Durs Grünbein POESIE SCELTE da Strofe per dopodomani (2011), traduzioni di Anna Maria Carpi e di Cristina Vezzaro – Commento di Massimo Raffaeli

[Opera grafica di Claudia Marini, 2004]

Durs Grünbein è nato a Dresda nel 1962, vive tra Berlino e Roma. Dopo il declino dell’impero sovietico, ha iniziato a viaggiare per tutta Europa, Asia del Sud e Stati Uniti. Dal 2005 è professore di poetica ed estetica alla Kunstakademie Dusseldorf. È membro di diverse Accademie tedesche e dal 2009 membro per merito dell’Ordine per le Scienze e le Arti in Germania. Ha pubblicato quattordici raccolte di poesie, un diario, tre libri di saggi; ha tradotto Eschilo, Seneca e Giovenale. Ha ricevuto i maggiori premi letterari Internazionali, inclusi i premi “Georg Buchner”, “Friedrich Nietzsche”, “Friedrich Holderlin”, “Pier Paolo Pasolini” in Italia, “Tomas Transtomer” in Svezia, e l’European Freedom per la poesia in Polonia. La sua poesia è stata ampiamente apprezzata e acclamata e tradotta in molte lingue. Le traduzioni italiane, a cura di Anna Maria Carpi, sono pubblicate da Einaudi: A metà partita (1999), Il primo anno (2004), Della neve (2005), Strofe per dopodomani (2011).

 Commento di Massimo Raffaeli (da germanistica.it)

 È un luogo comune ricordare come Cartesio ricevette in stato sonnambolico la premonizione della filosofia che avrebbe riassunto nel Discorso sul metodo. Poco più che ventenne, bloccato dalla neve dentro una stamberga dalle parti di Ulm, visse infatti una notte di sogni esaltanti dove presero forma (alla maniera d’un inventum mirabile, così poi scrisse) le intuizioni di una logica capace di fondarsi quale scienza universale. Nel 1619 è già iniziata la Guerra dei Trent’anni e Cartesio, militare di carriera, oscilla tra i cattolici e i protestanti che peraltro egli ama di un amore ben dissimulato: conosce la triste fine di Bruno e Galileo, perciò paventa i fulmini dell’Inquisizione tenendosi in petto l’amore, che durerà una vita, per i Paesi Bassi, vale a dire per la libera manifestazione del pensiero e per la stampa non sottoposta a censura.

D’allora non perdona
il gracchiare dei corvi neri in cattedra.
Né la chiacchiera degli oscurantisti.
Però prudenza, amico! Non viene risparmiato chi combatte.
Se gira il vento, perde le sue penne
anche il più audace uccello. Pensate all’uomo che umiliò la terra
a semplice satellite. D’allora è fuorilegge.
Se ne dicono tante – e si smentiscono – se il potere minaccia.
Fra opinioni uniformi raro giova gridar lieti ‘Ho capito!’
Che lo pagate con la vostra vita,
riflettete, Monsieur.

 È la morale del buon senso, anzi sono le parole gravi e ammonitorie del servo Gillot, voce che risuona a contrappunto in Della neve ovvero Cartesio in Germania (a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi), lo splendido poema, agibile come una partitura teatrale, che il cigno nero della poesia tedesca, Durs Grünbein (nato a Dresda nel ’62, noto in Italia per la precedente silloge di A metà partita, Einaudi 1999), dedica al frangente essenziale della vita del filosofo nei modi tanto di una diatriba sul percepire/pensare/scrivere quanto di un’ininterrotta dichiarazione di poetica, sia pure espressa en travesti.

La guerra preme oltre la cornice del quadro; prima che un’eco, essa manda rimbombi ovattati, si manifesta per segni obliqui e sinistri. D’altra parte, il paesaggio appare sempre immobile, chiuso nella morsa del gelo bianco, inerte, nascosto dal dilagare di una luce accecante e rifrangente a oltranza. Non a caso i fenomeni di rifrazione luminosa sono oggetto di studio, per Cartesio; altrettanto non a caso, per il poema di Grünbein, costituisce un possibile modello il capolavoro di Wallace Stevens, Tredici modi di vedere un merlo, asperrima ricerca di un senso esistenziale nella propagazione indistinta del bianco, di un candore niveo che sembra impedire, qui-e-ora, ogni movimento umano, ogni accesso possibile e condivisibile alla verità. L’immagine inaugurale del poema assomiglia la nevicata a una scrittura retroversa, a un nero negativo che scende sulle cose e le contorna, le decifra proteggendole nel manto più soffice. “Placato ogni pensiero, un invito a studiare”, scrive Grünbein: il dialogo continuo tra servo e filosofo ribadisce che non esiste azione cronologica ma appena un discrimine topografico, o meglio un riparo e un diaframma tra dentro e fuori; da una parte sta l’indistinto del freddo, il colore monotono e accecante, il tonfo lontano della guerra, dall’altra il calore recluso di una stanza che sa di stalla, un giaciglio su cui meditare (è noto che Cartesio non si alzava mai prima di mezzogiorno), le pareti umide in cui fissare il diagramma di ascisse-ordinate, sperando nella soluzione del senso.

Figlio del Postmoderno, Grünbein sa bene, di riflesso, che il secolo di Cartesio corrisponde alle vertigini del Barocco: per entrambi, la posta in gioco consiste dunque nell’oltrepassare il troppo pieno che annuncia il vuoto, nell’invocare la tabula rasa come preliminare di una procedura metodica, infine nel cercare di connettere un ordine (il disegno, lo schema, la cifra) laddove tutto quanto si manifestava prima come abnorme caos. Anche per questo il classicista e talvolta solenne Grünbein sfida se stesso e la sua propria maniera cimentandosi con l’esapodia giambica, il verso alessandrino dei poeti barocchi, cioè tentando la chiusura in rima di un universo altrimenti aggettante e centrifugo, nei prolungati e di continuo variati affondi d’un virtuosismo che Anna Maria Carpi, poetessa a sua volta, restituisce con precisione non già per via mimetica (ché ne sarebbero probabilmente discesi gli esangui bisettenari del secentista Pier Jacopo Martello già parodiati da Gozzano) ma sfruttando l’intera gamma del nostro endecasillabo liberamente accorciato e allungato.

Se tuttavia le convulsioni del Barocco nonché, a distanza, gli intasamenti del Postmoderno presagiscono il vuoto e il rigor mortis, la seconda e più breve sezione di Della neve, vera e propria appendice allegorica, fissa l’agonia di Cartesio. Si è ormai nel 1649, la guerra è finita in un atroce pareggio con la pace di Westfalia; stanco, invecchiato, gonfio e rubizzo come il bevitore dipinto da Frans Hals, il filosofo compie il suo ultimo viaggio verso la Svezia della regina Cristina. Lo aspettano, ancora una volta, neve e gelo universali, pari allo scetticismo e all’aperta incomprensione dei suoi simili. Segno che il caos, una volta di più, si mostra refrattario alla chiarezza cognitiva e all’ordine delle severe matematiche. La vittoria del caos, pari alle stragi della guerra, annuncia una volta per sempre la signoria della morte sulla fragilità del corpo e sul flebile lume della ragione. Quel lume appare anzi un residuo, una pura efflorescenza, un fuoco fatuo:

Che cosa oblìa per ultimo un morente? Il proprio nome?
O quando è nato? Come? L’alfabeto?  […]
Lui lucido. Le palpebre pesanti ancor levate, o voluttà, e il gran naso.
Un’effigie barocca, un’effigie da libro.
Poi crollò, riverso, nella neve. E qui congela.
Nessun battito più sotto lo sterno. Descartes, 
encore…

 Durs Grünbein (da Strofe per dopodomani, Einaudi, 2011, traduzione di Anna Maria Carpi)

Che serve applicar l’occhio
a una fessura, a che spiare?
Davanti hai sempre croci e cancelli,
un mondo di settori.
A che pro dei binari, se non
per divergere da qualche parte?

*

Was hilft es, das Auge am Schlitz
eines Türspions zu verdrehn?
Man steht immer vor Kreuzen und
Gittern, einer Welt aus Sektoren.
Wozu sind Schienen da, wenn nicht,
irgendwo auseinanderzugehn?

 

Spudoratezze

E se ti domandano di nuovo  «che cos’è per lei felicità?» ‒
Le riviste con le foto a colori (lifestyle eccetera),
allora dici: aver voglia. Quattro sillabe. Infatti è raro
e prezioso quello stato che si sottrae alla morte.
Cosa c’è di più bello che buttarsi distesi sui lenzuoli?
O uomo o donna, pensate (e con attenzione), che cosa supera
la beatitudine di fare spudoratezze?
                                                              Quest’ansimare
col profumo che riarso aleggia. Lo scatenato
rotolarsi insieme, sorridendo come tanti satiri,
i brividi alla schiena. Il sudore s’imperla alle narici.
E chi lo sente più il tic tac degli orologi. Presto è finito
il caldo e il freddo. Prima che dopo l’atto si distacchino,
lascivia si chiama questo, follia, libidine. – Finché innervosito
dal gridio il vicino non bussa alla parete e grida: fuck!
 
 Unverschämtheit

Und wenn sie wieder fragen  »Was heißt für Sie Gluck?« ‒
Die Magazine mit den bunten Bildchen (lifestyle undsoweiter),
Dann sagst du: Geil zu sein. Drei Silben nur. Denn selten ist
Und kostbar dieser Zustand, allem Sterben weit entrückt.
Was gibt es Schöneres, als sich auf Laken auszubreiten?
Mann oder Frau, denkt nach (und scharf), was übertrifft
Die Seligkeit, es unverschämt zu treiben?
                                                                     Dieses Hecheln,

Bei dem Parfüm, verbrannt, herüberweht. Dies ungezügelte
Sich Ineinanderwühlen, breit wie Satyrn lächelnd,
Am Rückgrat Schauer. Schweiß perlt auf den Nasenflügeln.
Keins hört mehr, wie die Uhren ticken. Gleich ist es vorbei,
Das Heiß und Kalt. Eh sie sich trennen nach dem Akt,
Heißt es: lascivia, Tollheit, Libido. – Bis vom Geschrei
Genervt der Nachbar an die Wand klopft und schreit Fuck!

 
(dalla raccolta A metà partita, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, 1999)

 
“Ognuno tiene ai propri pensieri”
non era certo un motivo per tanti
andirivieni, per ignorare il fatto che
anche questo poi si dimentica.
Tra poco sarai liquidato, gridano
gli anni all’incredulo.
Poiché la vita fa abilmente il suo corso
senza dar premi. Alzarsi il mattino
col piede sbagliato, acceso in volto,
gli ormoni in circolo,
un torso anatomico davanti allo specchio,
pugni pronti allo scatto, occhi
sbarrati per vedere… che cosa?
 
 da  Durs Grünbein “Nuovi poeti tedeschi” a cura di Anna Chiarloni, Einaudi, 1994

 

Quel mattino

Quel mattino finirono gli anni 80
con i residui degli
anni 70 che parevano
gli anni 60: sobri e turbolenti.
«3 decenni con una speranza spenta…»

Prenditi un negativo (e dimentica): quelle
file che si incrociavano alle
fermate, gli ingorghi nel
traffico del mattino, gesti

tutti congelati all’edicola, i
malintesi («È
ferito?») –
(«Conosce DANTE?»). Li vedevi

aspettare, isolati alcuni dal fulgore del loro
esilio. L’aria (altrimenti
inviolabile)
era piena di scene da
film di Chaplin, un
vortice di pigmenti grigi, giorno e
notte di piogge grigie della
centrale a carbone sopra la

morta somiglianza di tutti gli angeli morti
senza braccia e senza gambe sulle
rovine tutt’intorno. Sì va bene,
pensavi: questo luogo
come qualsiasi altro
qui nella Mitteleuropa
dopo il sorger del sole con

mandrie di nuvole al galoppo e l’intrico di voci
mattutine come colte
dal risucchio

di un porto… È questo? Mentre vai
avanti, ti scaldi, saluti
un paio di estranei sbadigliando
(«Uno che sbadiglia!)» arci-
stufo delle tautologie, della fame, della

lenta introduzione a questa giornata.

 

(traduzione di Cristina Vezzaro)

[Durs Grünbein, Della neve ovvero Cartesio in Germania, a cura di A. M. Carpi, Einaudi, Torino 2005]

da 37.   Che cos’è l’amore

[…]  Tutto dorme.
Per strada, così presto, solo lui, la marmotta.
Una testa di porco mostra i denti, lì dal macellaio.
Il ricatto del freddo: gli occhi lacrimano.
Ora è accanto al camino, nella sala dei libri, tutto rigido.
«Il primo attende» dicono qui in Svezia.
E da sovrana, lei, lo fa aspettare.
Lui guarda in giro, osserva, quanto sapere inutile,
di scuola. Quei misteri in marocchino…
Porfirio e Lullo, historici e teologi –
da capogiro. Il dente duole, e ha freddo.

[…]
«Non vi è vergogna?» chiede alla regina.
«A che pro – star sul greco all’età vostra?»
Lei registra – che di mattina presto l’uomo è pallido,
ma copre la cattiveria con il fruscio del vestito.
Un filosofo, ecco. I classici lo rendono irritabile.
«Permettete, ora ditemi tutto ciò che sapete realmente»
Bel colpo. Menomale che il tête à tête non ha testimoni.
[…]
«Chiedete allora, avanti» «Ognuno ha certo amato.
Ma che cos’è l’amore? – Sieur, lo sapete?»
Ecco, lei l’ha dove lo vuole avere, averlo nella pania.
[…]
Nella sua nicchia ha i brividi il Platone di marmo
e si tira la toga sulle spalle – e così fa Descartes col suo mantello.
[…]
«Esser al bando ed il più dolce esilio per stolti e geni
è l’amour. Non ha sponde. In piccolo incomincia,
è un istante di luce che diventa un’ulcera dell’anima.
Son les esprits, gli spiriti vitali, corporali, a estraniarci
da noi stessi. L’oggetto – è una zolla di zucchero:
volerlo possedere è un lungo affanno»
«Monsieur, e ci fa bene?» «Molto prende,
molto elargisce. Ma quel che conta: insegna
che tu sei una parte. E ami solo il tutto
E ciò che si sottrae ti annienta e infiamma»
[…]
«Un alibi per tutti è ancor l’amore,
un motivo per cui il mondo è com’è – lacerato, cattivo, ingovernabile»
«Chiarissimo» Lui fa di sì e la guarda. Chissà se lei capisce
perché la sensibilità qui soffre il freddo.

A partire da «Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che colà ancora si combattono. Ritornando all’esercito dopo aver assistito all’incoronazione dell’imperatore, fui costretto dall’inverno incipiente ad acquartierarmi in una località dove, non essendo distratto da alcuna conversazione e non essendo turbato, per fortuna, né da preoccupazioni né da passioni, trascorrevo tutto il giorno da solo chiuso in una stanza ben riscaldata da una stufa, dove avevo tutto l’agio di intrattenermi con i miei pensieri. […] » (Cartesio, Discorso sul metodo, parte seconda -versione elettronica qui) e dal verso di Orazio «Dissolve frigus», Grünbein, sulla base delle notizie storiche e degli scritti del filosofo, muove gli scenari del “bianco” per un giovane Cartesio nel 1619 in Germania e per un Cartesio che muore di polmonite alla corte della regina Cristina di Svezia nel 1649.

*

Berlino. Un morto seduto per tredici settimane
Ritto davanti al televisore acceso, lo sguardo
Sbarrato. In televisione un tele-cuoco dava
Consigli per una buona cucina.
Putrefazione e tanfo nella stanza,
Dietro le tende un azzurro tremolio, poi
Le ossa spoglie.
Niente
Hanno detto i vicini, scrutandolo con timore, giacché
Tutti stavano pensando la stessa cosa: «Si sentiva
Quell’odore».
Un morto seduto per tredici settimane.
Indubbiamente una bella fine.
Al confine tra due secoli.
 

(da “Nuovi poeti tedeschi” a cura di Anna Chiarloni, Einaudi, 1994)

 Berlin. Ein Toter saß an dreizehn Wochen
Aufrecht vorm Fernseher, der lief, den Blick
Gebrochen. Im Fernsehn gab ein Fernsehkoch
Den guten Rat zum Kochen.
Verwesung und Gestank im Zimmer,
Hinter Gardinen blaues Flimmern, später
Die blanken Knochen.
Nichts
Sagten Nachbarn, die ihn scheu beäugten, denn
Sie alle dachten längst dasselbe: »Ich hab’s
Gerochen«.
Ein Toter saß an dreizehn Wochen…
Es war ein fraglos schönes Ende.
Jahrhundertwende.
 

 
Massimo Raffaeli scrive da decenni di critica letteraria su quotidiani e riviste, collabora ai programmi di Radio3 Rai e della Radio Svizzera italiana. Ha curato testi di autori italiani e ha tradotto dal francese. Parte della sua produzione è raccolta in diversi volumi, fra cui “Novecento italiano” (Luca Sossella editore 2001), “Bande à part. Scritti per «Alias»” (Gaffi editore 2011, Premio “Brancati”), “I fascisti di sinistra e altri scritti sulla prosa” (Aragno 2014).

Anna Maria Carpi vive a Milano, insegna germanistica all’Università di Venezia. Ha esordito nella poesia con A morte Talleyrand (1993). Nel 2004 è uscito Compagni corpi. Poesie 1992-2002, nel 2007 E tu fra i due chi sei, entrambi da Scheiwiller. Traduce i poeti tedeschi (G. Benn, H.M. Enzensberger, D. Gruenbein, H. Mueller) ed è autrice di saggi e di romanzi: Racconto di gioia e di nebbia (1995), E sarai per sempre giovane (1996), Il principe scarlatto (2002) e Un inquieto batter d’ali. Vita di Kleist  (2005). L’asso nella neve è uscito nel gennaio 2011 (Transeuropa edizioni)

 

Not Vidal Moon 1995

Intervista

Perché il suo poema dedicato proprio a Descartes, Grünbein?

Riscoprire Cartesio significa per me, prima di tutto, fuggire della asfittica prigione della letteratura del presente. Aprirsi ad un colloquio con lui significa anche portare avanti il proprio auto-isolamento poetico. Cartesio è infatti non solo il più frainteso dei filosofi della modernità.

Frainteso da chi?

Il primo a fraintenderlo fu il suo contemporaneo Leibniz che inizia ciò che l’idealismo portò a termine: e cioè congelare Cartesio come il momento pre-dialettico, freddamente razionalistico del pensiero. Come poeta dovevo dunque riscongelare un filosofo esiliato dall’idealismo tedesco e riscoprirlo nel momento massimo del suo auto-isolamento esistenziale.

Si riferisce alle condizioni di estrema solitudine in cui progettò, nel 1619, il suo “Discorso sul Metodo”?

Certo, quello è uno dei momenti più creativi in assoluto dell’intera storia della filosofia. Un filosofo infatti è giunto al punto-zero del pensiero: ha gettato radicalmente alle spalle ogni forma del sapere -teologico, metafisico e pseudoscientifico – tradizionale. Ed è lì in una capanna vicino a Ulm a chiedersi a cosa la sua coscienza può ancora appigliarsi.

Cosa l’affascina tanto nella situazione-limite in cui Cartesio scrive il “Discorso”?

Il fatto che questa scena-madre in cui sorge il discorso moderno dell’Occidente ha qualcosa di misticamente orientale. E Cartesio, nel momento in cui lavora al Discorso, ha il fascino del puro monaco buddista.

Vuol dire che il razionalismo moderno nasce per ispirazione mistica?

Voglio dire che Cartesio demolisce le vecchie ed erige le nuove fondamenta del pensiero – cioè il cogito ergo sum .- in un momento di assoluta solitudine. Sta qui l’aspetto, più che mistico, poetico della vita e del pensiero di Cartesio.

Cosa ha a che fare la “matrice” cartesiana del sapere tecnico-scientifico con l’arte e la poesia?

Queste nette dicotomie sono per me retaggi di una tradizione fondamentalistica: non riesco a capire né la posizione aulica di un George che, negli anni ’20, rifiuta ogni contatto con le scienze del tempo. Né il verdetto di un Heidegger per cui “la scienza non pensa”. Alla fine del XX secolo la poesia deve aver superato il suo fondamentalismo antiscientifico.

Per riscoprire in Cartesio il suo nuovo dio?

Per riscoprire piuttosto, come è evidente nei presocratici Parmenide ed Eraclito, la comune fonte del pensiero e della poesia.

Perché ha intitolato il suo poema cartesiano “Sulla neve”?

L’inverno è la stagione filosofica per eccellenza. E la neve è l’elemento che al meglio corrisponde al doppio processo cartesiano della tabula rasa, da un lato, e della razionale cristallizzazione del pensiero moderno. Come dopo una nevicata notturna, ecco così spunta nella mente di Cartesio l’alba del pensiero moderno.

Lo stesso Cartesio racconta nel “Discorso” di quel fatale inverno passato in Germania: la ragione, come diceva Hegel, nasce davvero al Nord?

La ragione cartesiana in ogni caso dev’esser stata stimolata dall’astrazione delle forme coperte dal manto di neve. Il mondo appare allora al filosofo come pura costruzione geometrica: ecco perché il metodo cartesiano è come inscritto nella purezza della nave.

E’ un puro caso che la “razionalistica” neve sorprenda Cartesio proprio in Germania?

L’inverno bloccò il soldato filosofo francese in Germania per pure caso. Si trovava a Francoforte per l’incoronazione di Ferdinando II. La relazione Cartesio-Germania però, per la coltre di gelo su lui stesa dall’idealismo, non è del tutto casuale: nulla è più stridente del contrasto fra Cartesio ed il pensiero speculativo tedesco.

Strano che il razionalismo moderno, tutto metodo e geometria,nasca nel pieno della Guerra dei trent’anni, non trova?

Tutte le deformazioni del nostro carattere rimontano alla peste di quella guerra religiosa mai davvero debellata nell’anima tedesca ed europea. Il contrappunto di razionalismo cartesiano e guerra religiosa è in effetti, l’aspetto più attuale del mio poema.

In che senso, Grünbein?

Il modello “molecolare” della Guerra dei trent’anni, dopo i due mastodontici conflitti mondiali, è la forma-base dei conflitti religiosi che stiamo ormai vivendo, dai Balcani al diffuso terrorismo, su scala globale.

Torniamo alla cartesiana neve. James Joyce scelse il napoletano Vico- acerrimo nemico del francese – come patrono della sua poetica. Il canto poetico, da Goethe in pii, non nasce al sud?

Ma il padre del moderno razionalismo è uomo del sud! L’intellettuale barocco Cartesio non ha mai smesso di leggere e comporre poesie: l’ultima, un Libretto sulla pace di Westfalia. E che muoia stroncato dalle alzataccie all’alba nella fredda Stoccolma – lui che come Oblomov ha trascorso metà della vita a letto – è la tragedia del romanzo della sua vita.

Insomma, lei vede nello spazio puro, nell’incanto delle neve, non solo l’origine del metodo scientifico ma anche del sogno poetico?

Lo stesso Cartesio non ha difficoltà ad ammettere che il suo Discorso nasce da visioni e sogni. Due elementi che oggi abbiamo regalato alla psicoanalisi o alla religione, ma che per Cartesio – inventore dell’Io moderno – sono all’origine del suo pensiero e, come Beckett ha sottolineato, decisivi nella sua vita.

L’autore di “Godot” era attratto però soprattutto dal maniacale isolamento di Cartesio…

Cartesio è solo in quanto stella polare della filosofia. Anche in questo la sua posizione estrema ricorda quella del poeta: la condizione di fondo di ogni vera poesia è infatti l’auto-isolamento di chi la produce.

Che ci trova un poeta di così intimamente vicino nello speculativo Io di un filosofo?

I due massimi poeti a cui mi ispiro, Dante e Ossip Mandelstam, son stati spinti dall’impulso di cancellare la differenza che separa la poesia dal pensiero. Sa come il grande Mandelstam chiamava il Maestro della Divina Commedia?

Ce lo dica lei Grünbein…

Per il poeta russo il fiorentino era “il Cartesio della metafora”. Nulla è dunque estraneo alla poesia: la nostalgia in essa del pensiero e delle scienze è almeno tanto forte quanto quella sentita da un Heinsenberg, alla fine della sua vita, per la poesia.

Insieme a Cartesio, si è occupato di recente anche di Lucio Anneo Seneca. Della cui opera in una sua poesia scrive: “Un monumento di frasi che annunciava: io sono solo”. L’estrema solitudine è condizione di pensiero e poesia sia nel moderno Cartesio che nel latino Seneca?

Certo, solo la solitudine dell’Io è un certo momento di certezza nel linguaggio. Non a caso un poeta come Novalis pensava che nel momento in cui si parla della poesia essa sfugge: sappiamo cos’è, ne sentiamo cioè musica ed ispirazione, solo nel monologo interiore.

E che cosa le dice oggi il dialogo con la voce di Seneca?

La sua voce è polifonica: Seneca è il filosofo stoico e l’uomo di stato, ma anche il drammaturgo e il poeta. E’ la schizofrenia pura: il filosofo che condanna il furore poetico e che scrive al contempo una sublime Medea o una grandiosa lettera all’imperatore.

Ma qual è il passaggio segreto che da Cartesio la porta a Seneca, e viceversa?

Cartesio è il protagonista della filosofia moderna. Il suo pensiero ha inventato la figura del Soggetto su cui riposa l’intera modernità. Seneca invece è il problema del pensiero e della poesia nell’ambito dell’Impero. E’ la voce intellettuale che si dirama da duemila anni dal centro di una enorme struttura politica sino ad oggi nevralgica.

L’attualità di Seneca consiste nei suoi tragici rapporti con l’impero romano?

L’impero è una costruzione storica il cui fine specifico è plasmare masse di sudditi. L’impero ha una sua lingua e una sua missione storica a cui tutti sono soggetti: in tal senso, la Roma di Seneca e gli Stati Uniti di oggi con i loro alleati, sono due forme analoghe di Impero.

E qual è il ruolo dell’intellettuale Seneca nella rete imperiale?

Il suo destino, anche come uno degli uomini più ricchi dell’Impero, è quello di coniare la morale romana, per diventarne alla fine la grande vittima sacrificale. Tutte le contraddizioni che un Gramsci scoprirà più tardi nella figura dell’intellettuale sono in realtà già preformate nella biografia e voce di Seneca.

Veniamo ora alla morale di Seneca: quali i suoi precetti e per chi sono oggi attuali?

L’assoluto rigore ed astinenza richiesti dalla morale stoica son come fatti oggi per falchi del calibro di un Rumsfeld. O per topo manager del mercato globale che devono dominare prima di tutte le proprie passioni per meglio controllare gli altri. E’ paradossale: ma oggi Seneca è il metro dei pochi ricchi e potenti, e non dei tanti che, come ancora sentiva Montaigne, più lo dovrebbero leggere per consolarsi: i molti la cui vita è perpetuo fallimento.

Anche l’inflessibile morale stoica, il mitico Saggio tutto d’un pezzo, è dunque specchio dell’Impero?

Certo, l’incolmabile distanza fra Atene e Roma sta proprio nella cruda e crudele accettazione, da parte del saggio romano, della realtà della dittatura. E’ questo spietato realismo di Seneca che colpì un suo ammiratore come Rubens: e che ci riporta dritto alla meccanica analisi delle passioni di Cartesio. La fredda geometria delle passioni in Seneca, finalizzata al controllo autocratico del Saggio, è impensabile nel cosmo greco.

Alla stessa conclusione arrivò Foucault nel suo ultimo saggio dal sintomatico titolo “La cura di Sé”. Cosa ha scoperto allora davvero Seneca?

Seneca ha scoperto per primo che l’Impero è in noi, è dentro di noi. Rivelando così, molto prima di Joseph Conrad, la potenza ma anche tutto il fascino della crudeltà del potere. Nei suoi drammi è l’assoluta tenebra degli istinti primordiali ad emergere ed occupare il centro dell’uomo e delle società.

Da queste tenebre di Seneca, che fine fanno i progetti illuministici, da Rosseau a Marx, di riformare l’uomo e la società?

Fanno una brutta fine, come vediamo chiaramente oggi. E’ questa la più importante e dolorosa, lezione etica e politica del realismo di Seneca. Ma, ripeto, non è certo l’unica della sua polifonica voce.

Quale altra le sembra altrettanto importante?

Se Cartesio è il padre del pensiero moderno, padre dell’intera letteratura moderna è invece Shakespeare. Che nei suoi drammi si dimostra non a caso un ottimo scolaro di Seneca. Esattamente come dopo di lui il nostro Kleist.

Intervista di Stefano Vastano – L’UNITA’ – 03/12/2004

4 commenti

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4 risposte a “ Durs Grünbein POESIE SCELTE da Strofe per dopodomani (2011), traduzioni di Anna Maria Carpi e di Cristina Vezzaro – Commento di Massimo Raffaeli

  1. gino rago

    “[…]la condizione di fondo di ogni vera poesia è infatti l’auto-isolamento di chi la produce” sostiene,a un certo punto della coltissima intervista, Durs Grünbein.
    Come a dirci, visto che così fu al massimo grado proprio per Mandels’tam verso il quale il poeta di Dresda dichiara apertamente le sue affinità elettive, che la vera unica patria del poeta è la poesia.
    Al di fuori di questa unica patria, il linguaggio della poesia, il poeta vive e opera sempre in uno stato di esilio…
    Così come è tragicamente vera l’idea di Impero che questo poeta-pensante
    fa giungere a noi parlando di Seneca e di Roma.

    GR

  2. Un poeta che si-argomenti non corre certo il rischio di stare nel vuoto.
    Si ha un duplice senso della poesia: prima, quello di accatastare legna in modo da attrarla, poi lasciare che poesia faccia il resto, vale a dire che si occupi dell’invisibile, o quantomeno se ne serva.
    Dal nord Europa riceviamo spesso lezioni severe, ma servono a volgere il pensiero nichilista verso approdi positivi, proprio perché disincantati.

  3. gino rago

    A proposito di poesia in prosa e di prosa poetica in L’occhio incrinato del tempo di Ewa Lipska una lettrice attenta della nostra Rivista Letteratura Internazionale mi segnala via e-mail questa nota, in inglese, riguardante la Lipska e Marina Ciccarini, che propongo alla lettura dei poeti de L’Ombra:

    The Case of Ewa Lipska In the last fifty years, many studies in Europe and America have addressed the problem of poetic prose and of prose poetry, in an attempt to enclose two very elusive literary categories, if possible, in an ultimate definition. Retracing the evolutionary lines of the debate on the issue, the article focuses on the analysis of two recent collections of Ewa Lipska’s poetry, classified by critics as “poetic prose”.

    While such a definition is useful for the collection Miłość, Droga Pani Schubert… (2013), it is less accurate for the volume Droga Pani Schubert… (2012).
    In the latter, the presence of frequent enjambments and the repeated ruptures with keywords in strong positions form an original rhythmic-semantic regularity and effectiveness typical of “prose poetry”

    ———————–
    Prosa poetica o Poesia in prosa?
    [Per eccesso di memoria]
    Cari poeti delle ombre,
    La mia amica di Cracovia non è in grado di tradurre le parole che non ha mai pronunciato. Jolanda W. e M.me Hanska segnalano dalla fabbrica dell’amore che gli amanti non riescono più a toccarsi. Le mani sono scomparse per la memoria in eccesso. Le parole si sono impigliate in scuse puerili perché due vacche nel prato emanavanono vapori. I dirigenti della fabbrica correvano sull’erba dello stesso prato come colpiti da fulmini.
    […]
    Cari poeti delle ombre,
    l’eccesso di memoria può giocare brutti scherzi.
    Meglio mettere in vendita le case

    nelle città che abbiamo lasciato
    senza un preavviso

    [Jolanda W. e M.me Hanska consultano
    gli dèi sempre di nascosto]

    GR

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