
de chirico Ettore e Andromaca 1916
da “Risposta del Signor Cogito”
da “Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014)” Chelsea Editions, New York p. 320 $ 20 Prefazione di Andrej Silkin Traduzione di Steven Grieco
La polizia segreta cerca il quaderno nero
I
La polizia segreta cerca il «quaderno nero».
Perquisisce ogni centimetro quadrato della abitazione
del Signor Cogito, getta le masserizie all’aria, sfonda le pareti,
smonta le mattonelle. Dicono che c’è «un sole inabissato»
da qualche parte.
II
Finestra buia. Finestra illuminata.
Enceladon è nuda esce da una porta della notte e si pettina
i capelli color rame davanti allo specchio.
Un merlo gorgheggia sull’albero. Gli uccelli tossiscono.
Lanterna rossa. Fascio di luce conica.
Un riflettore è puntato sulla faccia del Signor Cogito.
Un cono di luce sugli occhi del Signor Cogito.
La polizia segreta scava nel giardino.
Cerca ciò che non può più trovare
perché Cogito ha distrutto il quaderno nero
gettandolo nel fuoco.
III
Sono le tre. Il rintocco argentino del carillon
disturba la tranquillità del Signor Cogito.
Il suo pensiero è simile al moto del pendolo,
va dallo zenit alla fossa delle Marianne
dal fumo delle puzzolenti nazionali
all’etere del pensiero teologale.
Nella Kammerspiel c’è silenzio. Di tomba.
Improvvisamente, uno scalpiccio di passi.
I cinque poliziotti sono usciti in corridoio.
«Arrivederci», «Passate più spesso a trovarmi»,
dice agli ospiti il Signor Cogito.
.
La Lubjanka interroga il musicista
I
Le blatte si accalcano nella fessura della porta.
Il Signor K. esce dalla notte
sbatte la porta ed entra nello specchio
esce dallo specchio ed entra nel cono di luce.
Entra il commissario con un occhio di vetro.
La polizia segreta interroga la bellezza di Enceladon
mentre la Lubjanka fa catturare tutti gli uccelli.
Dispone che gli uccelli vengano impiccati
ai rami degli alberi e lasciati oscillare
come idrocaedri al vento del Favonio.
Interrogano il musicista.
Interrogano il Signor Cogito.
Cercano «un sole inabissato».
«È colpa del Signor Retro – dice il Signor Cogito –
quel maleducato è sempre avanti di un passo,
e non c’è ragione che possa voltarsi indietro».
La polizia segreta perquisisce il violino,
smonta la cassa armonica, fa a pezzi l’archetto.
II
La Lubjanka ha convocato il violinista
negli uffici della polizia segreta.
La tigre bianca siede sulla sedia rossa.
La tigre rossa siede sulla sedia bianca.
La tigre sorride.
Il Signor Retro mastica un chewingum.
La Gioconda mi guarda dalla parete.
Hanno interrotto le perquisizioni.
Hanno requisito il violino.
Hanno divelto la porta rossa e la finestra azzurra.
Hanno abbattuto le pareti.
Il Signor K. dice che il violino non ha colpe.
«Signor Cogito, non c’è nessun sole inabissato».
«C’è un solo colpevole». «È lei il colpevole».
.
Il corvo è volato via dalla finestra
Il corvo è volato via dalla finestra.
I candelabri degli alberi fumano sotto il cielo.
Fiammeggiano d’un fuoco algido.
Il cielo è immobile. Il mare è immobile.
Il bosco è immobile.
La bottiglia e il bicchiere del quadro di Morandi
sono immobili, integri, il tempo non li ha frantumati.
La Lubjanka ha fatto impiccare tutti gli uccelli.
Sette corvi beccano i vermi nello stagno.
Enceladon mi guarda da una cartolina.
Anche la sua bellezza è immobile.
Ha un sorriso esangue, sembra evasa
dalla prigionia del suo archetipo in fondo
al ritratto di Simonetta Vespucci.
L’intero universo è immobile.
La sedia rossa è di fronte al mare.
Il sole nero entra nella costellazione dello Scorpione.
I mocassini del Signor Cogito scricchiano
sulle falene morte e sulla polvere del parquet.
Il pensiero del Signor Cogito precede sempre
d’un palmo la giostra delle parole, indugia all’ingresso
tra il pensiero nero e il pensiero bianco.
«Tra il pensiero e la parola cade l’ombra.
Tra la parola e la sua pronuncia cade l’ombra»
dice il Signor Cogito.
Teatro. Si apre il sipario. Sedia rossa.
Il musicista prende posto sulla sedia rossa.
Imbraccia il violino.
Posa l’archetto sulle corde del violino.
All’improvviso, tutto scompare:
la sedia rossa, il musicista, il mare,
le stelle, gli alberi in fiamme.

de chirico_immagine periodo metafisico
La polizia segreta interroga il Signor Cogito
I
Si annuncia con il tinnire di monete false,
un flash al magnesio il Signor K.
La redingote del Signor Cogito
si siede di fronte alla finestra. Attende.
Il Signor K. si siede sulla sedia rossa,
emana un profumo di cipria la sua parrucca
mpolverata, parla nella lingua dei corvi:
eptaedri, triedri, dodecaedri.
La polizia segreta interroga il Signor Cogito.
Chiedono notizie intorno al «suo occhio sincipitale».
Un riflettore illumina il volto del Signor Cogito.
Un trisma percorre a ritroso il volto del Signor Cogito.
Il Signor Cogito guarda attraverso la finestra.
La finestra è aperta su un paesaggio
di colline verdi, ondulate e di tigli in fiore.
Il Signor K. indugia.
Il Signor Cogito attende.
Sceglie con cura le parole,
aspetta che il buio entri dalla finestra.
II
Il Signor Cogito dice:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».
La tigre sorride.
«Nomina sunt consequentia rerum».
La tigre sorride.
«Dunque seguono, non possono precedere le cose».
La tigre continua a sorridere.
«Le cose le avete fabbricate ma le parole…».
La lampada al neon illumina la faccia dell’imputato.
«No, quelle non potete fabbricarle».

de chirico sketch masks
Commento di Marco Onofrio
Per entrare in risonanza con la poesia di Giorgio Linguaglossa (recentemente antologizzata nella traduzione inglese di Steven Grieco, con testo a fronte, per l’edizione americana Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York), occorre accedere alle premesse della sua dicibilità, e dei problemi epistemici, storici e sociologici che riesce complessivamente a sollevare. Occorre dunque portarsi fino alle radici del sentire moderno; e queste radici vanno, a ben vedere, ricercate in epoca barocca, quando il mondo – grazie alle scoperte geografiche e scientifiche – si estese a dismisura, e l’uomo provò nuovo sgomento dinanzi al silenzio eterno degli spazi infiniti mentre la terra (già centro del cosmo tolemaico) veniva relegata ai margini del vuoto universale. La realtà debordò dalle cornici razionalistiche e si mostrò complessa nell’infinità del macroscopico e del microscopico. L’allegoria barocca – analizzata da W. Benjamin, nel contesto del dramma barocco, come “cartina di tornasole” di alcune aporie fondamentali della coscienza e dell’arte moderna – mette in crisi l’aspirazione classicistica rinascimentale ad armonizzare il mondo, cioè a colmare la scissione originaria prodottasi nell’uomo sia a livello teologico, sia a livello gnoseologico. Chiunque, dopo il Rinascimento, tenti il simbolo viene continuamente respinto nell’allegoria, cioè nella «dialettica priva di centro tra quanto è figurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati». L’allegoria fa saltare il simbolico e «smantella la faccia armoniosa del mondo»: dà vita a un’arte malinconica, da terra desolata, che rivela un’insanabile lacerazione, una perdita di senso delle cose e del soggetto, una decadenza dell’umano e della storia. Come portata allo spasimo dei nervi dal dolore della ferita, la coscienza mantiene una presa critica della realtà che le permette di restituire il negativo e il caos disperso dei frantumi così come sono, senza illudersi di una possibile armonia conciliatoria.

de chirico anni Settanta
Baudelaire è il primo grande esponente dell’estetica moderna in grado di prendere coscienza delle mutate condizioni epocali. La prima e la seconda rivoluzione industriale innescano lo sviluppo delle scienze applicate alle tecnologie. Le città diventano metropoli massificate. Cambia la percezione del mondo, le categorie spazio-temporali vengono continuamente riedificate dalle proprie macerie. La storia accelera. Il sempre più rapido ciclo di invenzioni e trasformazioni meccanizza l’esperienza del reale, provocando continui choc sensoriali e risposte psichiche automatiche. L’ottica a scatti del cinema è, per certi versi, omologa alla produzione della catena di montaggio. Ci si abitua alle dinamiche della visione seriale. L’artista è il flanêur estraniato e perso nella folla. Vive in uno stato di convalescenza, di ipnosi, di ebbrezza alcolica. Scrive per frammenti, lampi di immagini e sensazioni. Guarda alle cose con occhio satanico/angelico: usa l’ironia sardonica come lente di rifrazione e chiavistello per smontare il mondo. La surnaturalizzazione visionaria lo porta a sdoppiarsi, a proiettarsi negli oggetti, a immergersi nel flusso vitale fino a sfondare i limiti dello spazio e del tempo, e alla fantasmagoria dei paesaggi urbani, degli interni, delle stanze.
Da questa coscienza, travasata nella rilettura continua e aggiornata di tutto il Novecento, europeo ed extraeuropeo, compresa l’evoluzione storica della Scienza (la relatività di Einstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria della complessità di Prigogine, la teoria delle catastrofi di Thom, le ricerche su caso e necessità di Monod, etc.): è da tutto questo agguerrito armamento culturale che “viene” la scrittura in versi di Linguaglossa. La Stimmung iconografica della sua poesia è traducibile in un pulviscolo di suggestioni sospeso tra il sensualismo onirico di Balthus, la mitologia ludica di Savinio, le traslucide interdizioni di Giorgio De Chirico e, qua e là riemergente, una vena boshiana di allucinazioni alla Francis Bacon. Il poeta precede il critico ma viene nutrito dalle sue ricerche; il critico a sua volta sorveglia il poeta e lo punzecchia quando rischia di addormentarsi. Linguaglossa non è mai soddisfatto, riscrive continuamente, per anni. Il suo è il percorso ultratrentennale di una ricerca inesauribile attraverso la scrittura e la coscienza.
La parola linguaglossiana è lo strumento versatile che solleva e sostiene un equilibrio dinamico tra azione e contemplazione, dramma e filosofia, oggetto e pensiero, suono e silenzio. Il linguaggio di Linguaglossa nasce dal “rigoglio del magma”, è carico, plurivoco, materico, multanime: è deformato da una carica espressionistica e sospinto da un demone variantistico sperimentale, che deve tenere a bada i rischi dell’arbitrarietà, del virtuosismo, del bizantinismo, stando attento a che la poesia non divenga «hierogliphica arte degli / orpelli»:
«Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,
dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,
bisticci di frasari incongrui».
Il suono è ovviamente sfruttato anche per le sue capacità simboliche di creare significato:
«rumoreggia e sferraglia sul sipario del teatro:
incastro di motori, di ruote dentate,
rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi».

de chirico un maestoso silenzio maschere
Il poeta ha alle spalle il critico pungolatore, e insieme cavalcano a briglie sciolte il cavallo selvaggio di una fantasia dittatoriale, che crea regole e mondo. Una fantasia che rivendica la propria libertà dai giochi del Potere: nella composizione “Il signor K.” la tigre che rappresenta appunto il Potere ordina al poeta di suonare il violino, ma l’archetto del poeta “stride” perché egli si rivela incapace di suonare a comando: vuole suonare quando e ciò che gli pare. Cioè: la poesia può sopravvivere solo se si ritaglia uno spazio autonomo dalla macchina mondiale dell’economia e della comunicazione strumentale.
La chiave che apre il mondo poetico di Linguaglossa è un surrealismo onirocritico che mette in gioco tutta la realtà fisica, fino al livello subatomico: tutta la natura, tutta la storia, tutta la cultura (anche la Scienza). Linguaglossa giustappone e mescola i luoghi dello spazio e del tempo, proiettati su un unico piano di simultaneità. La poesia è una «idrovora narcomedusa»: succhia tutto l’esistente e l’esistibile, come un’idrovora, e ha il potere narcotizzante e marmorizzante della Medusa, che svela il volto osceno dell’orrore sotto le sembianze più “normali”, il «malessere quieto dell’esistenza». La poesia dunque
«accoppia materia e immondizie
sigizie di correaltà, apparenta
“Storia ed eoni, platonismi e crudeltà».
Dalla metafora tridimensionale di Mandel’štam, Linguaglossa trae una visione poliedrica e multipolare: come un suono stereofonico riprodotto da sorgenti simultanee. Einstein ha dimostrato che lo spazio ha quattro dimensioni (la quarta è il tempo). E Linguaglossa scrive:
«Vidi l’Angelo dai quattro volti che guardava
in quattro specchi il mio sembiante riflesso,
quadruplice barbaglio della luce».

de chirico maschere
Il discorso poetico di Linguaglossa procede senza apparenti artifici metrici sull’onda pulsante di un verso libero, spesso epico nella sua lunghezza, che agevola il processo di decostruzione dell’io attraverso la scomposizione prismatica e cinematica delle immagini. Il correlativo oggettivo è potenziato dal parallelo correlativo soggettivo: la proiezione del soggetto in alter ego dialogici, disseminati nello spazio e nel tempo, che sono (e siamo) sempre «noi, dietro il diaframma, prismatici». Il poeta «cammina come un sonnambulo», in «ipnotica ipocinesi»: è un acrobata bendato che attraversa gli universi paralleli, che percorre i livelli del reale, che entra ed esce dai racconti – fino a raggiungersi prima della nascita fisica (come accade nell’autoritratto eponimo “Tre fotogrammi dentro la cornice”). È un continuo passaggio biunivoco tra esistenza sogno irrealtà – cornice di pensiero dopo cornice – fino a sfiorare l’inarrivabile essenza. La poesia dunque come discorso anfibologico, fitto di misteriose, semplici e irrisolvibili aporie. E la vita come geroglifico di sogni, come criptogramma.
Il tono autonormativo della scrittura poetica di Linguaglossa è quello di una cronaca scettica della realtà in divenire, sospeso tra certezza dell’esistere («respiriamo dunque siamo») e messa in scacco di questa dimensione («serenamente dubitiamo / della nostra realtà»). L’atteggiamento è ironico, leggero, distaccato, oggettivo, superficiale e profondo in un sol dire (è la superficie, del resto, che nasconde la massima profondità, ovvero: «La verità è nella polvere della superficie»). Il poeta penetra oltre i limiti della ragione, abbracciando i panorami della “follia”, del caos creativo incasellabile. La ragione stessa «si camuffa in follia / e la reggia si addobba in stalla». Linguaglossa si interroga ossessivamente sul rapporto tra quadro e cornice, su «cosa c’è oltre la cornice», su come il quadro spezza la cornice e continua oltre i suoi limiti, sapendo che «il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo, / ma sappiamo che lui c’è».

De-Chirico-The-Two-Masks
È una poesia spesso nominale, asciugata sull’osso del proprio accadere, agglutinata intorno all’energia del verbo-motore. Anche gli aggettivi sono trattati come sostantivi, non hanno funzione esornativa. Le composizioni sembrano spesso “sceneggiature” di cortometraggi surrealisti. Linguaglossa ha nelle corde una certa vocazione teatrale: il mondo è teatro, «la storia disegna il teatro / del mondo», e il poeta recita la sua stessa poesia dal palco della propria mente, avvolto dalla nebulosa sferoide dei ricordi, degli echi, dei pensieri, inseguendo frecce vettoriali che non è facile capire se si avvicinino o si allontanino dal bersaglio. I versi montano, uno dopo l’altro, didascalie ambientali di suoni luci rumori voci, geometrie illogiche alla Escher, architetture urbane di mura, torri, archi, ponti, pontili, ambulacri, terrazze, scale, corridoi, porte (spesso numerate, a significare opzioni), e stanze, e strutture delimitanti confini, bordi catastrofici oltre i quali si spalancano abissi. Ci sono sequenze di azioni slegate, catene imprevedibili, scene misteriose che accadono… Da una fessura esce «uno stormo di uccelli / e una nuvola di anelli»; nel vuoto c’è un «drago che aleggia» e una «colluttazione di ombre che entrano / dentro altre ombre e ne escono»; è c’è «un uomo premoriente» che «percuote un gong / e dal gong escono stormi di colombe bianche»; e «dio» che «ha perso l’autobus, / sta alla fermata, aspetta, forse si è pentito»… E narrazioni che si interrompono improvvisamente, lasciando sospesa la curiosità. Il soggetto fluido di questi scenari apre una porta e… non puoi nemmeno lontanamente immaginare dinanzi a cosa ti ritroverai: sono
«i ponti delle parole che nessuno
sa dove condurranno».
Tutto procede per «frammenti di un percorso di fuga», fotogrammi random, sequenze di scene e personaggi che irrompono secondo analogie suggestive ma illogiche, e portano messaggi insensati, stranianti, decontestualizzati, o indicazioni contraddittorie e fuorvianti. Il tempo nella poesia di Linguaglossa è reversibile e interamente abitabile, è un nastro che si può riavvolgere avanti e indietro, come nei sogni. Linguaglossa crede evidentemente nell’eterno ritorno, ha imparato che «il presente è il passato e il passato è il presente», che «il prologo è simile all’epilogo», e tutte le storie e tutte le guerre e tutte le nascite e tutte le morti, sono una.
Specie nelle più recenti composizioni, Linguaglossa accentua la dimensione onirica e metafisica: tutto resta molto reale, quasi iperreale, e concreto, fisico, tangibile, ma il movimento dei versi ci porta in regioni atemporali, o meglio pancrone, dove si incontrano e colloquiano (spesso senza intendersi) personaggi fittizi (angeli, demoni, filosofi) e personaggi storici (Kafka, Mozart, Tiziano, Rembrandt, Ionesco, etc.) appartenuti ad epoche diverse. La scrittura raccoglie stralci di cronache dell’oltretomba, echi di un mondo ridotto a manicomio psitaccico: luoghi di deiezione, paesaggi col sole spento o inabissato, terre del dio tramontato. Linguaglossa parla con le ombre, che sono spesso bianche e translucide. Ci dà lo scenario del dopo-storia, il basso impero del tramonto dell’occidente, dell’umanesimo, della civiltà.

giorgio linguaglossa
Questa poesia è il doppio fondo onirico della storia contemporanea. C’è un «equilibrio precario» che «regge le sorti del mondo, un fantoccio / tiene le redini di Danimarca, e nessuno / distingue la saggezza dalla follia». Linguaglossa è un contrabbandiere fugace di immagini emblematiche del nostro tempo, della nostra condizione. Le travasa così come gli arrivano dalla Storia, tutta la Storia in gioco, senza alterarle, senza spiegarle, senza ricomporle. Nell’orizzonte del mondo «forse non esiste né deve esistere l’armonia». La Terra stessa è una «cicatrice». E non c’è redenzione:
«Un’onda percorre a ritroso la Storia.
Un angelo gobbo appare sulla soglia. Piange.
“Sei tu l’angelo eletto, sei venuto ad annunciare la discordia?
Guarda, la tomba è vuota, la resurrezione non è avvenuta”.»
Sembra, infine, un poeta tradotto da una lingua europea. Il suo è un italiano dal respiro insolitamente internazionale, intessuto di riverberi europei. Le grandi esperienze della poesia moderna (in particolare slava) confluiscono nel retroterra mediterraneo da cui Linguaglossa proviene, per nascita e formazione: il risultato è avvertibile dentro una scrittura che mette felicemente a colloquio Falstaff e Amleto, le luci del Sud e le ombre del Nord, la commedia e la tragedia, il dialogo e il soliloquio, la leggerezza e la profondità. L’antologia Three Stills in the Frame dimostra esaustivamente che Giorgio Linguaglossa è uno dei pochi poeti italiani in grado di sfondare le strettoie dalla tradizione, anche quella del Novecento, per misurarsi con i più alti esiti della ricerca poetica contemporanea.

Marco Onofrio legge Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma
Marco Onofrio Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 9 volumi, tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove” (2013). Ai bordi di un quadrato senza lati. Inoltre, ha pubblicato anche monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it
flavio almerighi
almerighi
2 maggio 2015 alle 14:43 Modifica
Caro Giorgio, Sagredo da riformattare a parte, trovo la tua risposta un po’ semplicistica. Io non sto parlando dei soliti noti da De André in giù, io sto parlando di una stirpe di poeti, molto più musicali del poema giocagiò della Perrone o dell’erotismo poelnta e osei della Leone, giusto per citare un paio di nefandi post recentemente apparsi, che hanno prestato poesia alla canzone, Parlo per esempio di Roberto Roversi, di Pasquale Panella di Pier Paolo Pasolini se pure in tono più minore, e anche con Piero Ciampi.. Con questi dobbiamo fare i conti, e il post con le poesie di Grieco così asciutte e così belle mi ha fornito lo spunto per parlarne. Non possiamo classificarli a facitori di filastrocche per meri motivi commerciali.
“Il mare
al tramonto
salì
sulla luna
e senza appuntamento
dopo uno sguardo
dietro tendine di stelle
se la chiavò”
Ti ricorda qualcosa?
E’ una canzone di Zucchero, dirai. Sbagliato.
E’ il plagio di una poesia di Piero Ciampi da parte di Zucchero, che solo in seguito ad una causa intentatagli riconobbe il “furto” e citò la fonte nelle ristampe del suo disco. Non è che il povero Sagredo ha preso il verso da Ciampi?