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Donatella Bisutti,  Antologia, Sciamano (Poesie 1985-2020) Delta 3 edizioni, gennaio 2021, pp. 278 € 20, Dalla storicità forte alla storicità debole di oggi, La poesia italiana tra la fine della prima e l’inizio della seconda Repubblica, Nota ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Prose poetiche da Inganno ottico del 1985

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Di recente, parlando della poesia dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho  indicato le generazioni venute dopo-Fortini come i titolari di una «minore consapevolezza storica e stilistica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Sì, è vero, non sono stato esauriente con quella mia frase, cercherò di spiegarmi: dirò che la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore» in quanto non più saldata alla tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere diseducato nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, afferrare questo nodo ci consente di acquisire consapevolezza storica della «debole storicità» delle generazioni che sono venute dopo il 1994. Ci sono ovviamente anch’io tra coloro che hanno sostato a lungo in una «condizione di debole storicità», anch’io, nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», come tutti, nessuno escluso. Spero così di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di accingersi ad una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale.  Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo possiamo intuire da questa Antologia di Donatella Bisutti che raccoglie le poesie del fulminante esordio della poetessa, Inganno ottico (1985) dal 1985 al 1999 e un folto gruppo di inediti che vanno dal 1985 al 2020, dal titolo, Sciamano.

Lo statuto di fine della poiesis

Lo spazio espressivo di questa itinerario poetico è indicativo di questo statuto di fine della poiesis . La poesia italiana a cavallo tra i due millenni un giorno sarà studiata come una tipica epoca di transizione, e le poche opere che rimarranno verranno ricondotte nella trama di quella crisi auto immunitaria della debole democrazia italiana che ha il suo contrappunto nel letterario nella disgregazione della forma-poesia. Questo risulta chiaro con il senno di poi, a distanza di quattro lustri dagli anni ottanta quando fa la sua comparsa la raccolta d’esordio di Donatella Bisutti, Inganno ottico del 1985. La distanza che intercorre tra l’opera di esordio e la raccolta inedita che compare in questo volume, Sciamano, può essere interpretata come la narrazione della destabilizzazione e  della crisi identitaria dell’io poetico, che fa da contralto alla crisi identitaria della democrazia parlamentare italiana che è sfociata nella seconda repubblica, con la susseguente de-politicizzazione che ne è seguita ed è ancora in corso.

In questi decenni è divenuto sempre più chiaro che il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò ha comportato, per i poeti più vigili, una presa di consapevolezza che quella metafisica non era più utilizzabile ed  ha costretto ad andare al fondo della crisi. È il caso di Donatella Bisutti, sempre oscillante tra il sacro e il profano, tra il poetico e il prosastico, costretta ad adottare un linguaggio sempre più profano e profanato dalla civiltà della sovrapproduzione di merci e dell’informazione militante. La poetessa milanese ha raccolto quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con questi relitti che ha edificato la sua poiesis.

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura di modelli, di costrittività, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi, dismetterlo. La Bisutti comprende questa problematica, la affronta con il pensiero che occorre una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.

Donatella Bisutti

La questione del linguaggio.

Un tempo si pensava che porre la questione del linguaggio fosse una cosa che riguardasse l’attivismo di ciascun autore, che il linguaggio era un corpo, erano dei «materiali» nei quali si poteva entrare a piacimento con gli strumenti chirurgici offerti gratis dalla nuova scolastica che era data dallo sperimentalismo, intendo qui con il termine sperimentalismo anche tantissima parte di ciò che veniva volgarizzato anche dalle posizioni conservatrici: l’orfismo con le sue adiacenze, riflesso speculare di una poiesis  positivizzata. Quando invece il linguaggio è una pre-condizione, una pre-supposizione che postula se stesso. Un paradosso. Una pre-condizione che postula il nulla prima di esso è una condizione nient’affatto raccomandabile, ed anche spiacevole, si resta senza corrimani, punti d’appoggio, riferimenti. È che bisogna entrare in un altro ordine di idee: il fatto che non si può pensare di scrivere poesia se non sulla pre-comprensione della crisi che avvolge il linguaggio e il soggetto del linguaggio, che la crisi del soggetto lirico è la crisi del suo linguaggio, che non c’è un soggetto lirico prima, e poi il suo linguaggio, equivoco nel quale sono caduti molti poeti di questi ultimi decenni.

Come ha scritto Gino Rago in un suo recente intervento sull’Ombra: “La poesia italiana ha perduto, per ragioni storiche, lo spazio espressivo integrale consolidato della forma-poesia tradizionale, ha perduto fiducia nelle credenziali di un «modello» o «canone»”. Precisazione pertinente e inequivocabile. La perdita di esemplarità del «modello» era già evidente nell’opera di esordio della Bisutti, Inganno ottico (1985) che era tutta concentrata sulla crisi dell’io. Alla fine degli anni novanta quella crisi non è più un «inganno ottico» ma si rivelerà in tutta la sua portata: un problema ontologico,  assiologico, di opzione di quale linguaggio adottare e di un nuovo modello di anthropos prima ancora che di poesia. La Bisutti porrà nei testi ultimi di Sciamano (2020) il binomio Silenzio-Assoluto, di qui la sua poesia della interrogazione.

Della Antologia della Bisutti mi vorrei soffermare su alcune prose dell’opera d’esordio che mi sembrano significative della crisi di cui abbiamo discusso. A rileggere queste prose della poetessa milanese comprendiamo ciò che negli anni ottanta non era ancora ben visibile: il linguaggio poetico stava diventando uno spazio polivalente, interscambiabile, sostanzialmente narrativo, e quindi opaco, nell’ambito del quale non si dava più alcuna esperienza epifanica, e che  non restava che narrare la caotica dimensione degli spazi interscambiabili dei linguaggi neutri e neutralizzati, narrare il rumore (o il silenzio) che sta dentro e dietro la parola rumorosa e tra le parole come  il solo modo per iscrivere le tracce  della soggettività nel linguaggio. L’opera d’esordio di Donatella Bisutti è uno dei primissimi reperti di questo processo epocale che poi malauguratamente sfocerà, deteriorandosi, nel minimalismo degli anni ottanta e novanta e nel privatismo esasperato di tanta poesia di oggi. Ecco come si esprime Donatella Bisutti rispondendo ad alcune domande di Michele Bordoni: « fin da bambina, e moltissimi anni prima di scoprire la meravigliosa Trilogia della conoscenza  di Julian Blaga in cui si spiega perché il Mistero deve essere affermato come un dogma, e di leggere e tradurre Edmond Jabès che con il suo sterminato Livre des questions testimonia della necessità di porre domande piuttosto che attendersi risposte, io istintivamente non volevo che venisse svelato il mistero. Sentivo il bisogno, la necessità del mistero. Nei miei giochi infantili, in cui si facevano “magie”, non volevo scoprire che queste magie erano solo trucchi, anche quando sarebbe stato facile farlo, volevo serbare intatta la loro potenzialità fantastica. Non volevo essere furba, volevo essere ingenua. La furbizia non è una caratteristica della Via. Non è nemmeno una scorciatoia. Ulisse nei miei versi è un eroe della domanda, non un maestro dell’inganno.» (Intervista, 2021)

Donatella Bisutti, da Inganno ottico (1985)

Inganno ottico

Se fissi un punto, quello soltanto, e su di esso ti concentri intensamente, ciò che lo circonda, fosse pure un orizzonte sterminato, diventerà semplice cornice di quel punto. Se continui a fissarlo concentrando su di esso tutta la forza del tuo sguardo, insensibilmente anche la cornice intorno sparirà e quel punto solo rimarrà davanti ai tuoi occhi, sempre più luminoso anche se su di esso non cade alcuna luce. Sarai preso allora da amore sempre più intenso per quel punto, che è unico, finché sarai capace di vedere il mondo intero contenuto in esso. Allora sarai pronto per l’ultima ineffabile rivelazione perché il tuo sguardo si farà confuso e non riuscirai più a fissarlo: non vedrai più nulla di nitido davanti a te, non vedrai più nulla.

In coperta (da un quadro di Hopper)

Due uomini in coperta, uno avvolto in un plaid – l’altro chino in avanti, col cannocchiale. Il mare: rigide increspature che si allontanano. L’uomo col cannocchiale potrà scoprire solo un punto di fuga più remoto: non c’è quindi differenza fra lui e l’altro che sdraiato si abbandona a questa sottrazione operata sul mondo circostante. Cosi la realtà e il tempo si allontanano da noi in una corsa senza fine: il loro espandersi è un sottrarsi, mentre la nostra imbarcazione si avvicina alla meta. Continua a leggere

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Questionario a cura di Giancarlo Stoccoro Otto Domande da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi edizioni, 2017 pp. 320 € 18 – con una Risposta alle Domande di Giorgio Linguaglossa con Due poesie di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017) – Una poesia di Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco Rathgeb

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Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile»

Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia   Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica,  si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha  pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Ha frequentato intorno ai vent’anni il circolo letterario comasco Acarya e sue poesie sono presenti nell’antologia Voci e immagini poetiche 3. Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge di poesie Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo. Nel 2015 esce Benché non si sappia entrambi che vivere. Nel 2015 il saggio I registi della mente (Falsopiano), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.

 

Gif scale e donna

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

Otto Domande

1| Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’ “analista selvaggio”, la cui celebre frase «non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti» ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava: «noi non scriviamo, siamo scritti»; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): «si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere»; Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: «ho scritto un solo libro ed era già scritto».

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

2| Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità «si spalanca un abisso che può travolgere» (Andrea Zanzotto).

Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan? Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?

3| «Nei sogni siamo veri poeti» (Ralph Waldo Emerson) ovvero «il poeta lavora» quando dorme (Saint-Pol-Roux). Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza), per il regista russo Andrej Tarkovskij la poesia è «una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà». Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?

4| Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in Un regno di matite, ha scritto: «Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena» e ha ammonito: «Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono».

Lei è d’accordo o ritiene che l’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca “Umdichtung” (che significa una poesia elaborata a partire da un’altra)?

5| Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile». «Un tempo ogni parola era una poesia», «un simbolo felice» (Emerson). «Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo» (Paul Valéry).

Oppure: «Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente» (John Keats).

Come nasce la sua poesia e come si sviluppa?

Quali condizioni la favoriscono?

6| «Ogni pensiero inizia con una poesia» dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa.

La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli «eterni figli» (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: La mente orientale) è più legata alla presenza di pensieri-madre, «strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino» con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione.

Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?

7| Il momento della scrittura o “l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: L’invenzione della poesia), «la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo». E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?

8| C’è un altro aspetto del rapporto tra scrittura e Es che vorrebbe affrontare?

Hanno risposto alle domande: Franco Loi, Milo De Angelis, Maria Grazia Calandrone, Donatella Bisutti, Franca Mancinelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Umberto Piersanti, Laura Liberale, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio, Alessandro Defilippi.

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Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile

Risposta a tutte le Domande di Giorgio Linguaglossa

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione.

Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso. Citando Lacan possiamo affermare che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Appunto, si ricade sempre di nuovo nel problema del linguaggio. Ma, per rispondere alla domanda di Giancarlo Stoccoro, dirò che il rapporto che lega l’essere al linguaggio è il medesimo che collega l’inconscio (che comprende anche l’Es) al linguaggio.* L’inconscio è l’indeterminato, il «campo incontraddittorio» dove tutti i relitti e i residui dei linguaggi accumulati e sedimentati oscillano e vibrano in uno stato di permanente agitazione molecolare. Non ci può essere contraddizione in quel «campo incontraddittorio» se non come collisione di molecole, di atomi, di spezzoni, di frammenti, di rappresentazioni cieche. La «nuova ontologia estetica» attribuisce grandissima importanza a quel «campo incontraddittorio» che è l’inconscio (una sorta di campo gravitazionale biologico), perché lì si trovano, nel profondo, quelle cose che Tranströmer chiama, con una splendida metafora,  «le posate d’argento»:

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

(Tomas Tranströmer)

Ad esempio, nel libro di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (Roma Progetto Cultura, 2017), è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio» (non è più il «soggetto» che è in viaggio), in una traslocazione locomozione senza tregua… È il linguaggio che si sottrae a se stesso in una traslocazione continua… Il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere in costante e continuo rinvio… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, meccanismo che crea e decrea il senso per via della stessa logica differenziale che vede nel meccanismo del rinvio la sua ragion d’essere, si serializza in una molteplicità di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… E il sogno che cos’è se non una fantasmagoria di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… Qui è il linguaggio dell’Es o dell’inconscio che parla.

[Ora i miei morti sono quelli che non ricordo (Mario Gabriele)]

giorgio linguaglossa

19 novembre 2017 alle 10:00

Lucio Mayoor Tosi mi chiama in causa, che devo dire? Dire della mia ammirazione e sorpresa per la poesia di Mario Gabriele? Lui ha fatto propria l’affermazione di Adorno secondo il quale «già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione». La poesia di Mario parte tutta da lì. E poi dalla constatazione che la poesia è altamente tossica e nociva. Direi che è il poeta italiano che sta tutto intero dalla parte della rappresentazione della «falsa coscienza» della società mediatica nella quale siamo immersi a bagnomaria ogni giorno. La sua è una poesia immersa totalmente nella «ontologia della falsa coscienza». Continua a leggere

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