Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Di recente, parlando della poesia dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho indicato le generazioni venute dopo-Fortini come i titolari di una «minore consapevolezza storica e stilistica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Sì, è vero, non sono stato esauriente con quella mia frase, cercherò di spiegarmi: dirò che la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore» in quanto non più saldata alla tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere diseducato nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, afferrare questo nodo ci consente di acquisire consapevolezza storica della «debole storicità» delle generazioni che sono venute dopo il 1994. Ci sono ovviamente anch’io tra coloro che hanno sostato a lungo in una «condizione di debole storicità», anch’io, nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», come tutti, nessuno escluso. Spero così di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio.
Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di accingersi ad una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo possiamo intuire da questa Antologia di Donatella Bisutti che raccoglie le poesie del fulminante esordio della poetessa, Inganno ottico (1985) dal 1985 al 1999 e un folto gruppo di inediti che vanno dal 1985 al 2020, dal titolo, Sciamano.
Lo statuto di fine della poiesis
Lo spazio espressivo di questa itinerario poetico è indicativo di questo statuto di fine della poiesis . La poesia italiana a cavallo tra i due millenni un giorno sarà studiata come una tipica epoca di transizione, e le poche opere che rimarranno verranno ricondotte nella trama di quella crisi auto immunitaria della debole democrazia italiana che ha il suo contrappunto nel letterario nella disgregazione della forma-poesia. Questo risulta chiaro con il senno di poi, a distanza di quattro lustri dagli anni ottanta quando fa la sua comparsa la raccolta d’esordio di Donatella Bisutti, Inganno ottico del 1985. La distanza che intercorre tra l’opera di esordio e la raccolta inedita che compare in questo volume, Sciamano, può essere interpretata come la narrazione della destabilizzazione e della crisi identitaria dell’io poetico, che fa da contralto alla crisi identitaria della democrazia parlamentare italiana che è sfociata nella seconda repubblica, con la susseguente de-politicizzazione che ne è seguita ed è ancora in corso.
In questi decenni è divenuto sempre più chiaro che il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò ha comportato, per i poeti più vigili, una presa di consapevolezza che quella metafisica non era più utilizzabile ed ha costretto ad andare al fondo della crisi. È il caso di Donatella Bisutti, sempre oscillante tra il sacro e il profano, tra il poetico e il prosastico, costretta ad adottare un linguaggio sempre più profano e profanato dalla civiltà della sovrapproduzione di merci e dell’informazione militante. La poetessa milanese ha raccolto quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con questi relitti che ha edificato la sua poiesis.
I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura di modelli, di costrittività, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi, dismetterlo. La Bisutti comprende questa problematica, la affronta con il pensiero che occorre una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.

Donatella Bisutti
La questione del linguaggio.
Un tempo si pensava che porre la questione del linguaggio fosse una cosa che riguardasse l’attivismo di ciascun autore, che il linguaggio era un corpo, erano dei «materiali» nei quali si poteva entrare a piacimento con gli strumenti chirurgici offerti gratis dalla nuova scolastica che era data dallo sperimentalismo, intendo qui con il termine sperimentalismo anche tantissima parte di ciò che veniva volgarizzato anche dalle posizioni conservatrici: l’orfismo con le sue adiacenze, riflesso speculare di una poiesis positivizzata. Quando invece il linguaggio è una pre-condizione, una pre-supposizione che postula se stesso. Un paradosso. Una pre-condizione che postula il nulla prima di esso è una condizione nient’affatto raccomandabile, ed anche spiacevole, si resta senza corrimani, punti d’appoggio, riferimenti. È che bisogna entrare in un altro ordine di idee: il fatto che non si può pensare di scrivere poesia se non sulla pre-comprensione della crisi che avvolge il linguaggio e il soggetto del linguaggio, che la crisi del soggetto lirico è la crisi del suo linguaggio, che non c’è un soggetto lirico prima, e poi il suo linguaggio, equivoco nel quale sono caduti molti poeti di questi ultimi decenni.
Come ha scritto Gino Rago in un suo recente intervento sull’Ombra: “La poesia italiana ha perduto, per ragioni storiche, lo spazio espressivo integrale consolidato della forma-poesia tradizionale, ha perduto fiducia nelle credenziali di un «modello» o «canone»”. Precisazione pertinente e inequivocabile. La perdita di esemplarità del «modello» era già evidente nell’opera di esordio della Bisutti, Inganno ottico (1985) che era tutta concentrata sulla crisi dell’io. Alla fine degli anni novanta quella crisi non è più un «inganno ottico» ma si rivelerà in tutta la sua portata: un problema ontologico, assiologico, di opzione di quale linguaggio adottare e di un nuovo modello di anthropos prima ancora che di poesia. La Bisutti porrà nei testi ultimi di Sciamano (2020) il binomio Silenzio-Assoluto, di qui la sua poesia della interrogazione.
Della Antologia della Bisutti mi vorrei soffermare su alcune prose dell’opera d’esordio che mi sembrano significative della crisi di cui abbiamo discusso. A rileggere queste prose della poetessa milanese comprendiamo ciò che negli anni ottanta non era ancora ben visibile: il linguaggio poetico stava diventando uno spazio polivalente, interscambiabile, sostanzialmente narrativo, e quindi opaco, nell’ambito del quale non si dava più alcuna esperienza epifanica, e che non restava che narrare la caotica dimensione degli spazi interscambiabili dei linguaggi neutri e neutralizzati, narrare il rumore (o il silenzio) che sta dentro e dietro la parola rumorosa e tra le parole come il solo modo per iscrivere le tracce della soggettività nel linguaggio. L’opera d’esordio di Donatella Bisutti è uno dei primissimi reperti di questo processo epocale che poi malauguratamente sfocerà, deteriorandosi, nel minimalismo degli anni ottanta e novanta e nel privatismo esasperato di tanta poesia di oggi. Ecco come si esprime Donatella Bisutti rispondendo ad alcune domande di Michele Bordoni: « fin da bambina, e moltissimi anni prima di scoprire la meravigliosa Trilogia della conoscenza di Julian Blaga in cui si spiega perché il Mistero deve essere affermato come un dogma, e di leggere e tradurre Edmond Jabès che con il suo sterminato Livre des questions testimonia della necessità di porre domande piuttosto che attendersi risposte, io istintivamente non volevo che venisse svelato il mistero. Sentivo il bisogno, la necessità del mistero. Nei miei giochi infantili, in cui si facevano “magie”, non volevo scoprire che queste magie erano solo trucchi, anche quando sarebbe stato facile farlo, volevo serbare intatta la loro potenzialità fantastica. Non volevo essere furba, volevo essere ingenua. La furbizia non è una caratteristica della Via. Non è nemmeno una scorciatoia. Ulisse nei miei versi è un eroe della domanda, non un maestro dell’inganno.» (Intervista, 2021)
Donatella Bisutti, da Inganno ottico (1985)
Inganno ottico
Se fissi un punto, quello soltanto, e su di esso ti concentri intensamente, ciò che lo circonda, fosse pure un orizzonte sterminato, diventerà semplice cornice di quel punto. Se continui a fissarlo concentrando su di esso tutta la forza del tuo sguardo, insensibilmente anche la cornice intorno sparirà e quel punto solo rimarrà davanti ai tuoi occhi, sempre più luminoso anche se su di esso non cade alcuna luce. Sarai preso allora da amore sempre più intenso per quel punto, che è unico, finché sarai capace di vedere il mondo intero contenuto in esso. Allora sarai pronto per l’ultima ineffabile rivelazione perché il tuo sguardo si farà confuso e non riuscirai più a fissarlo: non vedrai più nulla di nitido davanti a te, non vedrai più nulla.
In coperta (da un quadro di Hopper)
Due uomini in coperta, uno avvolto in un plaid – l’altro chino in avanti, col cannocchiale. Il mare: rigide increspature che si allontanano. L’uomo col cannocchiale potrà scoprire solo un punto di fuga più remoto: non c’è quindi differenza fra lui e l’altro che sdraiato si abbandona a questa sottrazione operata sul mondo circostante. Cosi la realtà e il tempo si allontanano da noi in una corsa senza fine: il loro espandersi è un sottrarsi, mentre la nostra imbarcazione si avvicina alla meta.
Il cono
Come la luce scendendo prospetticamente dà profondità alle figure di un quadro così che una tavola piatta ci sembra un tempio con le sue colonne, o una foresta con un breve ponte che, in primo piano, scavalca un corso d’acqua, e la carne della donna sulla riva è bianca e le sue labbra sono rosse e a tutto questo noi diamo il nome di vita, ma sarebbe solo una tavola di legno incrostata di colore e assolutamente piatta se da un punto che dev’essere per forza fuori del quadro non si immaginasse l’origine di quel raggio di luce che nasce da un occhio spento: così la morte è quella zona di buio intorno al quadro che sola gli fa da cornice e, compiendolo, ne scandisce il tempo che altrimenti per la sua ripetitività ininterrotta equivarrebbe a una negazione del tempo, e ne definisce lo spazio che, altrimenti, per la sua infinita identità, si ridurrebbe ad essere solo annullamento dello spazio. È la zona di buio che permette lo sviluppo del cono di luce, il quale si dilata sempre all’indietro contrastando il moto apparente della vita, che sembra muovere da un passato o un presente verso un futuro, e ne mette in evidenza il moto reale, che invece procede incessantemente verso il passato e più avanza verso di esso più l’ampiezza del cono si allarga fino a comprendere contemporaneamente radici e foglie, così noi viviamo procedendo all’indietro a partire dal momento della nostra morte.
I gesti
Più guardiamo da vicino i nostri gesti, più ci accorgiamo che fra un gesto e l’altro c’è uno spazio vuoto. Questo spazio è il vero significato del gesto. Il nostro agire è così una specie di alfabeto morse in cui il significato è condizionato dagli intervalli, come un filo che corre sotto il tessuto e ne emerge di quando in quando per lasciare un breve segno. Più ci accaniamo ad analizzare questi segni, più ci accorgiamo che si tratta solo di intermittenze, pochi frammenti apparentemente leggibili in un linguaggio di cui non conosciamo la chiave, cioè il valore della spaziatura e dell’intervallo, l’intero percorso del filo.
Il punto
Il più breve cammino che conduce ad un punto è quello che dapprima se ne allontana e solo successivamente passa per quel punto, non perché vi sia diretto, ma solo perché si propone di raggiungerne un altro, che è oltre. Il più breve cammino per raggiungere un punto è anche una circonferenza, a patto di immaginarla così minuscola da confondersi con esso, senza tuttavia mai toccarlo.
La sfera
La sfera ci insegna questo: avere
il proprio centro in sé,
nel punto
da cui ogni altro punto
– galassia –
si allontana.
Su una stampa di Chahine
Quando uno si guarda scrivere, è un funambolo sul filo che smette di guardare il filo e si ricorda del vuoto: è in questo momento che viene preso da vertigine e cade. Scrivere è camminare sul vuoto senza fissare il vuoto, dimenticando il rischio mortale della caduta e il filo steso sul nulla. Bisogna dimenticare di essere il funambolo, per voler essere solo il filo e il piede che lo percorre. Aderire al filo con l’interno del piede, le ramificazioni dei nervi della pianta, i muscoli che uncinano le dita, i comandi immediati e inconsapevoli che scorrono come brividi attraverso la pelle. Non cedere alla tentazione di guardare il piede, di domandarsi se e come potrà mantenersi sulla corda, se la corda non sia troppo sottile e quanti metri la dividano dal selciato della piazza. Non soffermarsi a leggere gli O concentrici delle bocche, gli O minuscoli dell’anello maiuscolo della folla in attesa. Gli O vuoti di un anello vuoto, vuoto da cui è pronta a uscire la O del grido.
Passaggio
Lo stesso movimento che ci porta in avanti è quello che, affrettando il passare del tempo, ci conduce alla sua fine. Più ci affanniamo a costruire noi stessi, più aumenta la velocità con cui ci avviciniamo alla nostra morte, come l’acqua del fiume corre sempre più veloce verso il precipizio della cascata. La rapida che tutto trascina, brandelli di abiti, grani di corallo, gambe di tavoli, biglietti di teatro, avanzi di cibo, fucili da caccia, è una trascrizione automatica della nostra esistenza, come fosse sogno. È il cammino dei segni nella vorticosa acqua immobile, in fondo alla quale il salto si spalanca come un’immensa orbita fissa di cui la caduta è il punto d’arrivo e di partenza, lo spezzarsi e l’affondare il culmine del movimento nell’assenza. Quest’assenza finale di segni non è altro in realtà che un’intensificazione nell’emissione dei segni, il corpo trasformandosi da emettitore di segni in segno esso stesso non più soggetto né allo spazio né al tempo, in quanto contemporaneo a se stesso in ogni suo punto, avendo fino a quel momento lo spazio e il tempo lavorato con maggiore o minor frenesia, ma sempre con identica coerenza, alla costruzione di quest’unico segno. La trasformazione di una massa sterminata di individui in segni, a loro volta sottoposti alla schematizzazione successiva dei segni nel ricordo – la lapide, la croce – e poi, il nome –, l’estrema rarefazione di corpi stipati di ammassi di organi continuamente intaccati e incrostati di scorie esterne nelle poche linee chiuse di ossa polverose, liberate da qualsiasi necessità di comunicazione, finalmente sollevate da una condizione strumentale di perpetuo transito: tutto questo riesce a darci solo una pallida intuizione della sconvolgente creatività della morte, cui l’arte per sua suprema aspirazione si avvicina. E in confronto alla quale la vita, con il suo gretto continuo recupero di materiali, con i suoi avveduti processi di trasformazione, con le sue catene di montaggio studiate per ottenere il massimo rendimento, con i suoi cottimi, manca di quella mobilità che permette non la semplice trasformazione, ma il passaggio.
Conoscenza
La conoscenza avviene per semplificazione. Non è un aggiungere, ma un togliere, fino alla perfetta trasparenza. Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo inutile che si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da una parte all’altra della stanza. Anche vivere non è aggiungere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’eccedenza del tempo fino alla perfetta consumazione. Anche in questo caso il pulviscolo inutile viene depositato in un vaso.
Non ci chiede di avanzare
Non è un cammino quello verso la verità: la verità non richiede una progressione dinamica, non ci chiede di avanzare, non è il termine di una strada, un orizzonte che man mano diventa nitido, ma un salto di percezione, una deformazione della stessa cosa. Si può dire “sedia” anche al di fuori delle coordinate tempo-spazio, anche guardando attraverso la sedia, una trasparenza di sedia, facendo del legno opaco della sedia il telaio di una finestra che contiene il mondo, come nella lucida superficie di una mela o di una brocca è contenuto il riflesso di un’intera stanza.
Il rampicante
Il percorso di un rampicante su un muro è apparentemente immotivato e aritmico: esso dà nello stesso tempo l’impressione di una corsa che non trova ostacoli nello spazio e di una rinuncia, di una libertà senza freno e di una meditazione. Il rampicante ha a disposizione tutto lo spazio del muro e può estendersi in qualsiasi direzione. E infatti le sue ramificazioni più ardite puntano diritte verso l’estremità più alta del muro, come per uno slancio improvviso, sopravanzando di molto tutte le altre. Ma ce ne sono alcune che, in contrasto, prendono vie oblique e poi si ripiegano, ritornano addirittura verso il basso. Questa riflessione che il rampicante fa su se stesso e sul suo progredire lungo il muro, gli consente di ricoprire il massimo spazio e di manifestarsi come disegno. Il rampicante, progredendo sul muro, congiunge continuamente il futuro al passato. Anche la mano che, di tutto il corpo umano, è la parte più simile a una pianta, lascia dietro di sé una traccia che congiunge continuamente il futuro al passato e il cui percorso ha slanci e imprevedibili ripiegamenti. Anche questa traccia ricopre il massimo spazio e si manifesta come disegno.
da sx Donatella Bisutti e Giorgio Linguaglossa, Roma Libreria, 2017
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Il moderno va verso la complessificazione dei linguaggi.
Aggiungo una postilla a quanto dicevo in ordine alla «debole storicità» della poesia venuta dopo l’opera postuma di Fortini, Composita solvantur (1994).
A differenza di quanto accadeva nella poesia del novecento, in quella della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il «gioco» stesso del linguaggio, non i giocatori. La poiesis kitchen diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio, il linguaggio viene lasciato libero di accadere, di agire. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.
È nota la diffidenza che Heidegger ha sempre nutrito nei confronti del linguaggio ordinario. Le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.
È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e, con ciò, il gioco della metonimia, della metafora e della estraneazione. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige), implica una nuova e diversa valutazione del linguaggio non inteso soltanto in senso riduttivo come polisemia o per le sue qualità di ambiguità semantica, concetti che ci condurrebbero all’esterno del discorso critico e poietico. Proviamo a pensare il linguaggio come stazione apotropaica, evento, linguaggio come aver luogo e basta. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente pluricentrico, eccentrico, variocentrico, la messa in evidenza della variocentricità non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nella polisemia del discorso poetico della tradizione, ma è ben di più, molto di più.
Il discorso poetico dell’età del kitchen non è un in-differente, un indifferenziato, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare l’incontro con quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è cancellato dal linguaggio ordinario che è interamente sussunto nel dominio dell’opinione e del «si dice».
Heidegger nel 1924 scrisse: «quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare».
Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci accorgiamo che ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. Allora, le parole e le cose ci diventano ad un tempo familiari e irriconoscibili.
1 M. Heidegger, Was heisst Denken, cit., p. 83. («Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi», Che cosa significa pensare II trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 15).
Grazie sempre a voi per questi ottimi invii, e scusate se non rispondo ampiamente…
Mille auguri e complimenti, con un saluto carissimo da
Mariella (Bettarini)
Inganno ottico (1985) di Donatella Bisutti è un testo drammatico, che unisce un lessico sobrio e uno stile basico nel genere della scrittura diaristica. Segna certamente un momento di drammatica spoliazione dell’io lirico giunto alla sua estrema propaggine. Non mi meraviglia che dopo un tale esito la poesia italiana di quegli anni abbia perso il bandolo della matassa, non sia più riuscita a trovare una via di uscita dalla crisi dell’io lirico.
per Francesco Paolo Intini
L’ombra della morte ci insegue ma prima
si veste di merletto e si mette del rossetto
METROPOLIS
È tutto falso.
A cominciare dalla forma per finire alle ipotesi
Hanno costruito un ponte perché assomigliasse ad un alveare
Ma non ci sono riusciti.
Le api volano senza ordine, la regina pazza
Va in televisione a reclamare un giorno di nausea
Dice che è un suo diritto non lavorare per tutti
E vorrebbe abbattere quel tumore sulle stazioni
il nervo teso tra una stanza e l’altra
Ma sono visioni di una vecchia cui hanno tolto i figli
Ed invece del latte succhiano polvere da sparo
Ah esagono ah lacrime ah gruviera di diamante
Ripeto è tutto falso a cominciare dal cielo
Avrebbe un bandolo evidente in ogni nuvola se fosse vero
Invece si muove come larva in una mela
Vorrebbe appartenere ai sogni
ma non ce la fa con l’acciaio delle banche
accetta il pagamento online
la disciplina delle password
E dichiara la malevolenza del cardo
Il fluttuare viola degli occhi sul mare
Ripeto ancora è tutto falso
Un cancro dopo l’altro
un dolore immenso circola nel metrò
appena affacciata a un muro
l’ortica muore per mano della vita.
La morte dell’ombra se la dà a gambe levate,
va verso il letto a godersi il diletto.
La poesia dell’«io penso dunque sono» è un concetto rassicurante
La poesia dell’«io penso dunque sono» e dunque significo e posso significare è una poesia che deriva da un concetto di dialettica tutto sommato rassicurante, perché l’io ha a che fare soltanto con se medesimo, quello che dice l’io è nel campo della verità, non si discute. E non si discute più. Ipse dixit. Su questo punto penso che non ci siano dubbi.
Ad esempio, nella poetry kitchen non siamo più entro il recinto o campo della verità, ci muoviamo in un campo che non conosciamo, e che per di più ci è estraneo, in cui le strade e la mappa del territorio non possono più orientarci… è questa la ragione dei «segni» che la poetry kitchen dissemina sul suo cammino perché essi sono gli unici «segnavia» che ci consentono di riconoscere i luoghi e gli oggetti e, di conseguenza, il soggetto che noi siamo e che ci è sconosciuto.
Tutto sommato, la poesia di un Sandro Penna e di un Bertolucci ci appare «rassicurante», e perfino quella di uno Zanzotto, perfino quella di un Fortini. Perché accade questo fatto? Perché? Perché quel novecento (sperimentale e/o orfico) era in effetti «rassicurante»: di qua i buoni, di là i cattivi, di qua l’Occidente con le sue democrazie, di là l”Orso sovietico con la sua nomenclatura autocratica; di qua l’ontologia regionale lombarda, di là le altre ontologie, quella orfica e quella post-sperimentale, e poi le ontologie regionali: di qua i dialettali, di là i poeti in lingua. Adesso le cose sono un po’ cambiate, non possiamo più contare sulle divisioni, sui modelli, sui canoni. Il romanzo (quei pochi esemplari autentici), e la poesia (quella pochissima poesia di livello) non possono che ereditare e far propria questa mancanza di «rassicurazione», la tradizione non è più quella cosa più o meno rettilinea che si doveva continuare o interrompere, è diventata qualcosa di irriconoscibile e, quindi, qualcosa che non possiamo più riconoscere, né continuare né interrompere.
Questo è il fatto e l’antefatto.
Ha senso, oggi, chiedersi «Che cos’è l’arte?», cercare una definizione che ci dia l’ontos on, l’essenza dell’arte? Pensare una definizione della poiesis è il vero problema, in quanto tale pensiero presuppone già un determinato modo di vedere le cose, un modo di pensare che, storicamente, si è sedimentato come metafisica occidentale. Nel post-moderno la metafisica occidentale è stata decostruita da un pensiero che ne ha messo in crisi la griglia concettuale e ne ha sovvertito gli ordini e le tassonomie, esibendone così l’infondatezza. Ed è su questa infondatezza che dobbiamo fare i conti.
Scrive Alessandro Lattuada in Philosohy kitchen:
«Uno dei temi più dibattuti nel panorama filosofico-politico contemporaneo riguarda la nozione di evento. Diversi autori (Heidegger, Deleuze, Badiou – per citarne solo alcuni) hanno tentato di comprendere in che modo l’ordine dell’essere possa tener conto di ciò che viene definito un evento. Al di là delle differenti teorizzazioni, è possibile definire l’evento come un fenomeno che sconvolge e rivoluziona l’assetto politico, sociale ed etico di un’epoca – esso è l’elemento “traumatico” che modifica sostanzialmente e imprevedibilmente il percorso della storia. Žižek lo interpreta attraverso la categoria psicoanalitica di pulsione:
«Il paradosso è che un evento è un fenomeno retroattivo che si auto-pone. […] Badiou porta l’esempio della Rivoluzione Francese. Non possiamo spiegare questa Rivoluzione semplicemente con le sue condizioni sociali. Fu un atto autonomo che ci permette di leggere le condizioni precedenti come rivoluzionarie. […] C’è una sorta di atto originale di creazione; un certo universo del significato emerge, per così dire, dal nulla. Ora, penso sempre più che questa logica dell’evento sia troppo idealistica. In contrasto, la nozione lacaniana di pulsione cerca di render conto – e forse questo è il problema materialista di fondo – di come un evento possa emergere dall’ordine dell’essere». (Žižek 2004, 166) ».1
1 Philosophy Kitchen #9 — Anno 5 — Settembre 2018 — ISSN: 2385-1945 — Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi p. 41
L’archeologia del futuro: l’uomo senza presente
«L’uomo, senza utopia, precipita nell’inferno di una quotidianità che lo espropria di ogni significato e lo uccide poco a poco; ma non appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce». Così, più di vent’anni fa, il matematico, mediattivista e futurologo prematuramente scomparso nel 2013 Antonio Caronia (1996, p. 58), riassumeva il nesso inscindibile che lega, come in un inquietante nastro di Moebius, le utopie alle distopie.
L’uomo ridotto al quotidiano retrocede al pre-umano. L’ideologia del quotidiano è, oggettivamente, un supporto micidiale del conformismo e dell’omologismo di massa. La poesia del quotidiano è un atto soprattutto di ingenuità oltre che di banalità. La poesia di introspezione dell’io era arrivata al capolinea già nel 1985 quando appare Inganno ottico di Donatella Bisutti. Quell’opera mette un punto e uno stop definitivo al genere lirico della introspezione.
Sono dell’idea che i media digitali (in particolare cinema, videoclip, videogioco, trailer e serialità televisiva) offrano nuove, ed estremamente importanti, possibilità di sviluppo del conglomerato narrazione-medium-teoria che è al centro degli interessi di noi autori di un tipo di poesia all’altezza delle nuove dimensioni digitali. La poetry kitchen adotta dai media digitali la loro struttura fisiologica, materica e cinetica, si tratta di una nuova impostazione del semantico, di ciò che è il semantico della fase attuale della nostra civiltà.
L’eterotopia è lo Spazio-Altro (o contro-spazio) della modernità, luogo di una geografia discontinua, costituita da dislocazioni, da relazioni tra punti, ambiti, linguaggi, luogo di connessioni, di passaggi, di cunicoli sotterranei.1
La fine della metafisica coincide con il libero dispiegamento del Gestell
Gestell, nel lessico di Heidegger (traduzione in italiano come imposizione, dispositivo), nomina infatti l’esito ultimo della storia occidentale (in quanto storia della metafisica), per cui l’orizzonte in cui l’Essere si rende accessibile all’uomo coincide con un mondo ridotto a «fondo», a semplice risorsa, a quantità di energia (o di informazione) plasmata dalla tecnica. Mondo e uomo si ritrovano così dispiegati, disposti, strutturati («destinati», direbbe Heidegger) in funzione della tecnica: lungi dall’essere strumento dell’uomo, essa ne è orizzonte e destino; è l’uomo contemporaneo, pertanto, che concepisce se stesso attraverso il dispiegamento della tecnica, e non il contrario.
Sul concetto di «catastrofe»
Le nuove distopie e narrazioni catastrofiste ci narrano la possibilità di poter assistere a una storia alternativa costruita sul fallimento e la distruzione del modello sociale, economico e politico del mondo capitalistico, distopie che intercettano le pulsioni inconsce del desiderio di porre fine ad una esistenza disumana, pulsioni che non siamo disposti ad ammettere a noi stessi, per via della cattiva coscienza di non poter ammettere la volontà semiconscia ed inconscia dell’autocatastrofe. Che siano le forze illiberali, tiranniche e dittatoriali a decretare la fine della nostra civiltà è un sollievo per la cattiva coscienza infelice, ma l’autocatastrofe in cui siamo ogni giorno impegnati non ci libera dalla scortese ripugnanza che inconsciamente percepiamo per noi stessi, carnefici e vittime ad un tempo designate e destinate. Proiettare la realizzazione del fallimento delle democrazie nell’immaginario della finzione seriale significa rendere la sua realizzazione fantastica, impossibile: se pertiene all’immaginario e al fantastico, allora la catastrofe non potrà mai avvenire qui, nel mondo. E proviamo sollievo per ciò.
Lo stato di conflittualità permanente e la percezione di vivere in una costante guerra civile sono i corollari del nostro odierno modo di vita, la traccia di una via permanentemente sbarrata alle istanze della coscienza che apre le porte delle stanze costipate di armadi e cofani dove nascondiamo gli abiti dismessi della nostra incapacità a vivere.
1 Cfr. M. Foucault (2000). Spazi altri. I luoghi delle eterotopie. A cura di S. Vaccaro. Sesto San Giovanni: Mimesis, pp.23-24: «Le utopie sono spazi privi di un luogo reale, che intrattengono con lo spazio reale della società un rapporto d’analogia diretta o rovesciata […] Ci sono anche […] dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, di utopie effettivamente realizzate nelle quali […] tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili. Questi luoghi […] li denominerò, in opposizione alle utopie, eterotopie; e credo che tra le utopie e […] le eterotopie, vi sia senza dubbio una sorta d’esperienza mista, mediana come potrebbe essere quella dello specchio. Lo specchio, dopotutto, è un’utopia, poiché è un luogo senza luogo. Nello specchio, mi vedo là dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie, io sono là, là dove non sono, una specie d’ombra che mi rimanda la mia stessa visibilità, che mi permette di guardarmi laddove sono assente: utopia dello specchio» .
Prima il Silenzio, poi l’ascolto; e infine la preghiera.
Silenzio-Ascolto-Preghiera, le tre coordinate spirituali della poetica della Bisutti e di una poiesis tesa alle questioni, volta a porre domande, più che a pretendere di dare risposte.
Il resto lo ha scritto icasticamente Giorgio Linguaglossa nella sua nota di lettura.
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Ringrazio Giorgio per le riflessioni stimolanti e arricchenti che ci sottopone continuanemente; mi procurerò sicuramente l’antologia di Donatella Bisutti, poiché mi sembra una testimonianza importante in questo percorso di lettura in controluce della storia poetica italiana del novecento, imperniata non sulle concrezioni dei ranghi, delle gerarchie editoriali e delle élites salottiere, ma sulla ricerca del “flusso profondo sotterraneo” della nostra poesia. Ci sono tanti aspetti determinanti negli spunti che ci pone Giorgio in questo post ed in effetti mi propongo di ritornarvici per approfondire alcuni aspetti, ma uno in particolare mi ha colpito a primo impatto e cioè quello relativo alla conoscenza: mi affascina e riecheggia quella che da sempre è una mia posizione, vale a dire l’idea che il sapere sia frutto di processi di sedimentazione ed estrusione e non di “fusione per pressione”. Personalmente non ho mai condiviso l’interpretazione riduttivistica e frutto di una declinazione in termini di accumulazione capitalistica, che molti presunti scrittori odierni fanno del celebre detto che Plinio il Vecchio attibuisce ad Apelle (“nulla die sine linea”), rielaborata nel puro senso cumulativo (in contrapposizione con lo spirito originario della frase stessa, in cui la “linea” è da intendersi in senso metaforico) di conglomerazione massiccia ed informe di un proprio catalogo poetico, come si trattasse di un catalogo mercelogico che incrementi statisticamente le opportunità di smercio. Personalmente ho sempre prediletto un rapporto più rarefatto con la scrittura che interviene nel mio caso a suggellare momenti emersione di sinergie intellettuali profonde, che giungono tramite vie molteplici (la lettura, l’ascolto, la visione, la pratica di altre arti, nel mio caso – avendo la fortuna di organizzare anche eventi culturali – mediabte il confronto ed il dialogo, attraverso un’escursione in montagna. una giornata con mia figlia) nel momento in cui si opera tale processo estrusivo. Il risultato di questa tendenza all’esercizio compulsivo della scrittura è del resto sotto gli occhi di tutti per la qualità scadente di ciò che mediamente si trova in giro, scritto da gente troppo occupata a scrivere per leggere e confrontarsi con il resto del mondo. Lunga vita all “Ombra”!
Gentile Petronilli
È molto interessante il suo contributo alla pratica del comporre.
Tra le due modalità tecnologiche che lei espone (la pressofusione e l’estrusione), mi permetto di presentarne una terza di cui faccio pratica estenuata: la correzione.
Un mio componimento nasce chi sa come, ma da questo punto mi è continuamente davanti, c’è da aggiungere, da tagliare, da spostare, da variare la punteggiatura, da spaziare con righe bianche o da raggrumare, e spesse volte, da buttare.
Non dico che sia un’attività quotidiana, ma di sicuro è abbastanza frequente, talvolta mi basta un minuto per trovare quello che cercavo da mesi, più spesso non lo trovo mai, ma non per questo mi rassegno ad abbandonare la ricerca.
E tutto questo mi costa fatica, una gran fatica nervosa. Non so se capita ad altri.
Buongiorno Guido: innanzitutto mi complimento per le sue poesie, che trovo straordinarie per la freschezza e la capacità di decomposizione e ri-plasmazione della materia poetica, da vero artigiano della parola. Adoro quest’approccio proprio per la fabrilità che a mio avviso ho sempre rintracciato nel lavoro di composizione della parola e non a caso mi piace adoperare metaforicamente la terminologia tecnica tratta dalle attività di grande artigianato di cui è ricca l’Italia ed ero certo che da ottimo conoscitore di processi tecnici quale so Lei essere, ne avrebbe colto la pertinenza (peraltro le mie esperienze al riguardo sono maturate proprio in contesti aziendali della Sua zona), come mi dimostra anche la corretta identificazione del processo di pressofusione. Venendo alla Sua osservazione, non solo La condivido appieno, ma essendo da sempre un perfezionista e non per auto-compiacimento, ma proprio per il valore sacrale che attibuisco alla parola – per cui non mi piace proporre i miei testi, se non dopo averli dissezionati in ogni millimetro quadro del suo tessuto, sono un fautore convinto della necessità del lavoro di “limatura”: è un tormento, credo inevitabile, per chiunque come noi, abbia questo rapporto di rispetto verso la parola, di cui poi la parola poetica rappresenta la massima espressione. Il mio intervento riguardava soprattutto la parte “a monte”, cioè l’idea che ho sempre avuto, che l’individuazione di una valida traccia da esprimere in poesia, si sedimenti lentamente attraverso un lavoro per sottrazione di materia e non per aggiunta (mi piace in questo senso adoperare l’immagine dello scultore, non a caso la tipologia di artista più “materico”) e tale lavoro ritengo che debba necessariamente nutrirsi di molta osservazione, nel senso pù ampio del termine, che non è possibile a mio avviso, se non attraverso un continuo lavoro di confronto tra il proprio inetriore ed il proprio esteriore. Trovo che rispetto a questa mia visione, l’idea di impiegare tutto il tempo per la ricerca della definizione di tali flussi esclusivamente sulla parola scritta, sia inappropriato come preocedimento, poiché ci preclude altre forme di riflessione che almeno per me (da sempre dotato di una personalità versatile) costituiscono una forma di arricchimento ed assolutamente non di detrimento rispetto alla scrittura. Ferma restando la soggettività assoluta dei procedimenti, il mio bersaglio era rivolto soprattutto alla tendenza all’accumulazione di stampo proto-capitalistico che caratterizza l’atteggiamento di molti poeti o pseudo-tali odierni, concentrati sul proprio ego, sino al paradosso di precludersi una vera riflessione intellettuale adeguata, pur di sfornare continuamente scritti, spesso proprio per quest’approccio, di dubbio valore. Un caro saluto.
Ripropongo un mio commento recente:
16 aprile 2021 alle 12:56
Guy Debord ha coniato la definizione «società dello spettacolo» nell’omonimo libro del 1967 per indicare lo stadio ultimo e la mutazione qualitativa del capitalismo. Lo “spettacolo”, per Debord, “non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”; esso descrive l’ultimo stadio dell’accumulazione capitalistica, che vive una sorta di “transustanziazione” del capitale in una forma immateriale, in una fantasmagoria spettacolare. Il capitale giunto ad un alto grado di accumulazione diventa immagine, fantasmagoria, irrealtà.
Il Grande Spettacolo della poetry kitchen è composto dal fuoco d’artificio delle icone e degli avatar nella cornice di una spazialità plurale. Il mondo è diventato un gigantesco equivoco, un bisticcio plurale dove le parole sono diventate entità modulari e componibili, una serie infinita di icone mobili: poesia puzzle dove il linguaggio continua a vivere in una sfera separata in cui non rivela e non comunica più nulla. La spettacolarizzazione dello spettacolo in fantasmagoria e fuoco d’artificio iconico e linguistico indica senza equivoci lo sradicamento dell’uomo di oggi dalla sua dimora nella lingua, ammicca, accenna a qualcosa come una possibilità: che oltre di essa non sia possibile andare; giunto al suo stadio ultimo di insignificazione non è più possibile neanche la parodia o la auto parodia. Ciò che resta è il pastiche e il patchwork, simulazione e dissimulazione. Forse proprio questo sradicamento estremo può rendere possibile per la prima volta fare esperienza del linguaggio, del linguaggio che comunica se stesso, della stessa essenza linguistica dell’homo sapiens dell’epoca cibernetica, del fatto stesso che in qualche modo si continui a parlare.
Gli animali non parlano. Nei sottotitoli dei telegiornali avanzano parole Noe, finalmente.
La gazza Tancredi inizia a sbattere le ali. Uno spettacolo invariato a luci spente.
La ribalta è un autostrada senza uscita, il sole a mezzogiorno in un tunnel, questo con il canguro Galup
fino all’alba e a sera tardi quando la rivoluzione delle venti è terminata e la terra ride con Carlos il lombrico.
Nella parte terminale il pistillo sulla farfalla lascia un brand riconoscibile, il sorriso idiota.
16 ottobre 2017 alle 9:11
Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo scrive:
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».
Così, avviene in grandissima parte della poesia italiana di oggi e di ieri, che si situa il «privato» in primo piano, ma il «privato» è uno «pseudo-luogo», da esso non può zampillare nemmeno una stilla di «poesia» ma soltanto «chiacchiera» posticcia e insignificante se non viene trattato mediante il «non-privato», se non viene sottoposto alla cura dimagrante delle categorie retoriche. Chiediamoci: quanta poesia del secondo Novecento corrisponde alla «chiacchiera» di cui stiamo discorrendo? Il «privato» è per eccellenza il luogo della menzogna deputata alla ipocrisia del sociale, e non potrebbe essere diversamente. L’opera d’arte compie un prodigio: converte l’inautenticità del «privato» nella rappresentazione del significativo, dell’autenticamente alienato. E ciò facendo diventa essa stessa inautenticamente «autentica».
Si potrebbe scrivere un saggio così titolato: Dalla de-fondamentalizzazione del soggetto alla retorizzazione del soggetto alla nuova ontologia estetica, che mettesse in evidenza il percorso, ovvero, la parabola entro la quale si può inscrivere la poesia italiana dagli anni settanta del novecento fino ad oggi. Io, per parte ma, mi sforzo di indicare, in ogni occasione, l’indirizzo di questa parabola. È qui che si nasconde il problema, credo.
La Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici la questione-poesia, nasce in questi ultimissimi anni ad opera di alcuni poeti, nasce da una presa di distanza dalla precedente ontologia della immediatezza espressiva che ha caratterizzato la poesia italiana dei decenni appena trascorsi: di qui il minimalismo ed il post-minimalismo… Ma questo è un altro discorso…
L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia della parola poetica. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua o sussiegosa che rifugge da una petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.
Oggi in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
Da dove viene l’inconscio?
«Con concetti come quello di traccia o di differenza, si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa essere il padrone… La differenza è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto, incessantemente differito nel movimento del discorso rispetto a quello originario. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti, in una rete che lo dispiega e nello stesso tempo lo allontana. Cosa dirà dunque Lacan, se non precisamente che “il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante”, espressione celebre che consacra il fossato e la scissione del soggetto da se stesso… Come potrà il soggetto intercalarsi fra l’”io” del suo discorso e se-stesso? Come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo porta-voce e non autore in senso teologico, Lacan fa del soggetto questa presenza assente, questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più che segno, con una significanza che si libera dal rapporto fisso al significato, e si sposta al suo luogo. Dovrà così sorgere l’ermeneutica. Il soggetto, altro da sé, avanzerà solo mascherato, stabilendo la sua identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. La sua identità si realizza a questo prezzo, e questo prezzo è dunque l’inconscio. In tal modo risulta rimosso lo scarto retorico rispetto a sé, retorico perché l’identità non è più che figurata e non letterale».1]
1] Michel Meyer, Problematologia. Pratiche editrice, 1991, p. 183
Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
11 ottobre alle 11.52
103 anni sono trascorsi dalla stesura del 3° Manifesto dell’acmeismo di Osip Mandel’štam e la nuova ontologia estetica. 100 anni è un tragitto lunghissimo durante i quali abbiamo visto il mondo sconvolto da tre guerre mondiali, crisi economiche, crollo di imperi, dissoluzione del cristianesimo, la nascita dei fondamentalismi, l’islamizzazione dell’Occidente… la Cina quale potenza mondiale… La nascita della consapevolezza del quadri dimensionalismo è un «portato» di questi avvenimenti macro storici… senza il concetto del quadri dimensionalismo ogni ricerca artistica rischia di rimanere sul piano del kitsch, sul piano di una figuratività di stampo mimetico del reale… Oggi, e ce lo ha insegnato Tranströmer con quei due versi mirabili che hanno cambiato la poesia europea:
le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero…
oggi, dicevo, non si dà poesia moderna senza la consapevolezza della quadri dimensionalità dell’inconscio e che tutta la poesia di qualità di questi ultimi decenni è soltanto quella che pesca in queste abissali profondità…
Secondo l’algebra lacaniana, il fantasma risponde alla formula: $ a, e cioè: soggetto barrato in rapporto all’oggetto a. Sta di fatto che il fantasma, ed è questo l’orizzonte della nostra analisi, accoglie in una sola scena le due facce del linguaggio, la tensione tra dicibile e indicibile.
Il soggetto barrato è nel linguaggio lacaniano il soggetto tout court, il soggetto così come si profila all’interno dell’articolazione del desiderio.
L’oggetto a, è invece il nome che Lacan destina alla Cosa in quanto all’oggetto perduto; rappresenta, ma sarebbe il caso di dire “indica”, allude, al venir meno stesso, alla mancanza costituente e al vuoto lasciato dall’intervento del significante ai danni della Cosa, in ragione cioè dell’azione letale del significante.
Ecco così che il fantasma annuncia una sorta di schibboleth del linguaggio, la scena in cui la rappresentazione viene a toccare la mancanza, «la beanza aperta dall’effetto dei significanti».
È così che il fantasma introduce nel discorso filosofico la questione dell’inconsistenza del soggetto parlante; denuncia che parlare è mancare. Ed è questa è la tesi di fondo della «nuova ontologia estetica».
Scrive Freud nella Metapsicologia (1915):
«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali».
Quindi, sono i «residui» «delle percezioni verbali» quelli che consentono che una parte dell’inconscio e delle sue rappresentazioni «cieche» affiorino alla superficie del sistema Conscio. Non c’è dubbio che la forma-poesia sia la più idonea a recepire i messaggi «ciechi» provenienti dall’inconscio organizzandoli entro le strutture del discorso pubblico qual è una tradizione letteraria, una petizione di poetica, e, in fin dei conti, una soggettività creatrice.
A questo punto sorge la domanda: che cos’è l’Io?.
Nella seconda topica Freud affronta il problema e si chiede se l’io sia veramente solo un nucleo facente parte del sistema percezione-coscienza:
«Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale Io era legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti i processi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita la censura onirica».
La forma-poesia sarebbe una modalità o modo, la più elitaria, che consente la trascrizione di un contenuto inconscio che dormiva nelle abissali profondità («le posate d’argento» transtromeriane) in un linguaggio evoluto al massimo grado di sublimazione e sofisticazione culturale qual è la poesia.
La forma-poesia è un progetto come orizzonte di eventi e di intenzioni che si realizza anche contro e a lato delle aspirazioni e intenzioni umane; il progetto è una apertura dinanzi alla insondabile profondità del linguaggio. Ciò che sta oltre il linguaggio non appartiene al linguaggio. Voglio dire che l’essere che sta al di là del linguaggio è quello stesso essere che condivide il linguaggio al suo interno, per ciò non mi convince l’idea di una separazione netta e assoluta tre essere e linguaggio, la separazione c’è, ma c’è anche un «ponte» che unisce le due sponde (lontanissime), ma questo ponte non potrà essere mai percorso…
La questione è di cruciale importanza. Qual è il rapporto tra essere e linguaggio? Lacan direbbe «nessuno», per Heidegger, basterebbe citare la celebre affermazione secondo cui «il linguaggio è la dimora dell’essere». Eppure, il senso dell’essere, nonostante l’Heidegger della Khere ne abbia accentuato la vicinanza, non passa per il linguaggio, non si definisce per un rapporto interno al linguaggio, bensì per la sua condizione di «trascendens puro e semplice».2] Anzi, sottoposto aristotelicamente alla logica della predicazione, l’essere è quella parola il cui senso resta indeterminato e che non trova collocazione all’interno del linguaggio se non come suo presupposto. Non dunque l’essere presuppone il linguaggio ma il linguaggio presuppone se stesso.
L’essere cioè, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non rientra nel linguaggio nel quale sembra tuttavia anche risiedere.
Derrida può dire: «Lo si consideri come essenza o esistenza […] lo si consideri come copula o posizione di esistenza […], l’essere dell’essente non appartiene al campo della predicazione, perché è già implicato in ogni predicazione in generale e la rende possibile».3]
«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di tale dimora» (Lettera sull’«umanismo»)
La poesia è «il linguaggio originario di un popolo», «il fondamento che regge la storia» (Heidegger)
Se ci soffermiamo sul nesso tra essere e linguaggio, l’ontologia si converte in ermeneutica, esercizio di interpretazione di enunciati verbali. Ma se l’interpretazione rappresenta l’unica via per pensare l’essere — e se la storia dei significati di una parola coincide con la storia dell’essere — ne segue che l’etimologia diventa una componente necessaria dell’ontologia. Di qui l’etimologismo heideggeriano, che si sviluppa di preferenza su parole greche e tedesche. L’ermeneutica dell’ascolto di Heidegger si configura come un’ermeneutica «in cammino», che scorge, nell’essere, un appello inesauribile e mai totalmente esplicitabile. Infatti, il filosofo pensa l’interpretazione come Erörterung, come un esercizio di «localizzazione», cioè di porre in un luogo il discorso che, invece di limitarsi a prendere atto di ciò che è stato detto, colloca il detto nel «luogo» (Ort) che gli è proprio, ossia in quel non-detto che lo nutre e lo regge.
1] Freud, L’io e l’es (1920) trad it. Boringhieri, Torino, 1976 p. 476
2] M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tubingen 1927; trad. it. a cura di Volpi F., Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1990 (2005), p. 69.
3] J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 172
14 ottobre 2017 alle 10:19
Sulla «dialettica della maggiore età»
«… per tale età Kant postulava l’emancipazione dalla signoria dell’infanzia e ciò vale sia per la ragione sia per l’arte. La storia dell’arte moderna è una storia di sforzi per raggiungere la maggiore età, cioè la repulsione organizzata, e che aumenta tramandandosi, per l’elemento infantile dell’arte. Naturalmente l’arte diventa infantile solo in base al metro di una razionalità di pragmatica ristrettezza. Non minore però è la ribellione dell’arte nei confronti di questa specie di razionalità stessa, la quale nella relazione fini-mezzi dimentica i fini e feticizza i mezzi a fini. Tale irrazionalità nascosta nel principio di ragione viene smascherata dalla irrazionalità confessata, e nello stesso tempo razionale nei suoi procedimenti, che è quella dell’arte. tale irrazionalità porta alla luce quel che di infantile permane nell’ideale dell’adulto. Minorità conseguente da maggiore età è il prototipo del gioco»
[…]
«già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione- e la società borghese non glielo perdonerà mai del tutto – e allora deve rendersi utile mediante una specie di valore d’uso, modellato sul piacere dei sensi. Così si falsifica, allo stesso modo di come si falsifica l’arte (…) il piacere sensoriale conserva qualcosa di infantile quando si presenta nell’arte in maniera letterale, intatta. Solo nel ricordo e nella nostalgia, non come copiato e come effetto immediato, esso viene assorbito dall’arte (…)»
[…]
«All’ontologia della falsa coscienza appartengono anche quegli aspetti nei quali la borghesia, che tanto liberò lo spirito quanto lo prese alla cavezza, accetta e gode, dello spirito, proprio ciò in cui non riesce completamente a credere – maligna anche contro se stessa. Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con la sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta».
«L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata»1].
Questo per dire che tutta la tua poesia resta impigliata nel groviglio inestricabile di irrazionalità-razionalità, infantilismo/età adulta, esempio fecondo di quella «dialettica della maggiore età» intravista ed analizzata dal filosofo tedesco nella sua Teoria estetica.
T.W. Adorno Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, trad. it di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, 1975 pp. 21 e segg.
E’ proprio per il fatto che oggi scrivono tutti delle stelle che io mi permetto di ridiscendere sulla Terra. Ricordo le mie prime poesie sulle stelle, “A Sono ho visto più stelle che in un planetario”, oppure “Canestra di Stelle”, parliamo all’incirca del 2011. Le date sono importanti.
Però mi fa piacere che tutti si siano messi a scrivere sulle stelle, che si siano trasferiti sulle stelle; per conto mio sulla terra mi trovo a lottare con le tessere sanitarie e il codice fiscale, per cui se sei residente in una regione e domiciliato in un’altra, diventa macchinoso entrare nei siti governativi- PosteItaliane e prenotare il vaccino per una over ottanta disabile. Incredibile ma vero, ma voglio sdrammatizzare, pensavo di trascorrere un anno della mia vita in Calabria, nel paese di origine e passare la pandemia come Manzoni, Verga di Storia di una Capinera, invece sono al fronte come Gadda, solo che Gadda era interventista, io no, io non amo la guerra.
Tant’è, appena mi libero del problema, farò un viaggio anche io nelle stelle, andrò su Rigel, salutando Betelguese.
Caro Talia,
“E’ proprio per il fatto che oggi scrivono tutti delle stelle che io mi permetto di ridiscendere sulla Terra.”…. ma è stato sempre così, non oggi, ma dalle origini , dunque non alle stelle , ma…
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alla Terra
Portavo la mia immagine per la città come un retrattile vessillo.
Il tripudio dei miei passi scavava un sentiero di note austere,
non avevo con me una reliquia da barattare con la santità
e nemmeno una nicchia mi era data per un conforto da accattone.
Gli svolazzi della mia mente erano capricci di stiletti spuntati a malincuore,
da una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
– era la Terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza che compresi
dai miei occhi, e come Dio fosse a sua volta una creazione della Rota,
l’emorragia di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo
pinto da epitaffi e necrologi…
…per fissare, in una partitura, gli anelli della Storia.
antonio sagredo
Roma,
all’ora terza del 29 gennaio 2014
e 3/01
Un inglese, un tedesco e un italiano
stavano davanti alla tivù
quando l’inglese riconobbe il tedesco ed il tedesco l’italiano. Le scarpe filmarono
un giacimento di clochard che sotto le pentole conservavano le parafrasi della Thatcher.
Nell’immediato si delineavano le creature di Ernst
che Raiz cantava a squarciagola.
Er arbeiter schwer,
bringt Geräusche hervor*
I mostri , però, si compilavano alla pagina sette, sete, sette, del televideo. Non li riconobbe nessuno.
Al mercato del rione Tamburi si scontrarono per l’ennesima volta commercianti vs acquirenti.
Le mascherine del Taranto andarono a ruba.
Le signorine macchiate.*
*verso di Hans Magnus Enzensberger,
da L’uomo nuovo, Chiosco.
*verso di Totò e Peppino
Grazie OMBRA.
sulla instant poetry
caro Mauro,
anche tu ti sei convertito alla instant poetry?
La spaziatura e la temporeggiatura mostrano il divenire spazio del tempo e il divenire tempo dello spazio; è sempre il non-percepito, il non-presente, il non-conscio che viene alla scrittura, la spaziatura e la temporeggiatura marcano il tempo morto della presenza, vale a dire che la morte abita la scrittura della spaziatura. La scrittura istantanea è differimento della presenza, continuo rinvio, continue deviazioni, silenzio, rumore, tracciarsi di pause, vuoti, interruzioni, abreazioni.
La scrittura della instant poetry è sismografia della instabilità della (nella) immobilità.
Il tempo del fantasma è l’istante, l’istantanea presenza del presente.
Il fantasma è lì dove il linguaggio manca. Pone un termine, un alt alle possibilità del linguaggio, perché è il presupposto affinché vi sia linguaggio.
Il silenzio è dentro il linguaggio, è contenuto nel linguaggio come suo presupposto, come confine «interno». Se non vi fosse il silenzio, non sorgerebbe neanche il linguaggio. Quindi, il linguaggio non deriva dal silenzio come una nota vulgata vorrebbe farci credere, ma è all’interno del linguaggio. Di conseguenza il «fantasma» sarebbe nient’altro che il commissario rappresentante del silenzio all’interno del linguaggio. La sentinella del linguaggio.
Il libro La poesia salva la vita di Donatella Bisutti fu un mio preziosi strumento di lavoro,lo feci conoscere ai miei studenti impegnati nei nostri laboratori poetici, grazie a Donatella Bisutti per quello che ha fatto per fare conoscere e appassionare i giovani alla poesia.
… sarà ma io non credo ai poeti ingenui… penso che un poeta sappia su quale fondamento posa la pro’pria poesia… non occorre essere un filosofo per avere una idea su questa problematica. Certo è che Inganno ottico di Donatella Bisutti rientra in una visione di poetica storicamente determinata, negli anni ottanta era un punto avanzato, un punto di osservazione privilegiato da cui poter osservare il mondo, oggi non più, non è più un punto avanzato, quel periscopio non può essere di alcuna utilità. Si può capire bene l’orizzonte una volta che siano passati alcuni decenni dalla pubblicazione di un’opera. Quello che si fa oggi non può essere compreso se non passeranno almeno quattro o cinque decenni. Mi spiace per la poetry kitchen ma i tempi per la comprensione della poesia sono lunghi, e forse non basteranno neanche cinque o sei decenni per avere la giusta distanza per il periscopio. Ammesso e non concesso che interessi a qualcuno questa questione oziosa.
COME UN FISHER FISSATO AL BURRO
Non si tratta di richiamare Michelangelo
E fargli togliere il dito (perché consumato, perché senza fortuna, etc…)
Insomma mettere un robot nel Cinquecento
E mangiare con Berlinguer alla festa dell’Unità.
L’osso è un buon sassofono, vitamina B12 che fa rumore
Nelle notti di televisione traversate dal mal di fegato.
Se la volta si affolla di afgani
Ci vuole un satellite per terminare l’opera.
Un pennello di zolfo sull’orecchio.
Molto fumo che va a sigari.
Se l’algoritmo sale e scende perfettamente
chiodo fisso del chiaroscuro è come gira nei particolari.
…
Rispetta i parametri, compila il modulo del rientro sano e salvo
La buona regola del samaritano dice: Warhol, il Mercato
Collins fa un giro e poi ritorna.
…
La notazione del vuoto in calce. Accetta, non accetta.
Cominciare dal grido e segnare con una croce.
Le razze nuotano nell’aria.
L’orchidea in prima fila a godersi lo spettacolo.
Un usignolo alla vetrina di porcellane.
Ogni ape ha un posto su una fragola.
Se ritorna dopo un po’ è un cucchiaio che gli fa spazio.
Panna fresca della Luna con i bollini della raccolta.
Bisogna rileggere le istruzioni
Ritornare allo schema senza perdere la pazienza.
Un’ape chiude il forno. Non funziona con i poeti
Cucinano spaghetti a 220 gradi e ci finiscono dentro.
…
La lavatrice festeggia maggio.
Due o tre primi e saremo fuori oblò.
Ruggiscono i parametri, blandiscono la giraffa.
Uno senza criniera gli ruba il sigaro dalla bocca.
Cigola lo sportello con la cerniera in mano.
Burro che afferra un fischer nel suo sesso.
(Francesco Paolo Intini)
Bellissima Francesco!