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APPUNTI PER UNA FONDAZIONE  DEI CONCETTI di RAPPRESENTAZIONE e di PUNTO DI VISTA – Commento di Giorgio Linguaglossa su Las Meninas di Velazquez – Il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa – L’absentia per Foucault, costituisce il punto centrale di ogni representatio. Il Soggetto battezza il Moderno. E viceversa. Entrambi si giustificano a vicenda. Il Moderno viene legittimato dal nuovo Soggetto.  Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente, E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano, L’espressione è il volto codificato del dolore

Riflessione di Giorgio Linguaglossa

“Las Meninas” di Velazquez – “Il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa”

Come è noto, la lettura di Foucault del quadro Las Meninas (1656) di Vélazquez si incentra sulla tesi della rappresentazione dello stesso atto della rappresentazione: «pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano: da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione».1 Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, soggetto e oggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non equivale ad una mancanza, quanto una figura che nessuna teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.

[In primo piano e in posizione centrale troviamo una giovanissima principessa: si tratta dell’Infanta Margherita Maria Teresa d’Asburgo, figlia del re Filippo IV il Grande e della sua seconda moglie Marianna d’Austria].

La principessa [Nonostante il centro fisico della scena sia occupato dal volto della bambina, che si trova sulla mediana verticale a un terzo dell’altezza del quadro, il vero fuoco del quadro non è nel quadro, ma fuori di esso]  è attorniata da figure di corte: due dame di compagnia, una delle quali nell’atto di porgerle un vasetto su un vassoio, da due nani e un cane; dietro di loro sulla destra un uomo e una donna in abito da monaca, nel ruolo di paggio e dama di corte. Tre delle figure in primo piano sembrano guardare verso di noi, spettatori di fronte alla tela e non sono le sole perché spostando lo sguardo a sinistra troviamo altri due occhi puntati nella nostra direzione. Sono quelli di Diego Velázquez medesimo che si è autoritratto nell’atto stesso di dipingere. Impugna un pennello e la tavolozza ma non ci è dato vedere cosa stia dipingendo, poiché della alta tela che gli sta davanti è curiosamente rappresentato in nostro favore non il fronte ma il retro. Sullo sfondo notiamo una porta aperta con un personaggio in piedi sulle scale: si tratta del ritratto di un personaggio che porta lo stesso cognome del pittore.

Quest’ultimo è José Nieto Velázquez,ciambellano di corte. Alla sua sinistra colpisce l’attenzione  un riquadro abbastanza luminoso da poter essere considerato uno specchio, il quale ospita il riflesso di due figure. Si tratta dei reali di Spagna, anch’essi con lo sguardo puntato verso noi spettatori. La luce entra da destra, presumibilmente da una finestra che non è stata ritratta; illumina la fascia centrale della scena e si arresta sull’alto rettangolo di legno.

Cosa sta dipingendo Velázquez? Tutto sembra suggerire che il modello del quadro debba essere ciò verso cui il suo sguardo, insieme agli sguardi di quasi tutti gli altri personaggi, è puntato e che si troverebbe nel prolungamento ideale dello spazio della scena. Il fatto che lo specchio rifletta il re e la regina, e che la sua posizione sembrerebbe frontale alla posizione del modello del quadro, lascia ragionevolmente credere che sebbene la coppia reale non sia rappresentata nello spazio pittorico,essa debba essere postulata come implicitamente presente. Alla coppia reale di Spagna non rimarrebbe altro posto che il nostro, precisamente quello che occupiamo in quanto spettatori.

L’intera scena sembrerebbe avere il suo centro fuori di sé, in uno spazio che non è stato dipinto ma che ordina a sé tutto ciò che compare in raffigurazione: spostando «il fuoco […] da ciò che il quadro effettivamente mostra a ciò che guardano i personaggi […] è come se la scena dipinta fosse una dépendance, colta in relazione al suo centro spostato» n.d.r.]

Ecco quanto ne scrive Gianfranco Bertagni: «Questa lacuna è dovuta all’assenza del re – assenza che è un artificio del pittore. Ma questo artificio cela e indica un vuoto che è invece immediato: quello del pittore e dello spettatore nell’atto di guardare o comporre il quadro. Ciò accade forse perché in questo quadro, come in ogni rappresentazione di cui, per così dire, esso costituisce l’essenza espressa, l’invisibilità profonda di ciò che è veduto partecipa dell’invisibilità di colui che vede – nonostante gli specchi, i riflessi, le imitazioni, i ritratti.

“Tutt’attorno alla scena sono disposti i segni e le forme successive della rappresentazione; ma il duplice rapporto che lega la rappresentazione al suo modello e al suo sovrano, al suo autore non meno che a colui cui ne viene fatta offerta, tale rapporto è necessariamente interrotto.

È questa lacuna, questo vuoto, oggetto di sguardi, ciò intorno a cui la rappresentazione sorge. Nel quadro si ha un principio di dispersione, in modo che per chi osserva sia innestato in un gioco di rimandi continuo, sfiancante, entro cui si dà la scena del quadro: lo sguardo del pittore sull’oggetto della rappresentazione, la piccola principessa colta nel momento in cui sembra stornare gli occhi dalla coppia reale, la governante che riserva invece tutta la sua attenzione alla piccola principessa, e dietro le due figure di un uomo e di una donna, l’uno con sguardo”1   compiaciuto ma quasi cancellato, l’altra che sembra in atto di rivolgerli parola distraendosi da quel che  accade.

 

Più avanti una coppia di nani, anche in questo caso, come nota Foucault, uno dei due guarda la coppia regale mentre l’altro svia lo sguardo affaccendato in altro. Sulla sinistra invece, ecco parte della scena che il pittore va dipingendo, al confine fra la tela, di cui vediamo il telaio, e il presunto oggetto della rappresentazione, ci sono i due regali. Nello specchio s’incornicia l’immagine riflessa dell’assenza, di quanto resta invisibile allo spettatore e di cui, in verità, non si può dedurre la natura di riflesso: se sia cioè immagine del dipinto o immagine diretta della coppia regale che giace in posa dietro la tela. E infine sul fondale, dietro una porta, appare una figura vestita di nero, che sembra di passaggio, ferma sulla soglia, come se fosse emersa da altrove. Resta lì, immobile, assumendo la posa di uno sguardo che si dispiega su tutta la scena a mo’ di osservatore distratto ma incuriosito. È lì, forse, che si raccoglie, magari non nelle intenzioni del pittore, la dimensione visiva della rappresentazione, quanto insomma oltre a dare profondità al dipinto sembra alludere a una sorta di mise en abîme.

In questo ordito di sguardi, in questa trama di ottiche, nella visibilità della vista entro cui si

descrive la traiettoria di ciò che Foucault definirà come la nascita della rappresentazione nell’epoca

classica, resta impresso il marchio di un’assenza».2

Las Meninas si configura, in tal modo, come una scena ingegnosamente architettata per indicare la centralità di una mancanza. L’absentia segnala dunque, in Foucault, il punto centrale di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo cerchio il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore non può osservare se stesso ma soltanto il suo simulacro o la sua immagine riflessa nello specchio che in Las Meninas sostituisce il fuoco della composizione. Il Soggetto adesso può assurgere a momento centrale della rappresentazione soltanto uscendo dalla rappresentazione stessa e ponendosi al di fuori di essa. Il Soggetto battezza il Moderno. E viceversa. Entrambi si giustificano a vicenda. La legittimità del Moderno viene legittimata dal nuovo Soggetto riflettente.

L’«ente» si qualifica come prospettivistico, dotato di una molteplicità di punti di vista di cui soltanto uno è quello che può fornire la legittimazione all’ente. «Nell’affermare il “carattere prospettivistico dell’ente” Nietzsche non farebbe, per Heidegger, altro che portare alla luce il “tratto fondamentale” che, da Leibniz in poi, è latente nella metafisica. Vale a dire quella “costituzione prospettivistica dell’ente che trae origine dalla perceptio e dall’appetitus, dall’impulso a “rappresentare” (vorstellen) l’intera realtà a partire da un point de vue: quella stessa pulsione che sta, nietzscheanamente, alla base della creazione del Valore come condizione di “mantenimento e accrescimento della potenza”».3

Con Cartesio la tradizionale domanda metafisica «Che cos’è l’ente?» viene sostituita dalla questione del «metodo», cioè del percorso che conduce l’uomo alla certezza al fundamentum absolutum inconcussum veritatis. Per Heidegger siamo alla svolta copernicana del pensiero filosofico dell’Occidente, facendo dell’Io, dell’Egoità (Ichheit) o Ipseità, il solo autentico subjectum, Descartes pone il mattone decisivo per l’età seguente che diventa una nuova età (Neuzeit), cioè l’età moderna.

Con il dispiegarsi del Moderno inoltrato, nel mezzo della crisi del pensiero tra le due guerre mondiali, si pone la definitiva scissione e frammentazione dell’Io, la cui caduta segna la fine della legittimazione dell’Egoità, e la sua definitiva deriva psicologistica. Fine del fondamento del pensiero filosofico. Fine del pensiero. E ripresa del Pensiero dalla disarmante presa d’atto della scomparsa dell’Io. Il pensiero moderno prende forza appunto da questa sua intima debolezza; da qui ha origine il relativismo e il pensiero debole da taluni vituperato e diffamato come debolezza del pensiero.

Così, la Rappresentazione odierna  segnala non solo una assenza del fuoco, delle linee di forza della visione prospettivistica, ma anche una assenza dell’Io, come dissoluzione e dis-locazione del punto di vista unico (o privilegiato) da cui ha inizio la representatio. Fine del Moderno ed inizio del Post-moderno. Fine della rappresentazione unica e privilegiata. Declassamento di tutti i punti di vista e di tutte le Rappresentazioni ad una multilateralità della visione. Il punto di vista è, aristotelicamente, una «immagine mobile dell’eternità»,  Aion auto dislocantesi, privo di legittimazione e privo di legittimità. Esso è, appunto, un punto nella dispersione implosione di tutti i punti di vista.

Il Presente è la sede dell’Esperienza. Si ha esperienza soltanto nel presente, non si può avere esperienza del Passato se non come ricordo, rammemorazione; e, si sa che il ricordo implica già una falsificazione di esso medesimo, implica una ricostruzione assiale e geodetica di esso medesimo. Quindi, si può affermare che tra Esperienza e Rappresentazione c’è sempre un campo di interazione, di conflitto, di tensione. Ed è proprio questo campo di tensione, di conflitto che l’arte e la poesia indagano. Esperienza e Rappresentazione sono i due corni dilemmatici entro i quali vive un’opera d’arte. E tra esperienza e presente c’è un nesso irresolubile, non si dà l’uno senza l’altro. Ma allora il piano di indagine si sposta: si dà presente soltanto nello spazio, in un luogo preciso dello spazio. A rigore, quando c’è il presente, l’esperienza è già nel passato, è corsa via, inghiottita nel buco nero del passato.

L’esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici”.4 Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.5

Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

L’espressione è il volto codificato del dolore.   Continua a leggere

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Durs Grünbein POESIE SCELTE da Strofe per dopodomani (2011), traduzioni di Anna Maria Carpi e di Cristina Vezzaro – Commento di Massimo Raffaeli

[Opera grafica di Claudia Marini, 2004]

Durs Grünbein è nato a Dresda nel 1962, vive tra Berlino e Roma. Dopo il declino dell’impero sovietico, ha iniziato a viaggiare per tutta Europa, Asia del Sud e Stati Uniti. Dal 2005 è professore di poetica ed estetica alla Kunstakademie Dusseldorf. È membro di diverse Accademie tedesche e dal 2009 membro per merito dell’Ordine per le Scienze e le Arti in Germania. Ha pubblicato quattordici raccolte di poesie, un diario, tre libri di saggi; ha tradotto Eschilo, Seneca e Giovenale. Ha ricevuto i maggiori premi letterari Internazionali, inclusi i premi “Georg Buchner”, “Friedrich Nietzsche”, “Friedrich Holderlin”, “Pier Paolo Pasolini” in Italia, “Tomas Transtomer” in Svezia, e l’European Freedom per la poesia in Polonia. La sua poesia è stata ampiamente apprezzata e acclamata e tradotta in molte lingue. Le traduzioni italiane, a cura di Anna Maria Carpi, sono pubblicate da Einaudi: A metà partita (1999), Il primo anno (2004), Della neve (2005), Strofe per dopodomani (2011).

 Commento di Massimo Raffaeli (da germanistica.it)

 È un luogo comune ricordare come Cartesio ricevette in stato sonnambolico la premonizione della filosofia che avrebbe riassunto nel Discorso sul metodo. Poco più che ventenne, bloccato dalla neve dentro una stamberga dalle parti di Ulm, visse infatti una notte di sogni esaltanti dove presero forma (alla maniera d’un inventum mirabile, così poi scrisse) le intuizioni di una logica capace di fondarsi quale scienza universale. Nel 1619 è già iniziata la Guerra dei Trent’anni e Cartesio, militare di carriera, oscilla tra i cattolici e i protestanti che peraltro egli ama di un amore ben dissimulato: conosce la triste fine di Bruno e Galileo, perciò paventa i fulmini dell’Inquisizione tenendosi in petto l’amore, che durerà una vita, per i Paesi Bassi, vale a dire per la libera manifestazione del pensiero e per la stampa non sottoposta a censura.

D’allora non perdona
il gracchiare dei corvi neri in cattedra.
Né la chiacchiera degli oscurantisti.
Però prudenza, amico! Non viene risparmiato chi combatte.
Se gira il vento, perde le sue penne
anche il più audace uccello. Pensate all’uomo che umiliò la terra
a semplice satellite. D’allora è fuorilegge.
Se ne dicono tante – e si smentiscono – se il potere minaccia.
Fra opinioni uniformi raro giova gridar lieti ‘Ho capito!’
Che lo pagate con la vostra vita,
riflettete, Monsieur.

 È la morale del buon senso, anzi sono le parole gravi e ammonitorie del servo Gillot, voce che risuona a contrappunto in Della neve ovvero Cartesio in Germania (a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi), lo splendido poema, agibile come una partitura teatrale, che il cigno nero della poesia tedesca, Durs Grünbein (nato a Dresda nel ’62, noto in Italia per la precedente silloge di A metà partita, Einaudi 1999), dedica al frangente essenziale della vita del filosofo nei modi tanto di una diatriba sul percepire/pensare/scrivere quanto di un’ininterrotta dichiarazione di poetica, sia pure espressa en travesti.

La guerra preme oltre la cornice del quadro; prima che un’eco, essa manda rimbombi ovattati, si manifesta per segni obliqui e sinistri. D’altra parte, il paesaggio appare sempre immobile, chiuso nella morsa del gelo bianco, inerte, nascosto dal dilagare di una luce accecante e rifrangente a oltranza. Non a caso i fenomeni di rifrazione luminosa sono oggetto di studio, per Cartesio; altrettanto non a caso, per il poema di Grünbein, costituisce un possibile modello il capolavoro di Wallace Stevens, Tredici modi di vedere un merlo, asperrima ricerca di un senso esistenziale nella propagazione indistinta del bianco, di un candore niveo che sembra impedire, qui-e-ora, ogni movimento umano, ogni accesso possibile e condivisibile alla verità. L’immagine inaugurale del poema assomiglia la nevicata a una scrittura retroversa, a un nero negativo che scende sulle cose e le contorna, le decifra proteggendole nel manto più soffice. “Placato ogni pensiero, un invito a studiare”, scrive Grünbein: il dialogo continuo tra servo e filosofo ribadisce che non esiste azione cronologica ma appena un discrimine topografico, o meglio un riparo e un diaframma tra dentro e fuori; da una parte sta l’indistinto del freddo, il colore monotono e accecante, il tonfo lontano della guerra, dall’altra il calore recluso di una stanza che sa di stalla, un giaciglio su cui meditare (è noto che Cartesio non si alzava mai prima di mezzogiorno), le pareti umide in cui fissare il diagramma di ascisse-ordinate, sperando nella soluzione del senso.

Figlio del Postmoderno, Grünbein sa bene, di riflesso, che il secolo di Cartesio corrisponde alle vertigini del Barocco: per entrambi, la posta in gioco consiste dunque nell’oltrepassare il troppo pieno che annuncia il vuoto, nell’invocare la tabula rasa come preliminare di una procedura metodica, infine nel cercare di connettere un ordine (il disegno, lo schema, la cifra) laddove tutto quanto si manifestava prima come abnorme caos. Anche per questo il classicista e talvolta solenne Grünbein sfida se stesso e la sua propria maniera cimentandosi con l’esapodia giambica, il verso alessandrino dei poeti barocchi, cioè tentando la chiusura in rima di un universo altrimenti aggettante e centrifugo, nei prolungati e di continuo variati affondi d’un virtuosismo che Anna Maria Carpi, poetessa a sua volta, restituisce con precisione non già per via mimetica (ché ne sarebbero probabilmente discesi gli esangui bisettenari del secentista Pier Jacopo Martello già parodiati da Gozzano) ma sfruttando l’intera gamma del nostro endecasillabo liberamente accorciato e allungato.

Se tuttavia le convulsioni del Barocco nonché, a distanza, gli intasamenti del Postmoderno presagiscono il vuoto e il rigor mortis, la seconda e più breve sezione di Della neve, vera e propria appendice allegorica, fissa l’agonia di Cartesio. Si è ormai nel 1649, la guerra è finita in un atroce pareggio con la pace di Westfalia; stanco, invecchiato, gonfio e rubizzo come il bevitore dipinto da Frans Hals, il filosofo compie il suo ultimo viaggio verso la Svezia della regina Cristina. Lo aspettano, ancora una volta, neve e gelo universali, pari allo scetticismo e all’aperta incomprensione dei suoi simili. Segno che il caos, una volta di più, si mostra refrattario alla chiarezza cognitiva e all’ordine delle severe matematiche. La vittoria del caos, pari alle stragi della guerra, annuncia una volta per sempre la signoria della morte sulla fragilità del corpo e sul flebile lume della ragione. Quel lume appare anzi un residuo, una pura efflorescenza, un fuoco fatuo:

Che cosa oblìa per ultimo un morente? Il proprio nome?
O quando è nato? Come? L’alfabeto?  […]
Lui lucido. Le palpebre pesanti ancor levate, o voluttà, e il gran naso.
Un’effigie barocca, un’effigie da libro.
Poi crollò, riverso, nella neve. E qui congela.
Nessun battito più sotto lo sterno. Descartes, 
encore…

 Durs Grünbein (da Strofe per dopodomani, Einaudi, 2011, traduzione di Anna Maria Carpi)

Che serve applicar l’occhio
a una fessura, a che spiare?
Davanti hai sempre croci e cancelli,
un mondo di settori.
A che pro dei binari, se non
per divergere da qualche parte?

*

Was hilft es, das Auge am Schlitz
eines Türspions zu verdrehn?
Man steht immer vor Kreuzen und
Gittern, einer Welt aus Sektoren.
Wozu sind Schienen da, wenn nicht,
irgendwo auseinanderzugehn?

 

Spudoratezze

E se ti domandano di nuovo  «che cos’è per lei felicità?» ‒
Le riviste con le foto a colori (lifestyle eccetera),
allora dici: aver voglia. Quattro sillabe. Infatti è raro
e prezioso quello stato che si sottrae alla morte.
Cosa c’è di più bello che buttarsi distesi sui lenzuoli?
O uomo o donna, pensate (e con attenzione), che cosa supera
la beatitudine di fare spudoratezze?
                                                              Quest’ansimare
col profumo che riarso aleggia. Lo scatenato
rotolarsi insieme, sorridendo come tanti satiri,
i brividi alla schiena. Il sudore s’imperla alle narici.
E chi lo sente più il tic tac degli orologi. Presto è finito
il caldo e il freddo. Prima che dopo l’atto si distacchino,
lascivia si chiama questo, follia, libidine. – Finché innervosito
dal gridio il vicino non bussa alla parete e grida: fuck!
 
 Unverschämtheit

Und wenn sie wieder fragen  »Was heißt für Sie Gluck?« ‒
Die Magazine mit den bunten Bildchen (lifestyle undsoweiter),
Dann sagst du: Geil zu sein. Drei Silben nur. Denn selten ist
Und kostbar dieser Zustand, allem Sterben weit entrückt.
Was gibt es Schöneres, als sich auf Laken auszubreiten?
Mann oder Frau, denkt nach (und scharf), was übertrifft
Die Seligkeit, es unverschämt zu treiben?
                                                                     Dieses Hecheln,

Bei dem Parfüm, verbrannt, herüberweht. Dies ungezügelte
Sich Ineinanderwühlen, breit wie Satyrn lächelnd,
Am Rückgrat Schauer. Schweiß perlt auf den Nasenflügeln.
Keins hört mehr, wie die Uhren ticken. Gleich ist es vorbei,
Das Heiß und Kalt. Eh sie sich trennen nach dem Akt,
Heißt es: lascivia, Tollheit, Libido. – Bis vom Geschrei
Genervt der Nachbar an die Wand klopft und schreit Fuck!

 
(dalla raccolta A metà partita, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, 1999)

 
“Ognuno tiene ai propri pensieri”
non era certo un motivo per tanti
andirivieni, per ignorare il fatto che
anche questo poi si dimentica.
Tra poco sarai liquidato, gridano
gli anni all’incredulo.
Poiché la vita fa abilmente il suo corso
senza dar premi. Alzarsi il mattino
col piede sbagliato, acceso in volto,
gli ormoni in circolo,
un torso anatomico davanti allo specchio,
pugni pronti allo scatto, occhi
sbarrati per vedere… che cosa?
 
 da  Durs Grünbein “Nuovi poeti tedeschi” a cura di Anna Chiarloni, Einaudi, 1994

 

Quel mattino

Quel mattino finirono gli anni 80
con i residui degli
anni 70 che parevano
gli anni 60: sobri e turbolenti.
«3 decenni con una speranza spenta…»

Prenditi un negativo (e dimentica): quelle
file che si incrociavano alle
fermate, gli ingorghi nel
traffico del mattino, gesti

tutti congelati all’edicola, i
malintesi («È
ferito?») –
(«Conosce DANTE?»). Li vedevi

aspettare, isolati alcuni dal fulgore del loro
esilio. L’aria (altrimenti
inviolabile)
era piena di scene da
film di Chaplin, un
vortice di pigmenti grigi, giorno e
notte di piogge grigie della
centrale a carbone sopra la

morta somiglianza di tutti gli angeli morti
senza braccia e senza gambe sulle
rovine tutt’intorno. Sì va bene,
pensavi: questo luogo
come qualsiasi altro
qui nella Mitteleuropa
dopo il sorger del sole con

mandrie di nuvole al galoppo e l’intrico di voci
mattutine come colte
dal risucchio

di un porto… È questo? Mentre vai
avanti, ti scaldi, saluti
un paio di estranei sbadigliando
(«Uno che sbadiglia!)» arci-
stufo delle tautologie, della fame, della

lenta introduzione a questa giornata. Continua a leggere

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Stefanie Golisch QUATTRO POESIE INEDITE da: Blessings con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Invito Laboratorio 24 maggio 2017Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nove sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Il garante di tutta l’operazione stilistica della Golisch
è caratterizzato dalla consapevolezza della «mancanza» ontologica.
La rappresentazione linguistica del cosiddetto «reale» cela malamente questa «mancanza».
Il linguaggio tradizionale della metafisica poetica risulta inabile alla rappresentazione delle nuove condizioni del nichilismo. Ovvero, Non c’è più un garante.

(G. Linguaglossa)

Onto Giorgio Linguaglossa.verde

Giorgio Linguaglossa

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il soggetto dell’enunciato, è sì legato al soggetto dell’enunciazione ma solo nella designazione, per il resto tra soggetto dell’enunciato e soggetto dell’enunciazione si apre un abisso. Come è noto dalla linguistica di Benveniste, questo processo è dipendente dalla funzione degli schifter nel linguaggio articolato. «Le forme pronominali non rimandano né alla ‘realtà’ né a posizioni oggettive nello spazio e nel tempo, ma all’enunciazione, ogni volta unica, che le contiene», così si esprime Benveniste. 1]

Questo per dire che la poesia di Blessings è tutta poggiata sull’impiego dei pronomi, sul discorso pronominale, su personaggi ridotti alla designazione pronominale: maschere, gettoni segnaletici, personaggi ipotetici trattati al pari di icone, di segni che rimandano ad altri segni:

«Camminava tra di noi, forse era già morto»

Nel modo di indicare i suoi personaggi la Golisch usa l’argomento a-contrario, parte da ciò che essi non sono o non sono più; ma non solo, paradossalmente impiega di frequente anche una aggettivazione univoca, elementare, denotativa (mai decorativa o illustrativa). Ad esempio scrive: «Vestiva di bianco», locuzione tendente per lo più a sviare l’attenzione del lettore dal centro della rappresentazione in quanto quest’ultima è stata derubricata e declassata dal suo ruolo centrale. Gli elementi importanti di questo tipo di poesia si rinvengono negli angoli nascosti, nei dettagli insignificanti colti in modo sporadico, quasi casuale. La Golisch privilegia uno sguardo laterale, incidentale, trasversale, adotta spessissimo gli incipit indiretti riferiti ad uno shifter: («e se dovessi dire di lui, userei il passato remoto»). Abbondano quindi le perifrasi indirette, dove il soggetto enunciatore sembra voler contraddire l’enunciato:

…Lo racconterei come
un uomo di mondi antichi che parlava con
gli uccelli, danzatore in mezzo ai nostri
passi pesanti. Diceva che nessuno gli
doveva nulla e che lui, nel sonno, aveva
già visto come tutto sarebbe finito

Ma è una contraddizione in «vitro», protetta da una perifrasi che solo apparentemente vuole negare in quanto nega per ribadire più fortemente quanto appena negato o asserito. Così, la funzione della memoria ne viene stravolta, il ricordare si appunta sulle smagliature, sui frammenti, sugli stracci del «reale»:

Tra le cose andate storte che capitano nella
vita di tutti, lei ricordava un paio di calze di
nylon color carne che si era rotto prima della
festa, all’andata per essere precisi, mentre
attraversava il bosco saltellando su una
gamba sola…

L’io dunque è ridotto alla istantaneità della presenza, all’istantaneità della sua voce, impalcatura di quello che un tempo lontano è stato il «soggetto», ombra ormai non più desiderante del «soggetto» antico, quello rammemorante della perduta elegia che ha abitato con lustro il Novecento (da Pascoli a Bertolucci fino a Bacchini e odierni epigoni). Quell’io che aveva assunto con Cartesio quella dimensione inaugurale della modernità in cui pensiero ed essere si congiungevano sotto il regime della rappresentazione, come già aveva ravvisato Heidegger nel saggio Moira, quell’io è definitivamente tramontato, è subentrato al suo posto un io dimezzato, declassato, infermo, parziale, in frammenti.

La questione la solleverà Lacan, non tanto nel negare l’era della rappresentazione dell’essere, quanto nel ribadire che è proprio con l’avvento «storico» di questa era che il soggetto si configura come quel momento di divisione, di scissione tra pensiero ed essere, tra essere e rappresentazione e di occultamento che Freud e la psicoanalisi erediteranno. L’istantaneità, l’abitare il presente assoluto del soggetto post-lacaniano della Golisch altro non è che la prefigurazione della necessità di sottrarre il soggetto stesso a quella condizione definita da Lacan la «beanza», ovvero, in termini heideggeriani, la piena identificazione del soggetto con l’essere. 2]

In fin dei conti, sia l’io che i non-io, i personaggi pronominali della Golisch acquistano rilievo linguistico dalla divaricazione che si è aperta tra linguaggio ed essere.
È caratteristico che in questo tipo di scrittura poetica i «soggetti» della poesia di Stefanie Golisch acquistino senso all’interno dell’organizzazione frastica da una sintassi fortemente condizionata dall’attrito tra il discorso indiretto (prevalente) e quello diretto (episodico), con tanto di ironico distacco dell’io che enuncia dall’enunciato.
Per concludere, direi che il garante di tutta l’operazione stilistica della Golisch è caratterizzato dalla consapevolezza della mancanza ontologica di ogni rappresentazione linguistica del cosiddetto «reale», che non c’è più un garante, che lo stile non può più fungere da garante di qualsivoglia operazione scrittoria. È questa, credo, l’origine e il telos della scrittura poetica della Golisch. Continua a leggere

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Durs Grünbein, “Della neve ovvero Cartesio in Germania”: Durs Grünbein e il poema epico nella post-storia. (Traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, 2005). Commento di Letizia Leone

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Durs Grünbein nasce a Dresda nel 1962 e vive a Roma dal 2013. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra quali il premio della città di Marburg (1992), il premio Büchner (1995), il Premio Pasolini (2006). Membro dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Poesia (1995) e dell’Accademia delle Arti di Berlino-Brandeburgo (1999), è autore di numerosi volumi di poesia e saggistica: A metà partita: poesie 1988-1999, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 1999; Il primo anno. Appunti berlinesi, traduzione di Franco Stelzer, Einaudi, Torino 2004; Della neve ovvero Cartesio in Germania, traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2005; Infanzia in diorama, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Comunicare – Letterature Lingue” N. 7, 2007, Il Mulino, Bologna, pp. 241-249; Strofe per dopodomani e altre poesie, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino 2011; Il consiglio dei gamberi e altre passeggiate sott’acqua, traduzione di Silvia Ruzzenenti, in “Prosa saggistica di area tedesca”, a cura di G. Cantarutti e W. Adam, Il Mulino, Collana “Scorciatoie”, Bologna 2011, pp. 17-50; La strada per Bornholm (racconto presente in “La notte in cui cadde il muro”, a cura di Renatus Deckert, traduzione di Valentina Freschi, Scritturapura Editore, Collana Paprika, Asti 2009).

Commento di Letizia Leone

“Le forme letterarie possiedono un determinato indice di resistenza che assicura loro il passaggio attraverso tutta una serie di epoche; nello stesso tempo, la forma letteraria si trova a dover affrontare l’influenza di compiti diversificati, e il nuovo si accumula sul vecchio in maniera qualitativa…”: queste considerazioni di Šklovskij sull’assimilazione e trasformazione stilistica dei generi introducono adeguatamente l’operazione poetica di Durs Grünbein (uno dei maggiori poeti della Germania post-unificazione) il quale, in duemila versi suddivisi in quarantadue canti di dieci strofe ognuno, rivitalizza la tradizione inerte della narrazione lirica in esametri. Risonanze e memoria dei classici ma anche recupero di ritmi e metri della poesia barocca come l’illustre alessandrino (verso canonico del teatro tedesco del XVII sec.), reso sapientemente nella traduzione di Anna Maria Carpi con un recitativo “che tolti alcuni isolati endecasillabi, nasce a seconda della necessità, da aggregazioni diverse di settenari, endecasillabi, quinari”.

Viene da chiedersi: è possibile che la parola epica abbia ancora la capacità di cogliere lo Zeitgeist contemporaneo? E soprattutto ha ancora senso parlare di unità del genere a fronte della dissoluzione postmodernista che avvalora la contaminazione e il riciclo caotico dei materiali, quando lo stesso paradigma critico di genere rischia di risultare obsoleto? Già Hegel, in base alle categorie di “totalità” e “assolutezza dei valori” propri dell’epica classica, dichiarava impossibile un’epica moderna, e Lukàcs supportando la linea hegeliana vedeva nel romanzo (epopea moderna dell’eroe borghese) la filiazione manchevole dell’epos, cosicché nell’ambito di una riflessione critico-stilistica “a rappresentare con purezza il tipo epico risultava esserci sempre e solo l’epos di un Omero e questo tipo omerico sparisce per così dire all’inizio della storia della letteratura” (M. Wehrli). Eppure non mancano esempi di sperimentalismi e riformulazioni che hanno apportato nuova linfa al genere: da Whitman ai classici del modernismo come I Cantos o La terra desolata (opera questa che nel giudizio di I. A. Richards conterrebbe in sé una dozzina di volumi dell’Enciclopedia Britannica) oppure la nuova epica postcoloniale dell’Omeros di Derek Walcott. Opere polifoniche, stratificate, portatrici di un’ampia esegesi.

In “Della neve” la riproposizione del canone epico viene esibita in una architettura compositiva di grande rigore metrico. Grünbein ha adottato brillantemente l’ambizione enciclopedica del genere ai suoi scopi, e se ad uno sguardo retrospettivo l’epica ha funzionato come deposito della memoria collettiva con la narrazione di imprese mitiche e storiche, qui le gesta eroiche da cantare sono quelle del pensiero, e l’eroe è l’homo theoreticus, il filosofo francese René Descartes. Cartesio è il “più frainteso dei filosofi della modernità” e il primo a fraintenderlo è stato proprio il suo contemporaneo Leibniz “che inizia ciò che l’idealismo portò a termine: e cioè congelare Cartesio come il momento pre-dialettico, freddamente razionalistico del pensiero”. Nell’intento di “riscongelare un filosofo esiliato dall’idealismo tedesco”, Grünbein apre la scena in medias res con lo studioso ripiegato nel proprio isolamento interiore ed esistenziale in un “luogo sperduto vicino ad Ulm”, cittadina della Baviera immersa nel gelo straordinario dell’inverno del 1619, come testimonia Cartesio stesso: “Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre ancora in corso; e tornando verso l’esercito dopo l’incoronazione dell’imperatore, l’inizio dell’inverno mi colse in una località dove, non trovando compagnia che mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per mia fortuna, preoccupazioni o passioni che mi turbassero, restavo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di occuparmi dei miei pensieri.”(dal “Discorso sul metodo”)

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Cartesio

Nella descrizione poetica dell’interno domestico, illuminato da una luce caravaggesca, cose e dettagli vengono colti con un’assoluta freddezza di sguardo:

Un mozzicone arde. La griglia nella stufa
dopo il banchetto è lustra come gabbia toracica d’un manzo
fatto arrosto. Ma il freddo si raccoglie nella veste del dotto,
dentro le scarpe a fibbia, nel bavero di pizzo
e dipinge arabeschi alle finestre, entro i tondi piombati.
E gelo e buio marcano i contorni, più aguzzi sono i nasi
e i menti, e blu le labbra la mattina.
D’inverno l’uomo è come il suo cadavere.
Disteso e duro come sulla bara – sul sarcofago-letto.
Un brivido lo desta. Nevica. Un nuovo giorno.

La citazione di Keplero ut pictura, ita visio all’inizio del canto ventiseiesimo, dal quale è tratta la strofa, conferma e ribadisce una modalità di stile all’insegna della figuratività e visibilità. Grünbein sembra adottare la stessa tecnica del chiaroscuro dei pittori olandesi e fiamminghi del XVII secolo nel calcolare l’effetto “luminoso” del freddo sui corpi, gelo e buio marcano i contorni del volto facendo vibrare il ritratto inedito del dotto e sotto la pallida luce dell’alba gelida il dormiente nel letto, disteso e duro come sulla bara, trasfigura quasi nell’icona di un Cristo deposto. L’azione del poema è condensata intorno ad un momento topico del pensiero occidentale, la nascita del razionalismo cartesiano sullo sfondo del paesaggio nordico invernale, o per meglio dire sotto il “diluvio grande di neve” (come annotò il padovano Nicolò De Rossi) della piccola glaciazione che investì l’Europa del 1600. Condizioni estreme, adatte al filosofare. Il poema vuole essere anche elogio dei filosofi, dello stile di vita teoretico, dell’osservazione disinteressata, dell’ascesi nell’epochè, sotto gli imperativi dell’isolamento e della concentrazione che denotano una modalità dell’esistenza filosofica, e ci rammentano i ritiri di Heidegger nella famosa Hütte, la baita di Todtnauberg: “Quando nel profondo della notte invernale, una violenta tempesta di neve avvolge la baita, copre e vela tutto, allora è il tempo della filosofia.” L’immagine-simbolo della neve che apre e chiude il poema svettando nel titolo, è richiamo e correlativo del metodo analitico del matematico Cartesio, inventore della geometria delle coordinate. “Il cristallo di neve, perfetto, esagonale, è il modello della ragione geometrica”, afferma Grünbein, “e l’inverno è la stagione più propizia alle intuizioni della filosofia: ci mostra la natura nel rigore delle sue leggi. Io credo però che Cartesio, costretto per forza maggiore nella prigionia di quel paesaggio gelato, cercasse di apportarvi dinamismo e calore”.

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Freddo, neve, inverno: isotopie meteorologiche che avviano la sequenza delle metafore ma anche allegoria della condizione dell’uomo moderno. La suggestione plastica della landa innevata è condicio sine qua non della concentrazione, visione che astrae dalle contingenze, impulso al cogito del filosofo che comincia a pensare il mondo come astrazione geometrica dalla sua torretta di osservazione, la stanzetta mal riscaldata da una stufa. E il poeta sa rendere perfettamente la situazione emotiva di isolamento ed esilio in cui prende forma il cogito ergo sum bilanciando la narrazione nella compenetrazione dialettica tra l’esterno, la bianca magnificenza del tappeto nevoso che copre le simmetrie del paesaggio naturale e depotenzia i clamori della Storia (la guerra dei trent’anni), e lo spazio interno della coscienza che tende a realizzare il vuoto dei mistici, la sospensione spazio-temporale, il congelamento di affetti e affanni. Inoltre nel gioco testuale di allusioni, rifrazioni, parallelismi figurativi, la neve è speculare all’immagine del foglio bianco, tabula rasa e punto focale su cui si concentrano le fatiche dell’intelletto, il foglio ondulato sudario, torbido specchio, comunque materiale tangibile, res extensa, carta soltanto carta sulla quale vergare il Discorso sul metodo:

Il polverino manca. Mezzo foglio è sconciato.
Stanza stretta e aria secca – Moccio, acqua che schizzano
Sul foglio, se tossisce. E come gratta questa penna d’oca,
Pare un ronzio di mosca. Chi decifra
Tutti gli scarabocchi? Nemmeno il loro autore.
La scrittura va insieme, fanno smorfie i paragrafi.
Ogni frase è una tenia. E questa è un n o un u?
È come nella vita, dopo il 5 romano viene il 4.
“Discours de la méthode” – l’io dà del tu a se stesso.
Chi è io? Non farmi ridere. – Carta, soltanto carta.

Tra riflessione intellettuale e paesaggio il racconto mette in scena la grandezza epica del pensare, ma le questioni fondamentali esposte nel “Discorso” emergono nel bel mezzo della conversazione quotidiana tra il filosofo e il suo unico interlocutore, il fedele Gillot, servo e discepolo, controparte dell’uomo pratico armato di buon senso. Così accade che durante una chiacchierata estemporanea, resa con un parlato espressivo ricco di locuzioni fàtiche, si può discutere dei massimi sistemi e ricollocare le teorie cartesiane dentro uno “stato d’animo” che è poi la Stimmung di un’epoca intera lacerata da guerre, dubbi e insicurezze. Basti qui il breve esempio su come il Dubbio metodico, quale procedimento critico di vaglio e analisi di tutta la realtà, irrompe tra le chiacchiere:

“Io parlavo del dubbio…
Il dubbio nel pensiero è la traccia rovente
che indica la via. È il buco stretto
in cui cacci la testa per passare…”
“Nei casi dubbi, sono le vacche tutte grigie.
Dove niente è più certo, le parole non quadrano,
devo, signore – affidarmi al mio fiuto?”
“Nei casi dubbi – tienti al dubbio, che ti dà
E ti toglie, ti toglie e dà da sé sostegno.
Dimenticati Euclide. Ad Archimede tienti,
al suo punto di leva, da cui anche un infante
col pollice potrebbe scardinare fin il globo terrestre”.
“Voi intendete nei casi dubbi…” “Hai già capito:
uno solo ti aiuta – il figlio di tua madre”.

“È di me che parlate?” “te ne stavi un po’ curvo,
e adesso balzi indietro, ergo lo senti che di te si tratta”.
“Sono i dubbi, signore. Mi si girano dentro…”

Sempre sulla linea di congiunzione immaginale neve-bianco-letto il poema si conclude a Stoccolma alla corte della regina Cristina trent’anni più tardi con il moribondo Cartesio nel suo giaciglio di sofferenza, con un “blocchetto di ghiaccio / premuto sulla fronte”. Il letto dove aveva trascorso metà della vita, dato che era solito alzarsi a mezzogiorno, e dove in una gelida giornata del 1649 muore di polmonite. Dato per scaduto il tempo dell’Epica quale forma rappresentativa di una visione unitaria del mondo (tanto che un personaggio del Dottor Živago esclama che “perfino nel Faust c’è qualcosa di mortalmente insopportabile e artificioso… L’uomo d’oggi… quando è assalito dagli interrogativi dell’universo, si immerge nella fisica, e non negli esametri di Esiodo”), sembra utile riconsiderare le osservazioni di Šklovskij sulla ri-funzionalizzazione dei modelli letterari.

SKLOWSKIJ VIKTOR

Viktor Sklovskij

Oggi un modello di poema epico risponde in parte a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij, e la poesia, “essenza della cultura del mondo”, è vocata ad essere Cantiere dell’Utopia come quello della Basilica di San Francesco in Assisi dove sono stati archiviati e assemblati 300.000 frammenti della volta di Giotto dopo il terremoto del 1997. Non solo conservazione, custodia e salvaguardia della civiltà umanistica, ma anche attività esegetica, ripensamento mito-poietico dei dati inerti della tradizione con il recupero dei frammenti storici alla grande visione, come quella ad esempio di un Cartesio razionalista, matematico e filosofo e insieme poeta e uomo che sogna. E, nel rivalutare l’importanza delle visioni e dei sogni nella genesi del suo pensiero, vivificarne la figura liberandola dalla rigidità museale della Storia. Inoltre, come Grünbein dichiarò tempo fa in un’intervista, è ora che la poesia si riposizioni al punto di congiunzione di filosofia e scienza superando il suo fondamentalismo antiscientifico. È ora per la poesia di ripartire dalla grande lezione di Lucrezio e di Dante.

della neve

Der Schnee von heute

Monsieur, wacht auf. Es hat geschneit die ganze Nacht.
Soweit das Auge reicht auf einer weißen Fläche,
Schmückt sich das Land mit weißen Kegeln. Es sind Bäume,
Die mit der Winterhand der große Arrangeur
Veredelt hat. Man sagt, Ihr schätzt ihn, seinen Spieltrieb,
Der Türmen Hauben aufsetzt und die Dächer deckt
Mit kalten Daunen. Sein Kristallenes Flanell,
Gewebt aus Flocken, polstert faltenlos die Fluren aus,
Bis alle Welt verzaubert ist und tief verschneit –
Ein Foliant mit weißen Seiten, die nur er beschreibt.

Seht Ihr, es tagt. Spurlose Frühe, geometrisch klar.
Kühl wie am Morgen nach der Schöpfung, formenstreng,
Zeigt sich die Erde nun, berechenbar. Was möglich ist,
Nicht wa durch Sintflut, Ackerbau und Kleinstaatkrieg
Verheerend wirklich wurde, liegt nun ausgebreitet.
Besänftigt lädt, was irgend denkbar ist, zum Studium ein.
Schnee hat den Bann gebrochen. Das Diktat der Zeit –
Habt Ihr bemerkt, ist aufgehoben. Unter frischen Wehen
Kroch eine Gleichung in die Hügel. Rein als Raum,
Dreht sich die Landschaft auf den Rücken wie im Traum.

Wacht auf, Monsieur. Auch wenn es scheint, ein Federbett
Sei wie die Wunderwelt dort draußen – nur im Kleinen.
Zum Greifen nah, leicht überschaubar. Eine Projektion
Im Maßstab Eins zu Tausend, nimmt man die Region,
In der Euch Winter traf und einspann wie die Raupe.
Heraus aus dem Kokon! Kommt, werft die Decken ab,
Wenn auch ihr Faltenwurf an Berg und Tal erinnert –
Dazwischen Gänsepfade, überm Knie ein ferner Hügel…
Was früh den Blick trübt, nachts ihn bricht, ist kein Gestirn.
Ein Futteral ists, weich gepolstert, für das müde Hirn.

Es hat geschneit. Seht, vor dem Haus, die weiße Pracht.
Bringt Euern Leib, das feine Instrument, in Position.
Haltet den Atem an ein Weilchen. Adjustiert genau,
Was zum Verorten so geschaffen ist wie kein Sextant –
Dies Sehwerkzeug mit seinen Linsen. Merkt Ihr was?
Auch das Gerät, das uns zur Orientierung dient im Raum,
Ist nur ein Körper, für den Euklids Regeln gelten.
Aus Protein gemacht, doch nach der Art von Glas –
Nichts was zerbricht, und doch im Sog der Erdenschwere,
Folgt es, verletzbar, wenn auch Ding, der Brechungslehre.

Lacht nicht, Monsieur. Ihr kennt so gut als jeder Physicus
Die beiden Wunderkugeln. Wetten, mit Sezierbesteck
Habt Ihr die Äpfelchen zerteilt, die feinen Nervenstränge,
Verzweigt im Eiweiß rings wie vor dem Fenster draußen
Das Wurzelwerk der Bäume unterm frischen Schnee.
Weit mehr gewußt habt Ihr als jeder schnöde Anatom
Von Iris und Pupille, Meister Metaphysicus.
Kein Augenarzt – ein Philosoph betrat das dünne Eis
Zuerst mit der vertrackten Frage: Was heißt Sehn?
Que sais-je? Vielleicht hilft Schnee ja, Perzeption verstehn.

Schnee abstrahiert. Nehmt an, er hat das Bett gemacht
Für die Vernunft. Er hat die Wege eingeschläfert,
Auf denen der Gedankengang sich sonst verirrte.
Die Landschaft gleicht der Schiefertafel, blankgewischt,
Gekippt um neunzig Grad. Im Winterlicht erstrahlt
Die reinste Kammer lucida. Durchs Guckloch geht
Der Sehstrahl scharf zum Horizont und kommt zurück.
Kein Hindernis, kein Zickzackpfad, nur Perspektiven.
Vom Frost geputzt der Zeichentisch – ein idealer Boden
Für den Discours, Monsieur. Allez! Für die Methode.

Nun steht schon auf. Die Sonne wartet nicht auf Euch.
Erhebt Euch aus zerwühlten Laken, eh die Herrlichkeit
Zerschmilzt und Dreck die Sicht Euch trübt wie immer.
Neuschnee ist kostbar wie die großen Diamanten,
Für die man Kriege führt und tauscht Provinzen.
Ein Juwelier, der Schnee. Er modelliert, wohin er fällt.
Er rundet auf und ab und übersetzt in schöne Kurven,
Wofür Physik dann, schwalbenflink, die Formel findet.
Monsieur, bedenkt, was Euch entgeht, verliert Ihr Zeit.
Für Euch hat es, für Euch, die ganze Nacht geschneit.

La neve di oggi

Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica.
Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,
è tutta un cono bianco. Sono gli alberi
che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito.
Voi apprezzate, dicono, lui e il suo umore ludico
che incappuccia le torri, che gelidi piumini
adagia sopra i tetti. Flanella di cristallo,
una liscia imbottita sopra i campi,
finché la neve è alta e il mondo un incantesimo –
pagine di un in-folio su cui lui solo scrive.

Guardate, si fa giorno. Un intatto mattino. Geometrie.
Algida come all’alba del creato, e severa
di forme è ora la terra, calcolabile, e accedi
a quel che lei sarebbe senza devastazioni,
guerre fra staterelli, diluvi e agricoltura.
Placato ogni pensiero, un invito a studiare.
Infranto l’anatema, anche il diktat del tempo
con la neve è sospeso. Sotto nuove dune
nei colli si è insinuata un’equazione. Il paesaggio
si è girato sul dorso, come in sogno.

Destatevi, Monsieur. Non è un letto di piume
Pari al prodigio fuori, o solo in piccolo.
A portata di mano e dello sguardo,
in scala uno a mille, si prende la regione
dove state incastrato come un bruco d’inverno.
Su, fuori da quel bozzolo! Buttate le coperte,
che fanno pieghe come monti e valli,
fra sentieri per oche, e il ginocchio è un colle…
Vi offuscano il mattino, acciecano la notte
non stelle ma un astuccio, molle di dentro, per cervelli stanchi.

Neve davanti a casa. Bianca magnificenza.
Portate in posizione lo strumento finissimo del corpo.
Trattenete il respiro per un po’. Regolatelo,
per fare il punto è meglio di un sestante –
strumento per vedere con le lenti. Lo notate?
L’attrezzo che ci orienta nello spazio
è anch’esso un corpo e sottostà ad Euclide.
Fatto di proteine ma pur simile al vetro –
Non lo spezza risucchio di gravità terrestre,
vulnerabile cosa, segue però le leggi della rifrazione.

Non ridete, Monsieur. Voi come tanti fisici
Conoscete, scommetto, i due stupendi globi.
Nelle meluzze avete messo il bisturi,
in rami e nervature dell’albume, simili alle radici
degli alberi là fuori, sotto la neve fresca.
Più d’ogni sciocco anatomo sapete cos’è l’iride
e la pupilla, maestro metafisico.
Sul ghiaccio fragile s’avventurò il filosofo –
Non l’oculista. Irta domanda: e vedere cos’è?
Que sais-je? Forse la neve aiuta- a capire cos’è la percezione.

La neve astrae. Come se avesse fatto alla ragione il letto
e addormentato tutte quelle strade
su cui il pensiero prima si smarriva.
Lavagna ripulita è il paesaggio,
inclinata di 90 gradi. Nella luce d’inverno ecco risplende
la camera purissima, la lucida. Per il foro arriva
il raggio della vista all’orizzonte e torna senz’ intralcio,
non a zigzag, soltanto prospettive.
Tavolo da disegno spolverato dal gelo – un terreno ideale
Per il Discours, Monsieur. Allez! Avanti il metodo.

Ora alzatevi dunque. Il sole non vi aspetta.
Uscite dal groviglio dei lenzuoli prima che lo splendore
si squagli e sporco offuschi, come fa sempre, l’occhio.
La neve fresca vale quanto i grossi diamanti
Per cui si fanno guerre, si scambiano province.
La neve è un gioielliere. Dove cade modella.
Qua e là arrotonda, traduce in belle curve
Per cui l’agile fisica trova a volo le formule.
Monsieur, cosa vi sfugge se state a perder tempo.
Per voi, per voi tutta la notte ha nevicato

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale (2004); Carte Sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi, a cura di Lidia Ravera (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo “Le invisibili” (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie, tra le quali Rosso da camera. Versi erotici delle poetesse italiane (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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