Archivi tag: ontologia negativa

Le figuralità e le Figure nella poesia Kitchen, La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso, Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati e costituiscono un non-luogo, un atopon, Poesie kitchen di Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Mauro Pierno, Mimmo Pugliese, Jacopo Ricciardi, Ritratto di Giorgio Linguaglossa, fotografia, È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta ha il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì; soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto

Ritratto di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson, Ritratto di Giorgio Linguaglossa, fotografia 2022

.

Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé, se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,
celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)

Le figuralità nella poesia kitchen

Nelle figuralità presenti nelle poesie kitchen si può rintracciare il percorso che unisce e separa la poesia del novecento e/da quella della nuova ontologia estetica. Sono le figuralità che fanno la differenza.
Le figuralità sono delle vere e proprie tecnicalità, ripropongono la stessa logica anti-entropica e al contempo auto-trascendente della vita. Sono l’espressione di quel fondo pre-individuale presente in ciascuno di noi.

Ogni figuralità è tecnicalità. In ogni oggetto tecnico della poiesis possiamo vedere in atto la dynamis della «natura» umana, quella dimensione originaria che consente all’uomo di esternarsi e di porsi in relazione con quanto lo circonda; quel supporto naturale che permane come un apeiron, serbatoio di potenzialità infinite. L’artificialità delle figuralità non è dunque in alcun modo opposta alla spontaneità produttiva della natura, è anzi consustanziale all’artificialità che contraddistingue l’azione umana, che rappresenta la «natura» umana in svolgimento. La tecnicalità rende visibile al di fuori non tanto semplicemente ciò che l’uomo è nel di dentro, quanto il processo dentro-fuori e io fuori-dentro. La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso.

Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati. Una delle leggi antropologiche fondamentali è quella dell’immediatezza mediata, strutturalmente connessa a quella dell’artificialità naturale, nonché a quella del luogo utopico, del non-luogo a-topon.

Parlare di tecnica e di naturalità delle figuralità vuol dire parlare del medesimo. Le figuralità sono la spia di una poesia altamente artificiale, in quanto la tecnica è essa stessa prodotto di artificio, prodotto della dimensione aperta, storica, evolutiva e ibrida dell’essere umano. L’ibridazione con l’alterità nasce da una incompletezza che non è un difetto da colmare bensì una possibilità che conduce ad un oltre, che è per l’uomo la possibilità produrre una dinamica ad un tempo biologica e culturale, innata e acquisita, ontogenetica e filogenetica. La fisicità umana è fondamentalmente protesica, la physis umana è immediatamente meta-fisica.

Già Carlo Marx affermava che l’uomo è Gattungswesen, essenza generica o ente naturale-generico, apertura potenziale al mondo che si determina in modalità temporale e comunitaria. L’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso; è in rapporto-a e in relazione-con (zoon politikon); la sua natura non rigidamente statica, ma dialettica e dinamica lo spinge verso il mondo per entrare in rapporto con esso. Che l’uomo abbia un Verhältnis (tanto “relazione” quanto comportamento, azione: relazione), significa che la sua condotta di vita è una questione di modi di essere, il suo comportamento concerne il come agire in ogni determinata situazione.L’uomo è per natura uno sperimentatore, è sempre al di là (ek) del limite (peira) immediato imposto dalla natura. L’uomo è il medium tramite cui la natura si spinge al di là dei propri limiti. La tecnica appartiene all’essenza umana come esserCi, va inserita nel mondo, come disvelamento pro-vocante che pro-cede da physis, dal disvelamento producente del mondo che tocca l’uomo come natura che si fa storia. Se la techne è un modo dell’aletheuein dell’essere, è perché essa è la pro-vocazione della natura nei confronti dell’uomo, è quel movimento di fuoriuscita da sé con cui la physis chiama a sé nella forma del superamento di sé, apre lo spazio dell’umano, costituisce l’uomo in quanto ente storico-culturale in quanto ente che deve corrispondere al movimento sottrattivo di una natura che si dà nascondendosi e venendo meno nella sua immediatezza. L’uomo è così per sua natura un ente non-centrico, ec-centrico rispetto a qualsivoglia forma di centricità, di chiusura autocentrica; è sempre s-centrato e de-centrato rispetto a se stesso.

Se «espandiamo [e introiettiamo] tecnologia», è «per scoprire chi siamo e chi possiamo essere… la tecnica, i suoi apparati, non sono una deviazione rispetto alla norma o alla natura umana, ma piuttosto ne sono una amplificazione, una stilizzazione e una manifestazione eminente. […] Ciò che avviene attraverso la tecnica è una vera e propria rivelazione: ciò che si oggettiva nelle protesi è la natura umana, noi possiamo sempre specchiarci negli attrezzi che abbiamo fabbricato […] e dirci: ‘Questo sei tu’. […] La tecnica non è aberrazione, è rivelazione, ci mostra chi siamo davvero, e funziona non come uno specchio deformante, ma casomai come un microscopio o un telescopio»1.

1 M. Ferraris, Anima e iPad. Rivelazioni filosofiche, Guanda, Parma 2011, 11, 68.

Strilli Transtromer le posate d'argento

Poesie a-centriche di
Mauro Pierno

La parte meno esposta.
La parete del divisorio, questo lo ricordi?
L’ultima sigaretta,
va bene, la penultima!
L’orientamento spostato a ovest,
troppa luce! È quanta polvere, ancora?!
Hai dimenticato ancora
le lenti nel cassetto.
Queste, queste
dovresti averle sempre con te Jack.
Hai tante donne per la testa Jack!
I visipallidi ispirano così tanta devozione.
Caricate…
puntate…fuoco!

*

La pagina elettronica ha le sinapsi allungate
una silhouette a basso costo,
le code dei cavalli arrugginite.
La scopa, Hansel,
ha in dotazione un aspiratore elettronico
ed un pettine per crani calvi
e sdentati.

Mimmo Pugliese

Gatti e pavoni

Gatti nelle steppe tengono per mano arance
vele schiacciano briciole sul cartongesso
un trattore elettrico scuote alberi di catrame
nel garage del Colosseo
hanno profili di melagrana le donne gitane
i fucili degli argonauti ululano alla serotonina
l’abilità dei licheni persuade l’inviato speciale
il pollice di Robin Hood è depresso
no, è vivo! fa la corte alla glottide
gli acini non si radono da tempo
il gallo allude
gladiatori contaminano l’olio di oliva
gli apostrofi corrono in salita
dalla punta dell’Adriatico si vede Stonehenge
il bonus casa telefona alla luna
il cerume soffre di insonnia
Paperone starnutisce ai pavoni

Jacopo Ricciardi

brani poetici tratti dall’antologia Poetry Kitchen (2022).

Un mal di testa è un grande ombrello nero
una piovra con un eccesso di tentacoli.
Un gatto dal dorso ardente
acciambellato in ogni cosa
sogna un mal di testa. Qualche gatto
si alza per correre senza fine –
insegue il mal di testa
sotto l’ombrello.
Un mal di testa entra nel piccolo cranio del gatto
che non sa dove andare. Ogni direzione
è possibile
sarà svolta seguendo il vortice di un orecchio.

*

Si immergono luminosi dentro anelli scuri.
In su si afferrano con unghie a mezzaluna
a successive orecchie e discendono quatti
un orecchio alla volta sulle tracce di un mal di testa
guardando ripiani di pietra e pareti finire
nell’acqua di una terma – entra
ogni gatto in una bolla
espulsa dal fondo terrestre fino a una fessura
e salendo nel caldo liquido e aprendosi sulla superficie
lancia il felino nell’odore pregnante
mentre riposa acceso di luce su un calore
memoria di un indimenticabile bruciare.

*

Un podismo estenuante
che genera gatti infiammati
fermi accanto ai falò.
Altri falò soli
figli del non muoversi
del mancato saluto
stuprati da ogni cosa
in un respiro che va a onde circolari.
Queste lagune immobili
come stratificazioni di sanguisughe
bocche contro bocche che trovano solo aria
e rumori di tarli che avanzano che arretrano
salendo o scendendo fintamente nell’idea.

*

La folla di ceppi cade insieme
sanno di resina
che cola nella spaccatura circolare
lì si arrampica sui cerchi del legno
li discende come gradini –
il proliferare del tempo è in briciole.
Il tonfo che fanno a terra è sordo
e non scompone la resina appiccicata.
Le orecchie appiccicate alla resina al tronco.

*

Molti gatti in corsa su differenti vortici di orecchie
sotto il grande ombrello nero di una piovra.
Saltano sulle groppe dei segugi –
vanno riconoscendo il luogo con la lingua –
accendendoli appena e bruciacchiandoli
per finire nel fondo inghiottiti in una nascita –
lì in fondo la vasca della sauna
dove trapela una terma
dove l’acqua è ferma
percorsa da un respiro circolare
stigma di un luogo
come dei ceppi caduti riassorbiti densi in essa.
Sul largo ombrello una miriade di falò.
Intorno sta un paesaggio deforme.

Strilli Tranströmer 1

Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire, e in un ritratto non si possono disegnare. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Fare un ritratto è un atto subdolo: cercare di scavare nell’inconscio del Conscio senza darlo a vedere, non c’è principio di ragion sufficiente che regga. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio e fatto, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’Altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto. Il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre e come può, riproponendo di continuo ciò che non può esser detto in altri modi, ovvero, con altre parole; in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto, e così allarga il campo della dicibilità e restringe quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis. L’ontologia positiva è questo allargare di continuo il campo della dicibilità restringendo quello della linguisticità.

È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta ha il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì; soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende: ciò che io intendo è sempre diverso da ciò che io dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.

Pensare l’Evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo» del linguaggio è una sciocchezza e una improprietà; chi è fuori del quel «luogo» linguistico non comprenderà mai l’Evento di quel linguaggio che deriva da quel «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo: il situarsi emotivamente dell’Esserci in un «luogo linguistico». Ogni luogo ha la sua particolarissima tonalità emotiva, il suo personalissimo colore. E la poesia è il miglior recettore di questa tonalità.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

.

Jacopo Ricciardi, poeta e pittore, è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn. Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), Dei sempre vivi (Stampa 2009, 2021), Quarantanove Giorni  (Il Melangolo, 2018), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il Melangolo, 2015). Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste PoesiaL’immaginazioneSoglieResine, Levania e altre. Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Ha collaborato con Il Messaggero in una rubrica di letteratura a lui dedicata: Passeggiate romane. Ha scritto di arte su Flash Art onlineArt a part of cult(ure) e Espoarte. Ha al suo attivo diverse mostre personali, E fiorente e viva e simultanea, Galleria WA. BE 190 ZA (Roma, 2001),  Nella nebbia dell’esistente, Area 24 (Napoli, 2010), Materie senza segno, Lipanjepuntin (Roma, 2010), Dialoghi d’arte, L’originale (Milano, 2011), Una stanza tutta per sé. Visioni da Shakespeare, Casa dei Teatri (Roma, 2012), Paesaggio terrestre, Area24 (Napoli, 2015), e diverse collettive Epifania, Galleria Giulia (Roma, 2000), Maestri di oggi e di domani, Galleria Giulia (Roma, 2001), Biennale del Mediterraneo, interno Grotte di Pertosa (Salerno, 2002), XXIX Premio Sulmona, Ex Convento di Santa Chiara (Sulmona, 2002), Segnare / disegnare Accademia di San Luca (Roma, 2009), ADD Festival 2011, Macro (Roma, 2011), 90 artisti per una bandiera, Chiostri di San Domenico (Reggio Emilia, 2013), Accademia Militare (Modena, 2013), Vittoriano (Roma, 2013), Ex Arsenale Militare (Torino, 2014), Tribù, Area24 (Napoli, 2014). Ha pubblicato due cataloghi d’arte delle sue opere: Jacopo RicciardiNella nebbia dell’esistente, prefazione di Nicola Carrino, Area24 Art Gallery, 2009; Jacopo Ricciardi, Paesaggio Terrestre, opere 2008-2014, a cura di Sandro Parmiggiani, Grafiche Step Editrice, 2015. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

33 commenti

Archiviato in poetry-kitchen, Senza categoria

L’importante è essere quanto più possibile sopra le righe. Creatività sovreccitata, priva di contenuti… perché non ci si crede più, e i contenuti non ‘rendono’ nell’immediato (settore di mercato medio basso), come invece fa la brutta pittura, la quale perché sia convincente ha da essere ovunque e ovunque ripetuta. A patto che sia finta, chiaramente finta, totalmente finta, Poesia kitchen di Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone, Poesia di Davide Galipò, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Collages di Marie Laure Colasson, collage, Complotto sul tetto del 1992

foto Complotto sul tetto collage

Foto Complotto sul tetto 3
foto Complotto sul tetto 4
Marie Laure Colasson, Collage, Complotto sul tetto, 90×18 cm. 1992

Il collage è per eccellenza un artifex del Moderno, è un vero-finto, in esso non si sa ciò che c’è di vero e ciò che c’è di finto, dove finisce il vero e dove inizia il finto; il collage nella fotografia è analogo al compostaggio in poesia, entrambe tecniche dell’artificio, prodotto seriale, serializzazione fatta in anonimato e in aenigmata; qui delle donne, presumibilmente arabe, anonime, colte di spalle, tengono un surreale colloquio in cima ad un tetto, forse stanno organizzando un complotto, forse no, stanno semplicemente conversando, ognuna con la propria solitudine, ognuna mediante discorsi criptati, messaggi in bottiglia… (g.l.)

Lucio Mayoor Tosi

Sembra che alle fiere d’arte che si svolgono ogni anno in moltissime città del mondo, i galleristi abbiano deciso che il pubblico apprezza il vero-finto; cioè, l’opera d’arte, affinché sembri tale, ha da essere totalmente finta. Da qui, dalla presa d’atto che il Reale si sottrae alla narrazione e che non sia raggiungibile dal senso, da questa rinuncia nascono immagini neo-pop il cui unico intento è quello di mantenersi sopra le righe: colori sfacciati, provocazioni fine a se stesse… scopiazzature in stile Bansky – totalmente dimentichi di Warhol o Rauschenberg – quindi un pop di finta denuncia, di ribellismo infantile, per dare un tocco di attualità all’interior design. L’importante è essere quanto più possibile sopra le righe. Creatività sovreccitata, priva di contenuti… perché non ci si crede più, e i contenuti non ‘rendono’ nell’immediato (settore di mercato medio basso), come invece fa la brutta pittura, la quale perché sia convincente ha da essere ovunque e ovunque ripetuta. A patto che sia finta, chiaramente finta, totalmente finta.

Questo dilemma, il vero/finto, è presente anche nella poesia kitchen. Alcuni praticano il tutto finto, il vero finto invece della illusione di avvicinarsi al Reale, ma ci si aspetta che il Reale possa far sentire la propria presenza tramite il totalmente inventato, il parossismo, lo sketch. Ci riusciamo? Io qualche dubbio ce l’ho. Il tentativo di abbassarsi, togliersi dal concettuale, deriva dalla rinuncia a operare entro canoni estetici e ontologici considerati obsoleti, ma ci riusciamo solo procedendo, nel deserto, con frasi gratuite e affermazioni sfumate e velleitarie, attraversando il totalmente finto. Penso che il “qui e ora” abbia poco a che fare con i messaggi in bottiglia. Purché sia qui e ora, senza l’inganno di un’altrove.

Raffaele Ciccarone

Ritagli minimi 1

Il merlo canta la Traviata alla Fenice di Venezia
Violetta incantata offre Dom Perignon ai presenti

Dopo un lungo viaggio il merlo accusa mal di gola
il tampone è positivo, il medico lo mette in gabbia per tre giorni

Robert Frost al ristorante Arlecchino mangia
bucatini all’amatriciana, un merlo recita “L’infinito” di Leopardi

dei poeti elegiaci in smoking vanno sul tapis rouge
a ritirare il premio di poesia, un merlo canta “Libiamo nei lieti calici”

tra il becchime il merlo preferisce quello biologico
shampoo d’orzo e farro perlato tra addizioni e sottrazioni di vitamine

Set 136

Si trattava di richiamare la rucola, visto che il limone si spremeva
per trattenere i pezzi di parmigiano sul carpaccio di bresaola.

La balena ingoia un rospo, lo rigetta sulla spiaggia, lo chef serendipico
prepara filetto di pesce con la coda dorata alla griglia in Piazza Castello

La bombola del gas non trova un forno a microonde a Venezia
mentre un coccodrillo litiga con un boa in gondola, nel giardino da nominare.

Il pregiato vino rosé blankpink fa due passi all’Expo Kitchen di Parigi
un bavarese offre birra parallattica bionda in assaggio.

Il fegato di merluzzo si spina per un posto al sole, il Vesuvio
gli offre crema abbronzata per rigassificare i canali di scolo.

Oltrepassati i portici una squadriglia di bombardieri lancia confetti serendipici
al cioccolato, dei merli li rubano al volo, le cannoniere fanno fuoco d’artificio

L'Elefante sta bene in salotto Cover DEF
L’Elefante sta bene in salotto. E questo è l’incipit del libro saggistico sulla Poetry kitchen (Progetto Cultura, 2022 pp. 221 € 18)

L’Elefante sta bene in salotto. Intanto, con la sua proboscide fracassa il vasellame, le suppellettili e i ninnoli; ci dice che siamo già oltre i confini del Moderno, che siamo in pieno Dopo il Moderno, nell’epoca del modernariato e del vintage come repertorio permanente di stili defunti che possono essere ripescati e riciclati; il SuperModerno ci dice che non c’è alcun elefante, che tutto è a posto, che i nostri dubbi sono in realtà miraggi, prodotto di scetticismo e di cinismo; che abitiamo il migliore dei mondi possibili e ci invita a costruire con uno stile patico le nostre abitazioni di cartapesta e i lungometraggi con i quali allietiamo le nostre solitudini sociali. Il Signor Capitale ci ammannisce la sordità e la cecità ad obsolescenza programmata, ci dice che l’ultroneo va bene per situazioni ultronee e va bannato, che il reale è razionale e che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili e immaginabili. Viviamo come se si fosse a bordo di un sommergibile, respiriamo quanto basta, amiamo senza le isoglosse del desiderio e della passione, in realtà siamo tutti diventati apatici e atopici, cittadini di un mondo glocale e insociale. (g.l.)

Mimmo Pugliese

Uova di girasole

Dalle porte protese sul resto del mondo
una foglia sbanda sul ghiaccio

Ai cerchi concentrici lasciati alle spalle
si aggrappano tutte le membra del falco

Il respiro spigoloso trema sui vetri
motori sordi farciscono medaglie e cicatrici

Nel cerchio rosso più alto si erano radunati gli ottoni
le diatribe avevano ancora tutte le carte in mano

I sogni dei cavalli pendono dalla caffettiera
le asole sono le bocche della luna

Sulle sedie restano briciole di mercurio
ai posti di blocco derubano le zattere

Uova di girasole risolvono quiz d’intelligenza
quadrilateri sudati transitano nel cielo di Marte

Equilibri incerti si appoggiano alle pareti
alambicchi scontrosi si ribellano alle ulne

Cristalli di sale si spogliano nelle camere oscure
le nuove isole avranno dita verdi

Nelle tasche hai chilometri di cicale
in penombra vene varicose e persiane giocano a dadi

Nell’indifferenza generale

Nell’indifferenza generale il cammello scala l’Everest.
Le pentole hanno sapore di fieno bagnato
al mediatore internazionale è saltata la dentiera
e il mezzobusto sbriciola il gobbo.

Poco importa l’altezza al velociraptor
non suona mai al citofono
cura l’emicrania con il kung-fu
mentre gomme americane al gusto di vodka partoriscono amebe.

Fotoni girovaghi scolpiscono il marmo,
mettono il giorno sottochiave
nelle stanze dei carriarmati,
provvedono a dissetare l’acqua.

Il risveglio è sulle fronde delle scale,
pioppi disseminati di strade
maestri in pantofole dietro la lavagna
e la febbre che scappa dal termometro.

Greggi preparano testamento,
vanno a nozze gli ideogrammi,
allodole sulla collina sbirciano le ciminiere,
mettete al riparo i funghi.

Le barche hanno la pancia piena
non si fermano più al pit-stop,
adesso assaggiano la sabbia
è molto facile che gli dei rìdano.

Non sai mai

Non sai mai
se puoi raccogliere
stelle in una pozzanghera
comprendere il raspo d’uva
che svuota il Trasimeno
sentire il fragore di dei
che si nascondono in un menisco
e le scale musicali diroccate
uguali a tagliole
a campi minati di mirto
dissolti in un lenzuolo
con ai capi artigli
e bavero di gallio
in stagioni sfogliate al contrario
diademi di cubi cuciti sugli obici
dentro un pugno senza uscita di sicurezza
aspettando il prossimo volo
da un lato all’altro della testa
per scoprire gli angoli
di soli in esubero

foto Complotto sul tetto 2

Marie Laure Colasson, Collage, Complotto sul tetto, 1992

.

Gli adulti assennati che sono stati educati alla poesia del Pascoli di Myricae (1891- 1903) avevano della poesia una rappresentazione illibata e intonsa, posizione che il Croce ha poi eternizzato nella la famosa forbice dicotomica: o è poesia o non lo è, risolvendo a suo modo, in modo semplicistico e al modo del liberalismo italiano post-ottocentesco una questione che avrebbe dovuto comportare una ben altra problematizzazione; quegli adulti poi sarebbero andati come ufficiali cadetti e soldati a invadere la Libia nel 1911 e a compiere massacri senza falsa coscienza e senza colpo feìrire… ammesso e concesso che le poesie del Pascoli avessero la funzione sanatoria di silenziare rimorsi (semmai ve ne fossero stati), le rimozioni e i dubbi sui massacri che essi stavano compiendo.
Oggi ai poeti post-pascoliani e post-minimalisti non viene certo in mente la situazione del mondo (di allora e di ora), quella cosa lì non li riguarda, infatti continuano a produrre poesie dozzinali ed epigonali che vengono incensate sul “Sole 24 Ore”; in confronto ad esse, le poesie di Mimmo Pugliese sono solo binocoli che osservano da molto lontano il mondo ridotto a fumo e cenere che il minimo alito di vento le farebbe volare via se non ci fosse il ferro di cavallo lontanissimo e quasi in disparizione della colonna sonora della poesia del Pascoli ma così scolorita da renderla irriconoscibile, e infatti irriconoscibile lo è la poesia di Pugliese, proprio come tutta la poesia della natura de-naturata e della natura de-formata della migliore e consapevole poesia di oggidì che fa capo alla poetry kitchen..

Quanto appare nel discorso poetico di Mimmo Pugliese come evidenza è questo aver superato le resistenze che il soggetto (je) pone all’oggetto, il linguaggio poetico; lavorando ad assottigliare le difese del soggetto Pugliese ha incentivato la possibilità di recepire il discorso poetico come discorso dell’Altro, discorso di un Estraneo che è entrato nella tradizione e la rilegge a suo modo e con i suoi occhiali. È questo che caratterizza la libertà del discorso poetico di Pugliese, il suo non prestare più il fianco alla vulnerabilità del soggetto, l’aver reso il soggetto (je) un Altro che rilegge la poesia della tradizione.

L’io (moi),  l’ego dell’immagine speculare, cioè quello del discorso poetico si oppone al soggetto (je) della parola degli altri, quello della tradizione; per dirla con Jacques-Alain Miller, «l’ombelico dell’insegnamento di Lacan».1 «L’io è», afferma Lacan, «letteralmente un oggetto – un oggetto che adempie una certa funzione che chiamiamo funzione immaginaria».2

Come sappiamo l’io costituisce un ostacolo al discorso del soggetto, che è il luogo in cui si esprime il desiderio. Lacan non cessa di sottolinearlo: esso è un’interruzione, un oggetto inerte che si oppone alla tenace insistenza del flusso di parola inconscio che disturba, mistifica, inquina il discorso. Nella misura in cui il soggetto trae godimento, l’asse immaginario è pensato da Lacan come un ostacolo che perturba l’elaborazione simbolica, di cui l’io non ne vuole sapere. Il linguaggio poetico avviene sempre e soltanto allorquando si verifica una smagliatura nell’ordine del Simbolico, smagliatura attraverso la quale può fluire il linguaggio poetico.

Contrariamente a ciò che comunemente si crede, il discorso locutorio della poesia di Mimmo Pugliese è sempre la voce dell’estraneo che entra nel discorso poetico della tradizione e la stravolge. La tradizione è ciò che si oppone al soggetto (je), che fa resistenza… fino al punto di cedimento in cui accade una rottura delle resistenze del soggetto (je). Solo da questo momentum il discorso poetico può fluire in quanto ha finalmente superato la resistenza alla riscrittura che le oppone la tradizione.

1 J. A. Miller, Linee di lettura, postfazione a J. Lacan, I complessi familiari, cit. p. 86
2 J. Lacan, Seminario II, cit. p. 56

Davide Galipò

Lo spettatore è introdotto
in una sala cinematografica
senza sedie, ai cui lati
vengono disposti degli altoparlanti.

Da questi si diffonde
una serie di discorsi alle nazioni europee
dei grandi dittatori del passato:
Mussolini, Franco, Hitler, Pinochet.

Avvicinandosi agli altoparlanti
possono essere compresi
nella loro interezza.

Sul fondo della sala, su uno schermo
viene proiettato un film muto
consistente in due labbra femminili.

Il filmato presenta poi dei frame
provenienti dai CIE libici:
radiografie di fratture, contusioni, traumi
che – spesso – vengono inviate
alle famiglie per chiedere un riscatto.

Le fotografie durano pochi secondi
e non vengono percepite dallo spettatore
se non a livello subliminale.

Man mano che il filmato va avanti
il volume dei discorsi alle nazioni aumenta
fino a sovrapporsi l’un l’altro.

Un suono acuto interrompe il brusio.
Sullo schermo un veloce montaggio
delle fotografie dei prigionieri libici.

Due altoparlanti all’uscita diffondono
il plagio di massa necessario
ad abbassare presso un’intera comunità
il livello di coscienza e accettare
passivamente tale prevaricazione.

Il testo è riportato integralmente
sullo schermo e scorre
a caratteri bianchi su sfondo nero
come i titoli di coda di un film.

https://davideidee.wordpress.com/2022/10/19/discorsi-alla-nazione/

Sono nato a Torino nel 1991 e cresciuto in Sicilia. Nel 2015 mi sono laureato all’Università di Bologna, con una tesi sulla poesia dadaista nella Neoavanguardia italiana. Nel 2016 ho partecipato al Premio Alberto Dubito di poesia e musica con il progetto spoken word music LeParole, arrivando tra i quattro finalisti. Nel 2020 sono arrivato in finale al Premio InediTO con il progetto spoken word music Spellbinder, menzionato dalla giuria tra i migliori testi di canzoni. Nel 2022 ho iniziato il mio progetto cantautorale, Galipœ. Sono autore delle raccolte di poesia visiva VIC0LO (2015) e di poesia lineare Istruzioni alla rivolta (2020) e degli EP Volontà di vivere (2016), Madrigale (2020) e La Terra La Guerra E Noi (2022). Dirigo il magazine «Neutopia – Rivista del Possibile» e organizzo il festival Poetrification, nel quartiere torinese Barriera di Milano. Sono referente del Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Vivo e lavoro a Torino come operatore culturale.
.

Finalmente un giovane che non scrive poesia epigonale. Una eccellente composizione che sembra senza futuro e senza passato, uscita fuori da una cinepresa d’altri tempi. Dinanzi ad una poesia dobbiamo innanzitutto soffermarci sul lessico (Mussolini, Franco, Hitler, Pinochet, sala cinematografica, altoparlanti, schermo, sala, filmato, caratteri bianchi su sfondo nero, film, titoli di coda etc.); in secondo luogo, sullo stato di cose, ovvero, sullo stato del luogo (un cinema); in terzo luogo, l’azione che vi si svolge; in quarto luogo, lo stile, in questo caso dichiarativo, ovvero, nominale, cioè che semplicemente espone le cose e lo «stato delle cose»; in quinto luogo, le immagini. Tutte queste cose insieme formano una rappresentazione, ovvero, una composizione di nomi di cose messi in modo tale da dare al lettore una sensazione prima ancora che una impressione. La sensazione contagia e determina l’impressione. Nel caso della composizione di Davide Galipò abbiamo una rappresentazione neutrale e neutrofilica, come se le cose venissero viste dal di fuori dello «stato di cose» e dello «stato dei luoghi», proprio come avviene al lettore il quale vede le cose dal di fuori attraverso una rappresentazione ortogonale tutta di superficie, in piena visibilità.
È chiaro a questo punto che qui siamo fuori della ontologia negativa del novecento che perorava che l’essere è ciò che non si dice, qui siamo entrati nell’ontologia positiva per cui l’essere è ciò che si dice.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

.

Raffaele Ciccarone, sono del 1950, ex bancario in pensione, risiedo a Milano, dipingo e scrivo. Le mie poesie sono inedite per lo più. Per un periodo ho pubblicato su una piattaforma online con uno pseudonimo, circa un centinaio di poesie, e qualche prosa. Ho partecipato a gruppi di poesia a Milano. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

34 commenti

Archiviato in poetry-kitchen, Senza categoria

Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva dei recenti orientamenti fiolosofici, Una poesia di Montale e Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talìa, Giuseppe Gallo, Ewa Tagher, a cura di Giorgio Linguaglossa, Aggiungo una postilla sulla Nuova poesia

La gioconda in bikini

Da Vico ad Heidegger si compie il tragitto che traduce e trasborda le categorie antropologiche del pensiero poetico del filosofo napoletano nelle categorie dell’ontologia del novecento, con Heidegger il pensiero mitico di Vico viene assorbito e tradotto nei termini di una moderna filosofia dell’esistenza intesa come indagine ontologica dell’EsserCi.

Con la parola Heimatlosigkeit (senza patria), Heidegger accenna mnesicamente all’assenza-perdita della «patria» quale «casa», «dimora» per l’uomo dell’Occidente.
«Wir irren heute durch ein Haus der Welt» – «Noi erriamo oggi nella casa del mondo»1, scrive Heidegger, perché ci manca il linguaggio. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo vaga alla ricerca di una dimora da abitare e una parola da pronunciare; l’uomo erra nel mondo come uno straniero perché privo di una «patria» rimane privo anche di un «linguaggio», è il tempo della povertà che si annuncia, quella povertà inneggiata da Hölderlin, Quell’antico apoftegma: «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo», non è più pronunciabile nel mondo moderno, l’uomo del capitalismo cognitivo è costretto ad abitare una casa linguistica non più accessibile e così viene spinto a costruirsi una dimora provvisoria, precaria, instabile, che fluttua all’imperversare degli eventi avversi senza sapere a quale corrimano aggrapparsi e quale maniglia afferrare.

L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia primo novecentesca di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire. Montale sarà il maestro indiscusso di questa impossibilità del dire:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.1.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)

Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi decenni è orientata invece verso una ontologia positiva, afferma che l’Essere è ciò che si dice, ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.
Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana. Il dire che si esaurisce nel detto, il detto che si esaurisce nell’esser stato detto, in un passato che non è più. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso della nuova fenomenologia del poetico indicano una compiuta ostensività della significazione, chiudono la significazione nel detto e non la riaprono che nella proposizione successiva, che si chiude anch’essa nel detto. Così, la poesia diventa composizione di singole tessere, di frammenti, enunciati assiologicamente non-orientati che periclitano verso il nulla della significazione, enunciati che non possono sporgersi oltre nel silenzio dell’essere per la priorità del nulla che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla di cui hanno percetto.

Aggiungo una postilla.

La «nuova poesia» si muove all’interno di un orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, e così facendo, ogni enunciato viene inghiottito nel significato positivo, nel positivo significare: un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela essere un negativo. Le fraseologie restano come appese all’appendiabiti di una sospensione trascendentale, intersoggettiva, sopra l’abisso del nulla dal quale provengono e nel quale torneranno. Paradosso nel paradosso: il positivo significare che periclita nel negativo significare in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto. Esemplari in proposito sono queste composizioni:

L’orologio sonnecchia e regredisce a tempi di forchetta
Tutta questa responsabilità in mano agli interrogativi.
I testi risultano incomprensibili
La legge dei puzzle violata come donna nel bottino di guerra.

Persino i punti esclamativi inorridiscono
risalgono le mura a pugnalate e colpiscono oltre i merli.

Bisognerà porre rimedio alla sintassi.
Perché collegarla al logos?

Forse funziona con un pistone in meno
e tagliando i dentifrici.

Dunque niente tubi e se necessario farli saltare
Prima che arrivino ai denti.

La locusta, una delle tre posate in tavola, pronuncia le preghiere a rovescio
Il suo Dio opera a meraviglia senza maschera e divieti.
Promette di preparare l’espresso dalla posa del caffè.

Il bicchiere si fa beffe di chi apre le labbra?

Nel sogno l’autore si cancella volontariamente
– Voglio che un’ape entri nell’incubo 2022 – dice

Almeno una, ma il produttore è schiavo di una voglia incontrollabile
E il sole del risveglio non fa che prendersela con l’ astro del momento
Il parassita che lo rende zombi.

(inedito di Francesco Paolo Intini, 2022) Continua a leggere

28 commenti

Archiviato in poetry kitchen

Un tentativo di risposta di Gino Rago alle 3 questioni poste da Iosif Brodskij, rilanciate da Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Homo Sacer. Intervista a Giorgio Agamben di Antonio Lucci

Gif naomi Campbel

Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche…

Le Tre Domande

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

donne con velo islamico02

Cara Signora Eeva Liisa Manner, troppo alto il ramo con la mela…

Gino Rago

Tentativo di risposta alle Tre Domande

Troppo alto il ramo con la mela
O troppo basso chi la vuole cogliere?

Qualcuno si solleva,
Qualche altro abbassa il ramo.
[…]
Lo scintillio del bronzo appena fuso
O le sue patine-fuochi d’artificio…

Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.

La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.

La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.

I rimasugli di fonderie, gli scarti,
Gli scampoli nelle sartorie,

I vetri rotti negli angoli delle vie,
Le parole delle nuove poesie…
[…]
Siamo uomini del dopo Hiroshima
In filiformi tralicci di gabbie.

Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,

A meno che il suono non significhi niente:
Ni-ente, non-ente.

Tutti vogliono un nome,
Perché ogni nome è una benedizione,

Ma che cosa è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.

E invece è una maledizione,
La nostra maledizione.

Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
Le nuove parole sono gli stracci.

Apri la porta senza bussare:
Un mucchio di cenci in un sacco di iuta.
[…]
Se non a Lei a chi altri confidare

Che la flanella dell’infanzia era morbida
Quando il Tempo di Newton non ci disturbava.

Dalla Finlandia un sibilo nel mio dormiveglia:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».

È Lei ogni notte quella eco.
[…]
Il mio amico di Istanbul** in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio,

Il giorno la cicatrice del dolore»
La cicatrice del dolore,

E’ la stessa di quella che Lei vede nel suo specchio?
[…]
«Quale specchio?»
Lei giustamente chiede,

«Lo specchio dove il tempo si incrina
E Greta Garbo assomiglia a Socrate…»

Non mi dà la risposta, che importa.
Importante è che il poeta ponga domande.
[…]
Thomas Bernhard, in cantina:
«Tutti qualche volta alzano la testa,

Credono di dover dire la verità,
O quella che sembra la verità.

Poi di nuovo incassano la testa nelle spalle…
E questo è tutto»

A Piazza Mastai
Sei personaggi in cerca di bottiglie di Dalmore.

Un messaggio da Stoccolma.
Il Signor T. al mio amico di Istanbul**:

« La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti».

* E’ Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

tu scrivi:

«Sei personaggi in cerca di bottiglie di Dalmore»
e
«La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti»

il dato di fatto da cui tu prendi le mosse è che la poesia odierna è rimasta orfana dell’io, è rimasta priva di un orizzonte di attesa, e, inoltre, è una poesia anedonica. Un linguaggio poetico sterile, intimamente cacofonico e amusaico del tutto inidoneo all’impiego poetico; ma tu invece di trincerarti nella narrativizzazione e nella poesia postruista ed euforbica degli epigoni  di oggi sei andato al di là. Non sono più i personaggi che vanno alla ricerca degli attori ma i personaggi che corrono dietro le «bottiglie di Dalmore».

Potrebbero sembrare, le tue, ad un lettore superficiale, delle annotazioni estemporanee, delle battute di spirito, e invece si tratta di considerazioni che vanno al nocciolo della questione. «Dopo la distruzione delle forme» avvenuta in questi ultimi settanta anni, siamo arrivati alla distruzione dell’orizzonte di attesa. È stato qualcosa che ha colpito al cuore la poesia del soggetto panopticon, dell’io plenipontenziario. L’io è stato de-fondamentalizzato, il soggetto legiferante è stato de-localizzato e l’ontologia negativa di Heidegger è stata sostituita con una ontologia positiva.

Si tratta di eventi epocali di cui la poesia italiana che si fa oggi non ha contezza alcuna, ma che la nuova ontologia estetica ha sollevato con tutto il conseguente peso di tali gigantesche problematiche. La nostra, la tua risposta sono state quella di apprestare e mettere a punto un nuovo dispositivo estetico che si esprime in distici, il cosiddetto «polittico», con salti temporali e spaziali, con sovrapposizione di immagini, di citazioni dirette e indirette, di personaggi e di punti di vista.

Una poesia, il «polittico» di sconvolgente novità e di enorme difficoltà di esecuzione. Il poeta ritorna ad essere poeta artifex, demiurgo della materia e dello spirito. Un risultato di estrema audacia.

La totalità dell’arte e della poesia di oggi, ovvero, degli ultimi decenni, è un’arte e una poesia sostanzialmente anedonica, scritta da persone anedoniche e indirizzata a una generalità di persone anedoniche, cioè incapaci di provare una emozione linguistica o emozione di carattere astratto, cioè sublimato.
Recenti ricerche hanno dimostrato che a determinare la complessità psicopatologica dell’anedonia vi sarebbero diversi e molteplici fattori: genetici, ambientali, culturali e sociali, i quali, a causa dell’interazione reciproca, contribuirebbero alla sua insorgenza clinica e sociale in alcuni strati della popolazione e in particolari ceti socio-culturali delle odierne società a comunicazione di massa, ovvero, «negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche» (Giorgio Agamben, Intervista sotto riportata).

Che cos’è l’anedonia?

Quali sono i suoi sintomi e le cause? E come si cura?

In psichiatria, l’anedonia è l’incapacità, parziale o addirittura totale, di provare appagamento o interesse per attività comunemente ritenute piacevoli, come ad esempio dormire, nutrirsi o il sesso. Questo tipo di invalidità è considerata in primo luogo come un disturbo dell’umore e, di conseguenza, può essere annoverata tra le malattie mentali, quali schizofrenia o i disturbi della personalità.

Il termine anedonia venne coniato alla fine dell’800 dallo psicologo francese Théodule Ribot per definire una sensazione contraria all’edonia, ovvero quell’attitudine generalmente positiva orientata alla ricerca e al conseguimento del piacere in ogni sua forma. Ma solo più tardi venne associata ad uno stato di anestesia organica, cioè ad un abnorme disinteresse per il piacere, specie per quello legato al cibo, al sesso, al sonno, e così via.

«… agli inizi degli anni Sessanta il sociologo tedesco Arnold Gehlen individua un fenomeno di cristallizzazione culturale che segna la fine del mondo dell’azione. Per Gehlen la cristallizzazione è appunto quella condizione che interviene allorquando le possibilità contenute in un certo contesto sono tutte sviluppate nel loro patrimonio fondamentale: la società diventa tanto uniforme e omogenea che non ci sono più differenze culturali e personali. Secondo questa impostazione, nulla di veramente importante e di decisivo può più accadere: tutte le attività sono coinvolte in questo processo generale di restringimento e raggrinzimento, una specie di “esonero” (Entlastung) da quell’ambizione di rapporto con l’essenziale e il decisivo su cui si fondava la possibilità dell’azione».1 Continua a leggere

31 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria

Guido Galdini, Poesie da Appunti Precolombiani, Arcipelago Itaca, 2019, con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, La questione della problematizzazione interna dei linguaggi artistici

Gif Naomi passerella

La questione della problematizzazione interna dei linguaggi artistici

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo 2012) e Gli altri (LietoColle 2017). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha inoltre pubblicato l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

Strilli Gabriele2

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

La questione della problematizzazione interna dei linguaggi artistici

I linguaggi artistici sono quei tipi particolari di linguaggi che sono stati sottoposti ad una intensa problematizzazione interna. È attraverso la problematizzazione interna che i linguaggi si rinnovano, e una attività ermeneutica dei linguaggi artistici ha il compito di mettere in evidenza questa problematizzazione. Ma ogni intensa problematizzazione della forma-poesia comporta inevitabilmente un processo di de-soggettivazione. V’è qui in azione un orizzonte problematologico che de-coincide il soggetto spingendolo verso la de-soggettivazione.

Conosco non da oggi la poesia di Guido Galdini per comprendere come una intensa problematizzazione della forma-poesia lo abbia occupato e preoccupato in tutti questi ultimi anni. Galdini ha osservato con sfiducia crescente la forma-poesia degli ultimi decenni della poesia italiana; il problema per un poeta attento e sensibile era (ed è) fuoriuscire da quell’imbuto che dopo Composita solvantur (1995) di Fortini è diventata una esigenza non più comprimibile. È così che con questo singolarissimo libro il poeta di Brescia ha optato per una diversione tematica radicale, per una poesia che avesse ad oggetto la propria problematizzazione interna, ma l’ha fatto con una mossa spiazzante, con un dribbling, adottando a tematica centrale la colonizzazione dell’America del sud da parte degli spagnoli. Questa tematica apparentemente non avrebbe nessun aggancio con i miti e i riti di oggi della nostra civiltà tecnologica, eppure, a ben guardare con è così, anche noi oggi, abitanti dell’Italia repubblicana posta al confine meridionale dell’Europa, siamo abitati da una potenza coloniale ostile, solo che non ne abbiamo contezza, perché ci risulta invisibile, e la poesia che si scrive oggi in Italia men che mai, risulta anch’essa invisibile in quanto non attinta da alcuna consapevolezza della propria situazione problematica. Il vero problema è lo stato di soggezione e di sudditanza degli abitanti italiani del XXI secolo rispetto ad un Moloch invisibile e pervasivo che ha invaso l’Occidente. La poesia a mio avviso ha il compito di  rendere visibile ciò che è invisibile. Ma, come fare? È questo il problema: come fare per rendere visibile ciò che non è visibile?

È un discorso assertorio quello di Galdini che percorre i binari della poesia del novecento e del post-novecento, dove una voce monologante ci narra una storia; ma non è la storia che a me, in qualità di ermeneuta, personalmente sta a cuore, ma il «modo» di raccontarla; nel «modo» si situa l’istanza problematizzante delle forme artistiche, questo «modo», quello di Galdini, mi rende edotto della crisi interna dei linguaggi poetici convenzionali che ormai rendono obsoleto il discorso di un «io» plenipotenziario che legifera, di una «voce esterna» che governa e narra gli eventi. La scrittura poetica di Galdini si situa in bilico su questo crinale, tra il prima e il poi, tra il governo dell’io e il non-io, accetta e continua il discorso etero diretto del post novecento dove una «voce esterna» narra gli eventi. Penso che prima o poi anche Galdini dovrà decidere se rinunciare alla convenzione della «voce esterna» che governa e narra gli eventi per compiere il passo decisivo, andare oltre il Rubicone, transitare ad una nuova forma-poesia che faccia a meno della istanza di un soggetto plenipotenziario.

Può sembrare una annotazione laterale… avevo letto quella definizione di «ontologia negativa di Heidegger, “l’essere è ciò che non si dice”» almeno venti anni fa. E non ero riuscito a capire tutta la novità rivoluzionaria che conteneva. Poi, leggendo alcuni filosofi di oggi e, in particolare, L’aporia del fondamento (2009) di Massimo Donà, mi sono reso conto che la scoperta di essere giunti ad una ontologia positiva ha conseguenze rivoluzionarie anche sui linguaggi artistici. È stato come un fulmine.

Allora, ho ripensato a tutti i miei tentativi poetici di questi ultimi 35 anni, e tutto mi si è fatto chiaro: la ricerca di un nuovo modo di espressione, sia sul piano delle arti figurative, musicale e letterario, non può non poggiare su questo punctum fermissimum: l’ontologia positiva.

  • È la Circolarità Ermeneutica che presiede il dialogo;
  • È il dialogo che apre alla soluzione problematologica;
  • Il dialogo è l’essenza della poiesis;
  • L’incontro è sempre un incontro con l’Altro, l’Altro e l’alterità sono componenti essenziali della poiesis;
  • “θεραπεύεσθαι δὲ τὴν ψυχὴν ἔφη, ὦ μακάριε, ἐπῳδαῖς τισιν, τὰς δ’ ἐπῳδὰς ταύτας τοὺς λόγους εἶναι τοὺς καλούς” “L’anima, o caro, si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli” Platone nel Carmide – 157/a;
  • “Il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo”, Martin Heidegger;
  • “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”, H.G. Gadamer;
  • La relazione è fatica ed implica che “dire è u-dire”, Umberto Galimberti.

Poesie di Guido Galdini da Appunti Precolombiani

Dresda, Persepoli, Tenochtitlan,
e tutti gli altri nomi
riconsegnati alla polvere,
ci fanno sospettare che sia impossibile
convivere troppo a lungo
con il ricatto della bellezza;
verrà sempre qualcuno, prima o poi,
a liberarci da questo peso:
la rovina è stata la rovina o la costruzione?
*

lo zero, vanto intellettuale dei Maya,
era rappresentato da una conchiglia
oppure da un fiore con tre petali:
in una terra soffocata dagli dei
almeno il nulla doveva essere gentile.
*

è ormai noto che i conquistatori del Messico
approfittarono dell’attesa per il ritorno,
previsto proprio quell’anno,
del principe dal mare d’oriente;
e qui s’inoltrano le riflessioni
sulle coincidenze che diventano catastrofi

ma non risulta che nessuno tra gli eruditi
abbia avanzato l’ipotesi
che Cortés fosse realmente il serpente piumato,
il miglior serpente piumato
che la storia si era potuta permettere.
*

costruiscono i templi sopra altri templi,
le piramidi rivestono altre piramidi:
il passato va protetto nascondendolo.
*

la vera morte sopraggiunge soltanto
dopo aver incenerito il cadavere;
gli Yanomami ne conservano i resti
in recipienti di zucca
che li accompagnano in tutti i loro passi

man mano ne abbandonano
una manciata al terreno,
in un progetto di attenuazione che porta
dal dolore al ricordo, dal ricordo all’oblio.
*

una coppia di turisti tedeschi
è scomparsa nel parco di Tikal,
malgrado le ricerche, di loro
non è stata rinvenuta alcuna traccia:
si presume che li abbia divorati
un giaguaro, forse assunto dalla direzione
per completare la realtà delle passeggiate.
*

secondo una fonte dell’epoca
lo Yucatan prese il nome
da “ma c’ubah than”,
la risposta che diedero i nativi
alle domande degli stranieri del mare,
e che significava semplicemente
non capiamo le vostre parole:
in questo modo, come si addice ai disguidi,
divenne un luogo anche l’incomprensione.
*

il palmo della mano era la parte
prelibata del corpo
riservata nel banchetto ai guerrieri;
e noi, che ogni occasione è propizia
per aumentare la sfiducia in noi stessi,
non ci rendiamo più nemmeno conto
di possedere questa saporita virtù.
*

per alleviare il peso della cattura
Cortés intratteneva Moctezuma
al patolli, un gioco d’azzardo dell’epoca,
si vincevano piccoli oggetti d’oro
che entrambi poi donavano agli spettatori;
il condottiero barava,
l’imperatore si limitava a sorridere:
era in palio la dignità, non le briciole.
*

le impronte rinvenute a Cerro Toluquilla,
vecchie almeno di trentottomila anni,
erano le orme degli uomini in arrivo
o quelle degli dei che si stavano allontanando?
*

per giorni e giorni d’assedio la città
era vissuta immersa nel frastuono,
tamburi, strepiti, trombe di conchiglie,
urla e lamenti di chi, per combattere,
non aveva altre armi oltre alla voce

ma allorché Quauhtemoc si consegnò agli invasori
cadde un silenzio improvviso e totale:
circondato da secoli di rumori
quel silenzio non s’è ancora interrotto.
*

i Mixtechi, il popolo delle nubi,
riuscivano a comprendere la lingua
fino a circa sessanta chilometri da casa,
la distanza che era data percorrere,
a piedi, in due giorni di viaggio:
il limite dell’altrove era segnato
in modo indelebile dalle impronte

per noi che abbiamo perduto
la consuetudine della strada
ogni centimetro è diventato incomprensibile.
*

quando ad Hatuey, un cacicco di Cuba,
prima del supplizio proposero di convertirsi
per ottenere il suo posto nel cielo,
chiese loro se il cielo era il luogo
dove vivono, dopo morti, gli spagnoli

ricevuta una risposta affermativa
dichiarò che preferiva l’inferno:
anche in tema di paradiso,
quando si entra propriamente nel merito,
le opinioni finiscono per divergere.

*

i cani, i tacchini e le api
sono le specie animali
allevate dai Maya;
il cibo, la dolcezza, l’amicizia,
a questi mezzi hanno assegnato
il compito di difenderli dal futuro:
anche loro non hanno avuto il coraggio
di accontentarsi delle stelle.
*

tutti i popoli conquistati e raccolti
sotto il giogo dell’impero del sole
pare non fossero
del tutto grati del proprio stato di sudditi;
accolsero quindi il manipolo d’invasori
come Dei sopraggiunti
per offrir loro la liberazione

più intricato fu poi chiedere ad altri Dei
di liberarli dagli Dei liberatori:
ma tutto questo non fa eccezione
all’uso promiscuo, che si fa ovunque nei tempi,
della perenne parola libertà.
*

non c’è riflesso che possa perturbare
le maschere di pietra verde di Teotihuacan;
soltanto l’ombra di quei volti senza pupille
riusciva a reggere lo sguardo delle piramidi,
soltanto chi è senza sguardo si può permettere
di oltrepassare gli equivoci della vista.
*

Chichén Itzà non è riuscita a sfuggire
alla prescrizione del son et lumière;
un serpente di luce scodinzola
lungo la scalinata del Castillo,
l’equinozio si ripete ogni notte,
accontenta i turisti,
concede loro di credere
che siamo riusciti ad intrappolare
persino il primo giorno di primavera.
*

Tollàn, il canneto, la terra
dove ogni cosa ebbe inizio,
Tollàn è ovunque
non siamo mai stati

ogni luogo raggiunto
smette di poter essere Tollàn,
la meta è una circostanza
che non ha niente a che fare con l’arrivo.
*

i sacerdoti di Xipe Totec,
il dio mixteco della primavera,
indossavano, dopo averle scorticate,
la pelle delle vittime sacrificali

la natura si riveste e si spoglia
e si riveste in abiti di distruzione,
cresce il germoglio sul marcire degli arbusti,
succhia la linfa alle carcasse sepolte,
s’inebria del tepore del terriccio

come informano i poeti modernisti
la crudeltà non è solo un pretesto:
quante notti di nebbia, per la luce d’aprile.
*

la diversa modalità di sacrificio
conferma l’adeguatezza dei loro passi
per raggiungere senza affanno la precisione:
ai maschi strappavano il cuore, le femmine
venivano invece decapitate

cosa infatti di più esatto nel ritrarre
la perizia inclemente di ogni amore:
voi perdete la testa,
a noi rubano il cuore.
*

il maggior punto d’incomprensione
lo si raggiunge di fronte alla crudeltà
men che gratuita, dannosa
per chi l’ha comandata o commessa:
gli encomenderos che per passatempo
nelle ore d’ozio sterminavano i propri schiavi,
ritrovandosi privi
di sufficiente forza lavoro;
la precedenza che per decreto era data
ai convogli dei deportati
rispetto a quelli dei militari feriti
di ritorno dal fronte

come più consona appare
la cura di Gengis Khan
nell’innalzare torri di teste umane,
ad assedio concluso,
per incoraggiare alla resa
gli abitanti delle città successive,
oppure il massacro preventivo
di Cortés a Cholùla,
che insinuò nei superstiti
la convinzione di trovarsi di fronte
a chi leggeva senza impedimenti
nel nascondiglio dei loro pensieri

tuttavia è un modo pavido, il presente,
di affrontare l’oceano dell’orrore,
nel tentativo di stabilire
una gradazione alla profondità delle tenebre;
come se avendo
davanti a noi la vastità della foce
continuassimo a preoccuparci soltanto
di misurare la frenesia dei torrenti.
*

giunsero i Maya assai prossimi
alla costruzione di un arco di volta,
ma non seppero far altro che ammassare
muri sempre più spessi, in modo tale
che s’incontrassero al vertice
per completare il soffitto

cosa fu che impedì loro di aggiungere
la discrezione della chiave di volta, il tassello
che scarica la spinta sui suoi lati,
deludendo la gravità?
non fu forse nessun altro motivo
che uno scrupolo del loro spirito attento,
la preoccupazione di non alleviare
con troppa astuzia il peso dell’universo.

10 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Si va verso la costruzione della forma poesia a polittico: Poesie di Marie Laure Colasson, Carlo Livia, Giorgio Stella, Francesco Paolo Intini, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Anche il multiverso è ragguagliabile a una costruzione a polittico, La questione del finito e dell’infinito nella nuova poesia

Gif Donna di cuori

«Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito»

Intorno alla costruzione della forma-poesia a «polittico»

La costruzione a «polittico» è un assemblaggio di «finiti». Ogni immagine, ogni personaggio, ogni icona è un «finito». «Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito». Parlare e pensare quindi la poesia come «colonna sonora» di significati e di significanti, di «composizione chiusa» o «aperta» è, dal punto di vista del «polittico», un non senso; quella è stata la poesia del novecento, che si è chiuso in un brusio generalizzato e insignificante, un rumore di fondo postruista. Sembrerà ovvio dire che per afferrare la «nuova poesia» occorrono nuove categorie, ed è quello che sta cercando di fare la nuova ontologia estetica. Andiamo alla ricerca delle nuove categorie del pensare ermeneutico.

Il problema è: parlare e pensare la forma poesia come collezione e collazione di «finiti». Considerare una parola, un nome, una immagine come figurazione di un «finito». Finora invece la poesia ha considerato il «nome» (cioè il «finito») all’interno di una colonna sonora che lo portava con sé, lo faceva viaggiare dentro la carlinga del discorso sintattico semantico unidirezionale. Ma, è ovvio che questa è una convenzione, un patto di solidarietà tra il lettore e un emittente, secondo il quale il ricevente accoglie il «nome» come facente parte di un discorso tenuto da un io plenipotenziario che sta sul podio e stabilisce le gerarchie dei significati e dei significanti. Questo, detto in breve.

Ebbene, la nuova ontologia estetica infrange questa convenzione pattizia, ci dice che quella convenzione non è più in vigore e che la nuova poesia ne farà a meno. Penso che sia legittimo. Nessuno ci potrà negare la facoltà di pensare e operare in costanza di caducazione di questa convenzione.

Se non si comprende questo assunto di base, non si comprende nulla della «nuova poesia» NOE, e si continua ad operare secondo quel rispettabilissimo patto che è stato in vigore nell’era copernicana dell’io governatore che arriva dall’inizio del Novecento con il deflagrare delle avanguardie fino ai giorni nostri postremi ed epigonici.

Adesso, con l’ontologia positiva, ne siamo fuori. La poesia dell’ontologia negativa di Heidegger ha dato risultati brillanti ma, quella ontologia fa parte ormai del passato, un passato glorioso, ma passato.

Il «finito», ogni volta che lo nominiamo, è già nell’«in-finito». E già qui siamo fuori della ontologia negativa, siamo entrati in un altro demanio concettuale. Il discorso poetico richiede la predicazione del «finito», una predicazione che non avrà mai fine e che pone stabilmente il «finito» nell’«infinito». Se riusciamo a pensare il discorso poetico in questi termini, non potremo mai più fare poesia come lo si è fatto nella tradizione poetica occidentale.
Sono stato chiaro?

E con questo penso di aver risposto in qualche modo ad Antonio Sacco che mi chiedeva lumi sulla NOE, il tempo, interno, il tempo esterno, lo spazio, la tridimensionalità, la quadri dimensionalità, la disfania, la diafania etc.

Il «non dicibile» abita la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito. Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica ad esempio della poesia di Mario M. Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi.

Nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tra-dizione filosofica occidentale.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

[Milaure Colasson (Marie Laure), nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie].

Le miroir jaloux
De leurs ébats
Comme chante Oscar
Se brise
En mille éclatements

Au travers des paupières
L’écume des jours
Sa bouche ouverte
Un naufrage

Sur quatre couches
De tulle superposées
Un magma savamment coloré
Aéré de plages vides
Renato peint sa magie inventée

Autour de la table
En haute voltige excelle le protagonisme
Chacun se conjugue
À la premiére personne
Exister à tout prix

Les cris stridents des mouettes
À ciel ouvert
Semblent menacer la ville
Putréfaction

“ et moi et moi et moi
Et des millions de petits chinois “
Chantait Jacques Dutronc
La suite en devenir.

*

Le specchio geloso
Dei loro trasporti
Come canta Oscar
S’infrange
In mille frammentazioni

Attraverso le palpebre
La schiuma dei giorni
La sua bocca aperta
Un naufragio

Su quattro strati
Di tulle sovrapposti
Un magma sapientemente colorato
Alleggerito da spiagge vuote
Renato dipinge la sua magia inventata

Volteggia alla grande
intorno al tavolo ed eccelle
il protagonismo
Ognuno si coniuga alla prima persona
Esistere ad ogni costo

Le grida stridenti dei gabbiani
A cielo aperto
Sembrano minacciare la città
Putrefazione

“… e io e io e io
E dei milioni di piccoli cinesi…”
Cantava Jacques Dutronc
Il seguito in divenire.

(trad. di Edith Dzieduszycka)

Carlo Livia

Cenere

È grigio eterno. La macchina dura, malata al posto del cielo. La furia di metallo al posto di Dio. Mia madre si affanna a salire, lasciando un solco di pena. I morti prendono alloggio nella pausa, fitta di pugnali femminili.

L’Essere si lacera sul fondale scosceso. Grida: fuori dallo specchio! C’è l’orfano che uccide. La rosa inesorabile fuggita dal duomo. Che non ricordo più.

Affilate le colpe del deserto. Dice il profeta vestito di arida pace. Col vento della scure come preghiera. Il padre intoccabile. Il suo sonno nero. Ritratto in lacrime che oscura le marine.

L’estranea col peccato entra ed esce dal sogno. La musica dell’amata diventa verticale. Mi chiede l’ombra delle navate. O il viale dei quindici anni. Nella gabbia delle chitarre, con l’embrione infelice.

Sono nel terzo silenzio. Senza promessa. Una vecchia macchina fruga nel mio cuore. Per addormentarmi nel lunario rosa. Passa un morbo triste. L’angelo che non mi ama.

Carne rosea e riccioli d’oro. L’apparenza viziosa. Si accartoccia subito al vento degli ulivi. Dall’alto non ci vedono. Troppo nudi nel ripostiglio. Col lume votivo che piange nel millennio.

Senza bambini. La giostra desolata.

Aspettando il tuono

Entro nello sguardo della bambina. La sua tristezza mi dissolve. L‘anima resta sola. Mi prende per mano e mi porta nel bosco. E’ Il corpo dell’antica Signora. Cresce e s’inazzurra. Dalla sua testa si staccano tre grandi uccelli. Sono orfani. Pregano il quadro vacillante.

Ho ucciso una favola di fonti. Lascia che risorga in me – dice il fiume. Fuggo nel cielo malato, con l’amante in pena. La notte sacramentale mi avvolge, travestita da eclissi contagiosa. La danza dei pianeti piange rugiada di fanciulla.

Il cielo dimagrito per le nozze. Dai più lontani luoghi di sepoltura, al ripostiglio dell’Enigma. L’algebra defunta nell’estasi d’alabastro. Il profumo della Dea langue sugli spalti. L’angelo implacabile è la sposa. Perduta nell’immenso tabernacolo.

Porta un sogno verde sulle spalle. Non sa quanto pesa. Mettilo giù – le dice il cielo. E’ un’arpa folle d’amore. Mi abbraccia nella pioggia nuda. Triste di non essere qui. Con l’addio che cambia forma ad ogni vento.

La donna che amo nasconde in sé il segreto. Cammina davanti a me nella pioggia triste, circondata dagli angeli sterminatori. Non mi consentono di raggiungerla, minacciandomi con le lingue infuocate.

Seguo la processione dell’aborto infelice. Il branco mi attraversa per copulare con la reliquia. Perdendo la vita entro nel cerchio di luce. E’ la radura boschiva da cui nasce l’apparenza. La statua senza testa decreta il mio destino: uno stuolo di manichini che parlano ma non capiscono. In fondo la foresta di sogni senza sguardi.

Dal cielo malato cadono estasi di corallo. Il ragno che inghiotte la notte fa infuriare le ombre. L’addio è troppo timido per abbracciare la sua particola. La curva paranoica cresce inglobando terribili sagrestani.

Un suicidio disadorno oscilla nella cella. Un tentacolo dell’enigma esce dal confessionale. L’eclissi contaminata si confonde col roveto ardente. L’angelo sigillato rovescia la clessidra. Nella città appena risorta preparano il giudizio.

Giorgio Stella

Il Conte Beppe Salvia è a cena con la
Marchesa Amelia Rosselli…

Entrambi hanno deciso di tenere
le finestre aperte per volarci per primo

ma tra Salò e Bètlemme il miele rosso
del piccione da caccia ha il tappo in

bocca… Guarda bene di non poter volare
male la lingua che ha dovuto rinnegare

tra le rovine del panforte e altre
lucurnie del proprio paese –

– all’altro capo dello stesso –
è rotta la macchinetta delle foto

per il censimento del primo dell’anno
mille quando la Florida fu invasa da Cuba

ed Hernry Miller si chiedeva se Tropico del
cancro fosse superiore a Tropico del capricorno:

Una veggenza in piena regola come
Il Tallone di ferro di London o Sotto il Vulcano

cantava: ‘strano il destino, arde la terra mentre un
fiume è in piena’

ma al nono piano del civico 27. di Centocelle
alle 17 del pomeriggio, morte nel pomeriggio,

la vecchia ballerina impartiva lezioni di danza
a giovani ragazze che aspettavano i genitori…

dal vetro pare che l’anziana donna parli da
sola e che all’orologio non sia stata

cambiata apposta la batteria in maniera
tale che la retta stabilita sia saldata

per la festa d’OGNI SANTI.

(Roma,1 luglio, circa le 11.00 del 1, luglio, 2019)

.

Giuseppe Talìa

L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
E lava il mondo nottetempo, dice Celan.

In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
E Kant, di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.

Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.

Spesa settimanale: un po’ populista un po’ liberista.
Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.

Grammi di differenza. La psicologia giustifica:
Nuova esperienza, porta pazienza contano i residui

Del vissuto: la buccia, la polpa e il seme, la tridimensionalità
Del frutto. Quel che è fratto è fratto dice A. L. Lohman. Attrice.

Lucio Mayoor Tosi

In tempo

– Cosa si dovrebbe mai trovare nel nulla,
se proprio lì ogni cosa sparisce. Che vai cercando?

Seguì un concerto di dromedari. Le vacche
avevano da ridire. Eravamo capitati in un gorgo di tempo.

– Se invece che il nulla, covassi l’ambizione di poterlo
attraversare. Magari a costo di restarci secco…

E il nulla fu: lo sferragliare del tram (Primavera, nel segno
di Botticelli), l’alpino tosato, e tutte quelle… parole,

come essere in convento. A pochi metri dal mare, gente
che va su e giù per le scale mobili. – Che esista anche

un nulla virtuale? – Sarebbe il benvenuto. Nulla lo spaventa.
Il nulla è sia qui che lì.  Tiene in vita le cose, le sostiene.

– Nel nulla-spazio si muore. Nel tempo dimensionale,
è pieno di tamerici in fiore. La freccia è ormai scoccata. Continua a leggere

33 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria

Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva del linguaggio poetico e del pensiero filosofico di Massimo Donà, Poesie di Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Bartolo Cattafi, Nota critica di Giorgio Linguaglossa

foto mannequin femme

l’Essere è ciò che si dice

L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Altresì, tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire.

Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi anni, invece, pensa una ontologia positiva, per cui si può affermare che l’Essere è ciò che si dice. Ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.

Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana. Il dire che si esaurisce nel detto, il detto nell’esser stato detto, in un passato che non è più. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso indicano una compiuta ostensività della significazione, chiudono la significazione, e la riaprono nella proposizione seguente. Così, la poesia diventa composizione di singole componenti, di frammenti, frasi assiologicamente non-orientate che periclitano verso il nulla della significazione, che non possono sporgersi nel silenzio per la priorità del nulla che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla di cui hanno percetto.

Aggiungo una postilla. La nuova poesia si muove all’interno di un orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, e così facendo, rischia di venire inghiottita, ad ogni frase, nel significato positivo, nel positivo significare: un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela un negativo. Le fraseologie restano come appese all’appendiabiti di una sospensione trascendentale, sopra l’abisso del nulla dal quale provengono. Paradosso del paradosso: il positivo significare che periclita nel negativo significare, in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto.

Scrive Massimo Donà:

«Ecco perché non si può assolutamente dire che l’orizzonte della positività costituisce il presupposto a partire dal quale, solamente, qualcosa come una differenza può essere posto; infatti, non c’è “essere” se non nel darsi di una differenza – essendo proprio quest’ultima, ciò che ‘fa essere’.
Nessuna distinzione, dunque, tra il differire ontico ed il differire ontologico – come avrebbe invece voluto Heidegger: non essendo in alcun modo pensabile un essere, se non come essere dell’essente.
Di cos’altro possiamo dire che ‘è’, infatti, se non di questo o quel determinato? Nessun’altra esperienza dell’essere si dà mai all’uomo – stante che lo stesso essere in quanto essere si dà al pensiero sempre come “così e così determinato”; cioè come diverso dall’albero e dalla casa. Per cui, anche dire, dell’essere, “che è”, è dire l’essere di un determinato».1

La nuova ontologia estetica ha il vivissimo percetto della oppositività di tutte le parole, della belligeranza universale e del contraddittorio universale di tutte le parole in quanto provenienti da quella oppositività originaria che le rende «tutte possibili proprio in forza della sua specialissima natura – costituendosi essa, per l’appunto, come opposizione tra essere e nulla. Ossia, come opposizione tra l’esser positivo del positivo (la positività) e l’esser negativo del negativo (la negatività)».2

(Giorgio Linguaglossa)

1] M. Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano, 2008, p. 32
2] Ibidem p. 33

Una poesia inedita di Marina Petrillo

Un io gestatorio decaduto, morto al concetto di eterno.
Non rimane alcun frammento,

solo cellule amebiche poste ai limiti di un firmamento finito.
Inibita ogni azione,

anche la nascita. Memorie dissolte
in operoso dialogo interiore, lo sguardo volto e avvolto,

a stele di vento acido.
Inquieti i bambini vivono in universi paralleli,

gestatori, di cui smarrita è la memoria.
Non regna ascensione,solo litania prossima al vivere.

Il mistero, nel piangere bianco,
inclinato asse nella acquiescente vita abdicata.

Pericola il cardine posto a suggello di un dio imploso:
catastrofe morta al suo stesso suono.

Una poesia di Donatella Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.

Giuseppe Gallo

25 maggio 2019 alle 9.19

Caro Giorgio, trovo molto interessante l’appunto che esplichi sulla ontologia negativa di Heidegger: «l’Essere è ciò che non si dice» che oggi si rovescerebbe nel suo opposto “l’Essere è ciò che si dice.” e la sua estensione alle poesie di Marina Petrillo e di Donatella Giancaspero. Noto però, che i due assiomi hanno come radice sempre la parola e il linguaggio. Anche il “non si dice” ha bisogno di essere espresso alla stessa stregua di ciò “che si dice”. È sempre il linguaggio che deve parlare…
Leggo in questi giorni che sta per uscire, per le edizioni Le Lettere, Tutte le poesie di Bartolo Cattafi, (1922-1979) poeta meridionale che ha dato il meglio di sé dopo il 1960 con le raccolte L’osso, l’anima (1964) e L’ora secca del fuoco (1972). Che ne pensi della sua supposta “originalità”?
Approfitto dell’occasione per postare l’ultimo componimento che dovrebbe concludere l’esperienza di Zona gaming.

Zona gaming 10

Si va verso la pioggia
che incrudelisce sulle margherite.

Lilli, il tuo niente
versa la rabbia dentro un altro passo.

Non stato io a incontrare me stesso nelle parole.
L’invisibile si spalma sulle superfici.

Ricciolo di burro sul toast che ingromma. Caffè amaro
sopra le papille. Polvere per soffocare nel respiro.

Zona gaming
Entra nella tua mail… entra nella tua mail… trova un passaggio…

Siamo all’epilogo. Flatus vocis oltre l’istante.
La durata forse sei tu che insegui il desiderio.

L’uomo parla. O parlava?
I miei sogni in crisi: vivono un alfabeto

di incisioni e scalfiture.
Dov’è la bella luce delle lucertole?

Zona gaming
…intermittenza e persistenza delle interferenze…

L’ombra: un diaframma di polline.
L’allergia atopica squama ogni ventricolo.

Incunearsi, allora, nelle vene fino al sangue?
Gridare l’ira per quest’altra morte?

Anche Bianca Maria va nella pioggia
che incrudelisce l’aria dell’autostrada.

E Lilli senz’anima gironzola intorno alle siepi
con la carne del corpo inscatolata.

Zona gaming
…ninna nanna… ninna Nanni… ninna Nanni! (21/05/2019) Continua a leggere

12 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria