Bozzetti di cover di una Agenda con poesie della poetry kitchen a cura di Lucio Mayoor Tosi
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Qualche tempo fa, sulla rivista “L’età del ferro”, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un saggio nel quale – replicando a un articolo volgarotto di Javier Cercas contro di lui – riassume molto bene la storia e lo stato della critica (non solo letteraria). Lo riporto qui, perché credo sia utile a chi discute del tema:
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IL MENU’ NON PREVEDE LA CRITICA LETTERARIA
Quando la critica diventò teoria
di Alfonso Berardinelli
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Sono cresciuto in un periodo in cui la critica era quasi tutto. Oggi è quasi niente.
Non rimpiango quei tempi, gli anni cioè fra il 1960 e il 1980. Non li rimpiango perché l’attività critica e la sua tradizione moderna, che ebbe inizio intorno alla metà del Settecento, subì un’improvvisa e accelerata mutazione che sembrò renderla più potente e autorevole, ma ne modificò rapidamente le caratteristiche. Fino a pochi anni prima, benché le diverse correnti critiche fossero influenzate da particolari ideologie, filosofie e scienze, la critica letteraria era rimasta fondamentalmente saggistica. Le idee contavano, ma la forma linguistica e letteraria, lo stile, non ne erano sostanzialmente compromessi. L’idealista Benedetto Croce, il marxista Gyorgy Lukacs, i filologi Leo Spitzer e Erich Auerbach, gli eclettici Walter Benjamin e Edmund Wilson, erano dei veri saggisti, prosatori originali di prim’ordine. Usavano certe idee, applicavano un loro metodo di analisi e restavano fedeli ai loro criteri di valutazione. Eppure il loro stile di pensiero era anche uno stile letterario. Chiunque li avesse letti appena un po’, sarebbe stato in grado di distinguere quasi a orecchio il tono, il ritmo, la qualità della loro prosa. In altri critici, meno fedelmente interessati a filosofie e metodi, come Frank R. Leavis, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, la critica coincideva interamente con il loro personale modo di leggere e di scrivere. Per non parlare dei maggiori e più noti scrittori-critici: T. S. Eliot, Paul Valéry, D. H. Lawrence, Wystan H. Auden, Octavio Paz, e più recentemente John Updike, Gore Vidal, Vargas Llosa, Italo Calvino… La critica non poteva ancora essere confusa con lo studio accademico, né con la teoria o scienza della letteratura.
Fu infatti proprio intorno al 1960 che una lunga tradizione si interruppe. Quasi tutto ciò che era stato scritto in passato, si trattasse di critici romantici o simbolisti o realisti, sembrò all’improvviso approssimativo, impressionistico, poco scientificamente fondato e ormai improponibile e impraticabile. La prima edizione di Theory of Literature di René Wellek e Austin Warren uscì a New York nel 1942: poteva sembrare solo una sintesi didattica, ma poi ci si rese conto che quel libro segnava una svolta. L’attenzione ormai si concentrava, come mai prima, sulla teoria generale della letteratura e sulle metodologie dello studio letterario. Fu così che, fra teoria e metodi, la precedente accezione saggistica e valutativa della critica si indebolì fino a sparire. Letterarietà (o “specifico letterario”), autonomia del Testo, Funzione poetica del linguaggio, prendevano il posto di una più generica, empirica nozione di letteratura e dei suoi generi. Così la teoria e la metodologia svalutavano la lettura come esperienza personale e la critica come attività tipica di singoli critici.
La cosa andò avanti per circa un ventennio, dal 1960 al 1980: e sono proprio quelli gli anni gloriosi e noiosi della Nuova Critica che mi sembra difficile rimpiangere. La teoria della letteratura divorò, ingoiò la letteratura. Ci furono anni in cui sembrava che gli scrittori scrivessero per ubbidire e piacere ai teorici, prevedendo la loro “scientifica” approvazione. Con decenni di ritardo rispetto alla diagnosi di Ortega, si provocò una nuova specie di “disumanizzazione dell’arte”: era una letteratura fatta di testi puri e assoluti, o volutamente mescolati e ibridi, o programmaticamente illeggibili, comunque testi senza autori (era proibito parlarne) e senza lettori (sostituiti da tecnici di laboratorio di analisi).
Tutto questo non è che un prologo. Con il crollo inaspettato e mai spiegato dei due pilastri della Teoria, lo strutturalismo e la semiologia, che partendo dalla linguistica avevano colonizzato soprattutto in Francia tutte le scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia), si creò una situazione diversa per la critica letteraria. Non più “disumanizzata”, ma ormai anche troppo umana e vulnerabile, la critica rinunciò ad agire sotto garanzie teorico-scientifiche. In quanto filologia e storiografia, diventò studio letterario ambientato nelle università: gli insegnamenti di teoria letteraria si trasformarono in Letterature comparate, orientate in senso prevalentemente tematico. In quanto critica vera e propria, tornò a essere più spesso giornalistica e saggistica, praticata soprattutto da scrittori, e prese di nuovo la forma molto empirica, rischiosa e provvisoria della recensione. A questo punto si capì che la critica letteraria, se deve esistere, esiste soltanto perché c’è qualcuno che vuole scriverla e non riesce a farne a meno. Insomma: la critica sono i critici.
Diventa chiaro allora che ogni critico non può più evitare di prendersi le sue responsabilità e di correre i suoi rischi. Ormai da almeno trent’anni la critica non vive più come applicazione di teorie né come strumento di lotta autopromozionale di gruppi “d’avanguardia”. Torna a essere un’impresa personale sempre sospettabile di parzialità e di soggettivismo. Non essendo più mascherata da “scienza del testo letterario”, la sua autorità pubblica è diminuita fino a diventare irrilevante. Da quando ogni critico gioca individualmente la sua partita, non può contare che sulle proprie ragioni e argomentazioni, preferenze, scelte e strategie retoriche. Chiunque abbia la vocazione o passione intellettuale e letteraria della critica si presenta come un caso a sé. In quanto si esprime in forma saggistica, può avere un posto fra i generi letterari; ma non ne ha più fra le professioni culturali istituzionalmente previste.
Anche il legame che esisteva in passato fra letteratura e critica, fra scrittori e critici, si è indebolito. Fare critica non solo dà fastidio (cosa che accadeva anche in passato) ma sembra quasi inconcepibile: poco meno che un abuso, un’intrusione, una pratica intellettuale vagamente perversa, alla quale si dedicano individui animati da sentimenti insondabili o torbidi come frustrazione e gelosia nei confronti di narratori e poeti: autori “creativi”, mentre il critico, sterile com’è, può solo essere un vizioso giudice, un distruttore e denigratore del lavoro altrui.
Per due secoli si è apprezzata la letteratura soprattutto per il suo valore e potenziale critico nei confronti della realtà sociale. Anche i più grandi e originali inventori di forme e di miti (Baudelaire e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, Kafka e Eliot) venivano letti come chiaroveggenti critici sociali. Oggi, invece, alla critica si tende a contrapporre la creatività. Queste due funzioni letterarie e conoscitive vengono così separate. Dunque chi prova a criticare il creatore, che è amico della vita, può essere solo un distruttore, un nemico della vita. Si dimentica quanti siano stati, nella storia di tutte le letterature, i narratori, i poeti, i drammaturghi, critici della vita falsa per amore della vita. Un caso personale?
Trascrivo qui un breve articolo che il narratore Javier Cercas mi ha dedicato recentemente. Credo che sia il chiaro sintomo di un’insofferenza e diffidenza che si sta diffondendo in tutti gli ambienti culturali, ma soprattutto in quelli artistici, letterari e perfino filosofici. Nelle arti visive la critica si limita perlopiù a giustificare l’incomprensibile. I filosofi notoriamente, poi, non discutono tra loro. In sostanza, ci si meraviglia che un critico critichi, invece di limitarsi a spiegare che in un’opera letteraria tutto va esattamente come doveva andare fra intenzioni e risultati, stile e tema. Ma ecco l’articolo:
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«Da un paio d’anni è stato pubblicato in Spagna un libro in cui si aborriva Umberto Eco; si sminuivano Borges, Beckett e Calvino; si ridicolizzava Foster Wallace, e si deprecavano: le “nuove tecnologie” (quindi, generalizzando), l’attuale romanzo francese (analogamente a casaccio), la poesia (totalmente in astratto); nel libro si difendevano alcuni autori, da Dante a Orwell (cosa utile, beninteso), ma se ha attirato l’attenzione è stato per i suoi attacchi: Alfonso Berardinelli contro tutti, ha intitolato questo giornale la sua recensione del libro. Berardinelli è il nome del suo autore; Leggere è un rischio, il suo titolo. Infine: non ho letto a sufficienza Berardinelli per affermare che sia un critico teppistico, ma il fatto è che spesso lo sembra.
Chi è un critico teppistico? Innanzitutto, non bisogna confondere un critico teppistico con un critico provocatorio, quale forse è lo stesso Berardinelli: il critico provocatorio fa venire voglia di leggere, mentre quello teppistico la reprime; il critico provocatorio incita, mentre quello teppistico eccita soltanto. Inutile dire che il critico teppistico non è necessariamente uno scrittore mancato: ci sono critici teppistici che sono scrittori, o che lo sono stati, e qualche volta ottimi; e va da sé che non ci sono critici teppistici solo fra i critici letterari: ce ne sono fra tutti i tipi di critici. Non c’è niente di più facile che distruggere un libro, per buono che sia (anzi, sono i libri migliori ad essere i più vulnerabili, perché si prendono i rischi maggiori), e il critico teppistico sfrutta a fondo questa facilità, giustamente convinto che distruggere un libro significhi mettersene al di sopra e, lodarlo, al di sotto. Di solito il critico teppistico non è stupido, però non è nemmeno così intelligente come crede; in realtà, sarebbe meno stupido se non si credesse così intelligente. Si parla molto della vanità degli autori, ma comparata a quella dei critici teppistici è un nonnulla. Come qualsiasi teppista, il critico teppistico non si distingue per il suo coraggio, perciò non agisce mai da solo: lo fa sempre protetto da un coro di sostenitori. Benché la critica sia una forma di creazione, per il critico teppistico è una forma di distruzione, perché è molto più difficile costruire che distruggere ma è molto più mediaticamente redditizio distruggere che costruire. Il critico teppistico punta alla critica ad hominem, agli attacchi personali, e considera un successo che uno scrittore smetta di scrivere a causa delle sue critiche. Al cr\\el XX secolo, giudicava che quando un critico attacca un libro lo fa “per esibirsi” (“to show off”). Non credo che sia sempre così. La critica è indispensabile, il critico non può mai rinunciare a prendere posizione e a volte deve essere severo. Berardinelli afferma che a volte deve essere iconoclasta; sono d’accordo. Però una cosa è essere un critico iconoclasta, un’altra essere un critico teppista.»
(Javier Cercas, El critico matòn “El Paìs”, 12 luglio 2018)

La reazione di Cercas alla presenza di un critico che critica, chiunque egli sia, è così istintiva da risultare quasi incomprensibile. Ad averlo tanto allarmato da spingerlo a un attacco autodifensivo non è neppure un libro, che evidentemente ha più sfogliato che letto, ma un articolo-intervista che su quel libro è stato pubblicato dal “Paìs” due anni prima. Il fatto che qualcuno possa non avere nessuna stima letteraria per i bestseller “culturalisti” di Umberto Eco, o che osi dire che Borges, Beckett e Calvino sono caratterizzati non solo dalle loro qualità ma anche dai loro limiti (nessuno dei tre, per esempio, ha considerato il romanzo un genere ancora praticabile), è qualcosa che Cercas non riesce ad accettare. Sembra sfuggirgli completamente che nei miei giudizi c’è una polemica non priva di una sua logica e di ragioni storiche: quei tre scrittori sono stati (ognuno a suo modo) idoli di una “poetica postmodernista” che non rappresenta affatto la Postmodernità nel suo insieme, epoca che ha occupato l’intera seconda metà del Novecento e nella quale c’è stato posto per artisti del tutto diversi come Francis Bacon e Jackson Pollock, Jean-Luc Godard e Stanley Kubrick, Solgenitsin e Garcia Marquez. È una poetica elaborata soprattutto in Francia con l’inizio degli anni sessanta: la poetica di un’écriture che negava i generi letterari e postulava come dovere o necessità storica la fusione di narrativa, poesia, autoriflessione teorica. Non è un caso se per circa vent’anni la letteratura francese abbia smesso di produrre romanzi, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti la tradizione del romanzo non si è mai interrotta e ha finito per rendere marginale la narrativa europea. In ogni arte naturalmente gli esperimenti non sono proibiti, tutt’altro: ma credo che si debba distinguere fra gli esperimenti riusciti e quelli falliti.
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Quanto alla mia critica della generale accademizzazione e burocratizzazione della cultura, o dell’attuale espansione incontrollabile e invasiva delle tecnologie, mi meraviglio che Cercas si meravigli. Ci sono fenomeni che riguardano una trasformazione senza precedenti della nostra vita individuale, mentale, sociale e di tutte le forme della nostra cultura. Di questo si discute da tempo e lo prova una ormai vasta e varia bibliografia internazionale.
Partendo da alcune mie valutazioni umoristicamente enfatizzate da un articolo del Pais, Cercas inventa, per liquidarmi, la categoria del critico “teppista”. La inventa e ne perfeziona in negativo la descrizione, mettendolo, mettendomi in ridicolo (è uno che ama solo Dante e Orwell!) e mostrando che si tratta di un fenomeno degenerativo il cui scopo è soltanto demolire i libri migliori e impedire che vengano letti.
Quanto all’osservazione di Auden, secondo cui un critico che attacca un libro lo fa solo per esibirsi (“to show off”), è interessante ma discutibile (quale autore non si esibisce?). Auden però ammirava molto un critico assoluto come Karl Kraus, un vero distruttore satirico ben consapevole di esibirsi, compromettersi, esporsi (“sich preisgeben”), mettendo in gioco e a rischio la propria persona con ognuno dei suoi giudizi.
Purtroppo Cercas non ha voluto correre il rischio di leggere con un po’ d’attenzione il mio Leggere è un rischio, e neppure ha sentito il bisogno di dare un’occhiata a qualcun altro mio testo, prima di elaborare il suo ritratto del “maton”. Nonostante le formule di buona educazione e di rispetto democratico per l’attività critica in generale, mi sembra che Cercas si comporti lui stesso come un critico “teppista” (mi fa fuori con una sola parola: “teppista”). Infine loda la bella idea platonica del critico iconoclasta. Ma quando ne vede uno in azione si spaventa e lo insulta.
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Don’t worry: for criticism makes nothing happen
Mi pare che si stia dimenticando la tradizione della critica, la sua necessità culturale, il suo stile, i suoi maestri moderni e antichi. Se la critica si è spesso mescolata alla satira, all’aforisma aggressivo, è per accrescere la sua efficacia rappresentativa, comunicativa, retorica. E se è vero che il critico saggista è un tipo di scrittore, gli autori di cui parla, pur esistendo nella realtà, sono anche suoi personaggi. Non succede anche nei ritratti pittorici? Il papa Innocenzo X di Velazquez (non a caso rielaborato da Bacon) è un capolavoro di invenzione realistica o contiene soltanto malevole intenzioni deformanti? Quando poi la società peggiora e questo diventa un tema, compaiono i quadri critici, satirici o visionari di Hogarth e Goya.

In realtà la critica è una delle più naturali, ovvie, inevitabili attività della mente umana. Su idiosincrasie, rifiuti, avversioni, intolleranze si è costruita gran parte della letteratura moderna. Giacomo Leopardi non sopportava né il romanticismo nordico né il progressismo liberale. Baudelaire ridicolizzava l’avant-guarde del suo tempo. Kierkegaard detestava Hegel. Tolstoj disprezzava moralmente l’estetismo simbolista. Kraus considerava il giornalismo “magia nera”. Proust attaccò Sainte-Beuve. Eliot giudica Hamlet un’opera fallita e Shelley un poeta per adolescenti. Edmund Wilson riteneva Kafka uno scrittore sopravvalutato, pieno di difetti e di debolezze. Adorno e Horkheimer attaccarono per tutta la vita sia il neopositivismo che l’ontologia metafisica di Heidegger. Fra le molte “strong opinions” di Nabokov c’è la svalutazione di Dostoevskij, considerato artisticamente approssimativo, oltre che sentimentale. Ricordo una descrizione che Giorgio De Chirico fa di una riunione di surrealisti a cui aveva partecipato: li ritrae come un gruppo di fatui poseurs, se non di imbroglioni… Naturalmente si potrebbe continuare a lungo.
La critica non è, non può essere solo questo. Ma non si può sognare una critica sempre sobria, equanime, equilibrata e comprensiva con tutti. Esistono le passioni e le vocazioni critiche. Poi ci sono i professori di letteratura, che sono un’altra cosa. Di solito vedono la critica come un’attività non professionale, o perfino come una forma immorale di libertinismo. Ho saputo recentemente che in un concorso universitario un candidato è stato respinto perché sembrava più un critico che uno studioso. Se fossi in lui, sarei felice di aver meritato una tale condanna.
Credo comunque che la critica sia impotente ed è bene che lo sia. È bene che non rappresenti interessi di gruppo, né riceva autorità da qualche istituzione pubblica. Oso criticare senza remore né censure solo autori di grande o eccessivo successo, perché rappresentano idee e gusti dominanti e perché sono certo di non danneggiarli e di non rovinare la loro carriera.
Come la poesia in un famoso verso di Auden, direi che la critica, in sé stessa, “makes nothing happen”. Non fa succedere niente. La cosa più probabile è che metta in cattiva luce chi la esercita”.
giorgio linguaglossa
14 ottobre 2022 alle 9:17
Discorso di Gesù
Gesù è salito sul palco allo Speaker’s Corner di Hyde Park dove ha tenuto questo discorso:
«Sarete salvi quando apprenderete che Polipharma è la sorella di Polifemo e che il glucosio è il fratello siamese del lattosio.
Ricordatevi che il sole non tramonta mai due volte.
Non dimenticate di chiudere il gas quando uscite di casa.
Chiudete anche il rubinetto centrale dell’erogazione dell’acqua.
Chiudete tutte le finestre.
Spegnete tutti i lampadari.
Date sempre almeno tre mandate alla porta d’ingresso.
Dite sempre buongiorno all’interlocutore.
Dite sempre buonasera all’intercapedine.
Chi si avvicina è perduto.
Chi si allontana anche.
Taci, il nemico ti ascolta.
Ti ascolta anche l’amico, quindi continuate a tacere.
Usate il manubrio quando andate in bicicletta.
Usate il borotalco
Usate il colluttorio Emoform Plakout active, la prima clorexidina dal gusto gradevole.
(Giorgio Linguaglossa)
Mi sono chiesto più volte quale sia il lettore ideale della poetry kitchen. Devo ammettere che non ho una risposta esaustiva. La poetry kitchen privilegia, anzi, richiede un «lettore elementare»? cioè privo di competenze letterarie?, un «lettore senza rappresentazioni»?, oppure un «lettore con rappresentazioni?», con competenze semasiologiche e letterarie?. Vi sono forme di comunicazione a «storicità ridotta», a tradizione ridotta, anzi, ridottissima. Questo è un bene o un male?, oppure la poetry kitchen deve privilegiare un lettore a storicità evoluta?
Domande lapalissiane ma complicate da devolvere in risposte. E così torniamo al punto di partenza.
Il Collasso dell’ordine Simbolico dei nostri anni ultimi ha attinenza con la nascita e lo sviluppo della poetry kitchen? I linguaggi che sono collassati hanno attinenza con i cosiddetti linguaggi letterari e con i linguaggi poetici?
Ho la sensazione che la prassi materialistica della poetry kitchen non abbia bisogno di sondare l’intenzionalità, l’abitrarietà, la comunicatività della specificità linguistica kitchen, ma allo stesso tempo la pratica kitchen ha attinenza anche con il non intenzionale, il non analogico, la non corrispondenza/trasformazione del nesso cose-segni-pensiero.
È stato detto che la pratica kitchen non ha una attinenza nel Politico, ma io penso che sia un giudizio fuorviante: è il Politico che non ha più attinenza con la modalità kitchen o pratica kitchen. Il fatto è che il mondo diventato integralmente kitchen non vuole assolutamente vedersi e riconoscersi allo specchio, preferisce la falsa coscienza delle pratiche assolutorie, preferisce le pratiche linguistiche consolatorie della poiesis tradizionale che non si poneva questi problemi.
La poesia kitchen in realtà è «giubilatoria» nel senso in cui intende la parola Lacan quando la usa per indicare l’attività frenetica del bambino davanti allo specchio che riconosce la sua sembianza come immagine di sé. Così è la poiesis kitchen: è «giubilatoria» in quanto allegria della scoperta che tutti i nomi sono dei bottoni di madreperla o di plastica che possono essere abbottonati o sbottonati.
Cronache da Stoltenburg: Esercitazioni nucleari.
1-Data una città di mille abitanti calcolare quanto plutonio (Pu) occorre per
a) cuocerla alla coque
b) arrostirla
c) disintegrarla
In caso avanzasse un po’ di calore dire se basterebbe per cucinare un quintale di spaghetti o lessare tre tonnellate di patate novelle per la truppa.
2- Calcolare la traiettoria degli elettroni:
possibili risposte:
a) migrano da Sud verso Nord rimanendo
a1)single;
a2)in riga per due;
a3)per famiglie numerose. Giustificare la scelta.
b) continuano a girare come falene intorno a
b1)un nucleo provvisorio meno caldo,
b2) un’ oasi di pace oceanica
b3) la testa di un primo ministro.
c) fanno finta di niente, fischiettando un inno nazionale alla volta.
3-I neutroni, come si sa, sono pipistrelli che volano alla cieca. Inseguono insetti ma talvolta impattano sul territorio. Calcolare la probabilità di incontrare:
a) un neonato
b) un capo di stato
c)il DNA di Yersinia pestis.
Dire inoltre cosa succederebbe in caso di impatto con un altro quintale di plutonio (Pu).
(Francesco Paolo Intini)
Vorrei qui in questa sede levare un brindisi a questa composizione di Francesco Intini, scritta con stile giubilatorio, gestualità giubilatoria, sintassi claudicante, lessico sferzante, composizione derisoria, politicamente ineccepibile, che non fa sconti a nessuno… uno dei punti più alti della poesia in modalità kitchen che consiste nell’avere uno sguardo impassibile, perfino feroce, che oscilla tra giubilo e allegria di naufragi e lutto post-atomico. L’elefante è qui.
Ho letto con molta attenzione questo scritto che sia nella sua chiarezza come nella sua oscurità mostra dei limiti inaccettabili per un poeta… si fanno dei nomi di poeti e di artisti, dimenticandone altri non meno essenziali… ma infine ho deciso di rispondere con dei versi che hanno ANCHE per oggetto il LIBRO. Almeno quella di Alfonso Berardinelli ha il merito di essere una posizione chiara.
Quello del critico è un mestiere miserevole ed eroico nello stesso tempo che non poggia in nessun spazio … comunque, resta un mestiere di cui un poeta o un artista deve tener conto, perchè il critico vede quel che non vede il poeta-artista, e questi vede quel che il critico non è in grado mai di vedere!
grazie e buona lettura… dei versi….
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Il libro… oggi
Il libro aprì le mie mani per segnarmi come un monatto irriverente,
nella mia mente avvilita i misteri della metonimia antica,
e quella malattia che traverso il nome si chiama, se volete, Poesia.
Sorrise il lucido dorsale per mostrarmi la sua identità cartacea.
E mi sfogliò le epoche come uno stregone distilla il suo veleno cortigiano.
Mi accecò come un bardo la parola per cantare la mia corteccia irrazionale.
Il furore dell’infanzia esondò come la bellezza di Rosalia!
Come la beatitudine di Smeralda inquisì lo spasimo della materia!
Per coprire d’oscurità i triviali segreti celebrò le distinzioni delle pagine
con le affilate misture di Salafia, e gli spettri delle sue formule
per vincere d’immortalità i suoi sembianti. Per il trionfo della maschera
il trucco di una pelle si ritirò sdegnoso dietro la propria inconsistenza.
Il libro… oggi, è un cavaliere insopportabile e vincente.
La macchina non ha piedi, né cammini tracciati dai sentieri,
e passi tardi e lenti per stampare i tempi e gli ignobili pensieri.
Come un geniale attore che alle scene assegna gli atti, i gesti, e i fallimenti.
Antonio Sagredo
Roma, 5/12 novembre 2011
Mi scrive un interlocutore che vuole rimanere anonimo:
«la nuova ontologia estetica con le sue ultimi propaggini della poetry kitchen si distingue per la dichiarata volontà degli autori di
di progettare e attuare una poesia in cui emerga, tra i suoi diversi caratteri distintivi, quello esplicito ed evidente, della «non-letteratura», del «mestiere del poeta» che si acquisisce collettivamente in una «officina», in una «bottega» dove non si segue alcuno dei modelli letterari «correnti»: «frammenti» diaristici e autobiografici, il viaggio, il quotidiano, la cronaca, l’attualità etc. tutto ciò ci era stato somministrato nel secondo novecento e in questi ultimi anni in abbondanza. Nella poetry kitchen salta immediatamente agli occhi la portata innovativa, la forte impronta metapoetica e metalinguistica in cui vengono esibiti il «lavoro», la «professione» dell’artigiano, i temi politici ed «eretici» ma come visti da un altro pianeta, un ultrasurrealismo, l’avversione per la nostalgia del Passato, l’affiorare di un «nuovo paradigma» per una poesia senza speranza alcuna, senza futuro alcuno e senza disperazione, quasi che una vivace goliardia sia la estrema risorsa che possa essere data oggi agli uomini dell’Occidente.
Una poesia in cui tutto quello che è al di fuori del soggetto pensante e del soggetto poetante viene filtrato attraverso la non-esperienza (ineffabile) del non-io, del non-poeta-poetante, una poesia che sembra nascere incompleta, in qualche modo neutra, neutrale e che sa di nascere in ogni modo già neutralizzata; paradossalmente, è una poesia non auto referenziale, non specchio di Narciso, non personalistica, infatti nella poetry kitchen le citazioni interne tra gli autori sono numerosissime, come anche gli scambi di persona e di autorialità.
Una poesia che non è neanche anti-poesia, priva di ogni speranza e priva di disperazione, priva di passato e di futuro, e priva anche di utopia o sogno idealistico o idealizzante ma che, nonostante ciò, considera il fare poesia un’azione, un atto che incide sul reale, organizzandolo in termini di parole disproprie e dispropriate: la poesia non è più qualcosa di ineffabile o astratto o personale, ma punta tutto sul dire, sul detto, e sul fare concreto del comportamento linguistico-poetico, una poesia activa e pragmatica, con una sua propria organizzazione» e un suo Progetto, un Modello, un Paradigma, e anche, però, un suo proprio Enigma, una connotazione oscura e anfibologica, enigmatica. Infatti, l’Enigma non può essere sciolto ma solo attraversato e dispropriato.»
il nome dello interlocutore?
«l’Io non è padrone in casa propria»
(Freud, 1917)
A distanza di più di cento anni penso che sia il caso di prenderne atto. La poetry kitchen è una pratica discorsiva che non prevede più l’Io come protagonista plenipotenziario, ma, al massimo lo designa come un ospite, una maschera, un sosia, un avatar, un Altro…
Le perplessità di Alfonso Berardinelli sono più che giustificate, considerato il fatto che il critico prende in considerazione, mi pare, esclusivamente quanto viene proposto dalle grandi case editrici.
A distanza di più di cento anni penso che sia il caso di prenderne atto. La poetry kitchen è una pratica discorsiva che non prevede più l’Io come protagonista plenipotenziario, ma, al massimo lo designa come un ospite, una maschera, un sosia, un avatar, un Altro…
Dò ragione a Linguaglossa: i miei versi sono decine d’anni che lo affermano!!!
Ma per capirci: ho avuro sempre la sensazione che i miei versi non vengano letti se non in modo superficiale.Tutti in accordo a dire che sono difficili a comprendere… ma pochissimi si sono avventurati nell’ignoto!
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Eppure senza presunzione e con la massima consapevolezza: questi versi «cancellano» quasi del tutto la poesia italiana del secolo scorso, (e non è la prima volta che lo dico) e se debbo avventurarmi in uno spazio extraitaliano anche la poesia europea deve fare i conti coi miei versi.
Follia?
Non credo, e a chi mi critica negativamente, un caro addio!
as
Le perplessità di Alfonso Berardinelli sono più che giustificate, considerato il fatto che il critico prende in considerazione, mi pare, esclusivamente quanto viene proposto dalle grandi case editrici.
le “Perplessità” è normale che siano giustificate…
Dagli anni sessanta ad oggi il fare critica ha perso progressivamente autorevolezza e rispettabilità, la critica dei libri di letteratura riesce antipatica e invisa se non tesse le lodi di un libro e di un autore, e infatti oggi è scomparsa del tutto. Poi la critica di poesia è affare di quei pochi in grado di stilare una recensione o lettura di testi, di quei pochi che operano per una propria strategia personale e per un proprio narcisismo ( del tutto accettabile e comprensibile! )… ma insomma, non si tratta di cose serie che non vale la pena di leggere neanche di sguincio e sorseggiando un caffè. L’unica forma accettabile di critica che si può fare oggi è quella di nicchia o di supernicchia, quella che si fa qui nell’Ombra è infatti una critica di nicchia e, in quanto tale, ha valore, valore di nicchia appunto. Ma questo tipo di critica ha valore e senso soltanto se viene fatta per accompagnare una direzione di ricerca.
Come scrive in modo ineccepibile Berardinelli:
“Il menù non prevede la critica letteraria”
“Fare critica non solo dà fastidio (cosa che accadeva anche in passato) ma sembra quasi inconcepibile: poco meno che un abuso, un’intrusione, una pratica intellettuale vagamente perversa”.
Palinodia
Palinodia, dal greco palin (di nuovo) e ode (canto), è un testo nel quale si contraddice ciò che si era affermato poco prima. Per estensione, fare una palinodia è contraddirsi volontariamente, ciò che suppone al principio una intenzione didattica. Si veda nel Fedro di Platone la celebre palinodia di Socrate.
Il modo in cui funziona il pensiero poetico è il modo con il quale si mette in opera, tramite un gioco di proiezione e di rifrazione, un sistema di inferenze, una sorta di auto legittimazione del soggetto che pensa attraverso la giustificazione dell’oggetto che il pensiero cerca di afferrare.
Il pensiero poetico è un viaggio in viaggio. Possiamo dire che ciò che il soggetto trova alla fine di questo viaggio è se stesso, ma un sé che sarebbe sfuggito alle solite categorie sociologiche e psicologiche e che si sarebbe manifestato in ciò: che esso è allo stesso tempo un proprio, un singolare, un intrasmissibile, il che non equivale ad universale.
Lo stupore è una delle fonti della filosofia per i Greci. Crea una sorta di divario, di scarto tra se stessi e se stessi, tra un’emozione e il pensiero. È l’annuncio della dimensione soggettiva nel testo.
Nella mitologia, Tyche (nell’antico greco Τύχη, «fortuna») è la divinità custode della fortuna, della prosperità e del destino di una città o di uno stato. Il suo equivalente romano è Fortuna e il suo equivalente germanico, Salvezza o Heil.
Tyche decide il destino dei mortali, come giocare con una palla, rimbalzando qui e là, simboleggiando l’insicurezza delle sue decisioni. Nessuno dovrebbe quindi vantarsi della propria fortuna o negligenza per ringraziare gli dei per questo, altrimenti questo porta all’intervento di Nemesis.
È associato a Nemesis e Agathodaemon («spirito buono»). Tyché Agatha è la moglie di Agathodaemon. Come altre astrazioni personificate, è anche classificata tra gli Oceanidi nell’inno omerico a Demetra.
Il movimento del testo sarà di avanzare verso questo incontro senza poterlo determinare, prevedere o dire che avrà luogo in un luogo, e il testo troverà la sua verità nel momento in cui svolge un simile incontro. Il telos del testo poetico appare quindi fin dall’inizio altamente problematico, serendipico e auto contraddittorio.
L’effetto immediato di Tyche è quello di uno svanimento del soggetto. La clinica del trauma da questo punto di vista ci è preziosa: il travestimento travisamento del trauma in un altro regime linguistico. È solo in una seconda fase che diventa possibile rientrare in qualcosa, vale a dire in qualcos’altro: è l’articolazione tra la Tyche e l’automaton che reintroduce la possibilità della metafora nel testo.
Il mito per Roland Barthes è uno strumento della ideologia, realizza credenze di cui la doxa è il sistema, nel discorso: il mito è un segno. Il suo significato è un ideologema, il suo significante può essere qualsiasi cosa: «Ogni oggetto nel mondo può passare da un’esistenza chiusa, muta, a uno stadio orale, aperto all’appropriazione della società».1
1 R. Barthes, Mythologies, Seuil, 1957, p. 216 Miti d’oggi, tr. it. di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini, Pratiche, Parma 1987 p. 195.
1
Nessuno è perfetto. Metà di mille. L’ora giusta.
Case popolari.
Anche questa è fatta.
2
Chissà dove nell’universo. Bocconcini cotonati. Aria.
Finestre dell’istituto.
Anche questa.
3
Alfredo de Palchi. Fumarsi una cicogna.
Al mare.
LMT
Commento. Entra in una stanza vuota, entra e pretende. Non sa cosa chiedere ma lo pretende. Così l’oracolo, e così il poeta.
a proposito di critca letteraria o non , non vale la pena di perdere tempo, ma è tempo di visioni, non di favole e….
“… per celebrare la visione critica della mia vana filologia”
Vi prego di elggere queti versi.
Grazie
———————————————————–
derive… dissipazioni…
Non mi tradire, Vita, io t’ho amata per rantoli e ricatti,
per cantare in falsetto le rauche vocali notturne, livide
per i sentieri squillanti delle consonanti ad ogni trivio,
e per ascoltare la campana del mio sangue battuta dal Silenzio!
Sui miei occhi ho sperimentato il cigolio insano dei tuoi atti,
mi è scivolata via, come una pigra morena, la tua accidia
– per celebrare la visione critica della mia vana filologia,
e per un solo accento mi sono impiccato ad una L rovesciata!
Ti strapperei il tramonto dai tuoi occhi invischiati da inquieti
umori,
dalla gorgiera dei miei versi scellerati, dai fasti degli specchi
ammutoliti,
dai ghiaccioli dei tuoi sguardi quel silenzio che ascolta ciò che io
non vedo:
quel verso invisibile e mai sazio che pasteggia dopo la mia morte!
È quel verme invisibile e mai sazio che come un verso pasteggiava
la mia Morte,
e il sinistro braccio di un monco imperatore che dalle armille
ciondolanti una falce
asettica schierava, e al soldato donava una miseria… ma solo il
Poeta
un epitaffio canta sul selciato una risposta, che un necrologio
muto – gli negava!
antonio sagredo
Vermicino, 13 dicembre 2010
E’ Putin che ha creato la Russia o è la Russia che ha creato Putin?
La diagnosi di Berardinelli è ineccepibile e inequivocabile. Scrive il critico romano:
« In quanto critica vera e propria, [è tornata] a essere più spesso giornalistica e saggistica, praticata soprattutto da scrittori, e prese di nuovo la forma molto empirica, rischiosa e provvisoria della recensione. A questo punto si capì che la critica letteraria, se deve esistere, esiste soltanto perché c’è qualcuno che vuole scriverla e non riesce a farne a meno. Insomma: la critica sono i critici.
Diventa chiaro allora che ogni critico non può più evitare di prendersi le sue responsabilità e di correre i suoi rischi. Ormai da almeno trent’anni la critica non vive più come applicazione di teorie né come strumento di lotta autopromozionale di gruppi “d’avanguardia”. Torna a essere un’impresa personale sempre sospettabile di parzialità e di soggettivismo. Non essendo più mascherata da “scienza del testo letterario”, la sua autorità pubblica è diminuita fino a diventare irrilevante.»
È morto il pittore romano Vincenzo Aveta
Ecco una brevissima presentazione della Agenda kitchen.
Interessante come il Linguaglossa, capacissimo critico controcorrente e onnipresente, sia anche capace di inventarsi un “linguaggio” critico di prima qualità…
spesso do fronte a vere e propri termini inventati di sana pianta son restato più che basito “sorpreso” positivamente.. ha di certo coraggio (segno di una libera autononmia espressa non solo nella forma – talvolta baroccheggiante – ma pure nel contenuto che in apparenza sembra astratto, ma che al contrario come un trapano scava fino a rticavarne una sostanza nuova…
… dunque termini “stampelliere”, “blablaismi” “vagologismi” e centinaia di altri talvolta addirittura visionari fanno bene ad una critica che non è affatto spicciola!…
Per l’inventiva, riguardo i termini, ma sua altro e diverso piano, mi ricorda il Maestro Ripellino.
E allora questi termini mi paiono come guanti rovesciati, dove forme e contenuti ne vegono fuori con tutte asprezze e le striature..
as
Kitchen Haiku.
Cavalli parlanti.
Impermanenza e principio di indeterminazione.
Autunno-inverno giapponese.
LMT
…ma l’avran già scritta i futuristi. Ha ragione Sagredo;)
Mi trovo ancora a parlare di Covid, del suo banchettare nella mia casa. Questo virus assomiglia alle truppe di Putin, invasive e contro una nazione che effettua controffensive che non finiscono in una vittoria decisiva. L’analogia finisce qui perché il lavoro mi coinvolge e non vorrei finire sotto minaccia nucleare. Ci sono spettri sul tavolo registrati prima che tutto iniziasse e che cerco di cucire in un senso compiuto. Ascolto in silenzio la loro lingua che assomiglia a quello della cucina. Codici diversi ma entrambi si fanno intendere, basta saper ascoltare e lasciarsi trasportare dalla musica, dal sogno, dall’immaginazione. L’uno è destinato a vivere nel fiume del significato scientifico, l’altro invece può farne a meno, anzi più se ne allontana e meglio vive.
Sarà il mio ultimo lavoro?
Forse. Bisognerà trovare una motivazione, qualcosa che assomigli a una novità. La Critica si chiama “Discussione” e significa che senza novità non c’è nessuno che pubblichi gli esperimenti. Una Recensione sta alla Critica come i Risultati stanno alla Discussione. La cronaca, il fiuto nella scoperta, il piacere di immergersi in un lavoro intenso, la possibilità di leggere direttamente nella natura le leggi che governano le cose, stanno alla pari con il piacere che si prova nell’altra metà del tavolo ? Lorca in due tomi rossi e consumati, Trastromer in copertina bianca lesionata e con i fogli volanti stanno in attesa sul bordo pronti a scattare come Jacobs. Mi guardano, ridono e sembrano sfogliarsi cercando in tutti i modi di sedurmi e tirarmi dalla loro parte . Come sempre non hanno la pazienza di aspettare che si faccia giorno. La notte è un lungo viale su cui fare jogging, facendo a meno di cronometri anzi mescolando i tempi come latte e miele. Correre tutta la notte e farsi una bella doccia la mattina per raccontarsi davanti al cappuccino battendo il tapirulan del PC. Alla critica manca sempre qualcosa per completare il cerchio ma questa notte se ne va in pezzi. Colpita da un mortaio sparato da chissà quale retrovia si è lesionata e non vuol saperne di ragionare. Gli spettri volano per la stanza, bussano ancora per qualche minuto per farsi capire, talvolta urlano la loro versione dei fatti ma poi ritornano a dormire nella cellulosa, comoda e spaziosa, punteggiata qui e là di appunti, dati e ipotesi, idrogeno, carbonio, azoto sparsi qui e là. Gli altri intanto tirano una boccata di sollievo. Sciolgono i muscoli, sanno che tra qualche ora metteranno in moto le bottiglie, la lavastoviglie, il frigo, le posate per ricavarne un linguaggio moderno che assomiglia al vociare di metalmeccanici in sciopero generale che non vuol saperne del sistema e rifugge ogni forma di asservimento e di illusioni. Riprende intanto il lancio di missili nella gola di chi condivide il mio spazio e a far terra bruciata sulla sua pelle. Al mercurio che si lamenta per la fatica risponde il Covid che farà jogging tutta la notte ma non vincerà di sicuro. Ciao
DA UNA RIVOLTELLA SOTTO IL CUSCINO A UN BLACKSHIFT QUASI D’ECLISSI
(Questio: i sogni sono all’altezza delle aspettative?).
Il mare mescola organico al non riciclabile
E Mosè sopravvive nel sargasso di bottiglie
Senza l’azzurro di Paul Newman e il giallo becco di Paperino
Anche una triglia si affida a un tappo
Il paninificio chiude: non è uno studio di inesorabili
Nemmeno la posa dell’algoritmo nel caffè
soltanto la pressione in ascisse
e il tempo che ribolle in ordinata
E dunque c’è un ritorno nell’esofago
la pretesa di giocare a golf delle lancette.
Cosa fa la lingua? Sarà Seichelles o CEP*?
Il VAR dice: Le montagne brillino di dentifricio.
La pistola inghiotte la pallottola.
Tracce di segno meno sullo sparo.
Un ungulato reclama un posticino tra le posate:
Sessanta km di grugniti sulla Roma –L’Aquila.
Ma, scherzi a parte, Fiumicino è dall’altra parte.
E’ strano questo silenzio nel cielo d’ottobre,
lo spazio aereo vietato al cormorano
mentre una capra dice: DADA
ruminando in un verso di Tristan.
*CEP= quartiere San Paolo in Bari
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DI’ QUALCOSA ALRAGAZZO CATTIVO
Covid: presente!
È che ti piace il mercurio
Arrampicarsi nei capillari e sentire il cuore in gola.
Ci deve essere un Dio in ogni uomo ma vallo a pescare
sepolto tra scapole e Rio delle Amazzoni.
Il ghiacciaio sulla circonvallazione
Arrivò a lambire le terrazze e quelle s’incurvarono
Come cipressi coperti di sassi.
Alcuni Neanderthal stamparono monete d’ osso
Ma venne fuori il Cro-Magnon –dove era mutato?-
Con i Rolex attaccati al collo e la passione civetta.
Fu divisoria la capacità di vedere di notte.
A chi aveva detto:- c’è un sentiero che porta al Nord
Agisci da scoiattolo e porta tua moglie, i bimbi sulla coda.
Risposero che i bambini non sono tutti uguali
E nemmeno i roditori. Gli ungulati prolificano senza certificazione CE.
I più hanno una catena respiratoria più lunga dei meno.
Se c’è un posto dove nutrirsi di proteine
non è la mezza luna, ma una taverna con i tavoli sferici.
Attenti a mangiare gli spilli, disossateli prima che rimangano impigliati nel naso.
E non calpestate i cimiteri sacri
grande è la vendetta dell’uomo bianco a tutti noto.
V’inseguirà per gloriarsi di Corvo Rosso.
All’arrivo dei missili scompaiono i glucidi,
risale la febbre dai polmoni.
Cosa farà il pancreas!? Terrà una conferenza stampa sul chi vive:
Non possiamo lasciare le isole di Langerhans in mano ai musi gialli.
Non s’era mai visto un troiano avventurarsi così a Ovest.
Elena guida le truppe d’assalto e mostra il viso. Botox in borraccia.
Ogni tanto beve un secolo passato.
C’è Paride in ascolto oltre il muro con gli auricolari e la passione per le figurine Panini.
Anche Faust è dei nostri. Ha un’auto blu, un sedile ribaltabile. Sa come imbarcare.
Acidoribonucleico: presente!
Tu quoque Brute!
La bile sale in cattedra. A Marcantonio piace il sugo fatto in casa
E la piazza immutata. La marca stampata sulla lattina.
Preferisce il vino rosso allo champagne.
Ospitalo!
(F.P. Intini)
il Covid come la Mafia non esiste.