decenni di ritardo rispetto alla diagnosi di Ortega, si provocò una nuova specie di “disumanizzazione dell’arte”: era una letteratura fatta di testi puri e assoluti, o volutamente mescolati e ibridi, o programmaticamente illeggibili, comunque testi senza autori (era proibito parlarne) e senza lettori (sostituiti da tecnici di laboratorio di analisi).
Il critico sospettato
Tutto questo non è che un prologo. Con il crollo inaspettato e mai spiegato dei due pilastri della Teoria, lo strutturalismo e la semiologia, che partendo dalla linguistica avevano colonizzato soprattutto in Francia tutte le scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia), si creò una situazione diversa per la critica letteraria. Non più “disumanizzata”, ma ormai anche troppo umana e vulnerabile, la critica rinunciò ad agire sotto garanzie teorico-scientifiche. In quanto filologia e storiografia, diventò studio letterario ambientato nelle università: gli insegnamenti di teoria letteraria si trasformarono in Letterature comparate, orientate in senso prevalentemente tematico. In quanto critica vera e propria, tornò a essere più spesso giornalistica e saggistica, praticata soprattutto da scrittori, e prese di nuovo la forma molto empirica, rischiosa e provvisoria della recensione. A questo punto si capì che la critica letteraria, se deve esistere, esiste soltanto perché c’è qualcuno che vuole scriverla e non riesce a farne a meno. Insomma: la critica sono i critici.
Diventa chiaro allora che ogni critico non può più evitare di prendersi le sue responsabilità e di correre i suoi rischi. Ormai da almeno trent’anni la critica non vive più come applicazione di teorie né come strumento di lotta autopromozionale di gruppi “d’avanguardia”. Torna a essere un’impresa personale sempre sospettabile di parzialità e di soggettivismo. Non essendo più mascherata da “scienza del testo letterario”, la sua autorità pubblica è diminuita fino a diventare irrilevante. Da quando ogni critico gioca individualmente la sua partita, non può contare che sulle proprie ragioni e argomentazioni, preferenze, scelte e strategie retoriche. Chiunque abbia la vocazione o passione intellettuale e letteraria della critica si presenta come un caso a sé. In quanto si esprime in forma saggistica, può avere un posto fra i generi letterari; ma non ne ha più fra le professioni culturali istituzionalmente previste.
Anche il legame che esisteva in passato fra letteratura e critica, fra scrittori e critici, si è indebolito. Fare critica non solo dà fastidio (cosa che accadeva anche in passato) ma sembra quasi inconcepibile: poco meno che un abuso, un’intrusione, una pratica intellettuale vagamente perversa, alla quale si dedicano individui animati da sentimenti insondabili o torbidi come frustrazione e gelosia nei confronti di narratori e poeti: autori “creativi”, mentre il critico, sterile com’è, può solo essere un vizioso giudice, un distruttore e denigratore del lavoro altrui.
Per due secoli si è apprezzata la letteratura soprattutto per il suo valore e potenziale critico nei confronti della realtà sociale. Anche i più grandi e originali inventori di forme e di miti (Baudelaire e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, Kafka e Eliot) venivano letti come chiaroveggenti critici sociali. Oggi, invece, alla critica si tende a contrapporre la creatività. Queste due funzioni letterarie e conoscitive vengono così separate. Dunque chi prova a criticare il creatore, che è amico della vita, può essere solo un distruttore, un nemico della vita. Si dimentica quanti siano stati, nella storia di tutte le letterature, i narratori, i poeti, i drammaturghi, critici della vita falsa per amore della vita. Un caso personale?
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Trascrivo qui un breve articolo che il narratore Javier Cercas mi ha dedicato recentemente. Credo che sia il chiaro sintomo di un’insofferenza e diffidenza che si sta diffondendo in tutti gli ambienti culturali, ma soprattutto in quelli artistici, letterari e perfino filosofici. Nelle arti visive la critica si limita perlopiù a giustificare l’incomprensibile. I filosofi notoriamente, poi, non discutono tra loro. In sostanza, ci si meraviglia che un critico critichi, invece di limitarsi a spiegare che in un’opera letteraria tutto va esattamente come doveva andare fra intenzioni e risultati, stile e tema. Ma ecco l’articolo:
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«Da un paio d’anni è stato pubblicato in Spagna un libro in cui si aborriva Umberto Eco; si sminuivano Borges, Beckett e Calvino; si ridicolizzava Foster Wallace, e si deprecavano: le “nuove tecnologie” (quindi, generalizzando), l’attuale romanzo francese (analogamente a casaccio), la poesia (totalmente in astratto); nel libro si difendevano alcuni autori, da Dante a Orwell (cosa utile, beninteso), ma se ha attirato l’attenzione è stato per i suoi attacchi: Alfonso Berardinelli contro tutti, ha intitolato questo giornale la sua recensione del libro. Berardinelli è il nome del suo autore; Leggere è un rischio, il suo titolo. Infine: non ho letto a sufficienza Berardinelli per affermare che sia un critico teppistico, ma il fatto è che spesso lo sembra.
Chi è un critico teppistico? Innanzitutto, non bisogna confondere un critico teppistico con un critico provocatorio, quale forse è lo stesso Berardinelli: il critico provocatorio fa venire voglia di leggere, mentre quello teppistico la reprime; il critico provocatorio incita, mentre quello teppistico eccita soltanto. Inutile dire che il critico teppistico non è necessariamente uno scrittore mancato: ci sono critici teppistici che sono scrittori, o che lo sono stati, e qualche volta ottimi; e va da sé che non ci sono critici teppistici solo fra i critici letterari: ce ne sono fra tutti i tipi di critici. Non c’è niente di più facile che distruggere un libro, per buono che sia (anzi, sono i libri migliori ad essere i più vulnerabili, perché si prendono i rischi maggiori), e il critico teppistico sfrutta a fondo questa facilità, giustamente convinto che distruggere un libro significhi mettersene al di sopra e, lodarlo, al di sotto. Di solito il critico teppistico non è stupido, però non è nemmeno così intelligente come crede; in realtà, sarebbe meno stupido se non si credesse così intelligente. Si parla molto della vanità degli autori, ma comparata a quella dei critici teppistici è un nonnulla. Come qualsiasi teppista, il critico teppistico non si distingue per il suo coraggio, perciò non agisce mai da solo: lo fa sempre protetto da un coro di sostenitori. Benché la critica sia una forma di creazione, per il critico teppistico è una forma di distruzione, perché è molto più difficile costruire che distruggere ma è molto più mediaticamente redditizio distruggere che costruire. Il critico teppistico punta alla critica ad hominem, agli attacchi personali, e considera un successo che uno scrittore smetta di scrivere a causa delle sue critiche. Al cr\\el XX secolo, giudicava che quando un critico attacca un libro lo fa “per esibirsi” (“to show off”). Non credo che sia sempre così. La critica è indispensabile, il critico non può mai rinunciare a prendere posizione e a volte deve essere severo. Berardinelli afferma che a volte deve essere iconoclasta; sono d’accordo. Però una cosa è essere un critico iconoclasta, un’altra essere un critico teppista.»
(Javier Cercas, El critico matòn “El Paìs”, 12 luglio 2018)
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La reazione di Cercas alla presenza di un critico che critica, chiunque egli sia, è così istintiva da risultare quasi incomprensibile. Ad averlo tanto allarmato da spingerlo a un attacco autodifensivo non è neppure un libro, che evidentemente ha più sfogliato che letto, ma un articolo-intervista che su quel libro è stato pubblicato dal “Paìs” due anni prima. Il fatto che qualcuno possa non avere nessuna stima letteraria per i bestseller “culturalisti” di Umberto Eco, o che osi dire che Borges, Beckett e Calvino sono caratterizzati non solo dalle loro qualità ma anche dai loro limiti (nessuno dei tre, per esempio, ha considerato il romanzo un genere ancora praticabile), è qualcosa che Cercas non riesce ad accettare. Sembra sfuggirgli completamente che nei miei giudizi c’è una polemica non priva di una sua logica e di ragioni storiche: quei tre scrittori sono stati (ognuno a suo modo) idoli di una “poetica postmodernista” che non rappresenta affatto la Postmodernità nel suo insieme, epoca che ha occupato l’intera seconda metà del Novecento e nella quale c’è stato posto per artisti del tutto diversi come Francis Bacon e Jackson Pollock, Jean-Luc Godard e Stanley Kubrick, Solgenitsin e Garcia Marquez. È una poetica elaborata soprattutto in Francia con l’inizio degli anni sessanta: la poetica di un’écriture che negava i generi letterari e postulava come dovere o necessità storica la fusione di narrativa, poesia, autoriflessione teorica. Non è un caso se per circa vent’anni la letteratura francese abbia smesso di produrre romanzi, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti la tradizione del romanzo non si è mai interrotta e ha finito per rendere marginale la narrativa europea. In ogni arte naturalmente gli esperimenti non sono proibiti, tutt’altro: ma credo che si debba distinguere fra gli esperimenti riusciti e quelli falliti.
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Quanto alla mia critica della generale accademizzazione e burocratizzazione della cultura, o dell’attuale espansione incontrollabile e invasiva delle tecnologie, mi meraviglio che Cercas si meravigli. Ci sono fenomeni che riguardano una trasformazione senza precedenti della nostra vita individuale, mentale, sociale e di tutte le forme della nostra cultura. Di questo si discute da tempo e lo prova una ormai vasta e varia bibliografia internazionale.
Partendo da alcune mie valutazioni umoristicamente enfatizzate da un articolo del Pais, Cercas inventa, per liquidarmi, la categoria del critico “teppista”. La inventa e ne perfeziona in negativo la descrizione, mettendolo, mettendomi in ridicolo (è uno che ama solo Dante e Orwell!) e mostrando che si tratta di un fenomeno degenerativo il cui scopo è soltanto demolire i libri migliori e impedire che vengano letti.
Quanto all’osservazione di Auden, secondo cui un critico che attacca un libro lo fa solo per esibirsi (“to show off”), è interessante ma discutibile (quale autore non si esibisce?). Auden però ammirava molto un critico assoluto come Karl Kraus, un vero distruttore satirico ben consapevole di esibirsi, compromettersi, esporsi (“sich preisgeben”), mettendo in gioco e a rischio la propria persona con ognuno dei suoi giudizi.
Purtroppo Cercas non ha voluto correre il rischio di leggere con un po’ d’attenzione il mio Leggere è un rischio, e neppure ha sentito il bisogno di dare un’occhiata a qualcun altro mio testo, prima di elaborare il suo ritratto del “maton”. Nonostante le formule di buona educazione e di rispetto democratico per l’attività critica in generale, mi sembra che Cercas si comporti lui stesso come un critico “teppista” (mi fa fuori con una sola parola: “teppista”). Infine loda la bella idea platonica del critico iconoclasta. Ma quando ne vede uno in azione si spaventa e lo insulta.
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Don’t worry: for criticism makes nothing happen
Mi pare che si stia dimenticando la tradizione della critica, la sua necessità culturale, il suo stile, i suoi maestri moderni e antichi. Se la critica si è spesso mescolata alla satira, all’aforisma aggressivo, è per accrescere la sua efficacia rappresentativa, comunicativa, retorica. E se è vero che il critico saggista è un tipo di scrittore, gli autori di cui parla, pur esistendo nella realtà, sono anche suoi personaggi. Non succede anche nei ritratti pittorici? Il papa Innocenzo X di Velazquez (non a caso rielaborato da Bacon) è un capolavoro di invenzione realistica o contiene soltanto malevole intenzioni deformanti? Quando poi la società peggiora e questo diventa un tema, compaiono i quadri critici, satirici o visionari di Hogarth e Goya.
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In realtà la critica è una delle più naturali, ovvie, inevitabili attività della mente umana. Su idiosincrasie, rifiuti, avversioni, intolleranze si è costruita gran parte della letteratura moderna. Giacomo Leopardi non sopportava né il romanticismo nordico né il progressismo liberale. Baudelaire ridicolizzava l’avant-guarde del suo tempo. Kierkegaard detestava Hegel. Tolstoj disprezzava moralmente l’estetismo simbolista. Kraus considerava il giornalismo “magia nera”. Proust attaccò Sainte-Beuve. Eliot giudica Hamlet un’opera fallita e Shelley un poeta per adolescenti. Edmund Wilson riteneva Kafka uno scrittore sopravvalutato, pieno di difetti e di debolezze. Adorno e Horkheimer attaccarono per tutta la vita sia il neopositivismo che l’ontologia metafisica di Heidegger. Fra le molte “strong opinions” di Nabokov c’è la svalutazione di Dostoevskij, considerato artisticamente approssimativo, oltre che sentimentale. Ricordo una descrizione che Giorgio De Chirico fa di una riunione di surrealisti a cui aveva partecipato: li ritrae come un gruppo di fatui poseurs, se non di imbroglioni… Naturalmente si potrebbe continuare a lungo.
La critica non è, non può essere solo questo. Ma non si può sognare una critica sempre sobria, equanime, equilibrata e comprensiva con tutti. Esistono le passioni e le vocazioni critiche. Poi ci sono i professori di letteratura, che sono un’altra cosa. Di solito vedono la critica come un’attività non professionale, o perfino come una forma immorale di libertinismo. Ho saputo recentemente che in un concorso universitario un candidato è stato respinto perché sembrava più un critico che uno studioso. Se fossi in lui, sarei felice di aver meritato una tale condanna.
Credo comunque che la critica sia impotente ed è bene che lo sia. È bene che non rappresenti interessi di gruppo, né riceva autorità da qualche istituzione pubblica. Oso criticare senza remore né censure solo autori di grande o eccessivo successo, perché rappresentano idee e gusti dominanti e perché sono certo di non danneggiarli e di non rovinare la loro carriera.
Come la poesia in un famoso verso di Auden, direi che la critica, in sé stessa, “makes nothing happen”. Non fa succedere niente. La cosa più probabile è che metta in cattiva luce chi la esercita”.

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Il giorno 22 giugno è morto il poeta senese Attilio Lolini – Ritratto mnemonico di Giorgio Linguaglossa Con alcune poesie e testimonianze di Roberto Deidier e Matteo Marchesini

pittura Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Il giorno 22 giugno è morto il poeta Attilio Lolini. La scheda di wikipedia recita:

Attilio Sigismondo Lolini (Siena, 1939 – San Rocco a Pilli, 22 giugno 2017) è stato un poeta e giornalista italiano.
Nato a Siena, risiede a San Rocco a Pilli. Ha scritto per “l’Unità” e per “il manifesto” e ha promosso poesia attraverso i Quaderni di Barbablù. Ha collaborato a diverse riviste di poesia (“Oceano Atlantico” di Tommaso Di Francesco; “Il gallo silvestre” di Antonio Prete; “Poesia” di Nicola Crocetti ecc.) oltre che con interventi e pamphlet, e ha pubblicato raccolte presso L’Obliquo di Brescia, Barbablù di Siena ed Einaudi di Torino. Ha anche scritto libretti d’opera per la musica di Ruggero Lolini.

Negativo parziale, Firenze: Salvo imprevisti, 1974
I resti di Salomè, Bergamo: El bagatt, 1983
Libretti d’opera per Ruggero Lolini: Emily D., Adele o le rose, La terrazza, Il viaggio, Siena: Quaderni di Barbablù, 1984
Morte sospesa, Bologna: Il lavoro editoriale, 1987 ISBN 88-7663-090-2
Arie di sortita (1984-1987), introduzione di Gianni D’Elia, Salerno: Ripostes, 1989
Imitazione, prefazione di Antonio Prete, Brescia: L’Obliquo, 1989
Belle lettere (con Sebastiano Vassalli), Torino: Einaudi, 1991 ISBN 88-06-12511-7
Senza fissa dimora, prefazione di Sebastiano Vassalli, Ripatransone: Sestante, 1994 ISBN 88-86114-24-9
Zombi-suite, Brescia: L’Obliquo, 2002
La città della muffa: corsivi “la voce del campo” 1995-1998, Siena: Mapi, 2004
Notizie dalla necropoli (1974-2004), Torino: Einaudi (collezione di poesia n. 335), 2005 ISBN 88-06-16841-X
Carte da sandwich, Torino: Einaudi (collezione di poesia n. 410), 2013 ISBN 978-88-06-20582-9
Bestiario gotico, Brescia: L’Obliquo, 2014 ISBN 978-88-98003-02-0

Attilio Lolini che fuma

Attilio Lolini

Una poesia di Attilio Lolini

In questo museo
di porcherie
che visito (occidente)
peccatore redento
del passato mi pento

inneggio al cicaleggio

volteggio davanti
al babbeo
magnifico rettore
dell’ateneo

ho una crisi mistica
dico bene della saggistica

e non mi pare male
il poeta montale

mi metto in pista
per diventare giornalista
per far le recensioni
ai poeti babbioni

senza vergogna/son diventato carogna.

Ha scritto Matteo Marchesini:

Abbiamo riportato per intero la poesia Stampante, per dare subito un’idea dell’atmosfera che si respira in Carte da sandwich, la nuova raccolta del senese Attilio Lolini appena uscita da Einaudi. Leggendola, ci siamo ricordati delle pagine di 3012 in cui Sebastiano Vassalli fa di Lolini un personaggio di romanzo. Nella finzione narrativa, questo «antico poeta toscano» del XX secolo, ignorato dai contemporanei e morto vecchissimo per aver mangiato troppi funghi, viene citato dai professori di un lontano futuro come l’iniziatore di una tendenza denominata «maledettismo frivolo».

Ha scritto Roberto Deidier in

http://robertodeidier.blogspot.it/2014/12/ailanto-n-12-su-attilio-lolini.html

A soli due anni da Carte da sandwich, apparso nel 2013 da Einaudi, Attilio Lolini ci sorprende con una nuova raccolta di poesie, Bestiario gotico. La sorpresa è proprio in questa rapidità: Lolini appartiene a quella schiera nobilissima di autori appartati, un po’ schivi e un po’ caustici, ironici e sornioni, che dispensano con estrema saggezza – e con parsimonia – l’arte della sprezzatura. Di se stesso ha sempre dato una definizione, quella di “vice-poeta”, decisamente in linea con il suo libro precedente: Carte da sandwich si rifaceva a quella serie di titoli all’apparenza sottotono, falsamente minimalistici (ricordo le Poesie per incartare l’insalata di Michele Serra, fra i tanti possibili, ma con un distinguo fondamentale: Serra è un umorista – un moralista? – che in quell’occasione si è prestato alla poesia, Lolini è invece un poeta con una spiccata cifra comica) attraverso cui la poesia ci lancia un indiscutibile segnale di presa di coscienza critica. Parlare del presente, di questo presente, è cosa davvero ardua per chi non scelga la strada del solipsismo lirico, della cronaca sentimentale. E parlare chiaro, in una lingua che non si arrocca dietro facili orpelli retorici o giochi manieristici, ma che riesce ancora a costruire un’immagine plausibile del mondo anche e soprattutto ricorrendo a un istituto desueto come quello della rima (rima che è sempre in Lolini il modo di rendere e chiudere un pensiero, accanto all’immagine) è impresa ancora più difficile. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa: Sulla ventilata chiusura dello “Specchio” Mondadori. “Il Sistema Poesia non è riformabile”, “E adesso non resta da fare altro che ricominciare da zero”

Elsa Martinelli, 1967

Elsa Martinelli, 1967

Faccio copia e incolla dei miei interventi sulla vexata quaestio della paventata chiusura della collana de Lo Specchio Mondadori apparsi su questa Rivista  di inizio agosto 2015

1giorgio linguaglossa
31 luglio 2015 alle 10:42 –

A proposito della ventilata «chiusura» dello «Specchio» mondadoriano, condivido l’argomentazione di Matteo Marchesini, e mi avvalgo della facoltà di integrare, almeno in parte, le sue osservazioni con alcuni distinguo:
La vera questione (che investe anche la poesia in dialetto) non è quella del rapporto fra gli idioletti della comunicazione mediatica e la lingua strumentale della comunicazione quotidiana ma quella del rapporto tra il linguaggio poetico e i linguaggi della comunicazione mediatica. Ma già parlare di linguaggi è un pescare nelle profondità della superficie. Oggi i linguaggi tendono a spostarsi sul piano della superficie (infinita senza limiti) propria della società mediatica. Oggi il problema non è più quello tra lingua nazionale e le massime lingue di cultura, in quanto le lingue di cultura internazionali tendono a superficializzarsi in una lingua della superficie internazionale.
Resta vero ancora oggi quello che scriveva Franco Fortini nel 1976:

«In corrispondenza ad un irrigidimento della società in caste (maschera delle classi), il cosiddetto “italiano” o è una sottospecie dell’inglese che serve alla comunicazione dei potenti, dei sapienti, degli eminenti, dei borsisti, degli specialisti, dei registi, ecc. o è esso stesso un dialetto, la lingua d’uso destinata alla comunicazione pragmatica e affettiva. In questo senso i dialetti tradizionalmente intesi ritrovano tutta la loro legittimità: se consideriamo l’Italia una grande Manhattan, nei dialetti tradizionali vi sono linguaggi delle sottoculture, mentre l’italiano della comunicazione corrente (parlata o letteraria) è il linguaggio della sottocultura complessiva peninsulare e, al di sopra, sta l’italiano ufficiale, amministrativo, scientifico o specialistico, che è l’inglese o russo tradotto o traducibile; non a livello linguistico ma a livello morale e culturale. Per questo i dialetti, in quanto superstiti, sono “figura” dell’italiano, che già fin da ora è una lingua superstite. Non corrisponde a nulla di autonomo. Che Volponi scriva in (ottimo) italiano invece che in castigliano è un puro caso geografico».

M.R.Madonna

M.R.Madonna

Se prendiamo invece in esame i testi di quattro poetesse poco conosciute in quanto laterali al circuito della grande editoria ma di sicuro valore: Roberto Bertoldo con Il popolo che sono (2016), Maria Rosaria Madonna (Stige – 1992), Giorgia Stecher (Altre foto per album– 1996, libro uscito postumo), Anna Ventura (Antologia Tu Quoque (Poesie 1978-2013) del 2014, Steven Grieco-Rathgeb con Entrò in una perla (2016)  e Mario M. Gabriele con l’ultimo libro L’erba di Stonehenge (2016), Luigi Manzi con Fuorivia (2013) e Chiara Moimas (L’Angelo della Morte e altre poesie, – 2005), ci accorgiamo che ciò che frigge, non solo semanticamente, nella loro poesia è una scelta di campo: l’attraversare in diagonale il linguaggio poetico ereditato, una critica autolimitazione, una forte tematizzazione della loro poesia con conseguente esaltazione della comunicazione estetica. In autori più famosi, come Antonella Anedda, si percepisce ancora, a mio avviso, un senso «squisito» della comunicazione poetica, un senso «effabile», «affabile», «estatico», «cromatico», «semantico» della posizione estetica: si percepisce nitidamente il suono di violini e violoncelli che esalta il «sublime» o, come nel caso di Jolanda Insana, l’«antisublime» sottostante.

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1. giorgio linguaglossa
1 agosto 2015 alle 9:08

Cerchiamo di non spostare l’ordine del discorso sul discorso sull’ordine. L’ordine va infranto appunto insufflando nei suoi penetralia nuovo e corposo disordine. Questo è il compito del critico, altrimenti egli si ridurrebbe a suonare il piffero ad ogni incantatore di serpenti. Compito del critico è portare dubbi nel campo dell’argomentazione dell’interlocutore… e poi fare in modo che i dubbi camminino da soli.
Io non pretendo mai di aver ragione, ho sempre tenuto presente l’aforisma di Adorno nei Minima moralia secondo cui «Nulla si addice meno all’intellettuale che vorrebbe esercitare ciò che un tempo si chiamava filosofia, che dar prova, nella discussione, e perfino – oserei dire – nell’argomentazione, della volontà di aver ragione. La volontà di aver ragione, fin nella sua forma logica più sottile, è espressione di quello spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di dissolvere […] Quando i filosofi, a cui sisa che il silenzio riuscì sempre difficile, si lasciano trascinare in una discussione, dovrebbero parlare in modo da farsi dare sempre torto, ma – nello stesso tempo – di convincere l’avversario della sua non-verità».
Il cerchio spaventa perché la sua inattaccabilità è originaria. Allora, l’argomentazione critica dovrà assumere dal cerchio il concetto dell’ordine del discorso da applicare al disordine del discorso proprio del conformismo.

2. giorgio linguaglossa
1 agosto 2015 alle 19:12 

Posto di nuovo un commento che avevo già inserito in altra occasione:
io la penso come il poeta Flavio Almerighi: «il sistema non è riformabile», almeno in Italia. Il problema è ben più vasto, qui non si tratta di un problema tecnico o specialistico, cioè di tipo letterario, ma è più vasto: per riformare il settore della poesia (produzione, commercializzazione, pubblicizzazione e consumo del prodotto), occorre una riforma non solo di tipo letterario, cambiare un dirigente di collana è appena una goccia nell’acqua, in Italia bisogna cambiare le regole del gioco, le regole di cooptazione, le regole non scritte delle lobbies letteraria e politica, la seconda che sostiene la prima, riscrivere le regole del gioco, spezzare le cinghie di trasmissione che legano i partiti alle lobbies. Quando io parlo di “qualità” che dovrebbe presiedere la valutazione di certe scritture letterarie, cioè quelle che non sono di mero intrattenimento, intendo appunto un universo assiologico istituzionale che adotti quel valore, quel criterio metodologico, non ho in mente un criterio mitico idealistico di delibazione dell’opera bella. Occorre soprattutto una riforma della scuola, delle università, della stampa e della televisione, nonché dei mezzi di comunicazione di massa, è un problema gigantesco che attiene a quelle mancate riforme istituzionali e di struttura di cui si parla tanto oggi ma che nessuno dei partiti dell’arco costituzionale ha la minima intenzione di porre in essere. Il problema del settore poesia e narrativa non va visto quindi come un problema specialistico o di comparto, ma è molto più vasto ed attiene al tipo di società che vogliamo costruire, se vogliamo continuare sulla falsariga feudale e coloniale che la politica italiana ha seguito finora, non c’è scampo, la scrittura letteraria e la produzione artistica ne rimarranno condizionate. Tutto ciò mi sembra ovvio. Quindi, come dice Flavio Almerighi, «il sistema non è riformabile».

3. giorgio linguaglossa
2 agosto 2015 alle 11:29

Posto qui un commento scritto stamane su facebook:
Gli ultimi tre libri di poesia de Lo Specchio, quelli di Roberto Dedier, Stefano Dal Bianco e di Franco Buffoni, sono scritture professionali medie, scritture letterarie che adottano un gergo della medietà linguistica, scritture di professori, professionalmente corrette… ma di questo tipo di scritture ne sono capaci almeno un paio di centinaia di persone in Italia. Ad essere seri quindi dovremmo pubblicare nello Specchio libri di almeno 200 persone, il che è un assurdo oltre che una follia. In realtà, di tratta di libri nati già morti. Sono la dimostrazione che si tratta del decesso de Lo Specchio. A questo punto che Lo Specchio continui a pubblicare gli “Amici” e i “Sodali” di una ritrettissima cerchia di persone di Milano e di Roma, che significato può avere? Nessuno, rispondo io. Quindi, che ben venga la chiusura della collana che un tempo lontano pubblicava libri di poesia.
Caro Gianpaolo Mastropasqua, quello di Cucchi e Riccardi non è stato un «errore di politica editoriale», come tu dici, o, almeno, non solo. È stata una strategia fatta a tavolino: quella di voler imporre alla poesia italiana del secondo Novecento il marchio di fabbrica di Milano con, in posizione sussidiaria, i romani (Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, etc.) fingendo di dimenticare i romani diversi e di diversa qualità come Luigi Manzi (classe 1944) e Carlo Bordini (classe 1938) oltre che Giovanna Sicari (classe 1954), etc, per non parlare dei poeti che romani non erano, ad esempio Helle BusaccaMario M. Gabriele, Edith Dzieduszycka, Salvatore Martino,  Roberto Bertoldo etc. – L’operazione è culminata con la Antologia curata da Cucchi e Giovanardi (nella quale Giovanardi faceva l’esecutore del mandato critico ricevuto). Però, mi viene un dubbio sempre più assillante, ed è questo: che è la visione che della poesia hanno i Cucchi e i Riccardi che non è stata all’altezza di recepire e comprendere la poesia migliore che si è fatta in Italia negli ultimi 40 anni. Questo, credo e temo, è stato un loro limite.Era ovvio che fosse soltanto una questione di tempo, a lungo andare, la loro “visione” della poesia italiana si è rivelata sempre più asfittica e conformista, sempre più ristretta, fino alla implosione finale fatta senza neanche il minimo dubbio che il 90% degli autori pubblicati ne Lo Specchio fosse di media qualità, intendendo con il termine “medio” che ce ne sono in giro almeno altre 200 persone che scrivono a quel livello. E questo ha portato ad una perdita di credibilità e a un livello sempre più basso delle pubblicazioni. Ed il pubblico è scomparso. A questo punto, ripeto, non ha senso chiudere o no la collana de Lo Specchio e quella della Einaudi, in sostanza queste collane hanno già chiuso (virtualmente) non sono più da tempo in grado di individuare i valori poetici e, secondo me, nemmeno ne hanno intenzione. Ed è finita la funzione di «GUIDA» che queste collane hanno avuto nel lontano passato quando al loro timone c’erano persone come Calvino e Sereni, e anche Raboni (pur con i suoi errori).

4. giorgio linguaglossa
3 agosto 2015 alle 11:22 


Riprendo il filo del discorso:
Caro Gianpaolo, hai messo il dito nella piaga, la poesia viene letta quando è una poesia di livello elevato. Il pubblico della poesia che è andato crescendo a dismisura in questi ultimi 4, 5 decenni, ha fatto sì che ci fosse una enorme quantità di libri di poesia in circolazione, e spesso anche ben scritti (io ne so qualcosa dato che mi occupo da due tre decenni di poesia e la leggo), ma il problema non è che siano ben scritti, per essere pubblicati da una collana prestigiosa occorre qualcosa di più. Bisognava avere l’accortezza di mettere in piedi una rete di lettori di diverso indirizzo stilistico e di diversa provenienza culturale allo scopo di ottenere responsi anche contraddittori e conflittuali dai quali trarre le risultanze definitive. E occorrerebbe oggi più che mai mettere in piedi un sistema di valutazione dei testi, dei lettori di alta qualità che possano esprimere un parere sui testi, tutto un lavoro che si mette in piedi (e si doveva mettere in piedi) nel corso degli anni tentando di interessare le migliori menti in circolazione, lavoro che però non si è fatto o che si è fatto affidando il lavoro di vaglio e di selezione dei testi e degli autori a persone che non avevano i requisiti per svolgere questo lavoro con competenza e super partes. Con la conseguenza che si è pensato ad una “scorciatoia”, quella di restringere il campo dei “beneficiati” ad una ristretta cerchia di “amici” e di “sodali”. Si è trattato di un meccanismo che alla lunga si è dimostrato perverso e che ha determinato risultati perversi e discutibili mentre nel frattempo la crisi del mercato editoriale dei libri si aggravava e la crisi ha prodotto il fall out del sistema, il quale è imploso.

E adesso non resta da fare altro che ricominciare da zero.

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 Matteo Marchesini: Quel che resta della poesia. La poesia del corpo. La pseudopoesia. La mutazione genetica dei poeti italiani. La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale. La pratica dell’emulazione: Amelia Rosselli e Giovanni Pascoli. La parodia involontaria della poesia. La pseudolirica dei poeti tardo-lombardi 

C’è un racconto di Martin Amis in cui si immagina che le sorti degli sceneggiatori e dei poeti siano esattamente rovesciate rispetto a quelle reali. Gli sceneggiatori si muovono in un malsano sottosuolo letterario, arrabattandosi tra reading, riviste semiclandestine e opere pubblicate alla macchia. I poeti, invece, lanciano le loro composizioni come fossero film. Contesi da grandi produttori, guadagnano cifre enormi tra “diritti secondari” e “royalties sui sequel”. Girano in limousine, scelgono i gadget con cui promuovere una ballata, registrano l’incasso clamoroso di sonetti intitolati “E’ l’alto suo disdegno di iersera”, e decidono la cesura di un verso con un agguerrito team aziendale. Il racconto di Amis suona beffardo soprattutto a orecchie italiane, dato che da noi, intorno alla poesia, non si riunisce nemmeno quel pubblico di lettori limitato ma vivace che caratterizza il meno asfittico mondo letterario anglosassone. In Italia, ormai, dei poeti si parla con imbarazzo. Oggi il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore (dei narratori che compongono versi si dice: “scrittore e poeta”, identificando la narrativa con la scrittura tout court).

In un paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri. Non a caso, anche tra gli studiosi di letteratura si è creata una divisione dei ruoli netta quanto aberrante. Da un lato c’è il critico di narrativa, non di rado un uomo di mondo che ama legare la sua firma ai libri di cui “tutti” parlano, e dunque diffida della lirica, che del resto non si presta alle sue analisi contenutistiche e poco sensibili alla forma. Dall’altro lato c’è il critico di poesia, non di rado un critico semifallito, impegnato a difendere il suo minimo orticello con discorsi che, a chi guardi da fuori quell’“atomo opaco” che è il mondo dei poeti, non possono non sembrare bizzarri e futili come lo sono quelli degli iniziati a qualche hobby astruso – come i gerghi di certi collezionisti, dei somelier o dei maniaci di giochi di ruolo. I due tipi di critici finiscono per credere che possa esistere una letteratura sana fatta di compartimenti stagni. E certo è vero che oggi la prosa italiana è composta da narratori o saggisti che ignorano la contemporanea poesia italiana: ma si tratta, appunto, di una circostanza patologica, che impoverisce sia i prosatori che i poeti.

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In generale, la poesia non è più considerata un elemento indispensabile per capire la nostra cultura. La conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione frustrante di mancato riconoscimento. Siccome latita un’attendibile polizia antisofisticazione che separi i loro prodotti da quelli degli impostori, si trovano di continuo svalutati: la moneta cattiva scaccia quella buona. Inoltre, poiché le collane dei pochi editori ben distribuiti vengono ormai gestite con criteri di pessimo gusto – spesso sulla base di meri rapporti d’amicizia e di potere – chi non può rivendicare posizioni di forza, difficilmente arriva in libreria. D’altra parte, la visibilità non è più proporzionale alla qualità: oggi il catalogo di Einaudi e Mondadori non vale molto più del catalogo di uno qualunque di quei piccolissimi stampatori che hanno nomi improbabili tipo “L’orcio” o “Selva oscura”.

Così, capita di essere riconosciuti poeti per le ragioni sbagliate, e spesso senza merito. Per esempio – e qui la patologia italiana è ingigantita dalla mediatizzazione – si è considerati poeti a causa delle proprie vicende biografiche: come Alda Merini, della cui produzione si può dimenticare un buon novanta per cento senza danno. In presenza di un minore appeal esistenziale, aiuta la longevità, o l’accurata gestione di una fama acquisita quando esisteva ancora una parvenza di dibattito critico, o magari l’insistenza su certi stilemi immediatamente riconoscibili. Meglio poi se questa accurata gestione e questa insistenza manieristica si appoggiano a un potere editoriale (dal caso nobile di Sereni si è passati a Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi), a un più generale potere “organizzativo” (vedi Davide Rondoni) e magari universitario (si pensi a Franco Buffoni): ma qui si torna dalla poesia all’estrinseco dato biografico, di una biografia pubblica anziché esistenziale.

Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960 Nella foto: lo scrittore Eugenio Montale Posato in studio Farabola @ArchiviFarabola [391101]

Se si eccettuano questi casi, è assai scarsa la disponibilità all’ascolto di una società letteraria che, come la società tutta, tende a rispettare solo ciò che ha un immediato riscontro mediatico. La poesia, in questo senso, non vale a formarsi un’identità. Semmai può essere la ciliegina sulla torta, dove la sostanza della torta sta in una “carriera” basata su altre specialità – una carriera da romanzieri, da filosofi, da cantanti o da politici (e si aggiunga pure qualunque altro “mestiere” noto e magari pittoresco). L’importante, insomma, è che il poeta non sia solo poeta, ma semmai “anche poeta…”: come dice, sputando, la signorina Silvani, mentre Fantozzi le recita versi di Lorenzo de’ Medici spacciati per “una mia cosettina giovanile”.

D’altronde, la sufficienza è più che motivata, davanti ai tanti pseudopoeti che scelgono questo genere, in sé difficile, solo perché manca una vera vigilanza sulla qualità dei prodotti, e quindi perché li deresponsabilizza. A chi non vuole cimentarsi con le fatiche della forma, la “poesia” offre oggi un triste ma accogliente rifugio, un ambiente di rassicurante anarchia. Quella lirica moderna che un tempo servì a esprimere il disagio dell’io di fronte alla società borghese, nella nostra società compiutamente massificata diventa il mezzo più facile per esprimere una pseudocreatività quanto mai piccolo-borghese. Come ci sono i pittori della domenica che rifanno Picasso o gli informali (viene spontaneo, per la dose di arbitrarietà e impostura, il paragone con l’arte: solo che qui manca la spietatezza del mercato) così abbondano i versificatori che imitano a costo zero le oltranze della poesia otto-novecentesca.

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Questa mutazione genetica dei poeti italiani è iniziata dopo la generazione dei nati negli anni Trenta. Di solito in questa generazione – si pensi ai Raboni, ai Sanguineti – i poeti erano ancora intellettuali a tuttotondo. Ma a partire dai nati negli anni Quaranta, lo scenario è cambiato. Superando le inibizioni dovute alle neoavanguardie prima, e poi al rifiuto della letteratura che si respirava nel clima sessantottino, gli autori della generazione di Dario Bellezza hanno proposto una lirica molto meno sorvegliata. Negli anni Settanta, la poesia è rinata come “confessione” o eclettica euforia linguistica, come esibizione individualistica o scoria postavanguardista stilisticamente depotenziata. Era una lirica informe, naturalmente postmoderna, nata da una situazione che anche Pasolini e Montale contribuirono a definire col non-stile dei loro ultimi libri, e che fu ben fotografata nel ’75 dall’antologia Il pubblico della poesia, in cui i trentenni Berardinelli e Cordelli inserirono i loro coetanei. Pare che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni dei poeti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come ha notato Berardinelli, già a questa altezza è diminuita la coscienza critica: si è imposta una nuova naiveté, una creatività sregolata e autoreferenziale.

Gif labbra occhi

Da allora molte cose sono cambiate. Ma l’autoreferenzialità non ha fatto che aumentare, e la coscienza critica non ha fatto che diminuire. All’anarchia post-’68 hanno messo fine una serie di piccoli “colpi di stato”, con cui gli autori più abili a promuoversi sono riusciti a ottenere una canonizzazione puramente editoriale. Intanto è dilagato il bovarismo: che presto, esauritasi l’atmosfera “confessionale”, ha trovato di nuovo espressione nella koinè genericamente ermetica e nel tenue cronachismo lirico che da molti decenni egemonizzano il nostro poetese colto. Molti autori, dopo gli esordi informali e sub-letterari, si sono messi a fare i formalisti, gli iperletterari, gli esoterici. Ma i presupposti, come ha notato Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

E’ in questa situazione che la poesia italiana si è svalutata. La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale hanno reso i suoi contorni sempre più opachi. La nuova lirica non era più memorabile, come quella della prima metà del Novecento; ma non aveva alle spalle nemmeno le impalcature ideologiche che identificavano i non memorabili esperimenti neoavanguardistici. Rischiava, insomma, di essere irriconoscibile. A questo rischio, molti autori hanno ovviato producendo oggetti estremamente stilizzati, muniti di un involucro esterno in grado di renderli subito percepibili come “Poesia”. Anziché comporre poesie vere, cioè organismi complessi e resistenti alle riletture, si sono limitati a proporre un’Idea astratta di poesia – a inventare un’etichetta che dovrebbe garantire da sola, al lettore distratto, di trovarsi nel magico mondo della Lirica. Coi resti delle poetiche novecentesche, questi autori si sono costruiti ognuno una maschera, per recitare sempre lo stesso ruolo nella commedia dell’arte letteraria. Spesso, senza averne la statura, hanno imitato in questo Pasolini, che, come diceva perfidamente Raboni, è stato poeta in tutto fuorché nelle sue poesie: hanno cioè surrogato la rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, con pose, o con una patina decorativa e “poetizzante” stesa su versi di per sé assai sciatti. L’aura perduta del testo è stata insomma sostituita dal mito dell’Autore, o dall’insistenza su qualche stilema che funge da logo pubblicitario. Giorgio Manacorda ha esemplificato così la situazione: “tutti oggi si mettono in posa: Bellezza faceva sul serio il maledetto (…) Zeichen fa sul serio il dandy, De Angelis fa sul serio il Poeta, Conte fa sul serio il vate, Magrelli fa sul serio il poeta-intelligente, la Lamarque fa sul serio l’ingenua, e Mussapi fa sul serio il nulla”; e D’Elia, potremmo aggiungere, con le sue sgangherate terzine fa sul serio l’éngagé pasoliniano.

Alcuni di questi autori trasformano la Poesia in un feticcio, proprio perché non credono nelle singole poesie. Anziché cercare di volta in volta la forma adeguata a un contenuto urgente, con onesta perizia tecnica e artigianale, vogliono imporre un’idea aprioristica della lirica, stilizzando e “mettendo in posa” le idee e i temi che fiutano superficialmente nell’aria. Questo vizio insieme contenutistico e formale è del resto ben radicato nelle patrie lettere. Sessant’anni fa, in “Il poeta col suo io”, Leo Longanesi ne diede una rappresentazione esilarante. In questa parabola, i passaggi dal clima carduccian-pascolian-dannunziano a quello ermetico, dalla debole rinascita di una poesia “civile” ai nuovi ripiegamenti elegiaci post-neorealisti, vengono ferocemente ridotti ai minimi, tipici termini, con una velocità da gag. Proviamo a riassumerla e a immaginarne una continuazione, proponendo qualche parodia delle mode poetiche più recenti. Ecco come inizia Longanesi: “Il poeta sentì un nodo allo stomaco, poi un alito fresco sfiorò la sua fronte, poi il suo cuore sembrò uscire dal caldo astuccio del suo petto. Era giunta l’ispirazione, finalmente! Allora prese la penna, e scrisse:

Ahi, fredda beltà, quanto mi costi!
Lento il tuo sguardo si posa sulle cose,
e squilla il geranio della tua bocca.

Poi si arrestò e inseguì vaghe immagini che andavano e venivano come folate di vento. Poi bagnò la penna nel calamaio e al sostantivo geranio aggiunse l’aggettivo rosso: ‘e squilla il rosso geranio della tua bocca’”.

Rileggendosi, però, il poeta si accorge di essere ancora invischiato nel carduccianesimo. Maledetta lingua italiana! Ma proprio l’esasperazione gli dà l’energia per compiere la sua rivoluzione lirica, per far implodere la sua levigata forma ottocentesca. Approda così all’essenziale Novecento ungarettiano o quasimodiano:

Sulla tua fredda beltà
squilla
il rosso geranio
della tua bocca
.

Da qui, il gusto della scomposizione gli prende la mano. Mette le parole “in fila indiana, poi per quattro, poi per tre”. Ma mentre si perde nei suoi giochi novecentisti, l’atmosfera ermetica è sconvolta dal vento impetuoso della Storia. E come può lui continuare a cantare tra le nuvole? Quasimodo e compagni insegnano. Ecco allora che l’engagement trasforma così i versi del nostro:

Sulla tua fronte,
Stalin,
squilla
il rosso geranio
della mia bandiera
.

Stavolta il poeta sente “di aver colpito una musa al cuore”: esce dalla torre d’avorio e si iscrive al PCI. Ma presto si sparge la voce che i comunisti rischiano di essere messi fuorilegge. Per fortuna, non ha ancora stampato la sua ode! Basta, basta politica. E’ ora di rifugiarsi in campagna. Cos’è più un’ideologia? Conta il rimpianto, il puro sentimento elegiaco dettato da Natura! Così il poeta torna alla vecchia metrica distesa e zoppicante:

Nella livida luce dell’Avemaria,
si spegne il suono delle tue campane,
o triste pianura di Lombardia.

E questi versi, il poeta li ripeté più volte (…) e sentì che gli intenerivano il cuore, tanto più che in quel momento egli stava proprio camminando su un vasto prato di erba, dove pascolavano quattro mucche: e tanto il prato quanto le mucche erano di sua proprietà”.

pasolini orson-welles 1962

p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

Con questa ironica e quasi marxistica nota sull’orgoglio di casta, si chiude la parabola longanesiana. E mettendo insieme i geranii politici, e le relative bandiere, con la “livida luce” elegiaca del finale in terzine, si vede che il corrosivo Leo aveva già fiutato Pasolini. In realtà, se si modifica la geografia e si aumenta la goffaggine, quella terzina potrebbe ormai appartenere all’epigono pasoliniano D’Elia. Continuando il gioco, tentiamo allora una parodia di questo poeta, che canta le sconfitte della sinistra immergendole in un fiacco paesaggismo adriatico. Potrebbe dire il D’Elia: “Nella livida luce dei rosari/si spegne il mare sulla Romagna che trema/all’ultima voce dei funzionarii…/Ah, per chi suona la nostra campana, D’Alema?/Eravamo ginestre aggrappate all’orlo qui/del burrone tra il settantasette e il Pci…”.

Ma il caso D’Elia è abbastanza isolato. Altre sono le strade tipiche, imboccate nell’ultimo mezzo secolo dal “poeta col suo io”. Negli anni Sessanta, si è imposta la neoavanguardia di Sanguineti e sodali. Allora, forse, il camaleontico poeta di Longanesi vi avrebbe aderito, ragionando in questo modo: “basta, non è più tempo di rifugi bucolici. Ha vinto l’alienazione. Sì, lo sento: mi è sottratto qualunque rapporto naturale con le cose. Non mi resta che rispecchiare l’alienazione che provo attraverso un’alienazione scientifica del linguaggio”. Così sdottoreggiando, avrebbe trasformato i vecchi versi in un sanguinetiano pastiche citazionista. Una cosetta del genere:

Ave Maria livida Palus o luce istituzione o
istituto totalità litania nel cielo che è così bello quando è
bello cioè bellico sotto una campana campa il Kampf
che è Dein non Mein di me troppo melancolico per spargere
sangue che squilla come il geranio ammainato del comitato Central Park

Ma nel frattempo, a partire dalla lezione di certo Sereni e di certo Raboni, di Nelo Risi, Luciano Erba e Giorgio Orelli, si è formata un’altra koinè, quella “lombarda”. Per il pallido lirismo del “medio poeta italiano”, è un vero uovo di Colombo. In sostanza, replicando gli aspetti esteriori di questi autori – certo grigiore, certa arida oggettività, certo prosaico cronachismo appena innalzato da un tono di vaga elegia domestica – il poeta medio li sfrutta per legittimare la propria aridità formale, la propria povertà stilistica e la propria impotenza metaforica. Sotto le insegne lombarde, con minimo sforzo prosodico, può semplicemente elencare gli oggetti che gli sono cari, magari condendoli qua e là con qualche incongruo grumo analogico, cioè non abbandonando del tutto il cordone ombelicale che lo lega alle sublimazioni ermetiche. Ne esce una poesia insieme esile e farraginosa, che ostenta la sua natura di referto “dal vero”, ma lascia emergere qua e là un grezzo sentimentalismo. La koinè lombarda ha nutrito i versi depressi di Cucchi e Riccardi, e quelli spigolosi di Buffoni. Fiutando questa possibilità, negli ultimi decenni il poeta longanesiano si sarebbe forse detto che era l’ora di mettere en abyme la mediocrità piccolo-borghese con una poesia altrettanto mediocre e incolore. Lo immaginiamo mentre rielabora i suoi vecchi temi, così lombardeggiandoli:

C’è della gente che dice Avemaria
nella pianura con la nebbia
si vede qua e là un lago
oh lucci di nostalgia
quella domenica del ’71 tra le rive in amore
e due gerani innaffiati al balcone da una pensionata mentre
“Ehi, largo” dice da un camion un autista
ai passanti intirizziti
che nei cappotti coi faldoni si muovono
e portano al prete le raccomandazioni
e le bisbigliano coperti dalle campane.

foto Steven Klein Poesia del Corpo

foto Steven Klein Poesia del Corpo

Ma negli ultimi anni, si è diffusa una nuova koinè. Sulla solita base ermetica, qua e là mescolata a residui avanguardistici, è nata una poesia dalle pose ieratiche, insieme chirurgica e viscerale, orfica e truculenta, gridata e cadaverica. Il suo tema fondamentale è il Corpo. Certo il nostro poeta, dopo aver fiutato le filosofie francesi alla moda, e le parole-chiave dell’odierna chiacchiera semicolta, si butterebbe su questo tema con tetra voluttà, pronunciando la parola “corpo” con la stessa convinzione con cui qualche decennio fa avrebbe pronunciato la parola “popolo”. Ma a questa altezza, in genere, il poeta ha cambiato sesso, ed è diventato poetessa: sono infatti soprattutto le poetesse a indulgere alla retorica sulla corporeità. Questa retorica – con tutti i topoi del sadomasochismo che si porta dietro, con tutte le immaginabili vie crucis sessuali – può presentarsi in una forma fredda, da “autopsia linguistica”, o in una forma infiammata e misticheggiante: ma spesso le due forme si mescolano in una tonalità che vuol essere rituale, liturgica.

La poesia del Corpo rappresenta sotto una luce macabra i dettagli fisici e domestici; mescola volontaristicamente la “carne” ai filosofemi; evoca le tragedie storiche, o i drammi di cronaca vera, solo per la loro capacità di fornire immagini morbose, “estreme”, sacre e dissacranti. L’intento è quello di emulare Amelia Rosselli, ma il risultato è un kitsch che si esprime a volte in testi debordanti, e a volte invece in testi minimali, che fanno pensare a un Ungaretti riscritto da una casalinga dark. A nutrire questa koinè hanno contribuito le poesie rarefatte di Elisa Biagini e le poesie teatralizzate di Mariangela Gualtieri, i trattatelli urlati di Giovanna Frene e il poetese fluente di Maria Grazia Calandrone. Imitandole, il nostro camaleontico poeta (o poetessa) potrebbe riadattare così il suo tema d’inizio:

Ave-Maria
o Ave
Maddalena?
Immacolata o macchiata
lampo nella
carne
(nella clavicola)
che ho
scorticato come
l’animula legata come
capro immolato al
bios-potere o Eichmann
fratello o Eich-Mann affondato
sul campo
spinato sul fiore
geranio di
sangue-campana –
Campana chimera ti
chiamo
sulle tue grandi
labbra di buona
novella

Infine, ci sono i poeti che bamboleggiano. Che fanno i fanciullini, ma senza la sapienza metrica di Pascoli. Che amano tanto il cielo, i prati, i fiori, le “stradine” dei paesaggi patrii. Che tifano per i sentimenti elementari, e spesso per l’elementare sintassi e l’elementare aggettivazione. Sul confine di questa categoria troviamo il bucolico Umberto Piersanti, che però ha ancora la sostenutezza retorica di chi “porge” il distillato di un lungo lavoro: sostenutezza un po’ comica, sia perché è troppo simile al poetese in cui scrivono quasi tutti gli italiani che scombiccheranno versi, sia perché sembra annunciare una densità sapienziale che in realtà si riduce a qualche pensierino sulla fragilità della vita, inserito in un desueto acquerellismo paesaggistico. Ma il massimo rappresentante dei bamboleggianti è Claudio Damiani, che certi critici non esitano a paragonare, oltre che a Pascoli, a Orazio. Se il nostro poeta si convincesse che il carro vincente è quello di Damiani, riscriverebbe i suoi versi così bamboleggiando:

Come sono belle le campane
che fanno din don vicino ai biancospini
dietro alla stradina piccola piccola
dove andiamo tenendoci le mani.
Hai visto come sboccia il geranio
bello rosso come la tua boccuccia?
Come fa bene al nostro cuore
l’Ave Maria, che a te fa chiedere:
“Cosa vuol dire Ave? E c’è Dio papà?”.
E io ti lascio la mano e ti do
un buffetto sulle labbra
e dico vuol dire “ciao”,
fai “ciao ciao” con la mano
sì saluta Dio in questo cielo azzurro
tu che puoi ancora. 

Matteo Marchesini

Matteo Marchesini

La pseudolirica dei poeti tardo-lombardi, dei poeti (o poetesse) mistico-viscerali e dei poeti bamboleggianti, una pseudolirica ad alta stilizzazione ma a bassa coerenza tecnica e formale, ottiene il risultato opposto a quello che ogni poesia dovrebbe proporsi: anziché potenziare il senso della lingua, lo impoverisce coi suoi stereotipi; anziché fare attrito con gli altri codici linguistici e con la realtà circostante, si isola in un limbo di futile arbitrio. Per fortuna, però, accanto a questi pseudolirici ci sono ancora poeti veri. Ed è venuto il momento di fare qualche nome, o finiremo per contribuire anche noi a una completa svalutazione del genere. Pensiamo ad autori che rifiutano l’alibi della stilizzazione e che costruiscono testi densi, stratificati, di grande coerenza formale; ad autori che non si nascondono dietro un finto esoterismo, e inseguono anzi la limpidezza, ma una limpidezza complessa, mai bamboleggiante. Anziché tentare di imporre un’Idea di poesia o un Personaggio, questi autori si affidano solo al valore artigianale dei loro manufatti. Non a caso, i loro modelli li cercano spesso in poeti maturati prima della deriva dell’ultimo mezzo secolo; in poeti, cioè, in cui era ancora ben viva la concezione della lirica come abile artigianato. C’è chi, come Paolo Febbraro e Anna Maria Carpi, deve qualcosa a Caproni; e c’è chi, come Paolo Maccari, ricorda Raboni e Fortini. Patrizia Cavalli ha ben assimilato Penna, e la giovane Mariagiorgia Ulbar riprende insieme Penna e la stessa Cavalli. Umberto Fiori ha imparato qualcosa da Sbarbaro, ed Elio Pecora da Cardarelli e Saba. Dei tempi del “pubblico della poesia”, della creatività sregolata impostasi a partire dagli anni Settanta, è rimasto insomma assai poco. Fare poesia col neoromanticismo anarchico fotografato da Berardinelli e Cordelli, senza finire nel bovarismo, era molto difficile. Forse per riuscirci bisognava essere davvero, e non per moda, dei “romantici” devoti a un’idea insieme orfica e confessionale di poesia. E anziché costruirsi una meschina carriera, come hanno fatto molti sessantenni e settantenni di oggi, bisognava accettare il fatto che un’idea così assoluta di poesia si concretizza solo a sprazzi: bisognava, insomma, avere l’onestà di dichiarare spesso fallimento. E’ questa onestà che ha salvato Giorgio Manacorda, feroce stroncatore dei suoi colleghi e di un’intera “generazione perduta”, ma anche severo punitore di se stesso, pronto a buttare raccolte costate anni di fatica per tenere appena un verso. Se in un’epoca di naiveté e di pavidità intellettuale imperante è rimasta viva la figura del poeta-critico, lo si deve soprattutto a lui.

Articolo uscito sul Foglio il 16 marzo 2013

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