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Steven Grieco-Rathgeb, AGORAFILIA, UTAMAKURA, DISFANIE, tre parole-concetto per una nuova poesia

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Steven Grieco-Rathgeb

Questo testo ha origine da una conferenza che ho fatto a Trieste nel marzo 2019, al Festival di Poesia di Duino. La mia intenzione allora era riassumere nello spazio di un’ora una mia visione della poesia contemporanea, basandomi sulla esperienza che ho in questo campo. Avevo scelto i tre termini che in massima parte definiscono il mio specifico percorso poetico: “agorafilia”, “utamakura”, “disfanie”. La poesia oggi è bloccata nel passato, dove sembra dilaniarsi in una crisi profonda. Qui io propongo questi tre termini, così come sorgono dall’insieme dei miei dettagli biografici, esperienza personale, studio e riflessione sulle cose, come contributo a quello che alcuni di noi qui in Grecia, e in India, e anche in Italia, stiamo cercando di fare: creare una rinnovata idea di poesia nel 21° secolo.

Il testo, completo di tutte e tre le parti, è già in procinto di traduzione in lingua Hindi per la pubblicazione in “Samas”, una delle maggiori riviste letterarie indiane. In accordo con Giorgio Linguaglossa, direttore dell’Ombra delle Parole, la seconda parte e la terza –  “Utamakura” e “Disfanie” – seguiranno su questa rivista online nelle prossime settimane. Per tuttavia conservarne l’interezza per il lettore, qui sotto definisco brevemente i tre termini:

  1. Agorafilia: uso questo termine per indicare la specifica creatività immaginifica che la mente umana possiede. Aspetti di questa sono ciò che l’artista poi sviluppa e mette a frutto nelle sue opere. Si dice infatti che l’arte eserciti un effetto “illuminante” tanto sul creatore quanto sul fruitore. Ma io vedo l’arte più come mezzo per veicolare ad entrambi l’effettiva coscienza di questo processo mentale. Leggere un racconto di Chekhov significa essere in grado di immaginare ciò che l’autore ha immaginato. È una capacità che dovrà tornare ad essere riconosciuta oggi, come in passato, una delle fondamentali funzioni della poesia.
  2.  Utamakura: “guanciale della poesia”. Figura retorica usata nel waka Heian. È costituita da una parola semplice o composta che fornisce il primo impulso allo sviluppo della poesia. Il fatto che l’utamakura spesso evochi un luogo geografico, lo rende emblematico anche della mia esperienza vissuta, fatta di innumerevoli viaggi ed effimeri approdi. 
  3. Disfanie: nel contesto della società distopica in cui viviamo oggi, indica intravedere la ‘realtà’, ‘l’Oggi incandescente’, come attraverso una fessura nella monolitica facciata del nostro mondo ipermoderno; coglierne il deforme, l’obliquo, ma anche il sublime. Nella scrittura, disfanie è il वहन, il vahana o veicolo, la modalità retorica che permette all’autore di esprimere questo particolarissimo sentire. Lo scritto disfanico invita il lettore a trapassare il velo delle apparenze, per scorgere il mondo libero da filtri ideologici, idealizzazioni, travestimenti e inganni.
Steven Grieco Rathgeb profilo grigio

Steven Grieco Rathgeb

PARTE PRIMA – AGORAFILIA.

Curiosamente, ho scoperto di recente che in psicologia, l’agorafilia rientra nel complesso di illusioni e delusioni che l’adolescente affronta nel processo lento e spesso doloroso di diventare adulto. (Vedi Adolescenza. II parte – Il Giornale della Società di Psicologia Clinica Medica. http://www.psicoclinica.it/adolescenza-ii-parte.html) A proposito, agorafilia indica anche il “desiderio ossessivo di praticare sesso all’aperto” (!!), cosa che io in persona non ho mai avvertito, almeno non come ossessione…

Seppure la consapevolezza di un’agorafilia creativo-artistica fosse in me già dall’adolescenza, il senso di essa forte e inequivocabile iniziai ad averlo quando intorno ai 25 anni insegnavo inglese agli studenti universitari italiani, e quando poco più tardi diventai traduttore “a vita”, chiuso lunghe ore dentro una stanza per guadagnare il minimo per assicurarmi una magra sopravvivenza. The mind’s eye (“l’occhio della mente”) mi portava a vedere proiettati negli spazi impalpabili davanti a me luoghi che ben conoscevo e amavo, ma che in quel momento erano lontani: Istanbul, Venezia, la Grecia, i paesaggi balcanici, gli sterminati campi di girasoli della Serbia, un racconto di Chekhov. Provavo gioia che questo succedesse a me, e un senso di meraviglia di essere pienamente vivo.

A 35-38 anni, mi era abbastanza chiaro che la funzione di compensazione psicologica di questo insondabile pozzo di potenzialità ideative era solo la sua avara e scontatissima superficie; che le immagini non erano propriamente luoghi, quanto stati d’animo – meglio ancora, stati d’essere. Allora per la prima volta usai la parola agorafilia per esprimere questa esperienza complessa: come avviene che nel dormiveglia, quando siamo concentrati su qualcosa di specifico o rivolti altrove, appaia il cosiddetto sogno a occhi aperti. Le sue immagini traspaiono impalpabili, sovrapposte sul cielo, sul muro di fronte, su un altro paesaggio. E scompaiono non appena ne prendiamo coscienza; ma anche dopo essere “tornati in noi”, di esse serbiamo l’inafferrabile scia d’immagine, immagine che possiede tutte le qualità di un organismo vivente.

Per parafrasare C.G. Jung, gli archetipi insediati nella psiche umana si manifestano a noi vestendosi nel mondo fenomenico delle forme e dei colori con cui hanno particolari affinità.

Come negare che la “immaginazione” abbracci innumerevoli aspetti contrastanti della percezione che noi abbiamo delle cose, e incida molto più fortemente sulle nostre azioni e decisioni di quanto non vorremmo ammettere? L’illogicità del tracciare linee troppo nette fra essa e quella realtà che pensiamo di controllare, diventa evidente quando un sentimento di panico fa crollare le borse del mondo, o un uomo assennato prende una decisione che un giorno rimpiangerà amaramente. L’unico modo per uscire da questo paradosso è di spostare sempre la colpa verso “qualcos’altro”. Sarà invece che la potenza immaginifica della mente è sempre presente nel nostro stato di veglia, dove influisce sulle altre attività mentali e volta dopo volta piega la nostra volontà.

Agorafilia è una esperienza che apre la vastità dello sguardo, diventa l’immagine desiderata, lo specchio chiarissimo di verità interiori, per quanto rimosse. Ecco forse perché i luoghi di Grecia o Turchia o Sicilia che avevo visto con i miei occhi, mi davano un curioso senso di impavidità. E Galata Sarayi a Istanbul esprimeva allora per me tutta la complessità dell’essere umano. I luoghi noti e ignoti, il loro aspetto duro e attraente, rispecchiavano la mia personale situazione, e allo stesso tempo ci cozzavano, invitandomi ad affinare i miei strumenti espressivi perché potessi raggiungere il massimo nella vita e nella poesia.

E mi aiutavano anche a intravedere le frontiere del desiderio, i varchi oltre i quali niente può essere. Perché l’esperienza agorafiliaca mi insegnava in quale modo l’irreale si trovi profondamente insediato nel reale. Presto la mattina una macchina vuota con i finestrini abbassati, ferma sul ciglio della strada in riva al mare, può scatenare un intero cosmo in cui l’immagine delle montagne, delle colline e dei promontori tutto intorno si mescola con i ricordi e le immagini mentali di quella stessa immagine, moltiplicata in miriadi di immagini. È questo cosmico interfacciarsi tra pensiero, memoria e ciò che vediamo nell’attimo, che noi chiamiamo “esser desti in questo mondo”.

Dunque molta arte e molto pensiero poetico nascono da simili processi immaginifici. La scrittura poetica ha sempre significato prendere le parole di uso quotidiano e trasporle su un piano più concentrato, di maggiore densità, dove il loro senso è libero di vibrare quasi interamente su registri in genere (ma non sempre!) ignoti a forme di scrittura quali la commerciale o la scientifica.

Una mia poesia inglese del 2005 (da Entrò in una perla, Mimesis, Collana Hebenon, 2016):

Nel silenzio la poesia parlò,
le sue parole liane
di un rampicante
che sale
ogni nodo più alto
verso un aprirsi
una trama sorpresa
in altro esistere,
un altro punto del mondo
che ruota
pronto ad offrire i suoi significati,
un’altra faccia gelosa sul prisma
scintillante.

E cosa cercavi di afferrare
che risuonava là dentro
ma non era al suo interno

era solo il fervere d’immagini,
i suoi riflessi incancellabili

Anche la scienza si trova a dover usare usare immagini per veicolare le sue scoperte, non soltanto al pubblico inesperto, ma agli scienziati stessi, pena la incomunicazione e la non-inclusione in un discorrere più vasto sulle cose. Cito una frase da un testo sulla materia scura, e la dinamica delle collisioni galattiche: “le stelle sono meno interessate dal trascinamento dei gas, poiché occupano molto meno spazio, dunque passano vicine le une alle altre, scivolando come navi nella notte.” (http://chandra.harvard.edu)

Quando ero adolescente suonavo il Flamenco sulla chitarra. Le scale, i ritmi e lo specifico modo di impostare le diverse modalità di questa musica sono rigorosamente dettate dalla tradizione, che nel contempo lascia molto spazio alla improvvisazione. Quando io allungavo o accorciavo le note pur sempre rispettando il tempo, intuivo come ciascuna nota contenesse una capacità illimitata di contrazione o estensione temporale – in tutte le direzioni, su giù, lateralmente. Lo smisurato e davvero un po’ misterioso potenziale di questo mondo matematico di suono, ordinato-inordinato, lo potevi toccare con mano. Me ne stupii: ecco, dunque come l’immaginazione e la realtà esterna continuamente s’intessono. Anni dopo scoprii Giacinto Scelsi, che in molte sue opere esplora l’universo sonoro dentro la nota singola.

Steven Grieco Rathgeb profilo color

Steven Grieco Rathgeb

Possiamo infatti chiederci se tutte le attività umane non siano in effetti forme diverse del nostro “pensare il mondo”. Il modo specifico in cui il musicista elabora la nota all’interno del suo preciso spazio temporale, sarebbe allora dare “senso”, “significato”.

Tutto ciò che vivevo da uomo molto giovane, mi mormorava questo; e come la visione deterministica delle cose ne uscisse con le ossa rotte. Eppure da ogni lato mi si diceva il mondo ideale ma non idealizzato essere l’esatto opposto della realtà. (Ahimè, conoscevo Bergson solo di nome.) Poteva la mia consapevolezza aiutarmi a vincere questa assurdità, mi chiedevo? No, a giudicare da una poesia italiana che scrissi nel 1974:

ON HIS 25th BIRTHDAY

Andandomene così,
nell’improvviso riquadro di fari accesi
balza un’ombra al muro notturno
urta nella luce
cercando di ricordare

di notte un cane travolto sull’autostrada
come attraversare, le auto che corrono,
come riprendere il corpo
portarlo in salvo fra i fasci luminosi

(un cespuglio emetteva brani di musica
l’uccello trasognato s’involò,
da tempo la tristezza pungente
era scesa sulla lastra del ricordo)

come attraversare le grandi corsie
le auto che passano volando
il cane scomparso nel buio balzando su
più morto nelle ruote di luce

Salgono schegge, frantumi di poesia
un’immagine si apre franando
inghiottita dalla lente che concentra –

Raccolti in un punto gli anni spersi,
funi sgomitolate, ruotanti al cielo stellato

Torno brevemente alla trasmutazione di realtà vissuta in espressione poetica, per dare un’idea della estrema precisione che questo processo richiede al poeta, citando un brano da “Il viaggio”, Parte Prima, sempre del 1975:

L’erba ondeggia nello stagno
il faro preme al mare annuvolato
un radar scruta il cielo:
vuoti i segni, il peso scompare,
su per gli occhi inerti sale il pensiero
fra i violenti rami intrecciati,
volando verso il grande respiro.

Le mani guida a tastoni il cieco senso
le mani cercando. Un qualcosa di duro.
Tastano, palpano. Schiocco. Rugosa superficie, angoli, lati:
profonda volando. Non angoli, rotondità,
il profondo torna di scatto.
Poi afferrano, il senso cresce si forma
particelle di luce si muovono, viaggiano verso la mente
– fotogrammi, nero, grigio, più chiaro –
generando la pura immagine,
memoria di forma ondeggia frondosa nel vento.

Dice infatti Bergson:

“Quel est l’objet de l’art ? Si la réalité venait frapper directement nos sens et notre conscience, si nous pouvions entrer en communication immédiate avec les choses et avec nous-mêmes, je crois bien que l’art serait inutile, ou plutôt que nous serions tous artistes, car notre âme vibrerait alors continuellement à l’unisson de la nature. Nos yeux, aidés de notre mémoire, découperaient dans l’espace et fixeraient dans le temps des tableaux inimitables.”

Ecco come iniziai – da qualcosa di simile alla réalité di Bergson circa le cose e noi stessi; che l’arte, dice lui, esprime meglio di altre forme di comunicazione umana. Ero convinto che una rinnovata, forte visione poetica potesse suggerire aspetti fondamentali delle cose all’uomo, soprattutto a coloro che credono ciecamente, come dice Edgar Morin, nello “slancio della scienza su basi empirico-razionali”, quella scienza partita da “Galileo, Descartes e Bacone,” la quale “permette di conoscere, ma separando gli oggetti di conoscenza gli uni dagli altri e separandoli dal soggetto conoscente, insomma dissolvendone la complessità” (“Au delà des Lumières”, in Vers l’abîme, Editions de l’Herne, 2007). Con quella cieca fede scientifica si sono costruite le visioni del mondo fasulle di cui sono disseminati i secoli più recenti.

Io sognavo una visione più completa. Molto più tardi, nel 2008-10 scrissi Agorafilia, un lungo racconto anche autobiografico sui miei rapporti con l’immaginazione e la poesia. Quel racconto inizia così: Continua a leggere

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Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta

Foto donna velata

Le parole vorrebbero immedesimarsi nelle carte da parati, o scappare

LA NAVE DEI GIORNALISTI

Le parole, poverine, vorrebbero immedesimarsi nelle carte da parati, o scappare. Perché è una sorta di eccidio, di strage: fuggono disordinatamente nell’aria, dove rimangono falcidiate, impigliate, condannate alla sparizione. Impagliate. Solo qualcuna si libera, riesce perfino a fuggire, ma senza saper dove.
Forse perché c’era quella affermazione davvero incredibile: fra trent’anni non ci sarà più la proprietà privata… Affermazione che subito si è librata sovrana sopra questi sette importanti personaggi, questa élite del giornalismo d’antan. Ora è visibile nell’intera sala. Dalla ricchissima carta da parati si percepiscono le prime avvisaglie, arrivano dai candelieri che fluttuano: uno scarto, un trasalimento, un brivido – difficile dire: poi il tavolo delle conferenze comincia a inclinarsi sempre più pericolosamente a destra, scricchiolando va a ingavonarsi sempre più giù; il lato sinistro sale pericolosamente, con i giornalisti su questo lato sinistro che si sorprendono di essere così in alto, quasi dominanti. Forse solo perché Stefano, glorioso giornalista di un grande quotidiano napoletano, ha detto quelle cose riguardo agli immigrati che arrivano sulle “nostre sponde”… e ha osato dire quella cosa sulla proprietà privata, chissà: per questa semplicissima ragione, lui e i suoi vicini stanno appollaiati lì in alto, come allocchi, a guardare i colleghi molto più in basso.

Il concetto rigorosamente non-marxista della proprietà privata quale relitto del passato abolita dalla massacrante torsione del tempo elettronico-tecnologico, di un capitalismo quindi ormai spavaldo e libero dai suoi più classici e vincolanti ormeggi, questo concetto sale dalle sette teste posizionate sopra i sette busti tutti in fila, rigidamente verticali, dietro la lunga tavola delle conferenze: sale ancora più in alto e li guarda giù, che strani che siete, ridacchiando, mentre una sua perfetta replica esce dalla porta in fondo alla sala e si insinua… qualcosa esce dalla porta, ma a ben vedere già si trova nell’andito deserto – dove i camerieri si affaccendano a imbandire i tavoli dei rinfreschi – da lì esce smarrita e piangente per la via silenziosa, buia in questa sera di metà marzo. Ma, e non so come diavolo, l’andito è pieno di una folla che parla e chiacchiera allegramente provocando un brusio così fastidioso che più volte qualcuno del pubblico si gira verso di me con un grande punto interrogativo impresso sul volto in grassetto nero: “La prego, cancelli questo paragrafo: dà fastidio, non si riesce a seguire cosa dicono i relatori”.

Quando vedo Stella Riori più avanti, nella terza fila a destra, mi sembra che le vie del pensiero siano davvero tortuose. Sembra che le vie siano tortuose, ma sono perfettamente diritte, e vengono da un passato molto più lontano. Ciò che Stella disse a cena tre anni fa, nella sala da pranzo della sua lussuosa casa, a chi commentò sulla finezza di quella porcellana: “Sì, questo servizio di piatti lo regalò Napoleone III a mia nonna”. In quella occasione lei fu profeticamente capace, con quel semplice passato remoto ‘regalò’, con il suo intrigante sapore arcaico, di evocarmi il presente in questa elegantissima sala conferenze della FUGA, Federazione Unitaria Giornalisti d’Antan. Perché la gente del pubblico, mentre ascolta i giornalisti parlare della catastrofe, maneggia quei piatti quasi come fossero pensieri, li guarda li studia e li ammira. E il tavolo e i giornalisti s’inclinano tutti a destra: e la gente non sembra rendersi conto di cosa potrebbe succedere se l’inclinazione aumentasse ancora. Eppure dovrebbero capirlo da tutti quei preziosi piatti che passano di mano in mano, quei piatti che rischiano di andare in frantumi ma hanno dentro tutta la linea storica discendente da Napoleone III a noi; e sono i giornalisti-marinai che veleggiano sghembi e quotidianamente sopravvivono al proprio naufragio.

Questa linea così dritta rappresenta gli inizi di un presente assoluto che a sua volta è l’inizio prima degli inizi, poiché l’oggi è assoluto e tutti i giornalisti non fanno, con il loro scrollare di testa, che sottolineare questo fatto incontrovertibile: che il passato possiamo solo viverlo in questo eterno istante presente. Allora è come se affiorasse un qualcosa e mi chiede: “Cos’è ‘Disfania’?” … Già, ‘disfania’…: “Non è per caso una semplice afonia, o una cacofonia?”. “No”- ribatto, sicuro di me – “è l’involversi, ripiegarsi, dilaniante attorcersi su se stessi: il cocciuto, perenne, irriducibile interrogativo”. “Non mi basta, sai?”. Allora cerco numi dal voice recorder: ma quello, mascalzone, risponde sempre come piace a lui: “L’Io è in perpetuo movimento, è sempre qualcun altro, qualcos’altro. E’ il tempo strabiliante. Ma a te e alla tua domanda do una buona notizia: abbiamo già scienziati al lavoro per bandire per sempre la notte. Allora tutto sarà chiaro”.

[Steven Grieco Rathgeb, foto di Chiara Catapano]

Ecco che la scena si appronta e tutto ricomincia. Ci fascia la sala elegantissima che brilla di passato. La luce dei candelieri di Murano sopra alle nostre teste brillano di passato. Si dia inizio ai lavori! Tutti insieme sentiamo profonda ammirazione per questi sette uomini, per la loro insopprimibile, umanissima, virile volontà di non farci incorrere nella disgrazia, di non farci soccombere alla sciagura: queste sette figure sedute al gran tavolo delle conferenze. Di colpo spio me stesso rispecchiato laggiù, in un angolino nascosto della parete, che seguo attento l’incontro-scontro fra questi sette grandi luminari dell’informazione. Siamo tutti orecchie.

“E’ sabato”, esordisce Niccolò, autentica star del giornalismo, una vita spesa come corrispondente da New York – la meravigliosa, irripetibile New York di allora-: “Il bicchiere di plastica, in questo pomeriggio molto ventoso di marzo, viene sospinto dalle raffiche e scende via Monzambano saltellando, rotolando e sbatacchiando sull’asfalto. Sì, via Monzambano, proprio dove abiti tu”, ripete Niccolò, e guarda quell‘angolino dove io, nascosto, mi rispecchio. “Quel bicchiere leggero, spensierato, vi faccio notare: leggero e spensierato. Ecco il grande problema dei nostri tempi”. E qui Niccolò alza le sopracciglia significativamente fino a farle raggiungere il soffitto, un soffitto altissimo, come si conviene ad una importante sala convegni come questa.

“Ma non poi così spensierato”, fa notare Orfeo, suo glorioso collega, nativo di Bergamo, una vita spesa a Milano al servizio della stampa di altissimo livello… Sì proprio lui, che fu il primo ad annunciare per radio, nel lontano ’75, la strepitosa vittoria del generale Võ Nguyên Giáp: “Non così spensierato, voglio dire, quanto la impudente baldanza del bicchiere accartocciato sia la nostra coscienza sporca, metamorfizzata nei mille sorrisi impietriti della plastica di cui lui si è fatto vettore, spensierato, frivolo fanciullo. Ullo ullo”.

La folla di attenti ascoltatori ha un moto di disagio, esterrefatta che un giornalista della sua fatta – del suo peso specifico, si badi bene – intoni un ritornello così significativo. “Ma che, è andato?” sussurra il mio vicino. “Mi permetta, è proprio lei che non ci sta con la testa: perché invece, sotto sotto in quel ritornello si percepisce un senso di perdizione”, dice una signora al mio vicino: “Sì, qualcosa proprio di distopico (e qui guarda me con una certa durezza!!!): e ne sono conturbata. Non me lo sarei aspettato, proprio qui, nella storica sede della FUGA; e poi da uno della levatura di Orfeo, grande firma dei tempi che furono”.

Lo guardo rotolare giù per la mia via e devo dire che, in effetti, pur sembrando indifeso, non è poi così indifeso. Hanno ragione i luminari. L’altro giornalista aggiunge: “Come dicono gli americani, ‘we’ve done nothing wrong, we think – and see, the oceans are full of plastic’”, torcendosi le mani in disperazione. Chiedo in un sussurro al mio vicino chi è il leggendario giornalista che sta parlando in questo momento. “Ma è Umberto, non lo riconosce?”, mi risponde con lo stesso sussurro. “Ah, certo. Grazie”. “Noi giornalisti ci siamo sempre mantenuti nei limiti della ragionevolezza, non abbiamo mai esagerato”, sta dicendo Umberto. “Sempre con quel suo magnifico aplomb – mi sussurra il mio vicino – quel bel contegno da naufraghi dell’albero fiorito. Ma per tutti questi giornalisti il vento è così forte da oscurare con il suo rombo le loro voci, ch’essi registrano”. “Non ho mica capito, sa?”, dico io. Ma subito la nostra attenzione torna al tavolo delle conferenze, perché ci sorprende il “fruscio della carta”, leggendario rumore che fa trasalire ogni bravo giornalista: infatti, dalla testa di Umberto in questo momento sta uscendo un’immagine, la vediamo tutti: le presse piano-cilindriche a vapore, i lavoratori in canottiera e con i volti neri che lavorano giù in tipografia; il trafelato, glorioso, giovanissimo cronista sopraggiunto nel mezzo della notte, un attimo prima che il giornale vada in stampa! Ed ecco, lo scoop!
Il palo della segnaletica!

Foto donna tra i veli

“Siamo arrivati, signori. Siamo arrivati, non c’è dubbio.”

“Siamo arrivati, signori. Siamo arrivati, non c’è dubbio”. Questo Umberto sta dicendo. Già arrivati? Già adesso che ancora siamo all’inizio di questa conferenza dal titolo, “Il futuro del giornalismo stampato: picco o naufragio?”, questa madre di tutte le conferenze? Mi vien quasi da ridere da quanto la tristezza mi avvinghia. “Cinquant’anni di giornalismo – sta dicendo – partendo proprio dalla naia, sì, da quei primissimi anni in cui , correva l’anno 1959, se ricordo bene, facevo l’umile cronista, ma per un grande giornale, si badi bene, una di quelle testate che non esito oggi, oggi che mi trovo accerchiato dalle macerie, ovunque le macerie, a chiamare ‘gloriose’! Scarpinavo per le vie a raccogliere qualsiasi briciola di notizia: ed eran vie, vi faccio notare, molto diverse dalle vie di oggi…”. Ormai è chiaro che Umberto ha rubato la scena sia a Stefano che a Niccolò. Sta per dire qualcosa di memorabile, lo sentiamo tutti… A Umberto, uomo grande e poderoso, sembra incavarsi il torace; si toglie di colpo la parrucca di capelli radi e grigi, perché la testa possa scendergli giù e entrargli in quell’incavo: “Le vie, dicevo, ben ordinate di allora…- ed ecco, infine Umberto sgancia il clou della serata – … Sì, quando tutti i pali della segnaletica stavano bene in piedi, bene in verticale rispetto all’orizzontalità del suolo…”. Già così presto il clou? Ma se abbiamo appena iniziato?

Eppure un brivido attraversa la folla. Un forte mormorio di approvazione. Noi più giovani non abbiamo, ahimè, memoria di quella verticalità: è da mo’ che i pali della segnaletica stanno piegati. Accidenti però, penso io, da tempo avviato per la strada buia, guarda come riesce un grande giornalista, ancora al giorno d’oggi, a fissare la realtà complessa delle cose con una semplicissima immagine!

Interviene Alberico, il moderatore: “E mi permetto di aggiungere qui, che il pericolo più grande oggi – la sfida che tutti, dico tutti, ci troviamo a fronteggiare – è che il flusso random d’informazioni d’un tratto ingavoni il mondo. Pendere giù, come dire, tutto da un lato. Signori miei, qui si rischia il naufragio. Altroché.”
Gianrico, altra significativissima firma del miglior giornalismo, che con simpatica informalità gli amici chiamano Gianni, dice: “Non ci vuole mica poi così tanto, sapete. Può succedere così, di colpo”.

“Sì”, annuisce gravemente Stefano, da sempre a capo della gloriosa e storica scuderia di quell’altro grande quotidiano del Nord, di cui ora non ricordo il nome: “E con tutta la conseguente produzione di hardware nei mercati emergenti, ciò a sua volta determinererebbe un inabissamento ancor più rischioso. Il pericolo è, in effetti, molto, molto alto… Non si parla qui di un semplice tramezzino e un buon sorso di Prosecco”, aggiunge con sorriso indecifrabile.

“…Un grande giornale, badate bene – riprende Umberto – un giornale che mi ha insegnato il mondo”. E mamma mia! Tutto questo brusio, questo continuo viavai fuori: cosa succede là, all’ingresso, alle nostre spalle? …Che poi, in effetti, adesso è il davanti, non il dietro, di questa incantevole palazzina Anni 20, storica sede della FUGA, poiché ne costituisce l’entrata… Ma una volta che noi tutti siamo entrati nella sala delle conferenze, non c’è niente da fare, l’entrata risulta essere l’uscita. Siamo noi in sala ad essere girati dalla parte sbagliata. Non c’è proprio niente da fare. Ci hanno turlupinato, ecco cosa. E quindi cosa succede là nell’entrata, o all’uscita, come dir si voglia? Chi sta parlando, quali impellicciate signore e primordiali gentlemen con in mano lo smart phone così spesso illuminato di novità, di breaking news, di notizie fresche fresche, parlano, vociano bisbigliano di qualche orribile catastrofe?
Intanto Umberto continua: “Signori miei, siamo proprio arrivati”. E subito si corregge: “Eh, voglio dire, siamo arrivati QUI: e quando una società non sta più bene, il segno inconfutabile del suo disagio è costituito dai pali della segnaletica per le vie che stanno piegati di lato”.

“Qualcuno l’ha fatto di notte”, interloquisce il suo vicino, niente po’ po’ di meno che il grandissimo Alfonso, astro del giornalismo sportivo torinese degli anni ’60 dal sorriso affascinante, sapiente affettatore di notizie fasulle: “Lo fanno sempre di notte”. La notizia – che ciò accada di notte – è totalmente inaspettata, un colpo di frusta che ci lascia sconcertati. “Se mi fai finire, caro Alfonso – interrompe cortesemente Umberto… – sono sempre i vandali della notte che dirottano le nostre società, portandole sull’orlo del baratro. Incappucciati, correndo per le vie, spiccano grandi salti. O allora un ubriaco, un babbeo che non ha capito niente dei nostri modi, della nostra civiltà, istupidito dai fumi dell’alcol dopo un festino in casa di amici, sbatte con la macchina contro quel malaugurato palo: in questo modo piegando la segnaletica, piegando le direzioni e gli stessi sensi delle cose, non soltanto il senso unico delle cose, ma doppi sensi, voglio dire, i dubbi, insomma i leciti interrogativi. In una parola: questi vandali piegano la doppia percorribilità del nostro civile e civico vivere. E il loro stato di incoscienza non gli dà nemmeno modo di capire cosa realmente hanno fatto. Qui sta la tragedia del nostro tempo”.

Noi del pubblico trasaliamo di fronte a tanta dolorosa verità. “Sì”, annuisce Stefano, attempato, alto, anche lui profondamente incavato su se stesso, ma ciononostante perfettamente d’accordo con Umberto: “Certo, certo.. se però, Umberto, mi fai finire… i pali della segnaletica piegati in giù, sì: ma, non a terra, faccio notare: non del tutto a terra. E’ questo il punto: è il loro esser sghembi la nostra prova immarcescibile”.
“Il palo siamo noi!”, grida qualcuno seduto due o tre file dietro di me. Rabbrividiamo, la tensione è altissima: la fine della proprietà privata, i tramezzini, l’entrata che in questo esatto momento è diventata uscita come per deriderci o farci un torto. Molti non reggono, si alzano silenziosamente e si dileguano con eleganza, solo qualche tremito ne tradisce il turbamento.
“Siamo noi”, assentono gravemente tutti i giornalisti in coro, muovendosi lenti e pesanti nelle sedie. La nostra ammirazione per loro si fa sconfinata.

“…Un ubriaco in macchina… – insiste Gherardo – o qualcuno, chissà chi, nottetempo, che si è divertito a sovvertire le nostre direzioni. Due o tre ragazzoni, dopo una serata in discoteca, correndo e sbraitando per la via – lo sapete anche voi come i giovani son pieni di questa insopprimibile vitalità, no? Spiccando un gran salto si sono aggrappati in due, in tre al palo: e il palo si è piegato giù, si è piegato fin quasi giù a terra, per non segnalare più un bel niente, non spiegare più in modo corretto i sensi e le percorribilità delle nostre società…”. “Un vero inferno”, si lascia scappare qualcuno che si è affacciato alla porta, la bocca piena di tramezzino e il bicchiere di Prosecco in mano, proveniente da quella maledetta entrata-uscita dove molti altri imboscati già si affollano ai tavoli, scolando vino e ingollando panini.

Di nuovo si scrollano i pesantissimi giornalisti, come svegliandosi e risvegliandosi da una profonda meditazione sulla vanità delle cose. “Che sbornia. Che immensa sbornia”, dice Umberto. Il tavolo delle conferenze, pericolosamente inclinato sulla destra, scricchiola, imbarca distanza, tempo, spazio. Sprofondando a destra, i giornalisti non sembrano avvedersene: questo il bello del giornalismo di marca, questi gli aristocratici della notizia stampata, portamento eretto, fronte alta, intelligente; non sono niente se non solidali fra di loro, sempre d’accordo su ciò che conta davvero. Tutti e quattordici gli occhi, un solo occhio intensissimo che guarda qualcosa di non visibile: un piano metafisico negato a noi comuni mortali. E’ la lungimiranza, penso, ammirato: perché anch’io, tutto sommato, non vedo quello che pure è perfettamente visibile. Da tempo cammino nella via buia. Tu, in fondo, hai una pensione di cui non mi posso lamentare. Nel voice recorder la mia voce muore: adesso il buio e vastissimo silenzio, sussurrato, attonito, dispiega l’accadere del mondo. Il bus 649 passa veloce e invisibile da Piazza Indipendenza diretto a Termini, a Conte Verde, ai luoghi rimembrati ma inafferrabili e infinitamente tristi.

[S. Grieco Rathgeb nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Lettera a Adeodato Piazza Nicolai

Caro Adeodato,

ti ringrazio del tuo pensiero, la tua offerta di tradurre la mia poesia “Bohor”, comparsa qualche settimana fa su L’Ombra delle Parole. https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/24/chiara-catapano-dalla-disfania-allindicenza-della-parola-poetica-loriginalita-come-nostos-ritorno-allorigine-con-poesie-di-d-h-lawrence-giorgio-linguaglossa-steven-gr/ 

Sarà difficile che io traduca “Bohor” in inglese. E ti dico subito perché. Da quando avevo circa 20 anni, la questione di scrivere poesia per me era già stata superata dalla impellenza che sentivo di lavorare invece su come e perché si scrive una poesia. Tutto per me stava nell’angosciante non-essere della poesia, nella sua atroce futilità. Dopo Eliot, Pound, Auden, Hughes e Sylvia Plath, l’inglese non offriva quasi più nessuna pregnanza in materia di scrittura poetica, ma solo déja-vu, piccoli epigoni che dicevano ad altri come scrivere, e quel loro intendimento su come scrivere era: “mettersi in riga! scrivere un testo gradevole, compiuto, ‘significativo’ (ma non troppo), soprattutto stilisticamente all’altezza della sacra (ma in realtà più riduttiva) ‘tradizione letteraria inglese.” Un prodotto morto all’arrivo. Qualsiasi spericolata manovra per aprire le fessure della lingua e pervenire a nuovi sensi delle cose, nuove suggestioni, non erano in genere ammissibili. Lo stesso Eliot aveva, una volta scritti i suoi capolavori, messo in guardia dalle avanguardie (!!), dall’ardire, dallo spericolato inoltrarsi in luoghi sconosciuti per dire l’Oggi. Certo, allora, negli anni 1960-80, esistevano tentativi di uscire dal cerchio incantato della mediocrità – ce n’erano tantissimi – ma io sentivo che erano quasi tutte navi che andavano alla deriva.

Nel 1970-73, anni per me parigini, avevo iniziato a verificare quanta estraneità ed alterità la lingua mi avrebbe consentito di esprimere, prima di dirmi: “caro ragazzo, penso che tu stia esagerando”. Scoprii che però questi limiti erano generosissimi, E che questo si era sempre fatto anche in passato, altri poeti si erano cimentati in questo senso: ma rientrando loro ormai nell’alveo della ‘sacra tradizione i loro esperimenti non erano più visti come esperimenti, le loro sperimentazioni erano diventate invisibili, facevano ormai parte della tradizione. Ma un tempo non lo erano stati affatto. Questo vale anche per i Romantici nei loro momenti più spericolati, e in questa categoria rientra comodamente anche un gigante inattaccabile come Wordsworth. Io amo Wordsworth!

A Parigi scoprii che la lingua era generosissima, dea dal grande ventre e con la vulva esposta, dea che tutti credono puttana ma è in ogni attimo supremamente e inaccessibilmente vergine: era lei il mio Eterno Femminino, il mio das Ewig Weibliche di Goethe. Insomma, la Venere di Willendorf

(http://www.theenglishgroup.co.uk/blog/2012/03/08/venus-of-willendorf/)

Lei mi avrebbe fatto fare tutto quello che volevo, e quando non fosse stata d’accordo mi avrebbe colpito, buttato giù, e lasciato a piangere disperatamente nel fango del non-senso.

E dunque, ho negli anni imparato e mille volte disimparato cosa è il ritmo del verso, cosa la risonanza interna della lingua, questo gigantesco antro uterino, questa cupola così somigliante alla finita-infinita cupola del Duomo di Firenze, che in potenza e visionariamente racchiude in sé tutto lo scibile della civiltà occidentale. Qualsiasi scienziato che ignaro usi la lingua per fare ricerche e comunicarle agli altri, non capisce una realtà profonda: che tutte le sue scoperte, le sue ricerche sono Nulla senza la lingua. E siccome la lingua ab initio è stata usata musicalmente, ritmicamente – il mondo germogliava da sonorità-ritmo-melodia-senso – per questa ragione all’origine della lingua (una origine che non è mai ferma, costantemente sfugge, costantemente cangia e non ti mostra il suo punto iniziale perché sempre diverso) sta una figura davvero particolare: il Protopoietis,  अदिकवि l’Adikavi degli Indiani, il Primo che favella, Colui che pronuncia, ‘dice’; e che quindi nessuno scienziato, nessun businessman, nessun poeta dovrebbe mai dimenticarsi della meraviglia della lingua, che egli usa anche in sogno, lingua che è di fonte ignota ma usata dagli uomini quotidianamente, come se appunto fosse soltanto la loro puttana.

Tutto ciò non sembri una mia esagerazione: sono specificamente questi punti cangianti della realtà nei quali vivo in ogni momento del giorno, e che informano la mia scrittura. Una solitudine meravigliosa, che mi ha fatto capire la gioia di questo mondo, il suo segreto significare. Per questo anche, chissà, parte della mia scrittura non è forse andata a buon fine: perché la mia lingua-padrona è durissima, e non contempla ciò che “può, forse, andare bene”. Io ci provo, io pubblico, io metto un post, ma lei decide, e il suo giudizio sarà inflessibile e inappellabile.

Scusa, Adeodato, ritorno alla questione: in inglese quindi, la mia ricerca linguistico-stilistica è andata avanti in massima parte con un lavoro sulla qualità ritmica del verso: un mio forte tentativo di frenare il lettore nel leggere un testo in modo troppo vorace e banalizzante, per quindi dargli modo di pervenire al miracolo di ciò che viene detto; per questo ho lavorato sulla relativa velocità del verso: il veloce è lento, il lento può essere velocissimo. Questo, in inglese. Negli anni ho anche capito che l’uomo deve streben, struggle, faticare per nessuna ragione. È così, e basta. Il compimento sta nell’averlo fatto, come ha detto Donatella Costantina Giancaspero l’altra sera, illuminandomi.

Ovviamente, lavorando sulla qualità ritmica, trovi su quella strada tutte le questioni relative a sintassi, semantica, etc. etc.

Parlando di ciò: hai visto cosa fa Beckett con la lingua? Hai capito il senso della compressione quasi folle che egli opera sul ritmo del suo dire? Stringe le maglie proprio perché tu non possa fruirlo di colpo, e quindi da solo rovinarti l’eventuale epifania che quelle parole potrebbero riservarti. Io non avevo mai amato Beckett, l’avevo sempre rifiutato. Solo ultimamente ho capito la sua grandezza: ciò che può sembrare minimalismo è in realtà furente compressione, metabasi, attraversamento da uno stato, da un paradigma del mondo, ad un altro. Questa cosa, detta meglio, la leggi nella impeccabile presentazione di Chiara Catapano alle mie sgraziate Disfanie.

Nella lingua italiana, a lungo sono stato un po’ timido. Anche qui però avevo iniziato negli anni ‘70 una sistematica ricerca linguistico-stilistica, perché mi era ovvio che la situazione tapina della poesia inglese era in realtà un problema poetico globale, e sicurissimamente condivisa anche dalla poesia italiana. Ma avevo paura solo di combinare pasticci. La lingua italiana mi fa spesso impazzire: come un cavallo che non vuole muoversi: frusto i suoi fianchi, bestemmio, cado in un deliquio, mi risveglio e impreco (sapendo benissimo che il problema è in massima parte mio); poi d’un tratto quella parte al galoppo e io vengo disarcionato… Insomma, non si vince. Ma questo è comune a tutti i poeti, anche se scrivono in una lingua che è in famiglia da mille anni. 

“BOHOR”

Dalla finestra? sembra piovere una luce densa, bagnata
pozze-gialle, macchie sul tavolo colano giù.
Il corpo è di qualcuno nel quadro: dettaglio non trascurabile,
sebbene sia dipinto:
le due pennellate sotto i glutei, l’opaca intrasparenza
di un’estrema fragilità:
esse e ad ogni suo muoversi disossato, gli indelebili
trauma-segni dei lager,
e lo sfrenato egoismo, le discoteche di generazioni future,
nella inesorabile discesa nel Tempo.
Penso che sia non so se luce a macchiare come un prodigio
capelli e testa di turchese:
il volto scimmiesco che volge lo sguardo verso, se veramente fosse
la finestra, spaventato.
Poi nella testa compare un altro volto, indietreggiato,
che fissa con più concentrata serietà. E per quanto agio
vi sia nel grande appartamento parigino
la figura deve inghiottire terrore,
un uomo o una donna imbarazzati nel proprio corpo:
terreno che sbraita il sacro, la sua spazialità illimitata
dilaga attraverso gli oggetti e l’aria vuoti
perché solo si dipinge.
E il suo corpo appare senza un dentro, trapassato di luce,
i suoi massacri ridotti a solo pigmento, per impedire. Ai glutei azzurri.
Un terzo volto-cane turchese ha il muso sopra, come copricapo:
per quanto agio vi sia nel grande
appartamento, questo che è solo immaginazione nel corpo
ed è fermo nel suo stupore.

Giugno 2017

Allora: io certamente non sono però in grado di tradurre il mio “Bohor” italiano in inglese. Non ho il sufficiente distacco da me stesso per poterlo fare. Già il mio tentativo di tradurre mie poesie inglesi in italiano per la raccolta Entrò in una perla, che ho pubblicato nel 2016 con Mimesis-Hebenon, lo considero un fallimento interessante e in parte riuscito, ma che mi ha anche procurato mille dubbi e sofferenze.

Tornando di nuovo alla mia poesia “Bohor”: qui tutto dipende da microfratture e costruzioni asimmetriche che a prima vista appaiono sgrammaticate (e qualche volta lo sono!) ma che essenzialmente saggiano ciò che ho detto prima: quanto può la lingua accogliere la sua propria estraneità? Microfratture è la parola con cui definisco le costruzioni sintattiche semantiche che uso in una poesia come “Bohor”. La poesia l’avevo abbozzata l’anno scorso a settembre, poi del tutto dimenticata (ne ho altre così: le dimentico, e un giorno saltano fuori come il Cristo nel trittico di Isenheim!). E io che stupidamente pensavo che fosse tutta da riscrivere, “perfezionare”… Ma come faccio? Non ho tempo, maledizione, con tutti i lavori di traduzione che devo fare per sostentarmi e che lentamente mi stanno essiccando come uno stoccafisso. Ti ritrovo “Bohor” qualche settimana fa, e vedo che questa poesia, “svestita” e “spezzettata” com’è, in realtà è finita. Quello che avevo cercato di fare allora – sbarrare il passo alla troppo facile fruizione del lettore – mi è riuscito.

In modo leggermente diverso, questa stessa “tecnica non-tecnica” – intendo un metodo di composizione lentissimo, estenuante, con il minimo intervento razionale (ma un po’ ci vorrà sempre, non se ne può prescindere), grazie a cui il dettato poetico esce lentamente dal pensiero, ma con la sicurezza della seta che esce dalla bocca del ragno, – questa cosa l’avevo usata in diverse poesie 2015-2016, ma particolarmente in due poesie che ho scritto nell’estate del 2016: “Quando il treno rallenta a Settebagni” e “Supersimmetria del verso 22 di ‘Quando il treno rallenta a Settebagni’”. 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/07/26/steven-grieco-rathgeb-dieci-poesie-dimensioni-di-un-cerchio-e-supersimmetrie-un-prosimetrum-inedito-di-steven-grieco-rathgeb-poesie-come-installazioni-di-inchiost/

Il sistema di microfratture, dicevo, idealmente vorrebbe frenare il lettore dalla troppo facile fruizione della poesia, lasciando però intatta la sua capacità di esperienza epifanica, che gli giunge fra senso e nonsenso. Per parafrasare Mani Kaul, l’epifania, o meglio il significare, non sta nel dettato poetico, ma nelle giunture fra due pezzi di “significazione”. Sta in quel vuoto, capisci Adeodato? Capisci la meraviglia della poesia? Mani Kaul l’aveva capito nel cinema: l’attimo fra un fotogramma e il successivo. Io l’avevo capito dalla fusione a cera persa, così come l’ho vista fare una volta in India: un attimo prima che il bronzo inizi a colare nello stampo, e la cera si è già disciolta, in quell’attimo lo stampo è vuoto, e allora l’opera inesiste, ma è colma di ogni futura potenzialità! Capisci la bellezza del nostro fare, Adeodato? Del resto, basta leggere l’autobiografia del genialissimo e gradassone Benvenuto Cellini, per godersi l’impareggiabile descrizione di come andò con la fusione del suo “Perseo”. Me l’ha fatto capire anche Giorgio Linguaglossa, dicendomi più volte: “non curarti di niente! Vai avanti, fai quello che puoi.”

E non penso che molti fra i massimi musicisti di musica classica contemporanea abbiano fatto alcunché di diverso. Studiando per lunghi anni questa musica, chi ci ho ritrovato dentro? Me stesso! E tutto il mio mondo! Insomma, quello che facevano loro, lo facevo da tempo anch’io. Quando viviamo nello stesso tempo, e cerchiamo di esprimere il nostro mondo, le sottili affinità fra noi sono tantissime, seppure rimangano invisibili fino a quando non andiamo a scoprirle. Questo ritrovarsi intellettualmente ed esteticamente con quei musicisti mi ha però dato conforto negli anni: non sono solo in questo universo!

Un carissimo saluto, Steven

P.S.

In realtà “Bohor” è forse un titolo provvisorio per questa mia poesia. È invece il titolo di un pezzo elettroacustico di Xenakis, possibilmente il pezzo di musica classica contemporanea più rigoroso, più alto, e più disarmonicamente armonioso che io conosca. Sì, è proprio quel suo rigore compositivo che porta il pezzo a trasformarsi da rumore in sovrana armonia. Insomma, ho dato questo titolo alla mia poesia, perché doveva essere un innocuo tranello per il lettore intraprendente, che così, leggendo la mia poesia sarebbe andato a cercare il significato del nome e avrebbe incontrato l’omonimo pezzo di Xenakis su Youtube, corredato di quel magnifico quadro neo-espressionista di non so chi, non riesco a trovare l’autore. E avrebbe anche, chissà, deciso di ascoltarsi il pezzo di Xenakis. Comunque questi due pezzi – il quadro e la musica – sono inestricabilmente intrecciati con il mio pezzo. Giuseppe Panetta l’ha capito bene.

Foto in metro vuoto

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta

Giorgio Linguaglossa

Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del novecento. La Crisi del discorso poetico è la Crisi delle Parole

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

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Steven Grieco Rathgeb – Conversazione con Gilberto Peverini in un caffè di piazza Vittorio, Roma,10 dicembre 2016 e 5 poesie di Steven Grieco-Rathgeb

 

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Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.

 Presento questo primo post ponendo prima di tutto un interrogativo: perché le due scritture – prosa e poesia – la cosiddetta letteratura – soffrono oggi di una malattia da deperimento?

Certo, mi rendo conto che anche le altre arti sono in crisi: pittura e scultura oggi sembrano produrre poco di significativo: la musica classica contemporanea (elettroacustica, etc.) sembra stia girando su se stessa, le installazioni artistiche sono spesso meri giochi di abilità, Ai Weiwei espone mille selfie di se stesso, e noi non siamo così stupidi da non capire che espressioni come queste, apparentemente originali, nascondono (a fatica) una immensa povertà di idee…

 Rispondo a tale quesito in due modi: con il testo “Conversazione con Gilberto” che segue, e con il primo di una serie di commenti esplorativi che trovate più sotto, subito dopo qualche mia poesia, perché questa è una rivista di POESIA, e la prima privilegiata su queste pagine deve essere sempre lei, la POESIA.

(Steven Grieco Rathgeb)

 

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Il cobra, non più il giardino. La memoria.

Steven: Gilberto, ho pensato ad un certo tipo di opera d’arte come ad una scatola chiusa. Dentro non sappiamo cosa c’è: potrebbe anche  essere vuota, chissà. Ma ha una decorazione esterna molto piacevole.

E poi c’è una scatola scoperchiata, aperta, al cui interno è visibile una installazione. Diciamo una poesia scritta su un foglio – passami questo esempio, visto che sono poeta: i graffi nerissimi sul foglio bianco sono i segni, le cieche asticelle significanti di un grumo autocosciente, auto-creato, che si va costruendo man mano che lo leggiamo, osserviamo.”

Gilberto: Questo mi fa pensare quanto ancora oggi siamo abituati a muoverci culturalmente entro certi confini. E quanto le cose sono, in effetti, a partire dal secolo scorso, cambiate.

Ad esempio, in questo caffè dove stiamo seduti, il nostro parlare prende un senso che non può essere avulso dal contesto: il passare frettoloso dei camerieri, il bisbiglio delle persone. Un tempo forse non avremmo espresso la cosa in simili termini. Non trovi affascinante pure tu questo nostro modo di essere qui?

S.: Questo tinnire di tazze e bicchieri, questo frusciare dei nostri vestiti quando ci muoviamo: è anche nei rumori intorno a noi che oggi riconosciamo l’incomparabile musicalità delle cose. Direi una cosa meravigliosa.

G.: Ovunque volgi lo sguardo, la scena si illumina e prendiamo coscienza di parte di questa realtà che ci circonda. Ovunque, perché non può esserci, io penso, nessuna zona di ‘nulla’. Ecco, guardo in quella direzione e scorgo la luce magica che viene dalla porta d’ingresso in questo tardo mattino di sabato.

S.: Ho sempre avvertito le ombre di possibili eventi – addirittura di epifanie – che esistono intorno a noi. Possono manifestarsi in vari modi: o possono anche starsene lì per sempre, folla ‘irrealizzata’ che non vivremo mai. Ma se per caso il mio sguardo dovesse posarsi su una di loro, lei può illuminarsi, forse anche entrare nel mio raggio di esperienza. Arriverò anche a dirla ‘mia’.

Gilberto 4

opera di Gilberto Peverini

   

S.: Caro Gilberto, il nostro incontro di qualche ora fa è solo un ricordo. Sto tornando a casa sotto i platani autunnali di Castro Pretorio. L’aria di questo pomeriggio di dicembre è immobile: le grandi foglie marroni senza vita scendono sfiorandomi la testa e le spalle. Cadono come corpi sfasciati, dimentichi di se stessi.

Al mio collega giapponese il waka aveva insegnato molte cose. Una di queste: il vento è invisibile. Riconosci il suo soffiare solo dai suoi effetti sui volti e sui capelli della gente, da come scuote i rami e le foglie degli alberi. Dalle rilevazioni di un anemometro. Eppure il vento è sempre tra noi.

La scatola sul tavolo. Leggera. Il vento la butta giù.

G.: Volevo proprio riflettere, caro Steven, su quella tua scatola vuota. Pensa in quale momento storico complesso e strano viviamo. E ripeto: l’opera d’arte fatta come scatola vuota ma esternamente decorata è probabilmente figlia di una cultura conformata a degli assoluti. Modi di fare arte che nel secolo scorso hanno iniziato a lasciare spazio a nuovi linguaggi: linguaggi aperti, che dialogano non solo con chi fruisce, ma con il luogo, col circostante, con le stagioni, l’autunno, la primavera. Aprirsi all’inatteso. Allora i confini dell’opera tendono a dissolversi e confondersi con tutto il circostante, e l’opera stessa non sarebbe più il lavoro compiuto dell’artista: quest’ultimo farebbe semmai da tramite per un contesto più ampio.

S.: Guardo la scatola. Che strano! Il suo stare qui, e non lì: il mio guardarla, in qualche modo la influenza, sembra compierne la forma; ma, anche, dà ad essa delle sfumature particolari. Tutto ciò è forse influenzato dal fatto che la scienza studia realtà per noi sempre meno visibili o direttamente percepibili, ma che pure determinano la nostra vita come ciò che invece percepiamo?

G.: Abbiamo sempre pensato che l’arte fosse il prodotto dell’atto cosciente di un artista. Ma se parliamo di contesti allargati, come stiamo facendo adesso,  possiamo anche chiederci il senso che ha un’opera quando il suo circostante ne determina sempre più fortemente il linguaggio. Pensa a come in fisica quantistica l’osservazione determina lo stato del fenomeno. ‘Non osservare’ implica uno scenario completamente diverso, addirittura paradossale, nel quale coesistono realtà contraddittorie.

Non prendere coscienza di uno stato non esclude però la possibilità che esista quello stato, ed altri potenzialmente tanto ricchi quanto quelli di cui abbiamo coscienza. Anche quel mondo infinito che rimane buio intorno a noi partecipa del nostro essere, dialoga in modo oscuro, indicibile, con parti di noi.

Certo, abbiamo sempre bisogno di dare un senso alle cose. Ma per quanto ricco, vasto, affascinante, quel senso non è tutto. Noi siamo sempre molto di più.

S.: Mi sembra che qui tu tocchi il concetto scientifico di supersimmetria. Un concetto che, in modi diversi, certamente, io uso in poesia. Lo spazio è gremito di presenze che nessuno avverte: le cosiddette assenze. Dietro la facciata dei palazzi che ci circondano, scale di ferro salgono in ogni direzione ai piani più alti. A noi chiusi qui in basso rimane il senso, adesso, dei cortili. Ma immaginiamo altro. Dire ‘irruzione di realtà’ forse non è altro che alludere al mondo allargato, l’aria e il cielo sopra i palazzi, che pure è sempre con noi. Quel tinnire di tazze e bicchieri che dicevamo prima: i suoni dolci, altri che invece feriscono l’udito. Non tutti i suoni ci piacciono, ma il mondo allargato è sempre qui con noi. E così, dico con te: non è che tutto ci tira verso una piena partecipazione delle cose?

G.: Visto che parli di ‘mondo allargato’, fammi tornare indietro un momento. E’ questo allora ciò di cui stiamo parlando? Una forma d’arte ‘aperta’ dove l’artista è solo uno strumento in mezzo a tanti strumenti? Penso alla dissoluzione del confine netto di una opera d’arte che allora si apre al suo contesto, il quale stesso contesto diventa messaggio, opera; e il fruitore lui stesso parte dell’opera d’arte; il tutto, opere in continuo mutamento.

S.: Certo. Ma la ‘opera artistica’, anche nel suo senso più lato, ancora conserva – deve conservare – delle ‘separazioni’, dei sottili tramezzi, delle intercapedini, fra ‘opera’ e ‘tutto il resto’. Il che non esclude quello che hai detto tu adesso, ‘opere in continuo mutamento’. Prendo un esempio: capita che, ascoltando una musica, ci troviamo, di colpo, ad essere coscienti anche del fruscio dei nostri vestiti, degli altri rumori intorno a noi: allora quella musica esce dal suo contesto predefinito, delimitato, quasi troppo sacrale, ed entra meravigliosamente nello spazio in cui io, ascoltatore, mi trovo. E, grazie ai rumori intorno a noi entriamo più profondamente in quella musica per la porta, adesso spalancata.

‘Musica’ non è soltanto ‘atto cosciente del musicista’. E’ anche ‘ascolto’. Quasi che il vento avesse, scoperchiandola, aperto la bellissima scatola.

Ora, questa esperienza sonora sarà ovviamente più facile averla con un pezzo di musica classica contemporanea, elettroacustica o orchestrale, non importa. Infatti, questa è una musica che ha aperto all’ascoltatore un nuovo orizzonte sonoro, uno che prima nella musica occidentale semplicemente non esisteva. Così, la musica si è aperta all’universo del suono, e al rumore. Mi ricorda la cosa dello spazio sacro e dello spazio profano di Mani.

Gilberto 5

opera di Gilberto Peverini

G.: Sì, ma torno a chiederti: questo cambia il nostro modo di concepire l’opera artistica?

S.: Certo che lo cambia. Continua a leggere

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LA RIVISTA SOSPENDERA’ I LAVORI DAL 12 AL 28 AGOSTO, LA REDAZIONE AUGURA AI LETTORI SERENE VACANZE – Per quest’ultimo giorno postiamo alcune Poesie di Eliza Macadan da Passi passati, Joker 2016 e Daniele Gigli da Fuoco unanime, Joker, 2016 e una nota critica di Mariella Colonna sulla poesia di Steven Grieco Rathgeb

foto roy lichtenstein interior with yellow chair

Roy Lichtenstein, interior

Giorgio Linguaglossa

11 agosto 2017

Ecco due autori che tentano strade nuove, Eliza Macadan e Daniele Gigli; quanto nuove non saprei dire, c’è ancora un eccesso di quotidianità, un eccesso di «Io»,  in specie in Eliza Macadan; mi sembra però quest’ultima una autrice  che cerca una sua autenticità di voce, direi che si nota questa ricerca di immediatezza. C’è qualcosa di buono in questa autrice e mi fa piacere proporla alla attenzione dei nostri lettori, notoriamente molto esigenti. C’è una negligenza tutta intellettuale, un aplomb, una poesia fatta di «stracci», di dettagli insignificanti come è giusto che sia. Avrei scelto queste quattro poesie, quelle meno implicate con i dettagli del quotidiano, quelle meno realistiche e più oniriche.

Quattro Poesie di Eliza Macadan (da Passi passati, Joker, 2016)

ma ci pensi?
oggi sono uscita nuda di casa
sotto la pioggia isterica
isterizzata dal fine ottobre
nemmeno un anello al dito
nessuno mi guardava
solo foglie distratte s’incollavano
al mio corpo nudo qua e là
in cerca di un punto d’appoggio
prima di sbattere sul marciapiede
ma ci pensi?
a nessuno interessa un corpo
ancora giovane

*
[…]
il mio secolo è ovunque se guardo indietro
in quella parte dell’eterno chiamato passato
è sarà ancora il mio secolo,
basta che io mi giri dall’altra parte
e vedo una creatura senza sesso
senz’anima tutta intelligenza cambiando mentre si sposta
da un pianeta all’altro in una macchina austera
messa in moto da energie nuove eppur le stesse
un occhio
quello in fronte
aperto su tutto
è il mio secolo

*
si avvicina
la stagione dei padri assenti
sono partiti per primi i cani da compagnia
nel frattempo papà guarda fuori dalla finestra
vede i tetti di Parigi
prima di pranzare sulla sedia a rotelle
nel salone vuoto
lo sguardo verso la sedia vuota di una sposa andata da tempo
donne dell’est fanno brillare la casa rimasta in piedi tre secoli interi
la montagna si è tirata indietro
sta per versare lacrime a ruscelli
in riva al Danubio da tutti e due i lati
padri sdraiati girano lo sguardo dai figli che aspettano la stessa fine
lo stesso viaggio di ritorno

*

cade il Natale prima del termine
con tutta la neve
i giorni scivolano giù con urli guerrieri
cielo e terra s’inchinano ad un profeta
che nascerà dal tubo termoionico
suoni cascano coi fiocchi di neve dagli altoparlanti
strada un’antichità recente con architetture tumorali
chi è stata per prima
la gioia o la festa
Onnipotente
Quante lacrime hai ancora da spartire
Quanto sale senza di pane hai ancora da dare ai
[tuoi figli
guarda come scompariamo svelti
leggeri
come la prima neve

*

roy lichtenstein interior with Built in Bar

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Ecco un altro autore che vorrei segnalare:

Daniele Gigli del quale pubblico queste poesie (da Fuoco unanime, Joker, 2016)

Via Calandra, sei di sera

Qui dove ai piedi del sagrato il puzzo d’automobili e d’asfalto
sfuma sotto i passi, incenerito da un piscio di cane azzanna-gola
qui, dove la sferza ghiaccia i volti dei passanti,
è qui – fermi a contarci le ossa tra la strada e il cielo piatto,
chi in tempo chi in un oltretempo
irredimibile, significante morte.
È qui, nel porfido del marciapiede,
in questo sonno d’anima e di luce
significante morte
è qui, non oltre, non domani
che s’alzano le voci degli uomini, di chi
significante morte
chiede vita.
Su questa vita inconsapevole inginòcchiati,
pregane il silenzio ad occhi tesi.
Mormora, se il grido si è spezzato.

Né ieri né domani

«Non scambiare la croce per la quiete» s’alza una voce
da chissà che antro
mentre il tram sferraglia oltre il semaforo
e s’incurvano lungo il selciato i pali della luce.
«Non scambiarla» canta a voce folle
un grano d’incoscienza
in me o fuori di me, dall’altro.
Amare a sangue caldo, a vene aperte,
dimenticando di principio e fine, di calcolo e trattenimento.
Come il dolore scava l’ossidiana,
scortica la pietra, stiamo qui, né ieri né domani.
Prego per te, per la tua fede stanca, per la mia:
non gravi il peso più della memoria,
non più gravi dell’amore.
*

Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto il ginepro
nel fresco del giorno, avendo mangiato a sazietà
delle mie gambe, del mio cuore, del mio fegato e di quanto contenne
la coppa cava del mio teschio.
E disse Dio
vivranno queste ossa? Continueranno a vivere?
E tutto quanto stava nelle ossa già seccate disse berciando:
per la bontà di questa Dama,
per la sua grazia, e perché onora
la Vergine in meditazione,
per questo noi splendiamo nella luce.
Ed io che sono qui smembrato
offro i miei atti alla dimenticanza, alla posterità
del deserto e al frutto della zucca offro il mio amore.
Questo ristora
i visceri, le fibre dei miei occhi e le parti indigeste
rigettate dai leopardi.
La Signora è ravvolta
in una veste bianca, contempla, in una veste bianca.
Che la bianchezza d’ossa espii fino all’oblio
– ché in esse non c’è vita – come io son dimenticato
e vorrei esserlo, e vorrei dimenticare,
così intento, saldo nello scopo.
Quindi Dio disse
profetizza al vento, ché solo il vento
ascolterà. E le ossa cantarono berciando
il ritornello della cavalletta e dissero:
Signora del silenzio
quieta e angosciata
strappata e intera
Rosa della memoria
Rosa della dimenticanza
esausta e feconda

 
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    Mario Gabriele

     

    Ovviamente, Giorgio, va a te un vivo ringraziamento per averci fatto conoscere buone poesie dopo tanta stantufferia filosofica.Le poesie di Eliza Macadan saranno pure fatte di stracci, ma si presentano omogenee nel tessuto vivo della lingua,mentre l’ultima poesia di Daniele Gigli, è veramente ineccepibile.In altre parole sembra di leggere un racconto da Genesi e da La terra desolata.di Eliot.

     
    Giorgio Linguaglossa
    11 agosto 2017
    Mi fa piacere che un poeta del livello di Mario Gabriele abbia espresso parere favorevole sui due poeti postati. Forte di questo giudizio, posto ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli, che mi sembra poeta che ha in dotazione una metafisica, cosa molto rara oggidì, e che da quella metafisica delle parole proviene. Ricordando la massima di Brodskij:«La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.
    Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo».

     

    [Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 278]

    Ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli da Fuoco unanime, Joker, 2016

    3
    Al mezzo giro della seconda scala,
    lì mi voltai e vidi in basso
    la stessa forma avvinta alla ringhiera
    sotto un vapore d’aria fetida
    in lotta col demonio delle scale che indossava
    il volto ingannatore di speranza e disperanza.
    Al nuovo giro della seconda scala
    lì li lasciai, avvinghiati, volti in basso.
    Senz’altri volti nella scala scura,
    la scala umida e scheggiata
    come la bocca guasta e bavosa di un vecchio
    o la gola dentata di un vecchio squalo.
    Al mezzo giro della terza scala
    lì stava una finestra a grate, panciuta come un fico,
    e oltre il biancospino in fiore e la scena agreste
    la figura dalle ampie spalle vestita in verde e azzurro
    incantava il maggio con un flauto antico.
    Dolci i capelli arruffati, bruni capelli sulla bocca,
    lillà e capelli bruni;
    confusione, musica di flauti, la mente va e s’arresta sulla terza scala,
    più debole, più debole; la forza ch’è più forte di speranza e disperanza
    s’arrampica lungo la terza scala.
    Signore, non son degno
    Signore, non son degno
    ma di’ soltanto una parola.

    4
    Lei che camminò tra viola e viola
    che camminò
    lì tra le fila del verde screziato,
    in bianco e azzurro, colori di Maria,
    parlando di questioni dozzinali
    sapiente e ignara del dolore eterno;
    che mosse in mezzo agli altri che muovevano,
    che fece ancora forti le fontane e fresche le sorgenti
    e fredda la roccia inaridita, solida la sabbia
    in blu di speronella, blu del colore di Maria
    sovegna vos
    Ed ecco gli anni passano nel mezzo, portano
    via i violini e i flauti, ravvivano
    una che muove nel tempo tra sonno e veglia, che indossa
    bianca luce ravvolta, che la riveste, ravvolta.
    Scorrono gli anni nuovi, ravvivano
    gli anni, con nubi lucenti di lacrime, ravvivano
    con versi nuovi la rima antica.
    Redimi
    il tempo. Redimi
    la visione incompresa nel sogno più alto
    redimi gli unicorni ingioiellati e il catafalco d’oro.
    Silenziosa in bianco e azzurro, tra gli alberi di tasso,
    alle spalle del dio del giardino
    – non suona più il suo flauto –
    piegò la testa e fece un cenno ma non parlò parola
    la sorella velata.
    Ma la sorgente zampillò e l’uccello cantò alla terra –
    Redimi il tempo, redimi il sogno
    la parola in pegno non detta e non udita.
    Fino a che il vento non scuota dal tasso i suoi mille bisbigli –
    E dopo questo esilio

    5
    Se la parola persa è persa, se la parola spesa è spesa
    se non udita, se non detta
    la parola non è detta e non udita.
    Ferma è la parola non detta, il Verbo non udito,
    il Verbo senza una parola, la parola
    nel mondo e per il mondo.
    E la luce brillò nelle tenebre e contro il Verbo
    il mondo infermo vorticava
    attorno al centro del Verbo silenzioso.
    O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
    Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà?
    Non qui, dove il silenzio non basta,
    non per mare o tra le isole, non sulla terraferma,
    nel deserto o in terre piovose
    perché per chi cammina nelle tenebre
    lungo i giorni e durante le notti
    il giusto tempo e il giusto posto non sono qui.
    Nessun luogo di grazia per chi evita il volto
    nessun tempo di gioia per chi attraversa il rumore e nega la voce
    Pregherà la sorella velata?
    Pregherà per quanti vanno tra le tenebre, per quelli che
    ti scelsero e si oppongono,
    per chi si lacera sul corno d’ora in ora, tempo e tempo,
    tra una stagione e l’altra, una parola e un’altra,
    per chi si lacera potere nel potere, per quelli nelle tenebre che aspettano?
    Pregherà, la sorella velata
    per i bimbi alla porta,
    per quanti non la varcano e non sanno pregare,
    pregherà per quelli che ti scelsero e si oppongono
    O mio popolo, che cosa ti ho fatto.

    6
    Benché non speri di tornare ancora
    Benché non speri
    Benché non speri di tornare
    altalenando tra la perdita e il profitto,
    in questo breve transito dove s’incrociano i sogni,
    questo crepuscolo affollato di sogni tra la nascita e il morire
    (benedicimi padre) benché io non desideri
    desiderare queste cose
    dalla finestra spalancata incontro a rive di granito
    le vele bianche ancora volano sul mare,
    sul mare volano ali non spezzate
    E il cuore perduto si rinsalda e gioisce
    tra il giglio perduto e le voci perdute del mare,
    lo spirito debole s’affretta a ribellarsi
    per la verga dorata ricurva e le voci perdute del mare,
    s’affretta a riparare
    il grido della quaglia e il piviere che volteggia.
    E l’occhio cieco
    crea le forme vuote tra le porte d’avorio,
    l’odore ravviva il sapore salmastro della terra sabbiosa.
    È questo il tempo di tensione tra morire e nascere,
    il luogo di solitudine dove tre sogni si traversano tra rocce azzurre;
    ma quando le voci scosse via dall’albero di tasso andranno alla deriva,
    fa’ che sia scosso l’altro tasso, che risponda.
    Sorella benedetta, madre santa, spirito della fonte e del giardino,
    non sopportare che ci irridiamo con la falsità
    insegnaci a curarci a non curarci,
    insegnaci la quiete
    anche tra queste rocce,
    nella Sua volontà la nostra pace
    e anche tra queste rocce
    sorella, madre
    e spirito del fiume, spirito del mare,
    non sopportare che io sia separato
    e lascia che il mio grido giunga a Te.*

    11 agosto 2017
     
    Cosa si può dire non dicendolo di un poeta che è entrato in una perla? cercherò di evocarne l’ombra…già il titolo della raccolta è un intrigantepoetico paradosso che colpisce come un raggio di sole sopra…una “perla”, mi scuso con l’autore…l’immagine era troppo bella per evocare la sua ombra con altre parole… forse l’ombra dell’autore è davvero entrata nella perla dell’anima e, perché no, in quella trovata da un ignoto pescatore forse un millennio fa…
    Tutti i versi riportati qui hanno un fascino particolare, evocano per analogia usando le parole come se non le usasse..:
    “Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
    che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
    inafferrabile.”

    Ora vado a commentare gli ultimi versi.

    di Steven Grieco Rathgeb:

    “Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
    Il loro senso completo.
    Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
    Il resto lo fa il poeta.
    Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
    e quindi velocissima…”

    *

    Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
    I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
    Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
    Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
    Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
    che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
    inafferrabile. […]

    *

    Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
    i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
    E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
    (Steven Grieco-Rathgeb)

    *

    Una brezza
    la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
    nessuno,
    la soglia non varcata.
    In questo addio, sono tornato a casa.

    (Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

    Anche qui è un ritorno senza ritorno: E’ la brezza ad aprire la porta di casa: dentro non c’è nessuno. “la soglia non varcata” ma varcata con gli affetti e il pensiero? è qualcosa di detto, ma come se fosse detto con parole diverse con un messaggio che attraversa l’anima, parole impregnate di addio e di sentimenti che restano protetti dal fitto fogliame e. dal silenzio…

    (Mariella Colonna)

     

  • *APPUNTI SUL TESTO di Daniele Gigli
    Il libro, uscito in prima edizione nel dicembre del 2015 per l’editore Raffaelli, riscrive e incorpora nella prima metà testi provenienti dalle plaquette
    Fisiognomica (2003) e Presenze (2008). I primi hanno subìto una riscrittura consistente, mentre ai secondi è toccato un semplice riarrangiamento.
    Nel primo dei due casi, considero i testi come nuovi – come una grave e presuntuosa autocitazione, se vogliamo – e non come versioni alternative e/o sostitutive di quelle già pubblicate. Alcuni dei testi della seconda parte sono invece già usciti nella medesima versione attuale in luoghi diversi: Mercoledì delle Ceneri è la versione esecuzione del testo eliotiano che pubblicai con la Locanda del Re Pescatore nel 2014. Fuoco unanime ebbe l’onore di far parte del primo Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea di Raffaelli (2013), mentre Alyscamps e alcuni altri frammenti sono stati ospitati sulle riviste
    «Atelier» e «Amado mio» (2014-2015).

    Fuoco unanime
    La struttura portante di Fuoco unanime non è che la narrazione di una dozzina di ore scarse, possiamo dire dalle 19 di una sera qualunque alle 7 del mattino successivo. Dodici ore che sono a un tempo «qui e ora», e «sempre e dovunque».
    Il «vuoto delle parole che si svuotano» del secondo frammento è ovviamente preso dal Caproni di Senza esclamativi, mentre i «vomitati dalla bocca» sono gli ignavi ammoniti da San Giovanni in Apocalisse 3,16: «Sed, quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo».

    La «Signora del pruneto» è la Madonna dei Fiori di Bra, presso Cuneo, il cui pruneto fiorisce ogni anno nei giorni tra Natale e Capodanno. La tradizione fa risalire l’inizio di tale fenomeno al 29 dicembre 1336, quando con la sua apparizione la Vergine salvò Egidia Mathis, incinta di nove mesi, dal tentativo di stupro di due soldati e ne accudì il parto.

     

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Poesie di Kjell Espmark da La Creazione nella traduzione di Enrico Tiozzo – Verso una nuova ontologia estetica. Una poesia di Steven Grieco Rathgeb – Riflessione intorno alla Cosa – Heidegger e Lacan, La brocca e il vuoto nella brocca – Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Mariella, Giorgio Linguaglossa – Pensieri di Andrea Emo e Heidegger con uno scritto di Donatella Costantina Giancaspero

foto-gunnar-smoliansky-1976

foto di gunnar-smoliansky-1976

Verso una «nuova ontologia estetica». Riflessione intorno alla «Cosa».

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-21978

È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.

Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.

La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.

È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.

Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.

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foto di gunnar-smoliansky, 1958

londadeltempo

26 luglio 2017 alle 0:36

Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!

(Mariella)

Onto Espmark

Kjell Espmark, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Poesie di Kjell Espmark da La Creazione (2016, Aracne) traduzione di Enrico Tiozzo

 Commento «ontologico» di Giorgio Linguaglossa

 Nella nuova poesia il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il «solido nulla» del nostro nichilismo, quest’ospite ingombrante che non possiamo più mettere alla porta, perché tanto non varrebbe, si ripresenterebbe tale e quale dinanzi e dietro di noi senza preavviso…

La «positività» del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo, è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia di Kjell Espmark con la mente sgombra, senza pregiudizi, facendo vuoto sul prima della poesia, e sul dopo, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare negli uomini e le donne che parlano in questa novella Antologia di Spoon river la progressiva nullificazione del nulla che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo propriamente ciò di cui tratta la «nuova ontologia estetica», prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica e quant’altro…

Mi conoscete come Yan Zhenqing,
il maestro del pennello dritto.
Ma l’imperatore mi trovò altro uso.
Le rivolte allora squarciavano il regno.
I figli pugnalavano il loro padre
e le donne si sbudellavano come galline.
La realtà da noi ereditata cadde in pezzi.
Sì, la luna stessa fu ridotta in cenere.

Il mio valore durante la resistenza
mi aveva fatto diventare ministro.
Ma la mia aperta critica ai cortigiani corrotti
suscitò l’ira del primo consigliere.
Mi mandò a fare giustizia
del capo della rivoluzione Li Xili
pagando con la mia vita per l’oltraggio.

Ma Li voleva comprarmi. Si racconta
che accese un falò in giardino
minacciando di buttare un no nel fuoco.

*

E che io destai il suo rispetto
quando da me andai verso le fiamme.
La memoria vuole eradere ciò che davvero accadde.

Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta
vi racconta tutto questo.
Una pennellata comincia e finisce debolmente
come la donna che a lungo ho amato
ma il corpo del segno è d’un guerriero.
Solo così lo scritto è capace d’intervenire.

Ora ero al limite del mio filo d’erba curvantesi.
L’ultima notte nel tempio di Longxing
scrissi mentre aspettavo il boia.
Il diretto, oggettivo scritto
restituì alle parole saccheggiate il loro senso.
Costrinse la cenere a ridiventare luna,
riempì lo stagno perché vi si specchiasse
e ridiede al Buddha nel tempio le sue braccia.
Quelli che venenro per strangolarmi
furono atterriti dalla forza dei segni.

*

Quando prendeste il largo
tra costellazioni spaventose
lasciandomi da questa parte del Giordano
portaste con voi una patria incompleta.

Divenni un mucchio di ossa abbandonate
rose da iene e avvoltoi
e rese lucide da vento e sabbia.
Ma i resti della gabbia toracica
trattennero ciò che il naufrago capì.

E ciò che veramente è io in me
non s’arrese. Questa tremula fiamma sperduta
ha vagato lungo vie polverose,
che non erano polvere né vie,
per cercare voi, i miei.

Volevo mettere la mia anziana parola
nei vostri sogni, senza destarvi. Sussurrare:
La creazione è ancora incompiuta.

*

Ed è in voi che spera.
Avverto come vi girate nel sonno
con mani che afferrano nell’aria vuota
come per difendersi.

Ma perché giacete in così tanti,
ammucchiati insieme disperatamente,
su una sorta di letti di assi sporche?
E perché siete così smunti?

Voglio spargere in voi ciò che ho capito,
come cerchi su un’acqua dormiente.
Ma perché l’acqua è così scura?
E perché trema senza sosta?

*

Mi precipitai fuori, trasformata in fiamme
dalla biblioteca di Alessandria.
I nove rotoli di papiro in cui abitavo
ancora crepitanti di deluso amore,
mutarono in scintille e salienti schegge.
E morii per la seconda volta.

Frammenti di me rimasero come citazioni.
La mia parola per cielo s’impigliò in un dotto pedante –
Lui era fisso alla scrivania
Quando il blu di colpo divenne il blu profondo.
Un pronome usato in modo inusuale
stregò un grammatico. La parola
che scrisse se stessa in giallo e verde – uno scarabeo! –
aprì le sue elitre e si alzò
per portare il suo contesto attraverso i secoli.

Altri frammenti di ciò che era Saffo
rimasero come schegge sui passanti
per “richiamare chi a lungo amò”

*

Invece di cercare la Grande Visione
dovresti dedicarti ai piaceri della procreazione
e poi uscire con la tua donna nella luce lunare,
ascoltare l’unico liuto
e sentire l’aria fredda passare sul collo
Quel consiglio l’avesti da me, Li Zhi,
che una volta cercò d’insegnarti a scrivere
come salta la lepre e come colpisce il falco,
non per essere citato.
Non cercare di difenderti col fatto
che molti vogliono bruciare i tuoi libri.
Il vero testo
brucia mentre la mano scrive –
la carta s’accartoccia con i bordi neri.

Sull’estrema punta del capello
dove non visto costruisti la tua capanna
trovasti un’accademia.
Sono deluso da te.
Hai dimenticato me gettato in galera

Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –

*

La mia mano che mano più non era
prese la sua che ancora era ombra.
E cominciammo a salire su nel buio.
Ad ogni gradino noi creammo
un pezzo dell’altro – un contorno noto,
gli occhi che un giorno scelsero l’altro.
Sì, dalle carezze ci nacquero sessi noti.

Vicino alla luce alla fine della scala,
alitato il respiro l’un nell’altra
rimanemmo fermi sopra un gradino
che doveva dirci qualche cosa:
spingi indietro la tua immagine dell’altro
e lascia che l’altro sia l’altro.
Stupiti ci fermammo,
prima che la creazione si compisse,
per imbrigliare il bisogno di riconoscere.
Ed era la sera del sesto giorno.

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 8:22 gentile Mariella,

UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-22003

forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».

Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).

La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita.
Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:

la soglia non varcata

Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.

Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.

Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica»,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito».Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.

 

Onto Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.
Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.

Il responso di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?»
[…]
«nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*

* citato da Adalberto Coltelluccio in
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.

onto Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi nella sua grafica

Lucio Mayoor Tosi
26 luglio 2017 alle 7:08

SULLA POESIA DEL NICHILISMO E L’ONTOLOGIA TRADIZIONALE

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-22002

Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose.
Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive:
“Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.

Scrive Heidegger:

«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:

«Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben.»
(IT)
«Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata.»
(In GA 39 p.22)

La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden).

Leopardi, al contrario di Hölderlin,

non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci: perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.

Costantina Donatella Giancaspero_11_dic_2016

Donatella Costantina Giancaspero, Fiera del Libro dell’EUR, Roma, 2017

Presentazione di Kjell Espmark di Donatella Costantina Giancaspero

 Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.

Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.

Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.

Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.

All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer. In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.

Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro La via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.

Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che si trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa, pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.

 

 

 

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ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 

Testata violaTestata azzurraTestata azzurro intensoLucio Mayoor Tosi Composition

L’OMBRA DELLE PAROLE

 INVITO 

al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA

Giovedì 30 Marzo 2017 – h 18:00

Presso la libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106 – Roma

 La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende perseguire. L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti. Sarà presente la Redazione. Vi aspettiamo.

Programma

  1. Giorgio Linguaglossa: Lettura e Commento di tre poesie di Gabriele Pepe – L’Evento come rottura della simmetria spazio – temporale.
  2. Chiara Catapano: Ο Μαϊστρος (Maestrale – di Steven Grieco-Rathgeb): lettura e commento dell’anima inconsapevole di un paesaggio.
  3. Steven Grieco Rathgeb: Lettura e commento di una Poesia di Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge
  4. Gino Rago: da Aldo Palazzeschi a «Preghiera per un’ombra» di Giorgio Linguaglossa: verso lo “spazio espressivo integrale” passando per Rebora e Pasolini – 3 poesie brevi di Palazzeschi, Rebora, Pasolini sull’ars poetica come antefatti a «Preghiera per un’ombra».
  1. Donatella Costantina Giancaspero: Lettura e commento di una poesia di Petr Kral (da Poeti cechi, Mimesis Hebenon, 2013 traduzione di Antonio Parente).
  2. Franco Di Carlo: Dialogo con Giorgio Linguaglossa su Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini.
  3. Sabino Caronia: Kafka e il romanzo del Novecento.
  4. Ospite: Salvatore Martino che parlerà del proprio itinerario poetico.
Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Lucio Mayoor Tosi Acrilic

ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 Domanda: Tu hai scritto:

«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto più volte i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Puoi portare un esempio di poesia non appartenente a questi tipi di scrittura che oggi vanno molto di moda?

Risposta: Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.  

La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come  frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così semplici e diritte. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

Domanda: Puoi fare un esempio?

Risposta: Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta tautologica perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017)  la «quadridimensionalità». La poesia di Grieco-Rathgeb abita  un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o  commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

Domanda: puoi portare qualche testo a riprova di quello che dici?

Risposta: Senz’altro. Ecco alcune poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte dal suo volume Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Continua a leggere

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Laboratorio di Poesia de L’ombra delle parole, Roma 8 marzo 2017 – Libreria L’Altracittà – Lettura  del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive – Nota di lettura di Letizia Leone del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla 

Steven Grieco 8 marzo 2017 Luciana Vasile

Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Steven Grieco Rathgeb e Luciana Vasile

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com

Steven Grieco Giorgio LInguaglossa Letizia Leone 15 dic 2016Nota di Lettura di Letizia Leone

L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.

Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59)  raccolti in  “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.

La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.

Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.

Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.

La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un    confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.

Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).

Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.

Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto  delle tensioni globalizzanti.

Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.

Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:

Questo mondo, riflettevo, o soltanto / Un’immagine? Ero incerto anch’io.

laboratorio-steven

laboratorio di poesia L’Altracittà, Steven Grieco Rathgeb

La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.

Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).

“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.

Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico. 

Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.

E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.

Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.

L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.

“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):

Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.

 

Steven Grieco 8 marzo 2017

Laboratorio di Poesia 8 marzo 2017 Steven Grieco Rathgeb

Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive

 Abbasso lo sguardo. Su un tavolinetto circolare, appoggiati un po’ alla rinfusa, tanti libri. L’occhio di bue si accende su “Entrò in una perla”. Mi cattura. È un Caso – nel quale non credo – che abbia messo a fuoco solo quella copertina, il resto nella nebbia? In effetti quel titolo conferma la mia convinzione che sia il vuoto a disegnare il pieno. Il pieno della perla disegnato dal vuoto rarefatto del pensiero che si fa parola. Anima contenuta nel corpo, e non viceversa, come istintivamente saremmo indotti a pensare. Ingrandisco ancora l’immagine: l’autore Steven Grieco-Rathgeb.

Ora quel libro ce l’ho fra le mani. Lo sto per aprire. Sono curiosa. Scoprire in me le sensazioni che mi donerà la sua lettura. Perché la parola prima di tutto è comunicazione. Sono consolatori i momenti nei quali si supera la solitudine, alla quale è condannato l’essere umano, quando si trova consonanza, vicinanza fra l’IO che legge e il TU che scrive. Dipende da ciò che si tatua nella nostra sensibilità e comprensione nell’anelito di ri-conoscersi che è un attimo e/o del conoscere che è molto più lento. Sono pronta a dedicarmi all’ascolto.

Scorro con lo sguardo i segni neri e gli interstizi. A gruppi di non più di tre/quattro versi la distribuzione sul foglio bianco. Eloquenti le pause, geografia nel mare aperto del non detto. Anche la poesia ha una sua rappresentazione grafica, il disegno-progetto partecipa al significato. Io assorta. Non resto colpita nei sensi, ma il desiderio è di penetrare il frammento di un pensiero che a distanza rincorre altro pensiero, dove la mente divaga libera, galleggia nelle immagini e lancia concetti.  Dice il poeta (pag. 61): Nel silenzio la poesia parlò/ le sue parole come liane/ di un rampicante/ che saliva/ ogni nodo più alto/ verso un aprirsi, una trama/ sorpresa/ in altro esistere/ … Primo attore del libro è l’IO-pensiero che dialoga e palpita con la natura, gli alberi, i fiori; con lo sciabordio dell’acqua; con la realtà del mondo nelle sue molteplici espressioni; con l’inseguire la luna e raccontarne, attraverso lo stupore, il mistero della sua pienezza (pag. 19):

Ora che sei sorta, luna-cenere,/ quasi invisibile nella notte appena fatta,/ nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,/ mi chiedo come questo orlo di luce/ esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina/ del tuo sferico splendore./ … Possa io stanotte/ dimenticando la distanza/ dire l’oscura sfera della tua pienezza.

Da parte del poeta una continua attenzione alla parola, che esiste nella sua stessa negazione, nel suo stesso inganno (pag. 35) :

Impara l’etimo di leggere./ Significa raggiungersi dentro e oltre se stessi,/ sfiorare in ogni attimo la follia?/ O esiste chissà dove la soglia/ che varchiamo verso un’origine nascosta?/ Le parole che da ogni lato si volgono false,/ non ti mostreranno tutto il visibile/ (ché lo stesso guardare così presto vanifica)/… (pag.39) … così le parole mi volano dalla bocca/ e qualcuno tende un filo/ di sillabe al cielo/ e non so come farle/ ricadere giù, una dopo l’altra,/ sprofondate nel sonno.

Steven Grieco 8 marzo 2017-3

Laboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà 8 marzo 2017

Da parte del poeta una intensa riflessione filosofica nell’approfondimento del (pag. 41):

come se il nostro rischioso oscillare/ fra l’identità e il suo inganno,/ fosse “noi”,/ scissi per sempre fra questo e quello:/ … E ancora fino a spingersi all’orlo dove alberga l’anima (pag.43): …  E se l’universo fosse”un basamento intorno/ alla bocca del pozzo”: un basamento/ di pietre tratte dall’unico splendore/ delle sue stelle remote;/ con quanta fiducia/ ci spingeremmo all’orlo, per scorgere/ acqua limpida in fondo a quel baratro,/ berla profondamente con i nostri occhi!.

Rallegra la sintonia fra il TU che scrive e l’IO che legge, che un giorno parlò della liquidità dell’anima, indicando che bisogna fare una capovolta di 180° per immergersi in quel pozzo senza fondo, con coraggio esplorarlo.

Steven Grieco Rathgeb rifiuta la metrica come prigione, evita la musicalità come distrazione, il pensiero è libero – anche da se stesso? -. Privilegia la prosa poetica che meglio si addice a ricreare la frammentarietà del linguaggio interiore fatto di immagini flash non necessariamente conseguenti l’una all’altra, con un nesso logico o seguendo una trama, ma che esprimono lo spazio “dentro” arredato di ricordi, esperienze, visioni, in un tempo dell’IO senza cronologia, incurante del battere le ore della pendola. Tutto si dilata in un eterno presente. Il qui e ora è il tempo della scrittura (pag. 89) : …     

 I giorni si muovono veloci o pesanti,/ contraddicendosi: identici/ in come tornano sui propri passi,/ La loro irreplicabilità mozza il fiato./ Mirabile, il poema che narra questo/ inesausto rinnovarsi,/ Ciò che nelle sue pagine hai appreso ieri/ lo ascolti oggi, e forse avrà un altro senso./…

Come lettore è più diretto individuare in sé le emozioni, le suggestioni dell’Altro che scrive quando riescono a coinvolgerci, pizzicare l’anima senza intermediari. Steven Grieco Rathgeb invece ci costringe, attraverso i suoi versi, ad un impegno più faticoso, e forse per questo intrigante. Quasi una sfida. Ci invita ad entrare, senza timore, nel mondo a volte celato, criptico dell’immagine-pensiero-parola e i suoi estrosi giochi. Ma non tutto sta scritto è decifrabile ed è dato capire. Anzi, si dice, che la poesia possa essere anche mistero, che affascina e fa scattare in avanti, alla ricerca. Partendo dal fatto che istintivamente adoro le cose semplici, ma non mi piacciono le cose facili, mi dico, forse si può arrivare alla verità che, io penso, sia semplice – oppure alle emozioni, che ci fanno intravedere la verità quando lacerano i sensi – anche attraverso la complessità?

Ultimata la lettura, introitate le parole – da quale parte sono entrate? dagli occhi, dalle orecchie, dai pori della pelle che si alzano attenti, dalle sollecitate papille gustative o olfattive, dalla mente che ragiona o dallo stomaco centro dell’IO? – tanti gli interrogativi e le domande, soprattutto a chi come Grieco Rathgeb si muove nella ricca esperienza di diverse civiltà e realtà, e nel percorrere la parola di più lingue madri. Per esempio, Steven in quale idioma pensa? in quale idioma sogna? Per quanto mi riguarda, io, continuerò a ruminare. Ci sto prendendo gusto.

Poesie da Entrò in una perla (2016)

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was changed into air!

into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid

Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on
My heaven has split from top to bottom

And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

ill I thought this life will last forever

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno

*

Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream

You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained
– always so decisive – and every blacknight moth alive
every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld
astronomer beyond thin partitions wondering,
every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –
expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment
– tangible, visible splinters to unseen frontiers
and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and
came hurtling like cries!
Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper
with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers
yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet

Via Merulana, 11 February 2013

Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno

Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta
– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena
ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo
astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena
un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso
discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:
tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere
ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano
lanciate come grida!
Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi
inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –
eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco

Via Merulana, 11 febbraio 2012

Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo

Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.
What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…
And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!

Supersymmetries – Florence, 1999

*

Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo

Il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.
Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …
E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!

Supersimmetrie – Firenze, 1999

letizia leone

letizia leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

Luciana VasileLuciana Vasile è nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da quindici anni, ha  scoperto il piacere di scrivere. E’ fondatrice e Presidente della HO UNA CASA-Onlus.Ha conseguito numerosi premi per la prosa e la poesia. E’ membro delle associazioni internazionali degli scrittori: P.E.N. Club Italiano e Svizzero. “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, 2006 Editrice Nuovi Autori di Milano, ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. “Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, 2008  Fermenti Editrice, volume antologico, curatore Donato Di Stasi.

“Danzadelsé” – Ho ballato per Paparone e altre storie, 2012 ProspettivaEditrice, pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, anche in ebookHa vinto il Premio Internazionale Lago Gerundo 2013 e premiato in altri quattro concorsi. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso… eros, filia, agape”.

luciana.vasile@tin.it

www.lucianavasile.it

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Letizia Leone: Nota di lettura  sulla poesia di Steven Grieco-Rathgeb in occasione della presentazione del libro Entrò in una perla (Mimesis Hebenon Edizioni, 2016) alla Biblioteca “Nelson Mandela” di Roma il 15 dicembre 2016 con Poesie scelte dell’autore

foto di Steven Grieco

Traffic of Sakurabana

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

steven grieco piccioni sul terrazzo

India

Nota critica di Letizia Leone

L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.

Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59)  raccolti in  “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.

La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.

Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.

Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.

La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un    confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.

Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).

Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.

Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto  delle tensioni globalizzanti.

Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.

Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:

Questo mondo, riflettevo, o soltanto
Un’immagine? Ero incerto anch’io.

Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.

La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.

Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).

“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.

Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico. 

Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.

E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.

Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.

L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.

“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):

Poesie di Steven Grieco Rathgeb

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

agli stormi di piccioni in volo

agli aquiloni che danzano più su

alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.

E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

.

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraverso muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah,, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscillo

Il mio firmamento di è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni

finché pensai che questa vita durerà in eterno

Prakriti – queste piante, questi animali

Qualcuno parla di questi esseri,
e le sue sillabe sono bianche, come loro, e vanno
nell’aria pacata
di mezzogiorno

perché ogni albero possa ascoltare e risplendere
immoto
                                raccogliersi nella foresta chiarissima

e questo essere lo spazio più chiaro
un non-spazio
come di tronchi abbattuti

e l’ascolto allargarsi fra le case radiose,
quasi un grido fanciullesco che
tutto questo È
è il perfetto e puro
                                                        “irrealizzato”

e perché ogni essere irreale venato d’azzurro,
immarcescibile radice erbosa
del sempre-presente

possa chinarsi
reale ed incorrotto,
discendere in questo tempo finito

queste migliaia in ogni dove
egrette in una danza
abbagliate dal reciproco bianco delirio,
questi esseri che vivono vividi, occhieggiandosi
in magica fissità.

Ah, il vostro attimo di panica creazione

Ma attraverso il mio Io,
attraverso la zolla di fango che mi racchiude

di quando in quando
                                 va il raggio luminoso
l’alto fischiare di parole…

Faridabad, ottobre 2004; Delhi, dicembre 2005

steven-grieco-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-15-dic-2016

da dx Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa Biblioteca Nelson Mandela in occasione della presentazione del libro il 15 dic. 2016, Roma

 

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

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DISCUSSIONE: VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA. UNA POESIA DI STEVEN GRIECO-RATHGEB COMMENTATA – UNA POESIA INEDITA DI LUCIO MAYOOR TOSI CON UN COMMENTO IMPOLITICO DI GIORGIO LINGUAGLOSSA E DUE REPLICHE DI GIUSEPPE TALIA

gif-fuochi-dartificiohttps://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/08/poesie-di-kjell-espmark-1992-il-tempo-interno-la-dis-locazione-e-il-frammento-poesie-tratte-da-quando-la-strada-gira1993-la-creazione-2016-traduzione-di-enrico-tiozzo-aracne-2016-prefazio/comment-page-1/#comment-16569

Roma, giovedì 15 dicembre 2016 ore 17.30 alla Biblioteca Nelson Mandela via La Spezia n. 21 Presentazione del libro di poesia (bilingue italiano / inglese) di Steven Grieco-Rathgeb: Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Intervengono Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa – sarà presente l’Autore

Commento alcuni versi di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb del 1993.

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.

In questo addio, sono tornato a casa.

(S. Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Prendiamo questo «frammento» di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb. C’è «la brezza» (che ritroviamo sia nella poesia di Tranströmer che in quella di Kjell Espmark), subito dopo incontriamo «una porta» (Quante «porte» ci sono nella poesia di Tranströmer!). La «porta» come luogo simbolico, limen divisorio tra un al di qua e un al di là, tra il familiare e l’estraneo; ma la porta è «spalancata». È dunque un invito ad andare oltre? Un invito ad oltrepassare la soglia? (ma la soglia di che cosa?), o è un monito minaccioso quello spalancarsi della porta che intimidisce… La poesia subito si interrompe, c’è un punto. Segue la dizione «Fitto fogliame». È un bosco dunque. Che cos’è il bosco? Che cosa rappresenta? Ricordo che un antico ideogramma cinese rappresenta la parola «essere» mediante un disegno stilizzato ai minimi termini che indica le foglie di un bosco. L’ideogramma cinese indica una equivalenza tra il «bosco» e l’«essere». E qui ci sovviene Ortega y Gasset che ci spiega come sono le foglie del bosco che impediscono allo sguardo di vedere attraverso il bosco, cioè il bosco chiude la visione dell’uomo il quale non può oltrepassarlo. La visione dell’uomo non può penetrare dentro la sostanza dell’essere, si deve fermare alla soglia delle foglie sempre più fitte. È questo il significato di questi primi due versi della poesia. Il terzo verso è fatto da una parola sola: «nessuno» può andare oltre quella soglia raffigurata dal «Fitto fogliame», quel «nessuno» siamo noi, è il poeta che non può spingersi oltre quelle colonne d’Ercole della propria interiorità profonda dove sostano i significati come grandi sommergibili affondati, perché in quell’oltre c’è l’ignoto che spaventa e sbigottisce. E quindi viene pronunciato l’«addio» a quel progetto irragionevole e prometeico di andare oltre il «Fitto fogliame». Bisogna rinunciare al progetto prometeico, «ritornare a casa».

È questa la poetica del «frammento» come oggi noi la intendiamo (molto diversa, caro Giuseppe Talia, dal frammentismo dei poeti de La Voce di De Robertis). Qui non si tratta di una mera capacità di interpuntare con il punto le unità frastiche, ma si tratta di una vera e propria immersione nel sottosuolo, in quel sotto suolo del sotto suolo dove dimorano gli oggetti profondi, anzi, per l’esattezza le «Cose» misteriose che, di tanto in tanto, affiorano in superficie e si vestono di parole e di immagini…

Ed ecco Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

 LUCIO MAYOOR TOSI UNA POESIA INEDITA CON UN COMMENTO IMPOLITICO DI Giorgio Linguaglossa

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Lucio Mayoor Tosi

Altre velocità.

Scacchiera e blu elettrico sull’asteroide Pio XI°.
Pavimento di larghe piastrelle, chiaro, dove si balla.
Salirci è un attimo.
Oltre, nel buio:
un centro abitato, case e giardinetti. Il profilo di un bosco
– Filari d’alberi. Pubblico in platea, l’arrivo silenzioso
di un locomotore. La luna dietro, nascosta.
Qui e là, luci che si sono spente.
Nel vuoto.
Seduto accanto a un grande albero
il poeta scrive canzoni piene di sentimento
indeciso se trasferirsi al 1969 oppure nel sottosuolo.
Chiunque tu sia muoverai la bocca come un pesce nell’acquario.
Nessuno ti capirà.
(Un poeta assurdamente vicino
cancellerebbe tutte le strade praticabili.
Potrai salvarti solo spiccando un salto
sia quel che sia, fuori dal tempo)
Poter rubare qualche ostrica…

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Mi scrive Lucio Mayoor Tosi: «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto, senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Lucio Mayoor Tosi è forse il più conseguente esecutore testamentario di una poesia del «frammento» nel duplice senso che il senso abita il «frammento» e nel senso della frammentarietà del «frammento» stesso. È il suo personalissimo contributo alla poetica del «senso del frammento» che oggi alcuni poeti tentano di perseguire. Il problema che affronta Mayoor Tosi è che oggi l’«oggetto» si dà in forma di «frammento», e quindi il «frammento» è la chiave per entrare dentro l’«oggetto». È questa la grande novità di questa poesia. Adottando questo punto di vista, cambia tutto, cambia la stessa cognizione del metro e del verso. Cambia la natura del metro e del verso. Saranno il metro e il versus che dovranno piegarsi (sintatticamente, semanticamente) alle esigenze del «frammento», che adesso acquista una posizione centrale.

C’è in Mayoor Tosi la consapevolezza che l’aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre (“il tutto è il falso“) è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia hegeliana.
Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]. La poetica del «frammento» è la risposta più evidente e forte che la poesia italiana oggi dà alla Crisi della poesia e alle ideologie dominanti: ha consapevolezza che la poesia del «frammento» è una poesia del negativo, della negatività assoluta che confuta il «falso» e il «vuoto» della «totalità» che abita la poesia della riproposizione metrica. Mayoor Tosi sospetta fortemente che l’unità metrica è un falso, e la mette da parte, spezza il parallelismo della poesia della riproposizione metrica, lo frantuma, lo svuota di senso, mette la dinamite sotto l’ideologia della riproposizione metrica, ne mostra l’interno vuoto e posticcio, elimina i passaggi, gli enjambement, i legamenti tra un verso e l’altro e procede per «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto». È l’utopia del verso isolato e scisso dal «tutto», che impersona l’utopia contro l’ideologia. Lucio Mayoor Tosi vuole una poesia «senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Ecco i primi tre versi della poesia:

Scacchiera e blu elettrico sull’asteroide Pio XI°.
Pavimento di larghe piastrelle, chiaro, dove si balla.
Salirci è un attimo.

Qui è stato distrutto tutto, è stata dichiarata guerra ad ogni ipotesi di senso e di verosimiglianza che un concetto ideologico di poesia tardo novecentesca vorrebbe conculcarci. Qui siamo su di un «asteroide» con un «Pavimento di larghe piastrelle» «dove si balla». È incredibile con quanta naturalezza e facilità qui sia stata distrutta l’ideologia del senso della poesia della riproposizione metrica oggi dominante, «salirci è un attimo», scrive Mayoor Tosi.
Una proposizione di poetica chiara, forte, inequivoca.
Il «frammento» è concepito come particolare che esprime la negazione della totalità, l’espressione cioè di una totalità negativa. Il «frammento», dunque, non può essere che una micro totalità intensamente abitata dal negativo e dalla negazione. È una poesia che va dritta verso l’ignoto senza salvagente come un acrobata che volteggi senza rete di salvataggio.

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Scrive Marco Maurizi riprendendo una nota tesi di Adorno:

“Testi, che tentano apprensivamente di indicare senza interruzioni ogni passaggio, cadono perciò anche immancabilmente nella banalità e nella noia, che affetta non solo la concentrazione della lettura ma anche la loro stessa sostanza“. [1]

Adorno punta ad una contraddizione latente dell’idea di sistema. Un testo, infatti, in cui ogni passaggio concettuale venga oggettivato, una totalità in cui lo sviluppo dell’argomentazione fosse fissata in modo rigoroso, renderebbe superfluo il pensiero. Ecco che a partire da un rilievo puramente formale, l’ideale dell’esposizione continua di un contenuto, siamo giunti ad un dato contenutistico che – secondo Adorno – costituisce al tempo stesso il suo telos nascosto. Nell’ideale del suo pieno dispiegamento il sistema mostra che ciò che sembra appartenere alla mera “tecnica” spinge verso l’esautorazione del pensiero. Allo stesso tempo, tuttavia, l’esigenza sistematica muove verso la dissoluzione dell’oggetto, della sua natura opaca e altra rispetto al pensiero.

“La regola della completezza dei singoli passaggi pretende […] che l’oggetto si lasci esporre in un contesto deduttivo privo di fratture: una presupposizione della filosofia dell’Identità. […] La richiesta di continuità nel processo del pensiero tende ad assumere in modo pregiudiziale la chiusura nell’oggetto, l’armonia propria di questo. […] La concezione romantica del frammento come creazione incompiuta e tuttavia proseguente verso l’Infinito attraverso l’autoriflessione, propugnava [al contrario] un motivo anti-idealistico“. [2]

Scrive Marco Maurizi:

«Come il contenuto del pensiero anti-sistematico non può che esprimersi in forma frammentaria, così il frammento ha la propria ragion d’essere nell’espressione di questo contenuto critico. Il pensiero che sceglie la forma aperta e priva di potere del frammento è animato, dice Adorno, dalla denuncia del dominio sulla natura e sugli uomini: è solo in rapporto a questa perenne denuncia che il termine “negazione” assume un significato in Adorno e che dunque è possibile comprendere in che senso il frammento si faccia negazione della totalità. Negativo è sinonimo di critica, critica di un positivo secondo il concetto hegeliano della bestimmte Negation». [3]

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Il «soggetto», come sappiamo, è da sempre nel legame relazionale. Interloquisce con altri «soggetti» e dimora tra significato e significante, tra enunciazione ed enunciato, tra il rumore delle parole e il silenzio delle parole. Il soggetto si nasconde sempre, lo sappiamo, lo abbiamo appreso da Lacan; ma è nella logica del rimosso che questo avviene, ovvero, nello spazio politico della parola (anche poetica). La parola poetica obbedisce allo spazio politico? Quale legame c’è tra l’agorà del politico e il discorso poetico? La parola poetica, il logos poetico si dà soltanto nella rappresentazione di finzione? Per il discorso politico relazionale, il «Reale» è ciò che è irriducibile alla simbolizzazione, la sua è una verità alienata; invece, nel discorso poetico tutto viene ricondotto, in un modo o nell’altro, al processo della simbolizzazione (diretta o indiretta). Qualcosa torna sempre allo stesso posto, tende ad affiorare ma come in maschera, come un contenuto ideativo che si veste di parole. La «verità» si dà nel processo e nel tempo, tra rimozione e simbolizzazione, tra «io» e l’«Altro», imprendibile e imperdibile. Il luogo della rimozione non coincide con il luogo del tempo, entra in conflitto con esso e sprigiona le scintille della simbolizzazione. Il luogo della «verità» coincide così con il luogo della «perdita».

Il concetto di «orizzonte della parola» è analogo al concetto scientifico di «orizzonte degli eventi»; è l’apparire della parola che si dà come un «evento». Il rapporto fondamentale non passa quindi tra ciò che si dice e ciò che si tace come se fosse un gioco di abilità, da rethoricoeur, da prestigiatore, ma un «evento» che ha già in sé uno spazio di ombre significanti e di significati ormai non più attingibili e transitati nell’imbuto del tempo.

Nel tempo in cui la crisi è in crisi, non c’è più alcun luogo a cui appigliarsi se non al punto fermo che chi Parla è un Altro che introduce il suo discorso eterodiretto con il nostro egolabile.

[1] Th. W. Adorno, Minima moralia, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M 1978, IV, n. 50.
[2] Th. W. Adorno, Noten zur Literatur, in GS, cit., XI, p. 24.
[3] https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/06/claudio-borghi-riflessioni-sulla-poetica-del-frammento-e-del-tempo-interno-poesie-tratte-da-dentro-la-sfera-2014-con-un-commento-di-luigi-manzi/comment-page-1/#comment-16463

Giuseppe Talia

8 dicembre 2016 alle 22:57

 Accogliendo l’invito di A. M. Favetto, come anche di A. Sagredo (lupus in fabula o uno-dei-due) vorremmo riportare alcune notizie letterarie sul frammento che agevolmente abbiamo trovato su wikipedia (fonte da prendere con le dovute riserve), cercando, oltremodo, di applicare nello specifico la teoria del frammento ai versi dell’autore proposto, Kjell Espmark, come anche dell’unico esponente della poetica del frammento che al momento riconosciamo, Giorgio Linguaglossa.

( Di Sagredo, M. Mario Gabriele e Ubaldo de Robertis tratteremo più avanti. Degli altri aderenti al movimento che compaiono citati nella discussione non abbiamo elementi significativi da trattare).

Leggiamo su Wikipedia:

1) Il Frammentismo, o Poetica del frammento, è una tendenza letteraria sviluppatasi in Italia nei primi anni del Novecento.

2) incarna una concezione della letteratura legata alle dottrine irrazionaliste e decadenti

3) prevede la costruzione dell’opera letteraria non tramite un insieme organizzato di eventi e situazioni, ma tramite un mosaico di frammenti, di immagini, di episodi slegati fra loro.

Il punto uno dice chiaramente che il frammentismo si è sviluppato in Italia nei primi anni del Novecento. Ma, considerando la perfetta analisi di Sagredo, lo stesso ha interessato gran parte della letteratura così detta slava, anche se Sagredo sposta il baricentro del frammento sul piano prettamente linguistico e di critica, affermando: “Senza di esso non si riuscirebbero a comprendere le centinaia di analisi critiche, le quali non solo affrontarono i “frammenti contemporanei” (quelli cioè che si stavano svolgendo di pari passo alla evoluzione dei metodi critici per comprenderli), ma anche quelli dei secoli passati (non specificatamente russi, poiché gli esempi di poeti e scrittori stranieri servirono come esempio e stimolo ai critici russi e europei).”

Capiamo quindi che il frammento è utile a una certa critica e che esso è sempre esistito, “Il frammento nasce prima della comparsa dell’uomo”. (Sagredo, ibidem)

Il punto due dice che la poetica del frammento è legata alle dottrine irrazionaliste e decadenti. Ci piace pensare che Linguaglossa, in primis, appartenga all’irrazionalismo metafisico e non a quello radicale, visto il suo grande impegno per la poesia che egli critica e pratica da sempre. Anche l’irrazionalismo ontologico ben si addice al nostro Giorgio, perché, conoscendolo poco di persona, ma avendo letto con attenzione la sua vasta produzione, potremmo azzardare che dietro alcuni aspetti formali vi sono sicuramente altri interdipendenti (visto la poiesis ) con aspetti decisamente opposti. (decadentismo).

Il punto tre entra nel merito della produzione vera e propria. La scelta del frammento è conseguenza di una visione della vita confusa, parziale e soggettiva. Al soggettivo si contrappongono immagini in cui l’oggetto percepito dal soggetto si ferma (Silenzio. La pioggia infuria lassù. Espmark) (Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra. Linguaglossa) come quadri impressionisti, in un realismo en plen-air che nega l’importanza del soggetto a scapito del colore più che del disegno, dovuto, quest’ultimo a una forma tradizionale, mentre il frammento (come l’impressionismo) privilegia la libertà del verso.

Leggiamo ancora che il frammento si avvicina all’espressionismo, al lato emotivo della realtà (Abitavo presso una stella sul canale nero, Linguaglossa) (Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,, Espmark).

Leggiamo ancora che il frammentismo trova il suo più valido sostenitore nella rivista La Voce, durante il periodo di direzione da parte di Giuseppe De Robertis, e che esempi della poetica del frammento sono Slataper, Boine, Rebora, Sbarbaro. La poetica del frammento è presente in Montale fin dagli Ossi di Seppia, anche se un esempio lampante si trova nelle Occasioni con la poesia Keepsake, frammento e onomastica di pari passo, ma, inaspettatamente spunta Pascoli con Myricae (Urtava, come un povero alla porta/ il tramontano con brontolio roco) che a quanto pare incarna pienamente i tre punti sostanziali della poetica del frammento.

Di fronte a una tale schiera di nomi non possiamo che validare ogni aderenza al movimento. Il quale, forse, per ragioni di corsi e ricorsi storici, ritorna in questo inizio di secolo con l’aggiunta di poeti nordici, i quali probabilmente si sono nutriti con il latte della Sibilla Cumana.

Certamente non si deve cadere nel tranello esemplificativo che scrivere per frammenti sia spezzare il verso con interpunzioni tipo “Buio. Accendo la luce. La nebbia si dirada”, in quanto la Musa, a cui si deve grande rispetto, e ancor di più ai lettori-fruitori (intendo quelli navigati in poesia) non la si può raccontare con esemplificazioni, ritrosie o epigonismi.

Sagredo ha molte pregevoli qualità. Una delle sue dis-qualità precipue è quella di dare un colpo alla botte e una al cerchio. Non ce ne voglia, ma notiamo, noi osservatori che lo stimiamo, che spesso, nella sua assoluta ricerca, casca in contraddizioni. Ora, premettendo che la cifra di Sagredo è proprio la contraddizione, non in termini ma in assoluto, non capiamo come mai egli voglia associarsi a una corrente letteraria, il frammento, che non gli appartiene e che relegherebbe la sua opera in una nicchia, quando, invece, la libertà dei suoi versi e della sua grande cultura, sostanzialmente non appartengono a nessuna corrente che non sia la propria. Di frammento non ne vediamo traccia nella sua produzione, piuttosto “sangre e arena”, la biacca del teatro shakespeariano, l’innovazione, la fuoriuscita dopo l’auto-isolamento. Dov’è la poetica del frammento nelle sue opere? Ce lo spieghi. Ci porti esempi pratici e non teorici.

Mario M. Gabriele ci intenerisce, piacevolmente e, ricercando, dove possibile, la sua ricerca poetica dispiegata in anni di studio e di lavoro, troviamo una recente evoluzione nella poetica del frammento con risultati di sicura rilevanza, laddove egli inserisce nell’onomastica letteraria, quadri espressionistici ed episodi apparentemente slegati, con una attenzione verso i sentimenti e aspetti morali della vita (Il boia a destra, il giudice a sinistra).

Ubaldo de Robertis, che conosciamo bene per corrispondenza, appare l’autore più lontano dalla poetica del frammento. Egli è Poeta, per profondità e per implicazioni musicali, sostanzialmente tradizionale anche se nella sua forma- poesia si ravvisano delle spezzature frastiche che presupporrebbero forme ibride, ma che, se ascoltiamo bene, tendono alla ricerca del suono, del ritmo, con una rappresentazione unitaria, in termini di componimento.

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Giuseppe Talia

9 dicembre 2016 alle 15:46

Ho come l’impressione che si voglia percepire la discussione intorno alla poetica del frammento come a una diatriba fra sostenitori e oppositori, tra chi ne rileva la portata rivoluzionaria e chi si abbarbica su posizioni tradizionali, fino ad arrivare a toni inquietanti di avvertimento a “non disturbare il conducente”, a non intralciare il passo a chi ha maggiore mobilità, a trincerarsi dietro il silenzio, fino alle offese gratuite (non si accettano intimidazioni né insulti che vengono rispediti ai vari mittenti).

Premetto che personalmente non sono né favorevole né contrario alla poetica del frammento. Nella mia dissertazione ho indagato fatti storici, indizi, teorie, affermazioni, corredando il tutto con esempi di critica applicata (mi tolgo un sassolino dalla scarpa, dicendo che siamo capaci di fare critica costruttiva e applicativa, non solo a scrivere baggianate pseudo-ironiche), mettendo a confronto autori e versi.

La poetica del frammento è una delle tante forme di poesia. E’ nata in Italia nei primi anni del Novecento; ha avuto esponenti di rilievo; continua ad avere esponenti a tutt’oggi.

Semmai c’è da chiedersi come mai la poetica del frammento si sia sviluppata nel nord Europa a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento, anche se, leggendo con attenzione la prefazione di Giorgio Linguaglossa al libro di Espmark, non si può che essere d’accordo con l’analisi condotta (quando Giorgio Linguaglossa si trova in quello speciale stato di grazia…).

Nel mio intervento mettevo, però, in guardia chi, interessato all’applicazione della poetica del frammento, pensasse che la stessa si potesse risolvere con l’interpunzione, la frattura del verso, l’impressione e l’espressione, in quanto la frammentazione richiede, invece, un’analisi sociale, linguistica, morfosintattica, financo simmetrica, con le alterazioni spazio-temporali, le pause, gli agganci e/0 innesti, la dislocazione dell’oggetto in rapporto al soggetto, l’autobiografismo: il protagonista guarda, ricorda, dice, riporta. “Il protagonista dice semplicemente: «La apro» (la porta), con tutto quel che segue”, scrive G. Linguaglossa nella prefazione a Espmark.

Riguardo ai versi di Steven Grieco Rathgeb “Una brezza/la porta si è spalancata. Fitto fogliame,/nessuno,/la soglia non varcata./In questo addio, sono tornato a casa”, si può notare che la forma è quella del haiku, (e non è l’haiku un frammento?) tornerebbero anche le sillabe se si sistemassero i versi in modo diverso “Una Brezza/la porta si è spalancata/Fitto fogliame. L’autore però continua con una metonimia, “nessuno,/la soglia non varcata”, quasi a voler rafforzare il senso di smarrimento e sbigottimento per un evento imprevisto, misterioso in cui gli elementi della “natura” (impressionismo) colgono l’attimo. Potremmo trovare molte associazioni con la pittura impressionista, da Sisley a Monet da Guillaumin a Corot.

C’è una sterminata letteratura sul significato del bosco. Non sapevo che l’ideogramma cinese di bosco fosse equivalente a quello di “essere”, e questo mi conforta ricordando un test di sette domande attribuito a Freud sul bosco: 1) Ti trovi in un bosco. Come sono gli alberi? A) alti e fitti. B) Bassi e radi (…)

Concludo dicendo che i miei interventi sul tema non sono pensati per sminuire nessun autore indicato, nel rispetto per la ricerca e formazione di ognuno.

N. B. I versi di Tranströmer

“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero”,

ad ogni nuova lettura acquistano sempre più significati e connessioni e interconnessioni. Quasi un aforisma.
Leggevo qualche domenica fa sull’inserto Robinson di Repubblica come un verso della Szymborska sia diventato così popolare da essere ricordato da tanti, “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”.
Credo che il verso di Tranströmer, che Giorgio Linguaglossa ormai cita continuamente, abbia delle buone chances per diventare anch’esso popolare.

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9 dicembre 2016 alle 18:49

Caro Giuseppe,
quando ragioni intorno alla poesia si nota la tua perspicacia più che quando invece fai dell’ironia… Tu hai messo il dito sulla piaga, e ti chiedi acutamente:

«La poetica del frammento è una delle tante forme di poesia. E’ nata in Italia nei primi anni del Novecento; ha avuto esponenti di rilievo; continua ad avere esponenti a tutt’oggi.
Semmai c’è da chiedersi come mai la poetica del frammento si sia sviluppata nel nord Europa a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento».

L’interrogativo è d’obbligo… ma poi per tante ragioni, come tu hai ben descritto, la poesia per frammento è emigrata in Svezia e in Norvegia con un poeta come Rolf Jacobsen, mentre noi abbiamo avuto il fenomeno Cardarelli negli anni trenta e il neorealismo negli anni Cinquanta.
Come è potuto accadere questo gigantesco arretramento? Dal cui interrogativo ne scaturisce un altro tutto moderno: Questa lacuna stilistica quali effetti ha prodotto sulla poesia italiana del secondo Novecento e dei giorni nostri? È la cosiddetta poetica del «frammento» un tentativo di trovare una soluzione a questa grande lacuna?
Il problema è aperto. Ai poeti italiani la parola.

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Steven Grieco-Rathgeb: Appunti per una difesa del «Frammento» – Il «Frammento» in una Poesia di Steven Grieco-Rathgeb da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

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Voglio difendere qui a spada tratta la poesia per frammenti, per motivi che elenco di seguito. Ma prima vorrei anche dire che non mi metto in nessun modo in competizione con Linguaglossa, Gabriele, e altri, che usano il frammento in senso specifico, e in base a loro precisi studi teorici che hanno sviluppato negli anni, cosa che io non ho mai fatto in maniera metodica. Mi sento comunque, a modo mio, partecipe della stessa generica ricerca.

1° punto: Ho iniziato a scrivere poesie per frammenti nel 1970. Ho sempre usato questa forma quando il sentimento di ciò che desideravo esprimere lo richiedeva. Spesso evitavo ogni utilizzo del verbo “essere”, e anche i verbi più importanti li usavo solo in forma gerundiva (procedimento comunque normale nella lingua inglese), per dare più il senso dello “spezzettato”. Il mio stile non era allora e nemmeno oggi è riconducibile ad uno specifico indirizzo letterario, questo perché il mio passato linguistico fin troppo diversificato è stato foriero anche di isolamento. Forse per questo motivo scrivere per frammenti mi era più che naturale. Dalla poesia “Poem in March” del 1970:

The particles of dreams. Think me
their drumming that clusters the void.
Bustle of iridescent bits
transforming against the gate-vastness.
Summer thronged to death.
Climb! to the ganging! gates!
sick and silent. rushing upwards.

(…)

The gates behind, past the rain,
through the orchard, past the orchard,
body breathing striding rising

sun-struck metal, axe at stone;
steel in fisted brilliance
scattering out the chits of light

Nel corso degli anni ho scritto spesso usando questo modo, che io trovo in genere incredibilmente creativo e capace di spezzare ogni linearità temporale, quando è questo che vogliamo fare.

2° Punto: Ma comunque di cosa stiamo parlando? Il frammento è già inscritto come metodo stilistico in tutto il Wasteland di T. S. Eliot, da capo a coda! E’ LO STESSO ANDAMENTO DI QUESTO POEMETTO CHE È BASATO SUL FRAMMENTO. E c’è la chiarissima dichiarazione d’intenti, nel verso

These fragments I have shored against my ruins.

Cosa di più chiaro? Allora, che dice l’amico Salvatore Martino (che in ogni caso io stimo tantissimo)? Il verso citato è altresì sapiente ed elegante, e comunica un senso certamente di malinconia, di una civiltà smarrita, ma formula anche una vaga speranza nei due giambi finali, che ravvivano il pessimismo dei primi due piedi, che mi sembrano un amphibraco e un anapesto. (Anche se non ne sono assolutamente certo, il verso si potrebbe anche scansionare come pentametro giambico, ma avrebbe allora un ritmo troppo cadenzato, tipo musichetta.)

3° punto: Qui di seguito trascrivo alcuni dei miei pensieri sulla poesia per frammenti, così come li avevo annotati quattro anni fa quando abitavo in via Merulana (Roma):

12 gennaio 2012: nella tua poesia spezza quella linea di pensiero il cui unico pregio è avere un andamento “logico-consecutivo”: che ha bisogno di darsi certezze circa la sua capacità di formare appunto un discorso logico. E’ quello che abbiamo imparato alla scuola elementare, e che quando siamo diventati grandi è servito per comunicare con gli altri, per siglare contratti, fare affari e le diecimila altre cose della vita di ogni giorno: ma non necessariamente per la poesia. La frase narrativa o il verso in poesia, hanno invece bisogno di essere spezzati, perché possano oggi produrre una sorta di senso.
Ma queste sono “scoperte” di più di un secolo fa. Eppure, si rende necessario oggi “riscoprirle”.
Cosa dire del fatto che così tanta musica classica contemporanea oggi è impressionistica? Dopo Scelsi, Cage, Stockhausen, Xenakis e gli altri grandi della decostruzione del suono musicale, sembra che oggi i compositori non siano in grado di superare la barriera concettuale fra lo “sperimentalismo creativo” ed una espressione artistica più ricca e diversificata degli eventi umani e fenomenici che dicono il nostro contraddittorio mondo contemporaneo. Ed è proprio perché quella barriera non è stata superata, che così tanti compositori delle ultime generazioni sono ricaduti nella palude dell’ “impressionismo”. Abbiamo già figure somme di impressionsti, per es. Debussy e Skrjabin, questi epigoni non aggiungono niente a quella esperienza estetica di un secolo fa.
(E questo è forse uno dei motivi per cui la gente è tornata ad ascoltare solo Mozart e Beethoven.)

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Steven Grieco-Rathgeb

19 gennaio 2012: Se la durata temporale di un verso è “giusta”, “sufficiente”, allora il suo senso, che il poeta offre al fruitore, spezzerà tutti e preconcetti culturali che ne ostacolano la “giusta” fruizione. Il suo “sapore estetico” sarà pieno. (In cos’altro sta l’arte se non nel sapore estetico?)
Se questa condizione viene sostanzialmente soddisfatta, non ci saranno filtri che innescano la reazione del “già visto”, o “già sentito”: che fa sì che il fruitore fulmineamente pensi: “questa immagine la conosco già, questo concetto lo conosco già”. Perché è proprio questa falsa sensazione del “già conoscere” che innesca in lui una inevitabile svalutazione di quel senso, che a sua volta gli nega la fruizione completa del verso. Ne perde insomma la verginità. Soddisfatta questa condizione, l’immagine poetica avrà imparato la lezione della immagine cinematografica: la quale ci appare oggi essere la più “reale” in campo artistico: quella che interpone meno barriere, meno filtri, fra se stessa e la “realtà” esterna osservata ad occhio nudo. Ciò che la rende anche la più velocemente fruibile. (La poesia, liberatasi delle sue tante pastoie e incrostazioni “letterarie”, potrebbe anch’essa avere questa velocità di arrivo al fruitore.)

11 febbraio 2012: Ho fatto un sogno di Mani (Mani Kaul, regista indiano e mio amico dal 1979 fino alla sua morte nel 2011). Era nella mia stanza qui a Roma e parlava di arte, di espressione artistica. Parlava, ma in realtà dalla sua bocca uscivano frammenti di parole, frantumi visibili di una qualche sostanza solida, che allo stesso tempo erano pezzettini luccicanti di… nulla (infatti il suono non ha sostanza materiale.)
E queste schegge arrivavano ad altissima velocità, come urli, come shrapnel, a percuotere il foglio bianco di un mio quaderno, aperto, dove poi si incollavano, e perduravano.
Nel sogno mi era chiaro che arte è, almeno in questo senso, espressione verbale, e non importa quale sia il mezzo artistico impiegato per veicolarla: cinema, pittura, scultura, poesia, non fa nessuna differenza, rimane comunque un “dire”. E l’espressione artistica (da ex-pressus, spremuto) a quanto pare per uscire ha bisogno spesso di una forza, una energia, quasi una violenza.
Allora ho capito qualcosa della “frammentazione” del dire poetico, su cui ho pensato in questi giorni: perché quelle schegge luccicanti arrivavano in sequenza temporale, sì – ma raggiungevano il foglio bianco senza ordine apparente, e colpivano il foglio in diversi angoli, in zone diverse, in modo apparentemente aleatorio.
Sembra dunque che la ineludibile sequenza temporale di un prodotto artistico non produca necessariamente “ordine”, almeno non nel senso abituale della parola “ordine”.
La frammentazione del dire sembra contenere una profonda verità, una profonda riflessione sui nostri tempi.
(L’estrema compressione semantica usata da poeti come René Char o Samuel Beckett, non corrisponde necessariamente ad una poesia per frammenti, ma nemmeno è da essa così lontana.)

25 febbraio 2012: Una volta che si è capito che la maggior parte dei compositori classici contemporanei (gli Spettrali, Toshio Hosokawa, e quanti altri) sono in realtà degli impressionisti – mentre Scelsi non lo è affatto – allora è necessario riflettere sul perché di questo: e pensare che c’è grandissima differenza fra descrizione-imitazione artistica delle cose (ciò che in parte non piccola costituisce questo “impressionismo” di ultima generazione) e una narrazione artistica “esistenziale”: narrazione del senso delle cose come sono, e quindi del loro “profondo essere”: laddove il senso dell’evento è già inscritto nell’osservazione:

Hanno tagliato del giunco per un tetto.
Sulle canne dimenticate
cadono morbidi fiocchi di neve.

4° punto: Perché le frasi di una narrazione o i versi di una poesia possono avvantaggiarsi dell’andamento spezzato, o frammentato? Perché anche quando interiorizziamo un evento fenomenico esterno o interno, questo processo non ha andamento univoco e perfettamente scorrevole.
Mettiamo che io voglia descrivere un albero in fiore che ho appena intravisto di sfuggita in un cortile desueto una grigia mattina di primavera. “E’ primavera!” Tutto si riassume in una frase, certamente. Ma a ben vedere l’esperienza percettiva appena avuta è molto più complessa così come, lo sappiamo bene, il cervello è complesso assai, ed elabora tantissimi dati in un attimo di tempo.
Questo già lo sapevano uomini come Scelsi, Stockhausen o Xenakis: che prendevano un suono, lo ingigantivano per trovarvi al suo interno un intero universo sonoro.
Per tornare a noi: se studiamo bene (come il poeta deve senz’altro fare!) la nostra reazione psichica a quell’albero fiorito, ci renderemo conto che il processo di interiorizzazione non è affatto piano e lineare: la reazione emotiva ha determinato una scossa interiore, che chiamiamo “meraviglia” (“è primavera!”) e questo determina una ripetizione interna di 10, 100, 1,000 volte l’evento nello spazio di un attimo. Come il riverbero di luce. Solo quando è passata la meraviglia iniziale (quindi dopo qualche secondo), l’immagine dell’albero si assesta un po’ nella coscienza, e la nostra mente riprende la sua strada interminabile di interiorizzazione di nuovi eventi interni o esterni. Ma ancora durante tutta la nostra giornata, l’immagine dell’albero (o qualsiasi altra esperienza forte) si riaffaccerà in noi come “after-image”, “scia d’immagine”.
(E’ proprio questo, mi sembra, che molti compositori contemporanei non fanno: “imitano” impressionisticamente l’evento, invece di sondarne la profondità fenomenica.)

(Gli indiani vedono questo processo mentale che ho descritto sopra come un aspetto di कर्म, karma: il lavorio mentale che appropria, possiede, l’evento vissuto, e se lo porta dietro per tutta la vita come traccia psichica, e oltre, attraverso le esistenze.)

Concludendo questo mio contributo a L’Ombra delle parole: ecco una delle ragioni, almeno dal mio punto di vista, per cui la scrittura per frammenti può aiutare la poesia ad inserirsi in questo mondo: un mondo che nell’ultimo secolo ha enormemente esteso la gamma fra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, e anche le ricerche in campo neurologico; un mondo quindi che richiede una descrizione più approfondita, folgorante, e meno impressionistica, dell’evento.

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Il «Frammento» in una Poesia di Steven Grieco-Rathgeb da “Entrò in una perla” (Mimesis Hebenon, 2016) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/01/limmagine-nella-poesia-tra-il-mondo-di-avanscena-e-il-mondo-di-retroscena-nella-poesia-di-tomas-trastromer-e-la-teoria-dellunificazione-dei-modelli-di-simulaz/comment-page-1/#comment-16369

Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro».

Maurizio Ferraris: «La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione».1]

In questa sede mi occuperò di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb che tratta della vita dal punto di vista della vita, da un punto di vista esterno. La poesia inizia con una annotazione da diario: oggettiva e sintetica, quasi stenografica:

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

L’autore sembra non esserci. In tal modo, si attua una dis-locazione dell’autore il quale non è più presente all’interno della composizione, ma si trova in un altro luogo. La frequente apparizione di verbi all’infinito e in forma riflessiva rende evidente questo allontanamento dell’autore il quale è fuori scena. Tutto accade perché accade, come gli «stormi dei piccioni in volo», non c’è un perché circoscritto nella poesia, e neanche all’esterno della poesia. Anche il sogno di Meena della «madre morta», accade e, in quanto accadimento, ha significato. Il significato quindi è svincolato dall’autore e dalla stessa poesia. La poesia non reca il significato perché questo le preesiste («Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro»), e il poeta non fa che prenderne atto. Il significato è contenuto in un frammento di immagine, è tutto lì.

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

                                                                                             agli stormi di piccioni in volo

                                                                    agli aquiloni che danzano più su

                                             alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»

La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

(Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006)

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Si tratta dunque, dunque, di ripensare la vita umana al di là dell’essere-per-la-morte in cui l’aveva chiusa Heidegger: la nostra esistenza non può essere solo «empirico-condizionata» ma è anche metafisico-incondizionata, il discorso sull’essere non può ridursi all’essere ente umano. Sul ciglio delle riflessioni dell’ultimo Derrida, come nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb, si intravede, da lontano, la soglia della condizione post-umana che è il superamento, definitivo, della condizione postmoderna di Jean-François Lyotard. Un umano non più chiuso dentro il circolo dei suoi predicati in cui la dialogicità della coscienza non costituisce più soltanto un pretesto per pensarsi in opposizione all’altro da noi ma si pone in dialogo con tutti gli esseri della terra, animati e inanimati (vedi gli uccelli, gli aquiloni, la Gangori Bazaar della poesia di Steven Grieco, etc.). E questo significa, «gettare ponti tra le epoche»2] e tra gli uomini tra di loro.
La poesia segna la scomparsa «del primo significante», narra di un luogo dove è avvenuta una visione. La poesia si pone così «in prossimità assoluta con l’essere», o nelle sue vicinanze immediate, con un senso leggibile, che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione. Il modello di questo logos puro e naturale è, per Derrida, contemporaneo all’epoca teologica, «il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita» dice Derrida, come il verbo divino è parola assoluta di una soggettività creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, così il linguaggio della metafisica. La parola poetica di Steven Grieco-Rathgeb reca una traccia, è una parola onirica che guarda la vita dal punto di vista della vita. È un sogno, o meglio, un frammento infinitesimale di un sogno.

1] Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 301.
2] Maurizio Ferraris, Postille a Derrida, Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p. 215.

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Steven Grieco-Rathgeb POESIE SCELTE da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016 pp. 90 € 10) – un universo supersimmetrico e superdistopico – La poesia come traduzione problematologica – Lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico – Il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito – con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive Steven Grieco-Rathgeb:

«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto,  anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.
E’ da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.

In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.

L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.

Visto tutto ciò, è opportuno oggi che, in ambito poetico, il senso del dire arrivi al fruitore in modo graduale, “ritardato”, di modo che questi non abbia la possibilità di “consumarlo”. Non parlo di una tecnica artificiale. Un esempio: un mattino di marzo, con il cielo coperto, e noi assorti nei nostri pensieri, attraversando la città in tram scorgiamo inaspettatamente un albero fiorito in un giardinetto trascurato e polveroso. Di fronte ad una esperienza percettiva come questa, di un certo impatto, il processo di interiorizzazione non sarà uniforme: a causa dell’elemento di sorpresa, di gioia, di stupore che l’albero fiorito ha provocato in noi, la sua immagine sarà ripetuta mentalmente (la cosiddetta after-image, scia d’immagine) anche infinite volte nello spazio di qualche secondo. Di tanto è capace l’onnipotenza del pensiero, simile all’universo studiato dagli astrofisici (e ugualmente inafferrabile). Ma il fatto che tale esperienza percettiva non sia liscia e uniforme, apparirà più chiaro alla fine del processo di interiorizzazione, una volta cioè finito il sentimento di sorpresa e l’emozione concomitante, e ancora più chiaro sarà quando tale esperienza vorremo esteriorizzarla in forma descrittiva, narrativa, orale. In un primo tempo il nostro dire uscirà frammentato, interrotto e ripreso, mentre cerchiamo il modo migliore di fare giustizia all’esperienza. E’ solo in seguito che l’esperienza prenderà ad assestarsi nella nostra coscienza, depositandosi e lasciando lo spazio a nuove esperienze percettive, nuovi pensieri, etc. Anche qui sta il fulcro misterioso della visione poetica, che ritroviamo non solo nella poesia in quanto tale, ma in tutti i campi dell’attività artistica.

Un esempio di cosa intendo può essere costituito da certe sequenze “silenziose” del cinema d’arte. Sequenze quasi del tutto prive di sonorità, senza musica, solo forse qualche fruscio dei vestiti o stormire di alberi. Eppure esse possono letteralmente urlare, creare frastuono in noi. Ecco, questo tipo di silenzio può essere anche della poesia contemporanea – o meglio, anche la poesia può interiorizzare la propria dimensione sonora (il suo rumore), e ritrovare la gradualità, la musicalità che così spesso in poesia è precisamente silenzio. Assenza di parole.

…Schwestermund,
du sprichst ein Wort, das fortlebt vor den Fenstern,
und lautlos klettert, was ich träumt, an mir empor.

Il testo kashmiri del IX secolo, Dhvanyaloka, del filosofo Anandavardhana (commentato due secoli più tardi da un altro grande filosofo, Abhinavagupta), studia l’essenza del messaggio poetico. Semplificando assai: la poesia, secondo Anandavardhana, contiene in genere un senso letterale e uno figurato. Il senso letterale ci raggiunge con una certa velocità, mentre quello figurato si stacca dal senso letterale e ci arriva “in ritardo”, ovvero dopo un lasso di tempo maggiore: è questo scarto temporale che crea la suggestione, il senso, il sapore estetico».

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio.

Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.  

La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

Noi abitiamo la domanda come una frase interrogativa, ma questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica, ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Ma in poesia le cose non sono mai così semplici e diritte; in poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in reciproca amicizia-inimicizia.

Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta becera perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare». La poesia di Grieco-Rathgeb abita  un non-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o  commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

Leafing through the pages

I was leafing through the pages, looking
for the word φαινόμενον.

“Our world is fully discovered,” you said.
“We’ve mapped the continents and seas,
classified plants and creatures.”

Your words spread out like a full-blown flower.

“Its mysteries,” you said, ”largely explained,
the future foreseeable and ours by pre-emption.”

This didn’t seem quite right:
but still your argument held its own
and climbed before our eyes,
turning on a sky-blue axis,
so round and well-fashioned we forgot
its nothingness, how it echoes down the aeons
growing stronger, clearer, till it’s One
with the dreamlike deep vibration of existence.

“And for all our achievements, look at us,” you said:
“unknown to our own selves,
outraging what’s left of this world.”

This world, I thought, or just a reflection?
I myself couldn’t tell.

Overwhelmed, we watched it turn silently,
its rugged contours etched
with ever finer, more rending strokes;
offering us the same answers we seek;
feeding with our gaze
its dream.

Florence, 1988

Sfogliavo le pagine

Sfogliavo le pagine, cercando
la parola φαινόμενον.

Tu dicesti: «il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuti i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.»

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

«I suoi misteri – dicesti– ormai quasi spiegati,
il nostro futuro prevedibile e già oggi ipotecato.»

Su questo avrei avuto da ridire:
ma il tuo pensiero resse,
e noi lo vedemmo librarsi nell’aria,
tondeggiando azzurro,
così ben foggiato da farci dimenticare
il suo nulla, come un’eco nei millenni,
sempre più forte, più chiaro, fino a diventare
suono, sonorità inconscia dell’Essere.

«E noi – dicesti – con tutte le nostre conquiste,
sconosciuti a noi stessi;
violando quel che resta di questo mondo.»

Questo mondo, riflettevo, o soltanto
un’immagine? Ero incerto anch’io.

Vinti dalla sua presenza, lo vedemmo ruotare
in silenzio, i suoi rilievi manifestarsi
con crescente, lacerata precisione:
inviarci i segnali da noi stessi desiderati;
alimentando con il nostro sguardo
il suo sognare.

Firenze, 1988

*

Koronisia, 1990

Lights out, the house
– dark

Down the passage to the room,
and in the encircling unfathomable foreignness

a shimmering vegetation—

trill of crickets from the dark-enshrouded olives
—noiseless spider, mantis, gecko

(vermin slithering through the underbrush)

“Don’t touch!“ – a whisper speaks
that same darkness: “now events
shed no light:
but the ever-itself, in thousands,
shapes around the stone-hard
still core, leaping like fish
from wave to wave— ”

Till presence is this dark body, woven
in thoughts: the eyes dark, the heart
woven in its own embrace

inside the wider encircling Gulf
now audible,
washing ashore

where thought, dark swimmer,
swims out
breathing unutterable darkness

Supersymmetries

Koronisia, 1990

Spente le luci, la casa
– oscura

giù per il corridoio verso la stanza,
e in questo cerchio insondabile, straniato

una rilucente vegetazione–

stridio di grilli dagli olivi avvolti nel buio
– silenziosi ragno, mantide, geco

(strisciano immondi sotto i cespugli)

“Non toccare!” – sussurra la
stessa oscurità: “adesso gli eventi
non illuminano:
ma il sempre-se-stesso, a migliaia,
si forma intorno all’impietrito
fisso centro, balza come un pesce
di onda in onda” –

finché la presenza è questo corpo oscuro
che il pensiero intesse: gli occhi scuri, il cuore
intessuto nel proprio abbraccio

nel grande cerchio del Golfo
ecco, si percepisce
lo sciacquio a riva

dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità

Supersimmetrie

Amnesia

Now that you’re up, ashlit moon,
invisibly clear in the early night—
in this silence, like the mind’s quiet,
I wonder how your bright crescent
speaks the dark fullness: the darkness coming
of your round brilliance.

Your speed up there so high
I instantly reach you.
For the deepest transparency,
without glass, across distances,
is only thin air

and the horizon of this world, away.

You speak, ancient poet,
not as a voice within a voice,
but as one divided
in your undivided sound.

May I tonight
forgetting the distance

speak the dark round of your fullness

Supersymmetries, 1995

Amnesia

Ora che sei sorta, luna-cenere,
quasi invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.

Tu lassù così veloce
che ti raggiungo in un istante.
Perché la trasparenza più profonda,
senza vetri, di là dalle distanze,
è solo quest’aria sottile

e l’orizzonte di questo mondo, avulso.

Tu parli, antico poeta,
non come voce nella voce,
ma come uno diviso
nel tuo suono indiviso.

Possa io stanotte
dimenticando la distanza

dire l’oscura sfera della tua pienezza

Supersimmetrie, 1995

*

Rome, Bombay

Via degli Astalli, 1968

Through the deep nights
a fountain in the courtyard dripped
endless water. Fragrance
came over the rooftops, the city
rose in a glimmer to the brim of our being.

Now in my mind’s eye I open the door
and peer down the dimly lighted hallway:
those who came have just left –
I hear the elevator groaning its way
down the shaft

but a suppressed excitement
warps the row of expressionless windows.

I can never remember:
who was standing behind the door,
a glass of dark water in his hand?

Altmount Rd., 1997

I’m walking up Altmount Road, to reach the top:
the way familiar, peopled with memories
and homes I no longer recognize
in this crowd of alien windows.

Of those I knew some have moved away,
some become estranged.
Others stayed on in their vast apartments,
old friends I’ve come to meet again, brooding
now the sun has rounded the corner.

Down in the garden
children still play on the sparkling lawn
under the pipal tree that has lost its leaves.

And the older siblings,
as good as grown up,
bursting in the front door
with excitement, and… news!

But the afternoon late, the sunset
so deep and self-sufficient,
this life is a full glass
set before us who’ve no thirst to quench.

Soon I’ll reach the top, look out over the city,
I’ll glimpse the Arabian Sea

After dusk, past the balcony’s black void
I sensed that sighing body
spread remotely around the night,
how it encircled our clutch of drinks
and anxious lights

myself mirror-less – and all my profusion of tongues,
the trouble to grasp and express
simply a guide around the well-turned phrase

till words, pointing to their opposite,
left me groping in blindness.

Night follows on dusk, dawn on night:
though closely shadowed, our world is too sudden –
it flows in a manner akin to narration.

Down there, beyond the sprawling city,
ships’ horns are hooting –
crows croak from all the trees
in the smoky air before daylight.

There is no silence anywhere.
Only at the centre of the heart.

Roma, Bombay

Via degli Astalli, 1968

Nelle notti profonde
dalla fontana giù in cortile gocciava
acqua senza tregua. Un profumo
giungeva da sopra i tetti, le luci della città
riempivano fino all’orlo le nostre vite.

Adesso immagino di aprire la porta,
scruto il corridoio in fioca luce:
loro sono venuti e subito andati via –
sento la gabbia dell’ascensore
scendere a terra ansimando

ma una eccitazione soffocata
storce la fila impassibile di finestre.

non riesco mai a ricordare:
chi stava in piedi dietro la porta,
un bicchiere di acqua scura nella mano?

Altmount Rd., 1997

Risalgo Altmount Road, per raggiungere la cima:
la via familiare, popolata di memorie e case
familiari, ormai introvabili
in questa folla di finestre ignote.

Di coloro che conobbi chi è andato via,
chi è diventato estraneo.
Altri sono rimasti nei loro grandi appartamenti,
vecchi amici incupiti che io visito
ora che il sole ha girato l’angolo.

Giù in giardino
i bambini ancora giocano sul prato luccicante
sotto il peepal che ha perso le foglie.

E i figli grandi,
ormai quasi adulti,
irrompono dalla porta d’ingresso
pieni d’entusiasmo… e quante notizie!

Ma la sera inoltrata, il tramonto
così profondo e pago di sé
questa vita è un bicchiere pieno
che non abbiamo più sete di vuotare.

Presto raggiungerò la vetta, guarderò la città dall’alto
rivedrò il Mar Arabico

Dopo l’imbrunire, oltre il vuoto nero del terrazzo
ho sentito sospirare quel corpo lontano,
inanellato intorno alla notte,
come stringeva d’assedio i nostri aperitivi
e le nostre luci inquiete –

Io, irriflesso – e tutta la ricchezza delle mie lingue,
la difficoltà di cogliere ed esprimere
solo una guida per sfuggire alla frase tornita

finché le parole indicandomi il loro contrario
mi lasciarono a tentoni come un cieco.

La notte viene dopo l’imbrunire, l’alba dopo la notte:
il mondo lo spio come un’ombra: ma lui è troppo veloce,
scorre libero come un racconto dei tempi antichi.

Da laggiù, oltre la città sconfinata,
arriva il fischio delle navi –
i corvi gracchiano da tutti gli alberi
nell’aria fumosa prima della luce.

In nessun luogo c’è silenzio.
Solo al centro del cuore.

*

Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo

Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.

What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…

And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!

Supersymmetries – Florence, 1999

*

Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo

il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.

Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …

E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!

Supersimmetrie Firenze, 1999

The painter’s portrait

Before setting to his work,
the painter of this image should remember:
Who is he portraying? and reflect
how the narrow corridor through our world of chance
lies strewn with breakable misery
and fear of violent mishap
and sudden bottomless manholes:

for, clearly, the likeness of a distinguished forebear
or even the vision of all humankind
unlocking in one single flower,
are not what lies in his heart of hearts:

but considering that he may no longer
be shielded from thought of accident,
know the only way to be the way forward,
the whole face he dare not envision.

Then he will do his work in the best of ways,
and accomplish what he had always striven for,
knowing this to move strangely
between waking dream and recognition

and play down the importance of individual traits,
putting them surprisingly
where they are – much as meaning
rises out of words that sleep:
the city at night
resembling itself, intently
outside the window, enveloped in darkness.

So that his image may finally be expressed.

Then the painter will not only render
cheekbones and shading,
not only conjure light in the eyes.

His portrait will be memory itself.

2003

Il ritratto del pittore

Prima di mettersi al lavoro
il pittore di questa immagine ricordi:
Chi vuole rappresentare? e rifletta come
l’angusto corridoio attraverso questo mondo dell’alea
è cosparso di umana disperazione
e del timore di violenti sinistri
e di improvvise botole senza ritorno:

perché la somiglianza di un illustre predecessore,
o anche la visione di tutto il genere umano
schiusa in un unico fiore,
non sono certo quello che lui ha nell’animo:

invece, sapendo di non avere più riparo
dal pensiero di sciagure,
capisce che l’unica via è la via che va avanti,
il volto intero che non osa immaginare.

Allora svolgerà il suo lavoro nel migliore dei modi,
realizzando ciò che da sempre si era prefisso,
e che lui ben sa muoversi strano
fra sogno ad occhi aperti e riconoscimento

e senza dare troppa importanza alle fattezze del viso,
le porrà dove già si trovano:
così come il senso scaturisce
dalle parole che dormono:
città di notte
assorto specchio di sé,
fuor di finestra, avvolta nel buio.

Affinché la sua immagine possa compiersi.

Allora il pittore non avrà solo reso
zigomi e ombreggiature,
non solo evocato la luce negli occhi.

Il suo ritratto sarà la memoria stessa.

2003

*

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was changed into air!

into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid

Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on

My heaven has split from top to bottom

And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

till I thought this life will last forever

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscillo

Il mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni

finché pensai che questa vita durerà in eterno

*

Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream

You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained

– always so decisive – and every blacknight moth alive

every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld

astronomer beyond thin partitions wondering,

every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –

expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment

– tangible, visible splinters to unseen frontiers

and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and

came hurtling like cries!

Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper

with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers

yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet

Via Merulana, 11 February 2013

Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno

Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta

– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena

ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo

astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena

un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso

discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:

tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere

ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano

lanciate come grida!

Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi

inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –

eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco

Via Merulana, 11 febbraio 2012

Beyond, beyond

When the first man sailed past these waters, all humankind sensed the great shadow hovering over lofty marble columns.
This is how we still understand it now – through our modern sense of light and image: transparently blue, seawater lapping against a wooden prow. A dream. A bobbing cosmos.
However late we reached here, our Present contains all time. Only in this moment can we relive the exactness of that ancient moment.
And Ulysses, spoke to all: “here is the wild maze of reality: the colourful markets, the goods, the different peoples thronging the stalls. Here the poet inhabits his prophecy, mathematics glimpses its eternity.
“Don’t believe them, they never sailed past these waters: fearless adventurers, they journeyed physically into the illusory, went further, further, dizzily on into the distance that shadowed their every move. Only to find new markets, new opportunities, new planets. Our undying world.
“All external, empirically observed phenomena became the miracle of the observing, ever-changing mind. This air so thin, a tree can no longer vanish into its greater self.”
And Ulysses asks: “What Blakeian madness is this? In such imperfection, how will life find its upside down? Its inside out?”

Supersymmetries, 2004

Più avanti, più avanti

Quando il primo uomo navigò oltre queste acque, l’umanità intera vide la grande ombra sulle maestose colonne marmoree.
A tutt’oggi è così che concepiamo, grazie al nostro moderno senso di luce e immagine: azzurro limpido, l’acqua del mare che lambisce una prua di legno. Un sogno. Un cosmo galleggiante.
Quale il ritardo con cui siamo giunti qui, il nostro Presente contiene tutto il tempo. Solo in questo momento possiamo rivivere l’esattezza di quell’antico momento.
E Ulisse parlò a tutti: “ecco il folle dedalo della realtà: i mercati pittoreschi, le merci, i diversi popoli che affollano i banchi. Qui il poeta abita la sua profezia, la matematica intravede l’eternità.
Non credete loro, non navigarono oltre queste acque: intrepidi e avventurosi, si spinsero fisicamente nell’illusione, sempre più avanti, vertiginosi, nella distanza che ne spiava ogni mossa come un’ombra. Solo per trovare nuovi mercati, nuove opportunità, nuovi pianeti: il nostro mondo senza fine.
Ogni fenomeno esterno, empiricamente osservato, diventò il miracolo della mente che osserva e si trasforma. Tanto rarefatta è ormai quest’aria, che in essa un albero non sa più trascendere se stesso.”
E Ulisse chiede: “Che follia degna di Blake è mai questa? In tanta imperfezione, come troverà la vita il suo capovolto? Il suo rovescio?”

Supersimmetrie, 2004

1. Istanbul, 1966
remembering Eustacia Hernandez

The secret otherworld paths of youth,
the deeply inspired expectation of nothing
have narrowed to just this,
a slit on nowhere:
but still the living canvas endures
of brilliant thoughts,
myself sailing the Bosphorus,
my beautiful girlfriend beside me;
and with most of the landscape gone
to suggest the unreal joy
I had once so eagerly embraced,
that entire otherworld reflects, moves
over fragments of a mirror
that never was
but so strongly seemed.

May this understanding not slip from itself.
Creation’s innocence
is its immortality.

1. Istanbul, 1966
ricordo di Eustacia Hernandez

I segreti, d’altrimondi sentieri della giovinezza,
l’attesa ispirata di nessuna cosa,
sono rimpiccioliti fino a diventar questo,
una feritoia su nessun luogo:
ma ancora regge la viva tela
dei pensieri sfavillanti,
io in nave sul Bosforo,
la mia bellissima ragazza accanto;
e con quasi tutto il paesaggio scomparso
suggestione della gioia irreale
che con tanto slancio allora abbracciai,
quell’altromondo riflette, scivola
sopra i pezzi di uno specchio
che non fu mai
ma fortemente sembrò essere.

Non si divincoli questa comprensione da se stessa.
Nell’innocenza della creazione
sta la sua immortalità.

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

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