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Jurij Tarnavs’kyj, poeta ucraino, La vita in città, con una scelta di poesie per il post umanesimo, traduzioni di Lorenzo Pompeo, Elliot Edizioni, Roma, 2021, nota di lettura a cura di Letizia Leone

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La personale fenomenologia della percezione di Jurij Tarnavs’kyj

Lettura di Letizia Leone

Fin dalle prime raccolte il discorso poetico di Jurij Tarnavs’kyj è attraversato da un potenziale di estraniazione e de-sublimazione, effetto diretto di quella «decadenza dell’aura» già individuata da Benjamin che si rivelerà il tratto peculiare di molta poesia modernista. Poeta ucraino della diaspora trapiantato a New York, scrittore bilingue inizialmente legato al Gruppo di New York, lo stile di Tarnavs’kyj marca la differenza, per contenuti e ricerca espressiva, dalla tradizione della letteratura ucraina a lui coeva. Come ben individua Lorenzo Pompeo, che ha il merito di curare per il lettore italiano una selezione dell’intera produzione in versi del poeta ucraino (1956-1970), «già nella raccolta d’esordio l’autore sperimentò una peculiarità della sua personale sintassi: la disaggregazione del corpo umano, letteralmente disseminato in uno spazio urbano nel quale si perdono i contorni dell’io lirico.»
La Vita in città del 1956 certifica l’abbandono del canto lirico e dell’elegia. Il verso è calato dentro le suggestioni di un’«epoca del disincanto», secondo la nota definizione di Max Weber, sebbene poi nella parola della poesia sia implicita la contestazione con il corpo opaco di una parola funzionale e massificata. Non a caso il poeta ucraino è attratto dal surrealismo proprio per il carattere «non razionale» e per l’apertura analogica della visione.
Oltre Rimbaud (pietra miliare di riferimento) e in tempi di post-metafisica, l’io lirico del poeta deve riposizionarsi sulle scorie di una tradizione depotenziata nei suoi materiali espressivi e stilistici. L’”Ode al caffè”, testo di apertura del libro, pare circonfusa dal riverbero di una immaginazione mitopoietica obsoleta. Eppure l’occhio fenomenologico cattura frammenti e ologrammi di antichi miti e li riposiziona in altre costruzioni dello spirito. Il mito derubricato di Apollo e Marsia diventa lo sfondo straniato di una contro-elegia sul dolore e sul vuoto, là dove il bar è il nuovo tempio di coloro che non hanno templi, luogo del ristoro di una corporalità straziata dalla storia, oasi di pigra quiete nella furia urbana dove si possono stendere le tele umide della pelle…/ il sudore della fatica…/in attesa / che il dolore coli giù per terra col sordo gemito del coltello.
La drammaticità della condizione esistenziale è accentuata da una prospettiva straniante. In una personalissima fusione di espressionismo e surrealismo, Tarnavs’kyj allinea il suo discorso su molte istanze del contemporaneo, sull’aporia inevitabile di dover dire “poeticamente”, per esempio, nell’ambito di una realtà fortemente tecnicizzata e razionalista.
L’afasia incombe: «nelle bocche gelate pende una notte nera», e confluisce dall’occhio cinico del poeta che con parole raffreddate non può più comunicare attraverso il filtro esclusivo del cuore e dell’emozione: «abbiamo finito le difficili scuole dell’amore». Siamo all’altezza degli anni ’60 e già il sentimento pare rientrare nella sfera dell’irrappresentabile, così com’è veicolato dalla mercificazione trash del sentimentalismo pubblicitario.
Tarnavs’kyj va allestendo una sua personale «fenomenologia della percezione», in un processo di decentramento della coscienza cartesiana che troverà il suo culmine nella raccolta del 1970 Poesie sul nulla. La ricerca espressiva è orientata intorno a una parola che elude le consecutio logiche o temporali della visione soggettiva. Si tende al registro ‘oggettivo’ e neutro dello stile. Gli stessi occhi, Gli occhi che guardano il mare, non sono più gli strumenti ottici di un osservatore esterno, ma eventi, relazioni simbiotiche perfino sconfinamento, lo sconfinamento dell’io nel tessuto del mondo. Paesaggio, natura, corpo, le rex estensa, diventano i pezzi e i gangli di un ingranaggio. Siamo dentro il paradosso evidenziato da Merleau-Ponty: «l’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile…si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso (…) un sé che è preso nelle cose, che ha una faccia e un dorso, un passato e un avvenire…».

Inoltre le allusioni alla dimensione della pittura sono una costante della scrittura di Tarnavs’kyj. Come non pensare al ciclo delle Crocifissioni di Francis Bacon, per esempio leggendo i testi “Cristo I”, “Cristo II”, “Cristo III”, “Cristo IV” o Vivisezioni basate sulla deformazione espressionista (e sacrilega) dell’icona per eccellenza dell’arte sacra? Un Cristo sfigurato dallo scandalo del fallimento della propria missione tra gli uomini, violato nella sacralità di una millenaria rappresentazione là dove la dannazione coincide con la degradazione carnale: «e Cristo getta da una parte all’altra la testa disarticolata, / e un leggero sudore compare su di lui quasi come un corpo femminile, / come se dallo sforzo di aumentare il proprio piacere bevesse a quella elevazione sulla quale si trovava».
L’elemento cromatico assume valenze simboliche e visionarie. Il colore diventa elemento di astrazione, sganciato completamente dal dato naturale: «In Vietnam / il colore/ comincia / nei gomiti, / giungle rosse / scuotono / con quadranti neri / vicino ai denti, / cerchi verdi/ saltano fuori / dalle articolazioni…»
Inoltre, la dissoluzione della soggettività che, come detto, va man mano accentuandosi nelle ultime raccolte, assume la connotazione di un sé smarrito, frammentato e alienato tra le cose. Non si tratta di una situazione personale ma di un senso storico di precarietà, o di un certo «spirito di gravità» che è spirito del tempo. Né ha parlato con incisività anche Ingeborg Bachman analizzando l’abisso che si è spalancato tra l’Io del XIX secolo e l’Io contemporaneo: «l’Io non è più nella storia, ma è la storia, oggi, a essere nell’Io…Ma a partire dal momento in cui l’Io si è dissolto, l’Io e la storia, l’Io e il racconto non sono più garantiti.»
Nel testo “Un uomo cammina” per il paesaggio si assiste alla decostruzione della fisiologia del corpo in un divenire simbiotico tra vedente, «delimitato dalla pelle» e ciò che lo circonda, e cioè il paesaggio in formazione. Lo spazio non è vissuto dall’esterno ma vi si è incistati come parte dello stesso macro-organismo e la realtà (la sua descrizione) diventa work in progress di materia e pastoso colore sulla tavolozza di un pittore virtuale:

Delimitato dalla pelle, invisibile
In alcuni punti, come linea punteggiata, con
Le mani, cucite
Al tronco, come al vestito
Una tasca, su una gamba, che, come
Stivale, nasconde in sé l’altra, lui
Passa attraverso il colore e la linea
All’orizzonte scavalca…

L’orizzonte esistenzialista che ha derubricato il dualismo cartesiano anima-corpo, punto di partenza di Tarnavs’kyj, si amplifica in un evento entropico che coinvolge il soggetto, la natura, le cose dentro un divenire metamorfico. Che è poi l’atto stesso del farsi ‘poietico’.
In questo processo entropico le cose si antropomorfizzano e si caricano di una reificazione tutta umana e storica. Si leggano certi testi sviluppati come forti descrizioni espressioniste: «la zolla di terra, come / un pugno infantile, stringe un cespuglio / di erbe che, come un verde /cuneo, supporta / uno stelo irregolare, / che si solleva, come / un uomo nel tempo, e si dondola sul suo apice / rotondo come un piatto…»
«Io sono sempre stato un poeta orientato verso elementi visuali», afferma Tarnavs’kyj ma qui la visione non è più sguardo su un qualcosa che sta al di fuori. Sono utili a proposito le delucidazioni di Merleau-Ponty: «è piuttosto il pittore (poeta) che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile e il quadro, infine, può essere spettacolo di qualche cosa solo…perforando la ‘pelle delle cose’ per mostrare come le cose si fanno cose, e il mondo mondo. Apollinaire diceva che in un poema ci sono frasi che sembrano non essere state create, ma essersi formate».
I procedimenti creativi del poeta ucraino ruotano a queste altezze nella definizione di un post-umanesimo. L’uomo senza conforto di ideologie o metafisiche subisce la realtà come un puro atto di coercizione:

Una terribile tessitura ci circonda
A volte
Stringe intorno
Alla nostra gola – i nodi dei
Lacci e fessure, il capestro
Degli abbracci e della solitudine.

(Letizia Leone)

Jurij Tarnavs’kyj cover

TESTI

Ode al caffè
(A O.L. Voronevyč)

I
o tiepido luogo per il ristoro del corpo,
dove si possono stendere le tele umide della pelle,
asciugare alle onde di un ameno vento secco
il sudore della fatica, stendere le gambe, in attesa
che il dolore coli giù per terra col sordo gemito del coltello,
oltre il vetro, nella luce blu del cielo, altri combatteranno:
cadaveri bagnati e senza testa giaceranno sulle grate delle fogne,
il resto dei ribelli uscirà fuori
con una muta bandiera senza lingua, ma non delusa,
o luogo di riposo per gli emisferi del cervello crespo, asciutti come una noce,
dove lasciando il campo di battaglia, guardandosi intorno, è possibile
smettere di essere colpevole, graffiato, svuotato dentro,
dove puoi quasi addormentarti col sapore
del latte di petti gialli di frutta tropicale in bocca,
dove puoi piangere lacrime piacevoli,
che scorrono come rugiada dagli occhi viola,
dove puoi offrire al dio della felicità
due monete in sacrificio, in cambio
di due minuti di pigra quiete,
o tempio di coloro che non hanno templi,
tu accogli tra le tue tiepide braccia
la confessione degli innamorati e dei delusi,
ascolti versi di poeti e chiassosi alterchi
di filosofi e artisti con la barba nera,
li stringi alla tua pancia calda e soda,
proteggendoli con la tua grande mano,
accarezzandogli la schiena e i capelli lisci,
o madre di orfani piangenti,
ti dai a chi lo desidera, come una puttana a buon mercato,
vendi un corpo bianco e tiepido
a giovani che cercano la pienezza,
e li lasci calmi e lenti quando se ne vanno

(da La vita in città– 1956) Continua a leggere

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Il menù non prevede la critica letteraria, Quando la critica diventò teoria di Alfonso Berardinelli con la replica di Javier Cercas, El critico matòn, Il critico teppista,  a cura di Matteo Marchesini, cover di Agenda con poesie kitchen di Lucio Mayoor Tosi

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Bozzetti di cover di una Agenda con poesie della poetry kitchen a cura di Lucio Mayoor Tosi

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Qualche tempo fa, sulla rivista “L’età del ferro”, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un saggio nel quale – replicando a un articolo volgarotto di Javier Cercas contro di lui – riassume molto bene la storia e lo stato della critica (non solo letteraria). Lo riporto qui, perché credo sia utile a chi discute del tema:
(Matteo Marchesini, https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754)

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IL MENU’ NON PREVEDE LA CRITICA LETTERARIA
Quando la critica diventò teoria
di Alfonso Berardinelli
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Sono cresciuto in un periodo in cui la critica era quasi tutto. Oggi è quasi niente.
Non rimpiango quei tempi, gli anni cioè fra il 1960 e il 1980. Non li rimpiango perché l’attività critica e la sua tradizione moderna, che ebbe inizio intorno alla metà del Settecento, subì un’improvvisa e accelerata mutazione che sembrò renderla più potente e autorevole, ma ne modificò rapidamente le caratteristiche. Fino a pochi anni prima, benché le diverse correnti critiche fossero influenzate da particolari ideologie, filosofie e scienze, la critica letteraria era rimasta fondamentalmente saggistica. Le idee contavano, ma la forma linguistica e letteraria, lo stile, non ne erano sostanzialmente compromessi. L’idealista Benedetto Croce, il marxista Gyorgy Lukacs, i filologi Leo Spitzer e Erich Auerbach, gli eclettici Walter Benjamin e Edmund Wilson, erano dei veri saggisti, prosatori originali di prim’ordine. Usavano certe idee, applicavano un loro metodo di analisi e restavano fedeli ai loro criteri di valutazione. Eppure il loro stile di pensiero era anche uno stile letterario. Chiunque li avesse letti appena un po’, sarebbe stato in grado di distinguere quasi a orecchio il tono, il ritmo, la qualità della loro prosa. In altri critici, meno fedelmente interessati a filosofie e metodi, come Frank R. Leavis, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, la critica coincideva interamente con il loro personale modo di leggere e di scrivere. Per non parlare dei maggiori e più noti scrittori-critici: T. S. Eliot, Paul Valéry, D. H. Lawrence, Wystan H. Auden, Octavio Paz, e più recentemente John Updike, Gore Vidal, Vargas Llosa, Italo Calvino… La critica non poteva ancora essere confusa con lo studio accademico, né con la teoria o scienza della letteratura.
Fu infatti proprio intorno al 1960 che una lunga tradizione si interruppe. Quasi tutto ciò che era stato scritto in passato, si trattasse di critici romantici o simbolisti o realisti, sembrò all’improvviso approssimativo, impressionistico, poco scientificamente fondato e ormai improponibile e impraticabile. La prima edizione di Theory of Literature di René Wellek e Austin Warren uscì a New York nel 1942: poteva sembrare solo una sintesi didattica, ma poi ci si rese conto che quel libro segnava una svolta. L’attenzione ormai si concentrava, come mai prima, sulla teoria generale della letteratura e sulle metodologie dello studio letterario. Fu così che, fra teoria e metodi, la precedente accezione saggistica e valutativa della critica si indebolì fino a sparire. Letterarietà (o “specifico letterario”), autonomia del Testo, Funzione poetica del linguaggio, prendevano il posto di una più generica, empirica nozione di letteratura e dei suoi generi. Così la teoria e la metodologia svalutavano la lettura come esperienza personale e la critica come attività tipica di singoli critici.
La cosa andò avanti per circa un ventennio, dal 1960 al 1980: e sono proprio quelli gli anni gloriosi e noiosi della Nuova Critica che mi sembra difficile rimpiangere. La teoria della letteratura divorò, ingoiò la letteratura. Ci furono anni in cui sembrava che gli scrittori scrivessero per ubbidire e piacere ai teorici, prevedendo la loro “scientifica” approvazione. Con decenni di ritardo rispetto alla diagnosi di Ortega, si provocò una nuova specie di “disumanizzazione dell’arte”: era una letteratura fatta di testi puri e assoluti, o volutamente mescolati e ibridi, o programmaticamente illeggibili, comunque testi senza autori (era proibito parlarne) e senza lettori (sostituiti da tecnici di laboratorio di analisi).
Il critico sospettato
Tutto questo non è che un prologo. Con il crollo inaspettato e mai spiegato dei due pilastri della Teoria, lo strutturalismo e la semiologia, che partendo dalla linguistica avevano colonizzato soprattutto in Francia tutte le scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia), si creò una situazione diversa per la critica letteraria. Non più “disumanizzata”, ma ormai anche troppo umana e vulnerabile, la critica rinunciò ad agire sotto garanzie teorico-scientifiche. In quanto filologia e storiografia, diventò studio letterario ambientato nelle università: gli insegnamenti di teoria letteraria si trasformarono in Letterature comparate, orientate in senso prevalentemente tematico. In quanto critica vera e propria, tornò a essere più spesso giornalistica e saggistica, praticata soprattutto da scrittori, e prese di nuovo la forma molto empirica, rischiosa e provvisoria della recensione. A questo punto si capì che la critica letteraria, se deve esistere, esiste soltanto perché c’è qualcuno che vuole scriverla e non riesce a farne a meno. Insomma: la critica sono i critici.
Diventa chiaro allora che ogni critico non può più evitare di prendersi le sue responsabilità e di correre i suoi rischi. Ormai da almeno trent’anni la critica non vive più come applicazione di teorie né come strumento di lotta autopromozionale di gruppi “d’avanguardia”. Torna a essere un’impresa personale sempre sospettabile di parzialità e di soggettivismo. Non essendo più mascherata da “scienza del testo letterario”, la sua autorità pubblica è diminuita fino a diventare irrilevante. Da quando ogni critico gioca individualmente la sua partita, non può contare che sulle proprie ragioni e argomentazioni, preferenze, scelte e strategie retoriche. Chiunque abbia la vocazione o passione intellettuale e letteraria della critica si presenta come un caso a sé. In quanto si esprime in forma saggistica, può avere un posto fra i generi letterari; ma non ne ha più fra le professioni culturali istituzionalmente previste.
Anche il legame che esisteva in passato fra letteratura e critica, fra scrittori e critici, si è indebolito. Fare critica non solo dà fastidio (cosa che accadeva anche in passato) ma sembra quasi inconcepibile: poco meno che un abuso, un’intrusione, una pratica intellettuale vagamente perversa, alla quale si dedicano individui animati da sentimenti insondabili o torbidi come frustrazione e gelosia nei confronti di narratori e poeti: autori “creativi”, mentre il critico, sterile com’è, può solo essere un vizioso giudice, un distruttore e denigratore del lavoro altrui.
Per due secoli si è apprezzata la letteratura soprattutto per il suo valore e potenziale critico nei confronti della realtà sociale. Anche i più grandi e originali inventori di forme e di miti (Baudelaire e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, Kafka e Eliot) venivano letti come chiaroveggenti critici sociali. Oggi, invece, alla critica si tende a contrapporre la creatività. Queste due funzioni letterarie e conoscitive vengono così separate. Dunque chi prova a criticare il creatore, che è amico della vita, può essere solo un distruttore, un nemico della vita. Si dimentica quanti siano stati, nella storia di tutte le letterature, i narratori, i poeti, i drammaturghi, critici della vita falsa per amore della vita. Un caso personale?
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Trascrivo qui un breve articolo che il narratore Javier Cercas mi ha dedicato recentemente. Credo che sia il chiaro sintomo di un’insofferenza e diffidenza che si sta diffondendo in tutti gli ambienti culturali, ma soprattutto in quelli artistici, letterari e perfino filosofici. Nelle arti visive la critica si limita perlopiù a giustificare l’incomprensibile. I filosofi notoriamente, poi, non discutono tra loro. In sostanza, ci si meraviglia che un critico critichi, invece di limitarsi a spiegare che in un’opera letteraria tutto va esattamente come doveva andare fra intenzioni e risultati, stile e tema. Ma ecco l’articolo:
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«Da un paio d’anni è stato pubblicato in Spagna un libro in cui si aborriva Umberto Eco; si sminuivano Borges, Beckett e Calvino; si ridicolizzava Foster Wallace, e si deprecavano: le “nuove tecnologie” (quindi, generalizzando), l’attuale romanzo francese (analogamente a casaccio), la poesia (totalmente in astratto); nel libro si difendevano alcuni autori, da Dante a Orwell (cosa utile, beninteso), ma se ha attirato l’attenzione è stato per i suoi attacchi: Alfonso Berardinelli contro tutti, ha intitolato questo giornale la sua recensione del libro. Berardinelli è il nome del suo autore; Leggere è un rischio, il suo titolo. Infine: non ho letto a sufficienza Berardinelli per affermare che sia un critico teppistico, ma il fatto è che spesso lo sembra.
Chi è un critico teppistico? Innanzitutto, non bisogna confondere un critico teppistico con un critico provocatorio, quale forse è lo stesso Berardinelli: il critico provocatorio fa venire voglia di leggere, mentre quello teppistico la reprime; il critico provocatorio incita, mentre quello teppistico eccita soltanto. Inutile dire che il critico teppistico non è necessariamente uno scrittore mancato: ci sono critici teppistici che sono scrittori, o che lo sono stati, e qualche volta ottimi; e va da sé che non ci sono critici teppistici solo fra i critici letterari: ce ne sono fra tutti i tipi di critici. Non c’è niente di più facile che distruggere un libro, per buono che sia (anzi, sono i libri migliori ad essere i più vulnerabili, perché si prendono i rischi maggiori), e il critico teppistico sfrutta a fondo questa facilità, giustamente convinto che distruggere un libro significhi mettersene al di sopra e, lodarlo, al di sotto. Di solito il critico teppistico non è stupido, però non è nemmeno così intelligente come crede; in realtà, sarebbe meno stupido se non si credesse così intelligente. Si parla molto della vanità degli autori, ma comparata a quella dei critici teppistici è un nonnulla. Come qualsiasi teppista, il critico teppistico non si distingue per il suo coraggio, perciò non agisce mai da solo: lo fa sempre protetto da un coro di sostenitori. Benché la critica sia una forma di creazione, per il critico teppistico è una forma di distruzione, perché è molto più difficile costruire che distruggere ma è molto più mediaticamente redditizio distruggere che costruire. Il critico teppistico punta alla critica ad hominem, agli attacchi personali, e considera un successo che uno scrittore smetta di scrivere a causa delle sue critiche. Al cr\\el XX secolo, giudicava che quando un critico attacca un libro lo fa “per esibirsi” (“to show off”). Non credo che sia sempre così. La critica è indispensabile, il critico non può mai rinunciare a prendere posizione e a volte deve essere severo. Berardinelli afferma che a volte deve essere iconoclasta; sono d’accordo. Però una cosa è essere un critico iconoclasta, un’altra essere un critico teppista.»
(Javier Cercas, El critico matòn “El Paìs”, 12 luglio 2018)
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La reazione di Cercas alla presenza di un critico che critica, chiunque egli sia, è così istintiva da risultare quasi incomprensibile. Ad averlo tanto allarmato da spingerlo a un attacco autodifensivo non è neppure un libro, che evidentemente ha più sfogliato che letto, ma un articolo-intervista che su quel libro è stato pubblicato dal “Paìs” due anni prima. Il fatto che qualcuno possa non avere nessuna stima letteraria per i bestseller “culturalisti” di Umberto Eco, o che osi dire che Borges, Beckett e Calvino sono caratterizzati non solo dalle loro qualità ma anche dai loro limiti (nessuno dei tre, per esempio, ha considerato il romanzo un genere ancora praticabile), è qualcosa che Cercas non riesce ad accettare. Sembra sfuggirgli completamente che nei miei giudizi c’è una polemica non priva di una sua logica e di ragioni storiche: quei tre scrittori sono stati (ognuno a suo modo) idoli di una “poetica postmodernista” che non rappresenta affatto la Postmodernità nel suo insieme, epoca che ha occupato l’intera seconda metà del Novecento e nella quale c’è stato posto per artisti del tutto diversi come Francis Bacon e Jackson Pollock, Jean-Luc Godard e Stanley Kubrick, Solgenitsin e Garcia Marquez. È una poetica elaborata soprattutto in Francia con l’inizio degli anni sessanta: la poetica di un’écriture che negava i generi letterari e postulava come dovere o necessità storica la fusione di narrativa, poesia, autoriflessione teorica. Non è un caso se per circa vent’anni la letteratura francese abbia smesso di produrre romanzi, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti la tradizione del romanzo non si è mai interrotta e ha finito per rendere marginale la narrativa europea. In ogni arte naturalmente gli esperimenti non sono proibiti, tutt’altro: ma credo che si debba distinguere fra gli esperimenti riusciti e quelli falliti.
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Quanto alla mia critica della generale accademizzazione e burocratizzazione della cultura, o dell’attuale espansione incontrollabile e invasiva delle tecnologie, mi meraviglio che Cercas si meravigli. Ci sono fenomeni che riguardano una trasformazione senza precedenti della nostra vita individuale, mentale, sociale e di tutte le forme della nostra cultura. Di questo si discute da tempo e lo prova una ormai vasta e varia bibliografia internazionale.
Partendo da alcune mie valutazioni umoristicamente enfatizzate da un articolo del Pais, Cercas inventa, per liquidarmi, la categoria del critico “teppista”. La inventa e ne perfeziona in negativo la descrizione, mettendolo, mettendomi in ridicolo (è uno che ama solo Dante e Orwell!) e mostrando che si tratta di un fenomeno degenerativo il cui scopo è soltanto demolire i libri migliori e impedire che vengano letti.
Quanto all’osservazione di Auden, secondo cui un critico che attacca un libro lo fa solo per esibirsi (“to show off”), è interessante ma discutibile (quale autore non si esibisce?). Auden però ammirava molto un critico assoluto come Karl Kraus, un vero distruttore satirico ben consapevole di esibirsi, compromettersi, esporsi (“sich preisgeben”), mettendo in gioco e a rischio la propria persona con ognuno dei suoi giudizi.
Purtroppo Cercas non ha voluto correre il rischio di leggere con un po’ d’attenzione il mio Leggere è un rischio, e neppure ha sentito il bisogno di dare un’occhiata a qualcun altro mio testo, prima di elaborare il suo ritratto del “maton”. Nonostante le formule di buona educazione e di rispetto democratico per l’attività critica in generale, mi sembra che Cercas si comporti lui stesso come un critico “teppista” (mi fa fuori con una sola parola: “teppista”). Infine loda la bella idea platonica del critico iconoclasta. Ma quando ne vede uno in azione si spaventa e lo insulta.
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Don’t worry: for criticism makes nothing happen
Mi pare che si stia dimenticando la tradizione della critica, la sua necessità culturale, il suo stile, i suoi maestri moderni e antichi. Se la critica si è spesso mescolata alla satira, all’aforisma aggressivo, è per accrescere la sua efficacia rappresentativa, comunicativa, retorica. E se è vero che il critico saggista è un tipo di scrittore, gli autori di cui parla, pur esistendo nella realtà, sono anche suoi personaggi. Non succede anche nei ritratti pittorici? Il papa Innocenzo X di Velazquez (non a caso rielaborato da Bacon) è un capolavoro di invenzione realistica o contiene soltanto malevole intenzioni deformanti? Quando poi la società peggiora e questo diventa un tema, compaiono i quadri critici, satirici o visionari di Hogarth e Goya.
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In realtà la critica è una delle più naturali, ovvie, inevitabili attività della mente umana. Su idiosincrasie, rifiuti, avversioni, intolleranze si è costruita gran parte della letteratura moderna. Giacomo Leopardi non sopportava né il romanticismo nordico né il progressismo liberale. Baudelaire ridicolizzava l’avant-guarde del suo tempo. Kierkegaard detestava Hegel. Tolstoj disprezzava moralmente l’estetismo simbolista. Kraus considerava il giornalismo “magia nera”. Proust attaccò Sainte-Beuve. Eliot giudica Hamlet un’opera fallita e Shelley un poeta per adolescenti. Edmund Wilson riteneva Kafka uno scrittore sopravvalutato, pieno di difetti e di debolezze. Adorno e Horkheimer attaccarono per tutta la vita sia il neopositivismo che l’ontologia metafisica di Heidegger. Fra le molte “strong opinions” di Nabokov c’è la svalutazione di Dostoevskij, considerato artisticamente approssimativo, oltre che sentimentale. Ricordo una descrizione che Giorgio De Chirico fa di una riunione di surrealisti a cui aveva partecipato: li ritrae come un gruppo di fatui poseurs, se non di imbroglioni… Naturalmente si potrebbe continuare a lungo.
La critica non è, non può essere solo questo. Ma non si può sognare una critica sempre sobria, equanime, equilibrata e comprensiva con tutti. Esistono le passioni e le vocazioni critiche. Poi ci sono i professori di letteratura, che sono un’altra cosa. Di solito vedono la critica come un’attività non professionale, o perfino come una forma immorale di libertinismo. Ho saputo recentemente che in un concorso universitario un candidato è stato respinto perché sembrava più un critico che uno studioso. Se fossi in lui, sarei felice di aver meritato una tale condanna.
Credo comunque che la critica sia impotente ed è bene che lo sia. È bene che non rappresenti interessi di gruppo, né riceva autorità da qualche istituzione pubblica. Oso criticare senza remore né censure solo autori di grande o eccessivo successo, perché rappresentano idee e gusti dominanti e perché sono certo di non danneggiarli e di non rovinare la loro carriera.
Come la poesia in un famoso verso di Auden, direi che la critica, in sé stessa, “makes nothing happen”. Non fa succedere niente. La cosa più probabile è che metta in cattiva luce chi la esercita”.

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Giorgio Linguaglossa da Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York, (2015) traduzione di Steven Grieco QUATTRO POESIE da Risposta del Signor Cogito. “La polizia segreta cerca il quaderno nero”, “La Lubjanka interroga il musicista”, “Il corvo è volato via dalla finestra”, “La polizia segreta interroga il Signor Cogito” Commento di Marco Onofrio

de chirico Ettore e Andromaca 1916

de chirico Ettore e Andromaca 1916

da “Risposta del Signor Cogito”
da “Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014)” Chelsea Editions, New York p. 320 $ 20 Prefazione di Andrej Silkin Traduzione di Steven Grieco

La polizia segreta cerca il quaderno nero

I
La polizia segreta cerca il «quaderno nero».
Perquisisce ogni centimetro quadrato della abitazione

del Signor Cogito, getta le masserizie all’aria, sfonda le pareti,
smonta le mattonelle. Dicono che c’è «un sole inabissato»
da qualche parte.

II
Finestra buia. Finestra illuminata.
Enceladon è nuda esce da una porta della notte e si pettina

i capelli color rame davanti allo specchio.
Un merlo gorgheggia sull’albero. Gli uccelli tossiscono.

Lanterna rossa. Fascio di luce conica.
Un riflettore è puntato sulla faccia del Signor Cogito.

Un cono di luce sugli occhi del Signor Cogito.
La polizia segreta scava nel giardino.

Cerca ciò che non può più trovare
perché Cogito ha distrutto il quaderno nero
gettandolo nel fuoco.

III
Sono le tre. Il rintocco argentino del carillon
disturba la tranquillità del Signor Cogito.

Il suo pensiero è simile al moto del pendolo,
va dallo zenit alla fossa delle Marianne

dal fumo delle puzzolenti nazionali
all’etere del pensiero teologale.

Nella Kammerspiel c’è silenzio. Di tomba.
Improvvisamente, uno scalpiccio di passi.

I cinque poliziotti sono usciti in corridoio.
«Arrivederci», «Passate più spesso a trovarmi»,
dice agli ospiti il Signor Cogito.

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La Lubjanka interroga il musicista

I
Le blatte si accalcano nella fessura della porta.
Il Signor K. esce dalla notte

sbatte la porta ed entra nello specchio
esce dallo specchio ed entra nel cono di luce.

Entra il commissario con un occhio di vetro.
La polizia segreta interroga la bellezza di Enceladon

mentre la Lubjanka fa catturare tutti gli uccelli.
Dispone che gli uccelli vengano impiccati

ai rami degli alberi e lasciati oscillare
come idrocaedri al vento del Favonio.

Interrogano il musicista.
Interrogano il Signor Cogito.

Cercano «un sole inabissato».
«È colpa del Signor Retro – dice il Signor Cogito –

quel maleducato è sempre avanti di un passo,
e non c’è ragione che possa voltarsi indietro».

La polizia segreta perquisisce il violino,
smonta la cassa armonica, fa a pezzi l’archetto.

II
La Lubjanka ha convocato il violinista
negli uffici della polizia segreta.

La tigre bianca siede sulla sedia rossa.
La tigre rossa siede sulla sedia bianca.

La tigre sorride.
Il Signor Retro mastica un chewingum.

La Gioconda mi guarda dalla parete.
Hanno interrotto le perquisizioni.

Hanno requisito il violino.
Hanno divelto la porta rossa e la finestra azzurra.

Hanno abbattuto le pareti.
Il Signor K. dice che il violino non ha colpe.

«Signor Cogito, non c’è nessun sole inabissato».
«C’è un solo colpevole». «È lei il colpevole».

Giorgio-Linguaglossa-Three Stills In the Frame 2015.

Il corvo è volato via dalla finestra

Il corvo è volato via dalla finestra.
I candelabri degli alberi fumano sotto il cielo.

Fiammeggiano d’un fuoco algido.
Il cielo è immobile. Il mare è immobile.

Il bosco è immobile.
La bottiglia e il bicchiere del quadro di Morandi

sono immobili, integri, il tempo non li ha frantumati.
La Lubjanka ha fatto impiccare tutti gli uccelli.

Sette corvi beccano i vermi nello stagno.

Enceladon mi guarda da una cartolina.
Anche la sua bellezza è immobile.

Ha un sorriso esangue, sembra evasa
dalla prigionia del suo archetipo in fondo

al ritratto di Simonetta Vespucci.
L’intero universo è immobile.

La sedia rossa è di fronte al mare.
Il sole nero entra nella costellazione dello Scorpione.

I mocassini del Signor Cogito scricchiano
sulle falene morte e sulla polvere del parquet.

Il pensiero del Signor Cogito precede sempre
d’un palmo la giostra delle parole, indugia all’ingresso

tra il pensiero nero e il pensiero bianco.
«Tra il pensiero e la parola cade l’ombra.

Tra la parola e la sua pronuncia cade l’ombra»
dice il Signor Cogito.

Teatro. Si apre il sipario. Sedia rossa.
Il musicista prende posto sulla sedia rossa.

Imbraccia il violino.
Posa l’archetto sulle corde del violino.

All’improvviso, tutto scompare:
la sedia rossa, il musicista, il mare,

le stelle, gli alberi in fiamme.

de chirico_immagine periodo metafisico

de chirico_immagine periodo metafisico

La polizia segreta interroga il Signor Cogito

I
Si annuncia con il tinnire di monete false,
un flash al magnesio il Signor K.

La redingote del Signor Cogito
si siede di fronte alla finestra. Attende.

Il Signor K. si siede sulla sedia rossa,
emana un profumo di cipria la sua parrucca

mpolverata, parla nella lingua dei corvi:
eptaedri, triedri, dodecaedri.

La polizia segreta interroga il Signor Cogito.
Chiedono notizie intorno al «suo occhio sincipitale».

Un riflettore illumina il volto del Signor Cogito.
Un trisma percorre a ritroso il volto del Signor Cogito.

Il Signor Cogito guarda attraverso la finestra.
La finestra è aperta su un paesaggio

di colline verdi, ondulate e di tigli in fiore.
Il Signor K. indugia.

Il Signor Cogito attende.
Sceglie con cura le parole,

aspetta che il buio entri dalla finestra.

II
Il Signor Cogito dice:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».

La tigre sorride.
«Nomina sunt consequentia rerum».

La tigre sorride.
«Dunque seguono, non possono precedere le cose».

La tigre continua a sorridere.
«Le cose le avete fabbricate ma le parole…».

La lampada al neon illumina la faccia dell’imputato.
«No, quelle non potete fabbricarle».

de chirico sketch masks

de chirico sketch masks

Commento di Marco Onofrio

Per entrare in risonanza con la poesia di Giorgio Linguaglossa (recentemente antologizzata nella traduzione inglese di Steven Grieco, con testo a fronte, per l’edizione americana Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York), occorre accedere alle premesse della sua dicibilità, e dei problemi epistemici, storici e sociologici che riesce complessivamente a sollevare. Occorre dunque portarsi fino alle radici del sentire moderno; e queste radici vanno, a ben vedere, ricercate in epoca barocca, quando il mondo – grazie alle scoperte geografiche e scientifiche – si estese a dismisura, e l’uomo provò nuovo sgomento dinanzi al silenzio eterno degli spazi infiniti mentre la terra (già centro del cosmo tolemaico) veniva relegata ai margini del vuoto universale. La realtà debordò dalle cornici razionalistiche e si mostrò complessa nell’infinità del macroscopico e del microscopico. L’allegoria barocca – analizzata da W. Benjamin, nel contesto del dramma barocco, come “cartina di tornasole” di alcune aporie fondamentali della coscienza e dell’arte moderna – mette in crisi l’aspirazione classicistica rinascimentale ad armonizzare il mondo, cioè a colmare la scissione originaria prodottasi nell’uomo sia a livello teologico, sia a livello gnoseologico. Chiunque, dopo il Rinascimento, tenti il simbolo viene continuamente respinto nell’allegoria, cioè nella «dialettica priva di centro tra quanto è figurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati». L’allegoria fa saltare il simbolico e «smantella la faccia armoniosa del mondo»: dà vita a un’arte malinconica, da terra desolata, che rivela un’insanabile lacerazione, una perdita di senso delle cose e del soggetto, una decadenza dell’umano e della storia. Come portata allo spasimo dei nervi dal dolore della ferita, la coscienza mantiene una presa critica della realtà che le permette di restituire il negativo e il caos disperso dei frantumi così come sono, senza illudersi di una possibile armonia conciliatoria.

de chirico anni Settanta

de chirico anni Settanta

Baudelaire è il primo grande esponente dell’estetica moderna in grado di prendere coscienza delle mutate condizioni epocali. La prima e la seconda rivoluzione industriale innescano lo sviluppo delle scienze applicate alle tecnologie. Le città diventano metropoli massificate. Cambia la percezione del mondo, le categorie spazio-temporali vengono continuamente riedificate dalle proprie macerie. La storia accelera. Il sempre più rapido ciclo di invenzioni e trasformazioni meccanizza l’esperienza del reale, provocando continui choc sensoriali e risposte psichiche automatiche. L’ottica a scatti del cinema è, per certi versi, omologa alla produzione della catena di montaggio. Ci si abitua alle dinamiche della visione seriale. L’artista è il flanêur estraniato e perso nella folla. Vive in uno stato di convalescenza, di ipnosi, di ebbrezza alcolica. Scrive per frammenti, lampi di immagini e sensazioni. Guarda alle cose con occhio satanico/angelico: usa l’ironia sardonica come lente di rifrazione e chiavistello per smontare il mondo. La surnaturalizzazione visionaria lo porta a sdoppiarsi, a proiettarsi negli oggetti, a immergersi nel flusso vitale fino a sfondare i limiti dello spazio e del tempo, e alla fantasmagoria dei paesaggi urbani, degli interni, delle stanze.

Da questa coscienza, travasata nella rilettura continua e aggiornata di tutto il Novecento, europeo ed extraeuropeo, compresa l’evoluzione storica della Scienza (la relatività di Einstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria della complessità di Prigogine, la teoria delle catastrofi di Thom, le ricerche su caso e necessità di Monod, etc.): è da tutto questo agguerrito armamento culturale che “viene” la scrittura in versi di Linguaglossa. La Stimmung iconografica della sua poesia è traducibile in un pulviscolo di suggestioni sospeso tra il sensualismo onirico di Balthus, la mitologia ludica di Savinio, le traslucide interdizioni di Giorgio De Chirico e, qua e là riemergente, una vena boshiana di allucinazioni alla Francis Bacon. Il poeta precede il critico ma viene nutrito dalle sue ricerche; il critico a sua volta sorveglia il poeta e lo punzecchia quando rischia di addormentarsi. Linguaglossa non è mai soddisfatto, riscrive continuamente, per anni. Il suo è il percorso ultratrentennale di una ricerca inesauribile attraverso la scrittura e la coscienza.

La parola linguaglossiana è lo strumento versatile che solleva e sostiene un equilibrio dinamico tra azione e contemplazione, dramma e filosofia, oggetto e pensiero, suono e silenzio. Il linguaggio di Linguaglossa nasce dal “rigoglio del magma”, è carico, plurivoco, materico, multanime: è deformato da una carica espressionistica e sospinto da un demone variantistico sperimentale, che deve tenere a bada i rischi dell’arbitrarietà, del virtuosismo, del bizantinismo, stando attento a che la poesia non divenga «hierogliphica arte degli / orpelli»:

«Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,

dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,

bisticci di frasari incongrui».

Il suono è  ovviamente sfruttato anche per le sue capacità simboliche di creare significato:

«rumoreggia e sferraglia sul sipario del teatro:

incastro di motori, di ruote dentate,

rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi».

de chirico un maestoso silenzio maschere

de chirico un maestoso silenzio maschere

Il poeta ha alle spalle il critico pungolatore, e insieme cavalcano a briglie sciolte il cavallo selvaggio di una fantasia dittatoriale, che crea regole e mondo. Una fantasia che rivendica la propria libertà dai giochi del Potere: nella composizione “Il signor K.” la tigre che rappresenta appunto il Potere ordina al poeta di suonare il violino, ma l’archetto del poeta “stride” perché egli si rivela incapace di suonare a comando: vuole suonare quando e ciò che gli pare. Cioè: la poesia può sopravvivere solo se si ritaglia uno spazio autonomo dalla macchina mondiale dell’economia e della comunicazione strumentale.

La chiave che apre il mondo poetico di Linguaglossa è un surrealismo onirocritico che mette in gioco tutta la realtà fisica, fino al livello subatomico: tutta la natura, tutta la storia, tutta la cultura (anche la Scienza). Linguaglossa giustappone e mescola i luoghi dello spazio e del tempo, proiettati su un unico piano di simultaneità. La poesia è una «idrovora narcomedusa»: succhia tutto l’esistente e l’esistibile, come un’idrovora, e ha il potere narcotizzante e marmorizzante della Medusa, che svela il volto osceno dell’orrore sotto le sembianze più “normali”, il «malessere quieto dell’esistenza». La poesia dunque

«accoppia materia e immondizie

sigizie di correaltà, apparenta

“Storia ed eoni, platonismi e crudeltà».

Dalla metafora tridimensionale di Mandel’štam, Linguaglossa trae una visione poliedrica e multipolare: come un suono stereofonico riprodotto da sorgenti simultanee. Einstein ha dimostrato che lo spazio ha quattro dimensioni (la quarta è il tempo). E Linguaglossa scrive:

«Vidi l’Angelo dai quattro volti che guardava

in quattro specchi il mio sembiante riflesso,

quadruplice barbaglio della luce».

de chirico maschere

de chirico maschere

Il discorso poetico di Linguaglossa procede senza apparenti artifici metrici sull’onda pulsante di un verso libero, spesso epico nella sua lunghezza, che agevola il processo di decostruzione dell’io attraverso la scomposizione prismatica e cinematica delle immagini. Il correlativo oggettivo è potenziato dal parallelo correlativo soggettivo: la proiezione del soggetto in alter ego dialogici, disseminati nello spazio e nel tempo, che sono (e siamo) sempre «noi, dietro il diaframma, prismatici». Il poeta «cammina come un sonnambulo», in «ipnotica ipocinesi»: è un acrobata bendato che attraversa gli universi paralleli, che percorre i livelli del reale, che entra ed esce dai racconti – fino a raggiungersi prima della nascita fisica (come accade nell’autoritratto eponimo “Tre fotogrammi dentro la cornice”). È un continuo passaggio biunivoco tra esistenza sogno irrealtà – cornice di pensiero dopo cornice – fino a sfiorare l’inarrivabile essenza. La poesia dunque come discorso anfibologico, fitto di misteriose, semplici e irrisolvibili aporie. E la vita come geroglifico di sogni, come criptogramma.

Il tono autonormativo della scrittura poetica di Linguaglossa è quello di una cronaca scettica della realtà in divenire, sospeso tra certezza dell’esistere («respiriamo dunque siamo») e messa in scacco di questa dimensione («serenamente dubitiamo / della nostra realtà»). L’atteggiamento è ironico, leggero, distaccato, oggettivo, superficiale e profondo in un sol dire (è la superficie, del resto, che nasconde la massima profondità, ovvero: «La verità è nella polvere della superficie»). Il poeta penetra oltre i limiti della ragione, abbracciando i panorami della “follia”, del caos creativo incasellabile. La ragione stessa «si camuffa in follia / e la reggia si addobba in stalla». Linguaglossa si interroga ossessivamente sul rapporto tra quadro e cornice, su «cosa c’è oltre la cornice», su come il quadro spezza la cornice e continua oltre i suoi limiti, sapendo che «il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo, / ma sappiamo che lui c’è».

De-Chirico-The-Two-Masks

De-Chirico-The-Two-Masks

È una poesia spesso nominale, asciugata sull’osso del proprio accadere, agglutinata intorno all’energia del verbo-motore. Anche gli aggettivi sono trattati come sostantivi, non hanno funzione esornativa. Le composizioni sembrano spesso “sceneggiature” di cortometraggi surrealisti. Linguaglossa ha nelle corde una certa vocazione teatrale: il mondo è teatro, «la storia disegna il teatro / del mondo», e il poeta recita la sua stessa poesia dal palco della propria mente, avvolto dalla nebulosa sferoide dei ricordi, degli echi, dei pensieri, inseguendo frecce vettoriali che non è facile capire se si avvicinino o si allontanino dal bersaglio. I versi montano, uno dopo l’altro, didascalie ambientali di suoni luci rumori voci, geometrie illogiche alla Escher, architetture urbane di mura, torri, archi, ponti, pontili, ambulacri, terrazze, scale, corridoi, porte (spesso numerate, a significare opzioni), e stanze, e strutture delimitanti confini, bordi catastrofici oltre i quali si spalancano abissi. Ci sono sequenze di azioni slegate, catene imprevedibili, scene misteriose che accadono… Da una fessura esce «uno stormo di uccelli / e una nuvola di anelli»; nel vuoto c’è un «drago che aleggia» e una «colluttazione di ombre che entrano / dentro altre ombre e ne escono»; è c’è «un uomo premoriente» che «percuote un gong / e dal gong escono stormi di colombe bianche»; e «dio» che «ha perso l’autobus, / sta alla fermata, aspetta, forse si è pentito»… E narrazioni che si interrompono improvvisamente, lasciando sospesa la curiosità. Il soggetto fluido di questi scenari apre una porta e… non puoi nemmeno lontanamente immaginare dinanzi a cosa ti ritroverai: sono

«i ponti delle parole che nessuno

sa dove condurranno».

Tutto procede per «frammenti di un percorso di fuga», fotogrammi random, sequenze di scene e personaggi che irrompono secondo analogie suggestive ma illogiche, e portano messaggi insensati, stranianti, decontestualizzati, o indicazioni contraddittorie e fuorvianti. Il tempo nella poesia di Linguaglossa è reversibile e interamente abitabile, è un nastro che si può riavvolgere avanti e indietro, come nei sogni. Linguaglossa crede evidentemente nell’eterno ritorno, ha imparato che «il presente è il passato e il passato è il presente», che «il prologo è simile all’epilogo», e tutte le storie e tutte le guerre e tutte le nascite e tutte le morti, sono una.

Specie nelle più recenti composizioni, Linguaglossa accentua la dimensione onirica e metafisica: tutto resta molto reale, quasi iperreale, e concreto, fisico, tangibile, ma il movimento dei versi ci porta in regioni atemporali, o meglio pancrone, dove si incontrano e colloquiano (spesso senza intendersi) personaggi fittizi (angeli, demoni, filosofi) e personaggi storici (Kafka, Mozart, Tiziano, Rembrandt, Ionesco, etc.) appartenuti ad epoche diverse. La scrittura raccoglie stralci di cronache dell’oltretomba, echi di un mondo ridotto a manicomio psitaccico: luoghi di deiezione, paesaggi col sole spento o inabissato, terre del dio tramontato. Linguaglossa parla con le ombre, che sono spesso bianche e translucide. Ci dà lo scenario del dopo-storia, il basso impero del tramonto dell’occidente, dell’umanesimo, della civiltà.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa

Questa poesia è il doppio fondo onirico della storia contemporanea. C’è un «equilibrio precario» che «regge le sorti del mondo, un fantoccio / tiene le redini di Danimarca, e nessuno / distingue la saggezza dalla follia». Linguaglossa è un contrabbandiere fugace di immagini emblematiche del nostro tempo, della nostra condizione. Le travasa così come gli arrivano dalla Storia, tutta la Storia in gioco, senza alterarle, senza spiegarle, senza ricomporle. Nell’orizzonte del mondo «forse non esiste né deve esistere l’armonia». La Terra stessa è una «cicatrice». E non c’è redenzione:

«Un’onda percorre a ritroso la Storia.

Un angelo gobbo appare sulla soglia. Piange.

“Sei tu l’angelo eletto, sei venuto ad annunciare la discordia?

Guarda, la tomba è vuota, la resurrezione non è avvenuta”.»

Sembra, infine, un poeta tradotto da una lingua europea. Il suo è un italiano dal respiro insolitamente internazionale, intessuto di riverberi europei. Le grandi esperienze della poesia moderna (in particolare slava) confluiscono nel retroterra mediterraneo da cui Linguaglossa proviene, per nascita e formazione: il risultato è avvertibile dentro una scrittura che mette felicemente a colloquio Falstaff e Amleto, le luci del Sud e le ombre del Nord, la commedia e la tragedia, il dialogo e il soliloquio, la leggerezza e la profondità. L’antologia Three Stills in the Frame dimostra esaustivamente che Giorgio Linguaglossa è uno dei pochi poeti italiani in grado di sfondare le strettoie dalla tradizione, anche quella del Novecento, per misurarsi con i più alti esiti della ricerca poetica contemporanea.

Marco Onofrio legege Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma

Marco Onofrio legge Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma

Marco Onofrio Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 9 volumi, tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove” (2013). Ai bordi di un quadrato senza lati. Inoltre, ha pubblicato anche monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it

18 commenti

Archiviato in Antologia Poesia italiana, critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, poesia italiana contemporanea

L’IMMAGINE NELLA POESIA CONTEMPORANEA – DIALOGO A PIU’ VOCI avvenuto sull’Ombra delle Parole: Gezim Hajdari, Steven Grieco, Giorgina Busca Gernetti, Letizia Leone Giorgio Linguaglossa, Flavio Almerighi, Lucia Gaddo Zanovello

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Steven Grieco

Steven Grieco

Caro Gezim,

finalmente ti scrivo! Mi ha fatto molto piacere vederti mercoledì scorso con gli altri della redazione de L’Ombra, così ci siamo potuti conoscere un po’ meglio.

Leggendo la tua poesia, Gezim, e meditandola, ho visto bene come anche tu hai l’istinto, che appunto è istinto prima ancora di essere scelta cosciente, di esprimerti in poesia attraverso una immagine visiva forte.

In effetti, io penso che la poesia, quella italiana sicuramente, ma anche quella di tante altre lingue, abbia sofferto molto negli ultimi decenni proprio perché si è allontanata dall’immagine visiva come veicolo del sentimento poetico e della riflessione profonda, preferendo invece uno stile basato sulla riflessione “oggettiva” delle cose. Intendo una oggettività che doveva vedere “il vero della vita”, invece è andata sempre più a basarsi sul consenso sociale, sull’approvazione del prossimo, una sorta di borghesia della poesia, che ha sicuramente dato qualche buon risultato (posso pensare in inglese a un Philip Larkin, un Robert Lowell) ma che ha presto fatto il suo tempo, e non ha aiutato i poeti più giovani a trovare una propria voce al di fuori di questo schema troppo restrittivo troppo ridotto.

Va bene, io non voglio fare una grande analisi della questione, non sono nemmeno equipaggiato criticamente per farlo, so soltanto che la mia lettura di tanti e tantissimi poeti dei nostri tempi mi ha portato a questa sorta di conclusione. Un linguaggio poetico si è inaridito, e, complice la situazione culturale che viviamo attualmente, non è più ahimé successo niente di nuovo, o solo in rare occasioni, grazie a rari poeti.

Questa visione immaginifica della poesia è una cosa che, a quanto pare, siamo però in tanti a condividere. Sicuramente, fra questi, Giorgio, tu e io.

Non so se hai visto il mio post che abbiamo messo sabato scorso su “L’Ombra delle parole”, sul tema dell’autoritratto. Erano composizioni le mie nelle quali non solo affronto la questione dell’autoritratto in poesia, ma cerco di mostrare come il rapporto soggetto-oggetto così caro a una certa visione del mondo, viene in qualche modo privata della sua supposta “universalità” quando l’oggetto non è più necessariamente il volto del poeta, ma diventa invece il paesaggio (della Natura o urbano) in cui egli si identifica totalmente (così come oggi noi capiamo che senza l’ambiente non sopravviveremo a lungo). Questa identificazione porta la consapevolezza del modo in cui noi come artisti interveniamo sul mondo, come in realtà lo plasmiamo e come il mondo plasma noi, quasi invisibilmente.
In effetti, c’è stata una discreta risposta da parte dei lettori, che hanno scritto dei commenti anche molto belli. Sia in quella occasione, ma anche in mesi precedenti, Giorgio e io abbiamo come dire affrontato questa questione della dimensione immaginifica nella poesia.

La cosa strana è che Giorgio e io non abbiamo mai formulato un programma comune, ma il dibattito è nato in modo naturale nel corso degli ultimi mesi. Questo ovviamente perché tutti e due condividiamo certe idee fondamentali sulla poesia.

Ecco, io pensavo, perché non ti unisci anche tu a questo dibattito? Non si tratta di teorizzare la nostra ispirazione, ma di dire cose al di fuori della poesia che però vertono sulla poesia. Possiamo arricchirci tutti insieme. Proprio perché i nostri stili sono da tempo formati, ma lo stesso non è vero per i poeti più giovani che forse sarebbero felici di seguire un dibattito di questo tipo.

Un caro saluto e buon lavoro,

(Steven Grieco)

2015-04-23 18:19 GMT+02:00 gezim hajdari <gezim_hajdari@yahoo.it>:

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Caro Steven,

come stai? da un po’ di tempo no ci sentiamo, comunque ti leggo sempre con piacere sulL’Ombra, sia come poeta, che critico e traduttore. Scusa la mia latitanza sui commenti del blog, a dire la verità non sono bravo per niente nel scrivere recensioni di critica. Credimi. Inoltre, a causa delle difficoltà economiche, che sembrano non avere mai fine, vivo senza internet in casa.
Intanto trovo l’occasione per ringraziarti di cuore delle tue belle e nobili parole relative alla mia poesia pubblicate ieri sul blog di Giorgio. La tua osservazione sulla mia poesia è verissima, acuta e assai particolare. E’ proprio come scrivi tu, la poesia balcanica è molto legata al mito, all’oralità e all’epica. I miei provengono dal Nord d’Albania, dove regno per 500 anni il Kanun, Codice Giuridico Orale, Codice d’Onore per gli Albanesi delle Alpi. Quindi i miei avi Montanari, che resistettero all’occupazione Ottomana, dal 1479 al 1912, in assenza di uno Stato Giuridico Ottomano, si autogovernarono tramite il Kanun. Questo Codice si basava sulla parola, non c’era nulla di scritto. Alla base del Kanun, c’erabesa, la parola data, la promessa, la fedeltà alla parola. Tutta la vita del montanaro, dalla nascita alla morte, era disciplinata dalle le leggi orali del Kanun, che si tramandavano di generazione in generazione, di padre in figlio. Questa tradizione orale creò una patrimonio epico inestimabile: l’Epos Albanese, che comprende Epos popolare, Epos eroico, Epos dei prodi. Come tu sai meglio di me, tale tradizione ha origine nella lontana età micenea. Ancora oggi, pur se sono trascorsi più di tre mila anni, la poesia balcanica è rimasta balcanica, come è rimasta omerica quella greca.
Il poeta-rapsodo della mia stirpe è stato sempre un uomo coraggioso e impegnato, che si spingeva oltre la propria arte guidando la propria comunità nel labirinto della vita quotidiana a intendere in modo retto e impegnativo verità superiori. Nella Grecia antica, Sofocle era un buon cittadino, impegnato, due volte stratega di Atene e facente parte dei sei magistrati che fecero la Costituzione della sua Città-Stato.
Nella Grecia arcaica il letterato cantava alle vicende, mentre nel periodo classico il letterato parlava sempre al popolo, considerandosi portavoce della comunità, incaricato da una missione civile, pedagogica della intera cittadinanza, che aveva rapporti diretti con lui ed era insieme pubblico, giudice e committente. A Roma il letterato svolgeva una funzione pubblica nella sua qualità di cives romanus.
Mio padre sapeva a memoria più di 10 mila versi. Nella mia infanzia, prima di dormire, io dovevo imparare 100 versi a memoria, era un dovere per ogni membro della famiglia degli albanesi del Nord. Tutto questo per non far morire la memoria millenaria della stirpe. E’ così che si sono tramandate le Veda Indiane, le opere di Omero e di Socrate. Non a caso quest’ultimo non scrisse nulla sulla pergamena dell’epoca, riteneva che la scrittura uccidesse la memoria. Ha provato anche Platone di non scrivere dicendo che fare il filosofo è un modo di fare, di essere e di pensare, non di scrivere. Ma per fortuna poi cambiò idea e decise di scrivere i suoi trattati filosofici e spirituali.
E’ per questo che io scrivo non per essere creduto ma per tramandare la memoria alle prossime generazioni. Comunicando con l’Occidente come balcanico, cercando di fondere la grande tradizione epica balcanica con la grande poesia lirica del Novecento europea. Penso che sia questa la differenza tra me e i miei colleghi migranti in Italia e in Europa, che diversamente da me scrivono come se fossero dei poeti del luogo. Si tratta di una brutta trappola che ha intrappolato molti miei colleghi in Francia, Inghilterra e in USA.
Comunque ne parleremo con calma durante i giorni del Festival di Campobasso.
Un caro saluto e a presto.
Gezim Hajdari
 

 POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno” | L’Ombra delle Parole

giorgio linguaglossa 2011

giorgio linguaglossa 2011

caro Flavio,

qualche giorno fa, conversando con Antonio Sagredo, qui a Roma nei pressi della Metro San Paolo dove abito, mi rivelava che aveva adottato un verso di un altro poeta di cui non ricordava il nome ma che cominciava con M, ma, proseguiva, aveva avuto il sospetto che M avesse preso a prestito quel verso da un poeta precedente (infatti stava facendo ricerche…). Insomma, il verso era: «La pupilla armata convoca il delirio». Io ho risposto a Sagredo che il verso aveva una sua bellezza baroccheggiante ma che non avrei mai potuto scrivere un verso del genere, non corrispondeva alla mia filosofia e al mio stile, ma, aggiunsi, capivo però che era un verso dotato di un certo fascino, anche se di un tipo di fascino che non amavo e che non condividevo.
Fin qui la storia.
Perché l’ho raccontata?, l’ho raccontata per rispondere indirettamente a Flavio Almerighi. In fin dei conti, la poesia è un corpo unico che attraversa i secoli e i millenni, è un rimando continuo, una citazione continua e una risposta alla citazione… le filastrocche dei cantautori invece sono filastrocche e basta, non comunicano tra di loro se non per le necessità di mercato e musicali della musica applicata ai testi. La poesia, e questo è importante, è restia alla musica applicata, vive di se stessa.

      • flavio almerighi

        flavio almerighi

        almerighi

        2 maggio 2015 alle 14:43 Modifica

        Caro Giorgio, Sagredo da riformattare a parte, trovo la tua risposta un po’ semplicistica. Io non sto parlando dei soliti noti da De André in giù, io sto parlando di una stirpe di poeti, molto più musicali del poema giocagiò della Perrone o dell’erotismo poelnta e osei della Leone, giusto per citare un paio di nefandi post recentemente apparsi, che hanno prestato poesia alla canzone, Parlo per esempio di Roberto Roversi, di Pasquale Panella di Pier Paolo Pasolini se pure in tono più minore, e anche con Piero Ciampi.. Con questi dobbiamo fare i conti, e il post con le poesie di Grieco così asciutte e così belle mi ha fornito lo spunto per parlarne. Non possiamo classificarli a facitori di filastrocche per meri motivi commerciali.

        “Il mare
        al tramonto
        salì
        sulla luna
        e senza appuntamento
        dopo uno sguardo
        dietro tendine di stelle
        se la chiavò”

        Ti ricorda qualcosa?
        E’ una canzone di Zucchero, dirai. Sbagliato.
        E’ il plagio di una poesia di Piero Ciampi da parte di Zucchero, che solo in seguito ad una causa intentatagli riconobbe il “furto” e citò la fonte nelle ristampe del suo disco. Non è che il povero Sagredo ha preso il verso da Ciampi?

    1. Giorgina Busca Gernetti

      Giorgina Busca Gernetti

      Colpisce subito, di Steven Grieco, la “clarté” del dettato, sia in prosa sia in poesia.
      Che ciò derivi dall’assidua frequentazione degli Haiku o dalla sua intima natura non si potrebbe affermare con certezza. Spicca evidente, però, il linguaggio elegantemente semplice, in cui le parole si susseguono con naturalezza senza ricerca di artifici retorici o di un lessico raro.
      È molto utile la parte critica introduttiva in cui il poeta illustra la sua concezione di autoritratto e di uomo allo specchio, aggiungendo una parte diaristica: ciò consente al lettore di non sentirsi disorientato di fronte alle poesie molto originali, rispetto agli autoritratti in poesia di noti poeti.
      Parafrasando la frase di Harold Pinter citata da Steven Grieco, sostituendo a “muovi di un millimetro e l’immagina cambia” “sposta di un istante”, la nostra immagine riflessa dallo specchio sarebbe egualmente diversa da quella di un istante prima, poiché, secondo me, la visuale muta secondo lo stato d’animo che non è mai immobile nello spazio e nel tempo, ma sempre in tumulto e in divenire. Non siamo e non sembriamo sempre gli stessi.
      Gli autoritratti di Steven Grieco e l’uomo allo specchio non sono immagini fisse come in una fotografia ormai stampata, ma sono eventi, quindi atti in divenire in cui può accadere che il personaggio creda di poter vedere una cosa che gli è nota e invece, guardando bene, ne vede un’altra, sebbene simile, come i fiori bianchi del pero o altre fioriture di altri alberi.
      Anche la fotografia, non solo l’immagine resa dallo specchio, non coincide perfettamente con l’identità del soggetto. La fotografia trasforma la nostra immagine in relazione a tanti fattori che un bravo fotografo conosce (non mi riferisco al ritocco fotografico). L’immagine resa dallo specchio spesso è diversa da uno specchio all’altro, in relazione alla qualità e alla forma della superficie riflettente, alla luce e all’eventuale antichità dello specchio.
      Tutto, dunque, è relativo, quindi l’autoritratto né si prefigge di riflettere perfettamente l’identità del soggetto, né vi riesce, pur volendolo, sia con i colori, sia con le parole.
      Non analizzo una ad una le pregevoli poesie di Steven Grieco perché gli farei torto: la vera poesia si spiega da sola. Mi attira, però, “Senza Titolo”:
      .
      Nessun branco di cervi nella radura.
      .
      La concentrazione invisibile
      alla sorgente ferma del pensare:
      allora, senza nemmeno uno specchio,
      vedesti l’immagine di te stesso.

      (1986)
      .
      Credo anch’io che l’immagine più fedele del soggetto, senza bisogno di specchio, sia nel profondo del pensiero, nella mente, nell’animo. Forse!

      Giorgina Busca Gernetti

        • Corrige: “susino”, non “pero”.
          Comunque entrambi gli alberi da frutto hanno una splendida fioritura bianca molto simile a “quell’altro biancore”.
          GBG

          Lucia Gaddo Zanovello
          Lucia Gaddo Zanovello

          Lucia Gaddo Zanovello

          2 maggio 2015 alle 16:09 Modifica

          Credo che ciascuno di noi sia talmente in continua mutazione da risultare molto difficile l’autoritratto, sotto qualunque forma, non può trattarsi che di un’istantanea. Quello che ha del mirabolante è l’eventuale ‘riconoscersi’, il che accade raramente. Nelle istantanee che restano o non restano del temporaneo resiste l’attimo di di ciò che fummo. Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.
          Tanto mi interessa l’attimo dell’”io nascosto” in ciascuno di noi, che forse può essere solo ‘sfiorato’, proprio come dice Steven Grieco nella sua poesia, da parermi, questi, attimi di verità, che qui, nelle poesie di Steven Grieco trovo in abbondanza.
          Avverto anch’io in questi testi il nitore orientale della sintesi felice, come in quello più volte citato del susino, dove trovo il folgorante assunto “incredulo/ guardai a lungo quell’altro biancore”.
          Ma sono rimasta molto impressionata in “Autoritratti”, da passaggi come questo: “Niente sgretola l’ignaro che non vede,/ aggiogato, indistruttibile:/ che continua la sua fuga, si disfa e/ si ricrea, di corpo in altro corpo.” o quest’altro: “…i visi gettati qua e là:/ gli sguardi che dormono incatenati.” che sono, secondo me, da studiare e ristudiare.

    1. Steven Grieco

  1. Grazie a Giorgio per questi commenti su precisi aspetti della mia poetica. Non ha fatto che arricchire il mio lavoro. In effetti, se la critica e l’analisi letteraria devono servire a qualcosa, è proprio a questo: illuminare il senso di una scrittura, contestualizzarla, dare strumenti per interpretarla meglio. Da quando ci conosciamo (un anno, poco più), Giorgio ha spesso preso coraggio e commentato la mia poesia, che viene detta “difficile” (a Delhi come a Roma), e non posso dire quanto gliene sono grato.
    Riguardo a Fenollosa, fantastico! Bisognerebbe che ciascun poeta si leggesse quei passi, per avere in mano oggi uno strumento potente – la comprensione della dinamica profonda dell’immagine, della sua ontogenesi (posso usare questo termine?) – per lasciarsi alle spalle un certo ristagno e meglio capire come la strada della poesia può andare avanti.
    Un importante studioso cinese-francese, Francois Cheng, parla proprio di questo nel suo splendido libro “L’Écriture poétique chinoise”, 1977, édition revisée 1982, Éditions du Seuil, Parigi.
    Premetto che la visione cinese, e specificamente taoista, ci rende un mondo Cielo-Terra-Uomo, inteso come un insieme unico e interconnesso e ininterrotto, un Pieno che viene messo in moto dinamico dal soffio inesausto del Vuoto. (E scusatemi per questa affrettata riduzione di un pensiero grande e importante.)
    Su questa base, l’unicità della visione estetica cinese nasce dal primo, primordiale, tratto del pennello, quello che traccia una linea nera sul foglio bianco (il Vuoto), e che è lo stesso per calligrafia, poesia e pittura. Perché in tutte e tre queste arti, l’espressione è sempre veicolata dal’immagine visiva. Nel caso della calligrafia e della poesia, quell’immagine è costituita dall’ideogramma, essere complesso che cela in sé molteplici significati, e che a volte sembra dotato di una sua coscienza, e perfino di poteri speciali (ma poi nella pittura si aggiunge spesso una poesia nella parte dove sta il vuoto, ciò che imprime al quadro, ossia alla dimensione spaziale, anche il senso temporale).
    L’uomo è dunque pienamente partecipe della realtà del mondo in ogni suo minimo particolare, che lui stesso plasma; egli è sempre tutt’uno con la natura e l’ambiente, che lo pervadono e che lui pervade.
    Come tradurre questa nozione in realtà poetica?
    Nel periodo Tang i poeti iniziano a parlare di parole piene e parole vuote. Le parole piene sono sostantivi e verbi (divisi in verbi di azione e verbi di qualità), le parole vuote sono pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, etc (pag 30).
    A pagina 33 del suo libro, Cheng dà un esempio che vi traduco:

    Sonno di primavera ignorare alba
    tutto intorno udire canto di uccelli
    notte passata: rumore di vento, pioggia
    i petali caduti, chissà quanti…

    E dice: “il lettore è invitato a entrare… nello stato un po’ vago del dormiente appena sveglio. Il primo verso non colloca il lettore davanti ad uno che dorme, ma lo situa al livello del suo sonno, un sonno che si confonde con il sonno della primavera. Gli altri tre versi, sovrapposti, “rappresentano” i tre strati della coscienza del dormiente: “presente (gorgheggio di uccelli), passato (rumori di vento e pioggia), futuro (presentimento di una felicità troppo fuggitiva e vago desiderio di scendere in giardino per vedere il suolo coperto di fiori). Ciò che un traduttore maldestro tradurrebbe, con un linguaggio denotativo, in “mentre dormo in primavera…” “intorno a me sento…” “mi ricordo che…” “e mi chiedo…” … evocando cioè un autore perfettamente desto… che fa un commentario al di fuori delle sensazioni.”
    Aggiungo l’ovvio: qui il poeta non usa quelle parti del discorso che subito lo differenzierebbero e lo allontanerebbero dal mondo circostante, riproponendo la contrapposizione soggetto-oggetto, chi ode-sente-pensa e cosa viene udito-sentito-pensato. In questo modo, attraverso il poeta, l’udito-sentito-pensato, e cioè l’ambiente circostante, si rivela per quello che realmente è: ossia, realtà viva, in qualche modo senziente, specchio dell’uomo, così come l’uomo è specchio di esso.
    Ecco perché tutto questo ha a che fare con l’autoritratto.

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx  Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

caro Steven,
è indubbio che l’elemento visivo della poesia (quello che io chiamo il congegno ottico) sia stato quello che è stato maggiormente trascurato e sacrificato. La poesia italiana ha dapprima (con Pascoli e D’Annunzio) sopravvalutato l’elemento sonoro rispetto a quello visivo, con la conseguenza che le poetiche del decadentismo (come si dice nelle Accademie) hanno coltivato quasi esclusivamente una poesia di stampo lineare sonora. Una mentalità conservatrice che si è mantenuta pervicacemente fino ai giorni nostri a cui ha dato un appoggio notevole la disconoscenza della rivoluzione modernista avvenuta nella poesia europea nel Novecento, la disconoscenza dell’imagismo di Pound, delle idee di Fenollosa, degli Haiku cinesi e giapponesi. Oggi forse sono maturi i tempi per portare la nostra attenzione sugli aspetti visivi della poesia, sul rapporto soggetto oggetto (anche questo inteso sempre in modo meccanicistico e lineare come posti l’uno di fronte all’altro). Da questo punto di vista Laborintus (1956) di Sanguineti non differisce da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, entrambe le operazioni si interessavano esclusivamente degli aspetti fonici, lessemici e lineari della poesia. Le cose non sono cambiate poi sotto l’egemonia dello sperimentalismo post-zanzottiano il quale era incapace di considerare una poesia come un congegno prevalentemente ottico, come un poliedro quadridimensionale. Questa arretratezza generale della poesia italiana del secondo Novecento si manifesta chiaramente oggi che il percorso si è compiuto. La poesia di un Umberto Fiori, come quella di un Cucchi da questo punto di vista non differisce da quella di un Magrelli, sono tutte filiazioni di una impostazione conservatrice dei problemi di poetica, costoro fanno una poesia lineare, non sanno fare altro. E qui la lezione che proviene dalla tua poesia è utilissima per far capire a chi ha orecchie per intendere, che è ormai tempo che la poesia italiana imbocchi la strada di una profonda riforma interna, pena la propria assoluta inessenzialità.

Se leggiamo la prefazione ai Novissimi (1961) di Alfredo Giuliani ci accorgiamo di quanto sia minimo lo scarto di novità impresso alla poesia italiana da questa nuova teorizzazione:

“Non soltanto è arcaico il voler usare un linguaggio contemplativo che pretende di conservare non già il valore e la possibilità della contemplazione, ma la sua reale sintassi; bensì è storicamente posto fuori luogo anche quel linguaggio argomentante che è stato nella lirica italiana una delle grandi invenzioni di Leopardi. Due aspetti delle nostre poesie vorrei far notare particolarmente: una reale “riduzione dell’io” quale produttore di significati e una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera da quella ambizione pseudo-rituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti. (…) Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita contemporanea. Si intravede qui un’indefinita possibilità di superare la spuria antinomia tra il cosiddetto monolinguismo, che degenera nella restaurazione classicistica, e quella “mescolanza degli stili” o plurilinguismo, che finisce in una mescolanza degli stili. (…)”

(g.l.)

  • Scrive Novalis: «La filosofia è propriamente nostalgia (…) è desiderio di sentirsi ovunque a casa propria».
    Davvero strano che Novalis non si sia accorto che aveva appena dato una definizione impareggiabile della «poesia». Da allora, dal Romanticismo è iniziato il problema dello spaesamento, dell’essere fuori-luogo, del sostare straniero in ogni terra e in ogni dimora. L’antica unità di soggetto-oggetto, il mondo omogeneo dell’epos è divenuto irraggiungibile, noi viviamo continuamente in preda ad una scissione. Anche nell’immagine riflessa dallo specchio noi vediamo la nostra scissione, la nostra irriconoscibilità. Queste poesie di Steven Grieco sono, in un certo senso, lontanissime dalla poesia, mettiamo, di un Gezim Hajdari. Per Grieco l’io si è definitivamente perso nel mondo (e non c’è alcuna ermeneutica in grado di restituirgli una pallida parvenza), per Hajdari l’io si è «dissolto» nel suo mondo primordiale, va alla ricerca del «senso» nella boscaglia del mondo primordiale (di qui il mito dell’Africa). Per Grieco la boscaglia del senso è diventata irraggiungibile, se non per istanti, brilla per un attimo e poi scompare per sempre nella oscurità dell’indeterminatezza. Per Grieco non si dà autoritratto se non per attimi, lampeggiamenti, preveggenze… per Hajdari l’autoritratto è dato continuamente nella «erranza» da un popolo all’altro, da un paese all’altro, in una continua ricerca che non diventa mai fuga…
    Per Steven Grieco la ricerca dell’autenticità sfocia nella labirintite (esistenziale, non semantica), nella infermità del tempo e dello spazio; in Hajdari, invece, non si dà mai labirintite (né semantica, né esistenziale, di qui la poetica in Hajdari del’«io disperso» e in Grieco dell’«io nascosto»), né disorientamento del suo tempo-spazio. Forse è questo il motivo che spinge Grieco a cercare nuove forme spazio-temporali nella sua poesia mentre per Hajdari il tempo è comunque secondario rispetto alla vastità dello spazio…
    Forzando un po’ i concetti, direi che nella poesia di Grieco siamo davanti ad una estetica del vuoto e nella poesia di Hajdari invece siamo davanti ad una estetica del pieno. Nel «pieno» l’io di Hajdari ricerca i bordi, la periferia dell’io mediante il giganteggiamento dell’io, il virilismo panico, la femminilizzazione del mondo; nella poesia di Steven Grieco siamo invece nel «vuoto», quella dimensione che per il Tao precede il dualismo di Yng e Yang e che dà vita al cosmo dualistico. Il vuoto è inteso come bordo del Reale, la linea della sua interna traumatica fenditura che consente il rivelarsi della Cosa (Das Ding), dove è soltanto tramite il Vuoto che si può accedere, per attimi e trasalimenti, al Pieno.
    La Cosa assume le sembianze di un vuoto centrale, di uno iato, di un buco, il suo essere una crepa all’interno del significante rende al tempo stesso la Cosa, Das Ding, un vuoto e un pieno, una Cosa e una non-Cosa, evidenziandone il carattere di Estimo. Questa estimità caratterizza la cosa mediante il suo carattere di Entfremdet, di una estraneità che abita al centro dell’io.
    E siamo arrivati al nocciolo delle questioni estetiche della poesia moderna. Al centro di me stesso c’è un vuoto, un buco, un abisso che ingoia tutte le parole, le svuota, le rende meri significanti.. in questo buco nero precipita tutto e tutto si dissolve, e tutto rinasce ma in Altro, in guisa irriconoscibile, Entfremdet
    Forse la poesia è stata l’ultima tra le arti del Novecento a scrollarsi di dosso l’ideologema del realismo in poesia, non ci si è resi conto che ciò che noi percepiamo come realismo in poesia è sempre altra cosa dal realismo della visione della vita quotidiana; perorare intorno ad una poesia realistica è perorare intorno al nulla. Sia Gezim Hajdari che Steven Grieco fanno una poesia che ha l’immagine al suo centro, pur se con sviluppi diversissimi, le immagini, in entrambi questi poeti sono “autofigurative”, celebrano se stesse, non rimandano ad altro (tipo il quotidiano o la vita privata), se non per il tramite di se stesse. La “visione” del poeta non è più la raffigurazione confortante di ciò che avviene al di fuori di noi ma è una celebrazione di ciò che avviene al di dentro delle immagini. Sono immagini autocelebrative. L’immagine diventa la pallida celebrazione di un rito, ciò che resta del «sacro» dopo la scomparsa del «sacro» dalle società dell’Occidente.
    L’immagine ci mette dinanzi a temporalità discordanti. Ogni immagine è portatrice di una propria temporalità, e tutte insieme designano la belligeranza universale meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi arte realistica. Ma l’immagine è soltanto un equivalente surrogato, un taglio del Reale, come scriveva Benjamin l’immagine è una costellazione di presente e passato nell’attimo in cui viene attualizzata nell’ora, nell’adesso, per noi posti nel presente. Per questo noi guardando o leggendo una immagine vediamo di essa alcune cose, ed altre ne vedrà chi verrà dopo di noi in un continuum infinito.
    Una poesia che proceda per immagini forse è quella che oggi può veicolare nel lettore, meglio di altre, quel complesso intellettuale ed emotivo di cui parlava Pound agli inizi del Novecento, quella «dialettica dell’immobilità» sulla quale cogitava Benjamin. In tal senso sono significative le citazioni di alcune «immagini» della poesia di Steven Grieco fatte da Giorgina Busca Gernetti, immagini che danno il senso di una dialettica dell’immobilità.
    Forse soltanto una poesia che proceda per immagini è quella che meglio esemplifica un’Estetica dell’Ombra.
    Ogni immagine celebra la festa della vita, la molteplicità delle cose, ogni immagine è un inno alla vita e dilaziona la morte… ma ogni immagine è anche specchio dell’ombra, vive nel chiaro scuro ché, altrimenti, nella pienezza della luce, diverrebbe invisibile. Ma ogni immagine, di per sé, senza il montaggio, non può nulla, diventa insignificante; è il montaggio, come ci hanno insegnato il cinema e la televisione, che rende significanti le immagini in movimento, o le immagini immobili.
    Nessuna immagine nasce spontaneamente, o interamente composta, ciascuna immagine proviene dalla storia vivente, dall’attimo, dallo Jetzt. La fisiologia della visione ci spinge a leggere le immagini come una composizione coesa, come un tutto, e invece si tratta di una composizione polifonica dove sono le immagini e suggerire la nascita di altre immagini.
    In fin dei conti, l’immagine non è altro che una presenza dell’assenza.

    (g.l.)

  • Immagini naturali nelle poesie di Steven Grieco.
    *
    “nel grigio smisurato del cielo;”
    “un albero sconosciuto / in una nuvola di fiori”;
    “Ah, sì, il susino…”:
    “sulla terra nera”;
    “il susino fiorisce solo di bianco”;
    “quell’altro biancore!;
    *
    “ma sì li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti”.
    ***
    Quasi un haiku:

    “ma sì li vedo,
    gli alberi da frutto
    sono fioriti”

    GBG

  • “Io disperso” e “Io nascosto” nella poesia di Steven Grieco

    “Perché loro, nella loro astuzia
    non posarono gli arnesi fin quando,
    foggiata una seconda realtà di te,
    non ti ebbero disperso.” (“Senza Titolo” 1996)
    ***
    “Guardai ancora
    il paesaggio fece balenare mille sguardi

    allora entrai profondamente in quelle nuvole
    cercando l’archetipo, la forma insita
    quando una voce squillò
    “Niente!”

    e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto”
    (“Tre veglie nel sogno”, 3)

    GBG

     
  • Steven Grieco

    Caro Giorgio, vedo benissimo cosa intendi nel primo dei tuoi due commenti (quello di ieri sera). E’ illuminante infatti rileggere, come hai fatto tu, quel brano tratto dalla Introduzione di Giuliani a “I Novissimi”.
    Mi hai ricordato come nel 1973-74, quando iniziavo a capire bene l’Italiano e a voler scrivere in questa lingua, mi trovai fra le mani “I Novissimi”, che mi veniva presentato come volume in grado di creare una profonda frattura creativa con la poesia italiana così come si era scritta fino ad allora. Già allora tutti noi poeti, di qualsiasi paese o lingua occidentale, sentivamo che era successo qualcosa di irreparabile sul versante culturale; che in Occidente, non solo dopo la 2a Guerra Mondiale e l’Europa divisa in due campi opposti, ma adesso, con l’instaurarsi della società del consumo, la scrittura poetica, e l’arte tutta, non sarebbero mai più state le stesse. “I Novissimi”, quindi, rispondeva sicuramente ad un’esigenza sentita da tutti.
    Leggendo quella introduzione critica, e poi le poesie stesse offerte in quella antologia, trovai spunti indubbiamente interessanti, ma sentii anche un peso invisibile su di me come poeta più giovane, il peso di una ipoteca formulata da poeti più grandi che dicevano “come si deve scrivere poesia”, e che solo questa strada era ideologicamente e letterariamente possibile, pena la totale irrilevanza dei propri scritti. Predicavano una totale decostruzione di ciò che gli artisti della prima metà del Novecento e la storia recente, avevano già in massima parte decostruito.
    Ricordo anche i tanti articoli di Pasolini nel “Corriere della Sera” di allora, in cui teorizzava la morte della poesia e dell’arte in genere, lasciando sottintendere che in campo letterario lui e pochi altri (Moravia, e qualche poeta) erano gli ultimi rappresentanti di una letteratura che appunto andava morendo sotto i colpi della società capitalista e consumista.
    Il guaio è che sulla “morte della poesia” (meglio dire, oggi, su un suo silenzio generazionale o bi-generazionale) Pasolini aveva perfettamente ragione, la sua era una analisi dura e sostanzialmente vera. Ma Pasolini, come tutti gli egocentrici (forse lo siamo spesso anche noi!), non capiva che lui e altri come lui erano parte integrante del problema, che proprio le sue teorizzazioni esclusivistiche, arroganti e individualistiche affrettavano questo processo di decadenza.
    Pasolini non offriva niente alle generazioni di poeti più giovani: avrebbe invece dovuto fare il suo meglio per fornire loro una sorta di road map per attraversare la palude, invece di ripetere “non c’è più niente da fare per il malato”.
    Ed eccoci qui a capire, dolorosamente, quanto in quegli anni il sentiero di una possibile poesia attraverso la palude fosse invece rappresentato da ben altri poeti: gli Herbert, i Vasko Popa, i Transtroemer, i Gennadij Aygi, i Mihalić, i Tarkovskij, perfino qua e là un Bonnefoy, tanto per citarne qualcuno. E lasciatemi aggiungere a questa lista incompleta anche Mark Strand, e Caproni, e perché no il Luzi di “Nel magma” (e un Enzo Mazza, che ha scritto qualche libro di poesia molto bello, ricevuto sempre con il silenzio riservato a chi non apparteneva alla clique.) E poi appunto altri come loro, che avevano però tutti in comune, chi più chi meno, la volontà, la spinta, di esprimersi attraverso l’imagine, il “congegno ottico”, come dici tu, Giorgio.
    Io penso che nelle tue teorizzazioni sulla poesia come portatrice di una sostanza immaginifica “quadri-dimensionale”, ci siano molti spunti, moltissima ispirazione, si intravede un mondo possibile, più entusiasmante di tante ideologie lessemico-fonemiche.
    Certo, gli anni passano, nuove generazioni si affacciano a questo orizzonte. C’è quindi bisogno di andare sempre avanti, studiare, capire cosa una poesia immaginifica possa offrirci oggi. In inglese da sempre si usa l’espressione “imagistic poetry”, che però è espressione ancora piccola, non veicola pienamente questo potenziamento dell’immagine di cui stiamo cercando di parlare qui.
    Sarebbe bello che poeti e critici offrissero anche essi la loro visione critica sulla questione, contraria o meno, polemica anche, ma sempre costruttiva. Insomma, che venga a crearsi una piattaforma di dialogo, e che da questa scaturisca ……… una visione.

     
  • letizia leone

    Steven Grieco appartiene a quella “merce” rara di poeta-filosofo quasi del tutto inesistente in Italia, sebbene noi vantassimo robuste radici dantesche che poco hanno fruttificato!
    Da qui una parola poetica forte, di inesauribile ricchezza che continuamente richiama e sollecita riletture e approfondimenti.
    Una parola che provocata dal visibile immette nell’imprevedibilità della visione, nella sua impermanenza o nel suo riflesso in uno specchio.
    Oltre ai poeti convocati da Grieco e Linguaglossa nelle loro ricche riflessioni, riporto questo testo di Paul Celan nella traduzione di Barnaba Maj:

    Innanzi al tuo volto maturo,
    in solitario cammino fra
    notti che pure trasformano,
    qualcosa venne a fermarsi,
    che già un tempo fu tra noi, non
    toccato da pensieri.

    Mi sembra un ulteriore esempio di predicato che diventa “evento” ed interpella.

    E poi vorrei ricordare un grande maestro novecentesco del “congegno ottico” e della resa iconica del linguaggio: il marginalizzato Giovanni Testori, basti pensare ai suoi lussureggianti “Trionfi” o alle “Suite per Francis Bacon”, la sua ékphrasis, la critica-scrittura sull’arte che approda infine alla serie pittorica delle Crocifissioni…
    Forse l’arte contemporanea ha intravisto quel “mondo possibile” quando estremizza e fa del volto stesso dell’artista il teatro operatorio, (Orlan) offerta di carne alle possibilità del linguaggio e della forma…ma si aprono altri territori dove portare in gita scolastica i minimalisti.

     
    • Steven Grieco

      Bellissima la citazione da Celan, poeta che non ho ricordato nella mia lista, per mia insufficienza. E dire che Celan l’ho praticato per anni e anni e anni, anzi andai al ponte Mirabeau (allora studiavo a Parigi) pochi mesi dopo la sua scomparsa, per capire…
      Grazie a Letizia Leone.
      E certamente mi leggerò Testori. Grazie dei suggerimenti.

       
  • Steven Grieco

    Scusatemi se ho dimenticato ieri di tradurre la citazione di Harold Pinter. Comunque Giorgina Busca Gernetti, commentandola e volgendo il concetto nella sua dimensione spaziale (assoluto colpo di genio!!!), ha reso quella citazione supremamente accessibile, penso, a tutti i lettori.
    Sono rimasto molto colpito dalla profonda somiglianza fra il Tao e gli Upanishads. Infatti, tutti e due hanno portato certi uomini a pensare profondissimamente l’Essere, facendo loro scoprire che al “centro” del proprio essere esiste un vuoto. Non un parmenideo non-essere, non un terrore ontologico, bensì un Vuoto indicibile, foriero di ogni inizio, di ogni creatività, di ogni apparire fenomenologico del mondo.
    E’ per questo che il nichilismo occidentale (che però tanta ricchezza di idee e di ispirazione ha dato al pensiero filosofico e all’arte d’Europa) non può esistere in Asia, almeno non nel senso di “Nulla – Divenire – Ritorno al Nulla”. In Asia la memoria del mondo travalica la vita unica, travalica la Storia, travalica il DNA; ricorda la vita ad ogni cosa, fa germogliare il seme, fa decomporre il cadavere, fa nascere il pensiero umano, fa rotolare il sasso giù per la china. Soprattutto vede in ciò che sembra “non essere”, potenzialità, creatività allo stato primordiale.
    Pervaso come sono da questo senso delle cose, ho cercato di capire in quale specifico modo tutto ciò verte su di me, poeta: e capisco che io lo individuo in quel punto mentale, quell’attimo psichico, in quel territorio grigio del pre-pensiero (che sparisce l’attimo che ci accorgiamo della sua esistenza) – in quel luogo (o tempo?), insomma, che esiste prima che il pensiero “auto-cosciente” inizi a sgorgare, prima che cogitazione diventi ideation, formulazione ideativa, immaginifica, espressione.
    Così, per me, “concetto” è anch’esso “immagine”, ma solo in quel primo momento, quando questo si affaccia alla mente pensante. Se non immagine, sicuramente “figurazione”, il cui etimo affonda nel senso di “toccare”, “palpare”. Chissà, è forse per questo che i cinesi crearono un alfabeto di ideogrammi (concreti ed astratti nel contempo). E’ in questo senso, anche, che l’idea astratta, la concettualizzazione porta con sé emotività, fragilità umana (così come lo fa l’immagine).
    E comunque il grado di astrazione del nostro pensiero è sempre in bilico, se lo stesso etimo di “astratto” viene da ab-trahere, e l’etimo di “concetto” viene da cum-capere. E’ interessante notare come nelle lingue euro-asiatiche (il sanscrito non fa eccezione) le parole più astratte e concettuali comunque affondano in etimi di significato concreto. Vedi “idea” nel dizionario etimologico online.

    idèa: voce connessa a eidèo che ha il senso di “vedere”, non che l’altro di “sapere”, “conoscere”, e ad eideos, “vista”, “intuizione”, “imagine”, dalla stessa radice del lat. vìd-eo, “vedo”.
    E’ il pensiero corrispondente ad un oggetto esteriore, o, come altri definisce, la Imagine d’un oggetto, sulla quale la mente fissandosi e confrontandola con altre imagini forma giudizi e raziocini; d’onde il senso secondario di Tipo, Modello, Primo concepimento d’una opera, Abbozzo.

    Forse non esistono nella lingua degli uomini, parole “astratte” in senso assoluto. Possiamo solo partire da una certa concretezza per arrivare all’astrazione.
    Parlando di nichilismo e assenza di nichilismo, non si pensi che io voglia in qualche modo mettere pensiero asiatico e pensiero occidentale su diversi scalini di una sedicente scala di valori o di una qualche gerarchia. Io individuo soltanto l’eccellenza che in modi talvolta divergenti ciascun sistema ha saputo dare all’uomo.
    Vorrei dire che stiamo qui parlando, soprattutto quando parliamo come poeti e artisti, delle fonti del pensiero ideativo e immaginifico, e si tratta di un fatto comune agli uomini di tutte le civiltà. Per cui vogliamo sì individuare i limiti fra un sistema di pensiero e l’altro, ma vogliamo anche trovare, laddove questo esiste, la comunanza fra i due. Per fare ciò è necessario decostruire in qualche misura la inaccessibile fortezza del pensiero filosofico-psicologico occidentale (nel senso che questa spesso non riesce a dialogare con altri sistemi), e anche decostruire l’immagine troppo fumosa, “intuitiva”, “spiritualeggiante”, “misticheggiante” del pensiero asiatico.
    Io ho constatato che il rigore di un ragionamento filosofico consecutivo e logico appartiene in genere ai sistemi di pensiero di tutta l’area euro-asiatica (l’unica che conosco).

    Finisco dicendo che mi è piaciuto molto questo pezzo nel commento di ieri di Lucia Gaddo Zanovello: “Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.”
    Questa è già una poesia, e molto precisa e tagliente, sulla condizione dell’uomo nel XXI secolo.

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POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco Rathgeb SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno”

hopkins Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.

(È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.
 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Nel 2016 per i tipi di Mimesis Hebenon pubblica Entrò in una perla, e sempre nello stesso anno dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia contemporanea curata da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma,Progetto Cultura)

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. indirizzo email:  protokavi@gmail.com

foto di Steven Grieco

foto di Mani Kaul luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Vorrei ricordare l’acutissima notazione di Ernest Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non è che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti, per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è data dall’immagine (statica e/o dinamica). L’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una Civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.
Per esempio, Steven Grieco, poeta educato alla severità dell’haiku cinese e giapponese, pensa e fa una poesia di immagini in sviluppo, di immagini che scorrono nel tempo. La pittura sarebbe poesim tacentem. E, in apparente contraddizione, la poesia picturam loquentem. La figuralità della sua poesia nasce dentro la dislocazione linguistica delle «cose», ripete mimeticamente la struttura elementare dell’universo, e della nostra vita quotidiana; vive in uno spazio. Leggiamo l’incipit di una sua poesia:

Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

 

 una voce chiarissima risuonò:
 “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
“Ah, sì, il susino…”

Il protagonista della poesia fa l’azione di volgere «le spalle all’orto». È una azione casuale, fortuita. È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e… scopre «il susino». Il centro di gravità della poesia riposa sulla figura del «susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto figurale e linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista, alzando gli occhi, scopre in modo fortuito il «susino».
Una poesia come questa, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto di più concreto si possa immaginare.

In un’altra poesia c’è il personaggio centrale che sta in piedi, «assorto», quando accade un evento insignificante, improvviso; il protagonista scorge la figura di un’altra persona nella «squallida camera d’albergo». Nella poesia di Steven Grieco accadono eventi silenziosi, inappariscenti, inspiegabili, fortuiti che rivelano all’improvviso ciò che è rimasto a lungo nascosto dietro il diaframma dell’apparenza, dietro il velo della fenomenologia della vita quotidiana:

Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Poesie che sono quasi una traduzione dalla analitica esistenziale dell’esserci, che passano da una galleria di «ritratti» ad una di «autoritratti», e viceversa. La verità diventa un «evento» non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade.

Onto Grieco

s.g.r.

 

Appunto critico di Steven Grieco Rathgeb

Sappiamo tutti che in Occidente l’autoritratto ha una lunga storia, soprattutto nella pittura. Talvolta esso è collegato alla condizione detta melancolia, che a sua volta è legata all’incapacità dell’individuo di dare un senso alla propria vita. Basti pensare agli autoritratti di Albrecht Dürer, fra i primi e migliori esempi della rappresentazione di sé come groviglio umano complesso e problematico. Dopo secoli di autoritratti che studiano i mille aspetti della nostra immagine riflessa, da Velazquez a Rembrandt e Goya, arriviamo alla modernità, e ci imbattiamo subito in Van Gogh e nei suoi contemporanei, poi in una Frieda Kahlo, un Egon Schiele. Il processo di problematizzazione dell’autoritratto è andato avanti inesorabile. Ma soprattutto possono interessarci oggi gli autoritratti di artisti come Francis Bacon o Lucien Freud e simili, opere altamente significative della seconda metà del Novecento, che non avrebbero potuto nascere senza le guerre, senza Auschwitz, senza la successiva affermazione della cosiddetta “libertà individuale”, che emancipa il soggetto da ogni morale, regola, o valore sociale o spirituale che sia, ma poi lo costringe ad una incessante auto-affermazione che diventa il suo peggior nemico. Ma anche l’individuo come pedone in una società ridotta a semplice sistema di scambio commerciale e di interscambiabilità di ogni cosa. Mettendo così a nudo l’estrema fragilità e atomizzazione del singolo.

Gli autoritratti di quegli artisti sono carne lacerata, in cui l’artista sembra identificarsi totalmente, soffertamente e forse ciecamente, con il sé ridotto alla pura fisicità. Ma invece in questo senso viene catturata una realtà esistenziale profonda dell’uomo moderno, la sua strana, tormentata condizione che non gli dà modo di elevarsi dalla bruta materialità senza incappare nel suo rovescio speculare, quello della fede religiosa.

Ma vado avanti, perché voglio portare l’accento sul volto umano come realtà inafferrabile e inconoscibile per il suo “possessore”. Nessuno di noi potrà mai vedere il proprio volto se non come immagine riflessa – non potrà mai vederlo “direttamente”, così come vediamo tutte le cose del mondo esterno, compresi i visi dei nostri simili (e come essi vedono noi).

Abbiamo, certamente, un “senso” della nostra presenza psico-fisica nel mondo, del nostro comparire in esso, ma questo non ci dà nessuna garanzia di “oggettività”, se è vero che spesso gli altri scorgono in noi aspetti o realtà a noi ignoti, che talvolta ci possono sembrare perfino folgoranti.

Dice Harold Pinter nel suo discorso Nobel: “When we look into a mirror we think the image that confronts us is accurate. But move a millimetre and the image changes.” Oggi, questa immagine riflessa, caleidoscopica e cangiante, appare anche come immagine fotografica, altra contraffazione del “reale” con cui noi moderni ci dobbiamo volenti o nolenti misurare (perché anch’essa contiene una profonda verità).

E’ inoltre vero che l’oggetto di un “autoritratto” non deve necessariamente essere il nostro volto riflesso, ma può essere cose diverse. Nella tradizione pittorica cinese, il paesaggio era talvolta dal pittore così fortemente prima interiorizzato e poi espresso (“pro-dotto”) da risultare, se non quasi un autoritratto “traslato”, comunque emblema della condizione umana (del pittore e nostra, in quanto spettatori). Con il suo tratto, le sue pennellate, egli interviene direttamente nel divenire del mondo, ne è parte integrante, per cui la contrapposizione soggetto-oggetto si scioglie in una visione allargata non solo della composita ma unica realtà cosmica “natura-uomo”, ma della stessa capacità dell’uomo di, sottilmente, plasmarla.

E dunque, su questa linea di pensiero, che beninteso è soltanto una delle tante (fra cui figura anche la sua negazione), l’autoritratto può pure essere la possibilità di scorgere il sé (o l’altro sé, come dir si voglia) in momenti in cui la mente razionale non è in grado di occupare e ordinare l’intero campo della percezione e intellezione umane. Fatto che suggerisce non soltanto l’estrema mobilità e labilità della condizione umana, ma anche il fatto che la realtà individuale è più grande del singolo individuo (Sigmund Freud insegna), più grande della sua circoscritta e “unica” vita. Un esempio dai miei diari:

 

Casa toscana, 2 maggio 1980. Nella notte mi sono svegliato da un sogno che sembrava andare avanti da molto tempo, immerso com’era nella sua umbratile luce di respiro.

 

Mio fratello e io ci trovavamo in una camera un po’ squallida di una vecchia pensione francese o italiana. Lui stava sdraiato sul letto, rivolto verso di me. Io mi ero appena alzato e guardavo la mia immagine nello specchio sopra il lavandino.

Sentivo una voce (forse di nostra madre) che parlava a lungo del dolore che viviamo; concludendo, ”un giorno il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Nel momento non sentivo dolore, piuttosto uno stordimento. Ma dopo quella frase, ho capito che la stanza, la posizione del fratello sdraiato sul letto, lo specchio: tutto era immerso in un dolore invisibile.

Ho riguardato il viso nello specchio. Ero io, certo, ma non quell’io che sono o penso di essere in un momento qualsiasi della vita d’ogni giorno, bensì un’immagine molto più grande, quasi una totalità di me.

Mio fratello, sul letto, disse qualcosa che non ricordo. Non risposi perché stavo ancora pensando alle parole che la voce aveva pronunciato: una voce purissima, direi, senza tempo, nascente come un’eco in un vuoto di cristallo.

Continuando a studiare il mio volto riflesso, mi sono chiesto: di quale futuro parlava la voce? Sappiamo che il “futuro” è un tempo del tutto ignoto, forse inesistente. Allora capii l’allusione nascosta in quelle parole: la voce evocava piuttosto il senso di “una gioia che verrà”: cosa ben diversa dunque, semplice proiezione del desiderio umano sull’oscurità assoluta di ciò che è inconoscibile.

Era l’uso di quella parola che mi aveva sviato: la gioia “futura” la sentivo adesso, adesso che stavo in piedi davanti allo specchio.

Nel frattempo, dallo stato onirico ero passato quasi senza accorgermene al dormiveglia, nel buio della stanza. Riflettevo che se fosse proprio nel sogno che la nostra immagine può rivelare la reale interezza di ciò che siamo, allora avrei modo di scorgervi, anche solo per un attimo, aspetti di me che per vari motivi non sto vivendo al momento, ma che ciò malgrado esistono altrove nello spazio e nel tempo illimitati del mio essere.

Al momento io mi trovo qui, in questo luogo; e sono dominato dal sentimento del dolore, penso al dolore, mi concepisco unicamente nel dolore. Ma la mia totalità, il volto intero che non vedrò mai nello stato di veglia ma che adesso mi appare in sogno, mostra regioni di me in cui perdurano altre condizioni, fra cui anche quella della gioia.

Allora mi è sembrato che la voce materna non fosse altro che la forma sonora di quello stesso Io che vedevo nello specchio. E che in quella sonorità si mescolassero gioia e dolore.

Mentre rimuginavo queste cose, mio figlio nella sua camera in fondo al corridoietto ha preso a parlare ad alta voce. Sono schizzato fuori dal letto, ho acceso la luce. Nel sonno, mia moglie ha mormorato: “stai tranquillo, il bambino sta solo sognando.” Ho ascoltato: in effetti, cantava brani di una canzoncina imparata all’asilo.

bello Ferdinando Scianna 5

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio

 

Seguono qui alcuni miei tentativi di tanti anni fa di esprimere questi concetti in poesia:

Senza Titolo

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso sul vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.

1990 (dal mio volume di poesie “Maschere d’oro”, edito da Biblioteca cominiana, 1996).

Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.
La sua espressione alludeva a rischi
per te forse insormontabili.
Ma poi lacerandosi l’auto-inganno,
trasparve un’estrema chiarezza:

intorno alle sopracciglia balenavano
preoccupazioni fin troppo umane,
tirando la pelle fra naso e zigomi
scendevano come un’eco
nei mille labirinti del corpo;
dietro la fronte
pensiero si scioglieva e ricomponeva,
dagli occhi una folla di immagini
entrava nel mondo.

E mentre il tuo sguardo più grande
si allontanava dal semplice riflesso,
pezzi dello specchio annerito
cadevano in terra fracassandosi.

(novembre 1988)

Autoritratti

Stanno qua e là: quasi una foto,
gli occhi chiusi come da occhiali scuri.
L’attenzione è rivolta altrove,
e dorme il loro corpo senza esterno.

Gambe, braccia, toraci, sono ciechi.
In essi è l’ignaro che regge le sorti,
aggroviglia vicende e situazioni
tende tranelli e trabocchetti.

Pesanti e insensibili sussultano,
precipitano e sbattono con profonde
lesioni e squassi che gorgheggiano;
ma niente distoglie gli sguardi qua e là.

Niente sgretola l’ignaro che non vede,
aggiogato, indistruttibile:
che continua la sua fuga, si disfa e
si ricrea, di corpo in altro corpo.

E mentre si sfaldano a grandi pezzi
ruzzolando giù per la china,
prestano ascolto ai segnali sottili,
le immagini che sgorgano interne.

Pian piano disintegrandosi, senza
un grido né un gemito. Niente
li sgretola, i visi gettati qua e là:
gli sguardi che dormono incatenati.

(“Tronchi”, febbraio 1987)

.
Senza Titolo

Nessun branco di cervi nella radura.

La concentrazione invisibile
alla sorgente ferma del pensare:
allora, senza nemmeno uno specchio,
vedesti l’immagine di te stesso.

(1986)

.
Tre veglie nel sogno

1.
Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

una voce chiarissima risuonò:
                        “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
                                        “Ah, sì, il susino…”

ma un baleno sulla terra nera mi ricordò
che il susino fiorisce solo di bianco

incredulo
guardai a lungo quell’altro biancore

.
2.
Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Per niente meravigliato, ti guardai:
il tuo volto esprimeva qualche presagio,
la pienezza che non sappiamo reggere.

Un voce risuonò: “per il dolore
di oggi il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Cosa intendeva? L’avvenire, o solo il tempo
presente che sempre aspira all’immensità?

Nel tuo sguardo non vidi quella promessa.
Ma le parole, brancolando nell’aria,
rischiararono la stanza di una debole gioia.

3.
Sorrideva (come per dire: “non te ne sei accorto”):

gli alberi nel giardino…
quattro, cinque sparpagliati qua e là

“ma sì, li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti.”

Guardai ancora
il paesaggio fece balenare mille sguardi

allora entrai profondamente in quelle nuvole
cercando l’archetipo, la forma insita
quando una voce squillò
“Niente!”

e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto

febbraio 1989

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