Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo

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  In un articolo del 30 luglio 1992 apparso su la Repubblica Alfredo Giuliani scriveva: «Nei primi versi di Mattino domenicale l’autore ambienta la situazione e disegna uno stato d’animo. Ne deduciamo che lei quella mattina s’è compiaciuta di far tardi, non è andata in chiesa, e per un po’ si sente a suo agio, come se l’angoscia cristiana del rito della messa (“sacrificio e resurrezione”) si fosse dissipata. Ma poi comincia un intenso dialogo di toni alti, tra lei e lui, pro e contro la religione. L’attacco era stupendo:

Complacencies of a peignoir, and late
coffee and oranges in a sunny chair,
and the green freedom of a cockatoo…

Poggioli traduceva “Lusinghe di vestaglia”; bello ma una forzatura, si attribuiva al peignoir  un atteggiamento compiacente di colei che lo indossa. In seguito un altro traduttore cercò di cavarsela con un calco: “Compiacimenti del peignoir”. Ora, il carattere particolare di quell’attacco è nell’uso deliberato di due parole inglesi di stampo francese, e lo stretto accostamento produce un effetto irriproducibile in italiano».

Io, approfittando della parentela tra il lessico italiano con quello francese tenterei quest’altra traduzione:

Complacencies di un peignoir, e a tardo mattino
caffè ed arance su una sedia soleggiata
e la verde libertà di un pappagallo

Wallace Stevens Coffee Oranges

 Il poemetto ha inizio con alcuni indizi di una natura morta piena di colori: c’è un «pegnoir», una «sedia soleggiata», un verde pappagallo, «caffè ed arance», e la descrizione di una ricca signora di condizione borghese seduta nel suo giardino una domenica mattina colta mentre esprime felicità e benessere per il lusso e le belle cose che la vita le offre. Nella prima strofe è detto chiaramente della vita ricca e della bellezza naturale del luogo che dissipa «the holy hush of ancient sacrifice». La signora sta fantasticando, ed avverte tutta la mostruosità dell’interferenza da parte della morte nel processo della vita. Anche il fraseggio stilistico vuole accentuare la soddisfazione dello sguardo e dei pensieri della signora borghese nei confronti della bellezza della vita e della natura mediante una mal dissimulata onustà del dettato. Si evince la sua naturale ritrosia per  « The holy hush of ancient sacrifice» e per la assurde pratiche religiose ad esso connesse.

Wallace-Stevens-mind-Meetville-Quotes  Sunday Morning si presenta come una raffigurazione pittorica, come un polittico della borghese incredulità nell’ombroso dio colui che dispone del «Dominion of the blood and sepulchre». L’attrice del quadro è lì, colta all’improvviso, in un momento di distrazione, di indugio recalcitrante, forse. Ha fatto tardi a recarsi alla messa del mattino, una improvvisa e imprevista languidezza le ha fatto perdere tempo, forse il subconscio le detta questo ritardo inspiegabile rispetto agli obblighi societari borghesi del rito mattutino della messa. Pochi tocchi, pennellate essenziali: «caffè e arance su una sedia soleggiata», con quell’ammicco alla «verde libertà di un pappagallo» In questi primi tre versi abbiamo il quadro completo con i suoi colori primaverili e una inquietudine appena accennata e subito rimossa tra la «verde libertà» del pappagallo e la crisi della signora borghese alla ricerca di una « imperishable bliss» (da notare la raffinatissima coloritura ironica di quest’aggettivo). Lei sogna «She dreams a little, and she feels the dark / Encroachment of that old catastrophe»; «antica catastrofe» come tradurrei io, ma accettiamo «antico sacrificio» come traduce Bacigalupo. Si evince da subito la dicotomia antinomia tra la «verde libertà del pappagallo» e il «Dominion of the blood and sepulchre» (Dominio del sangue e del sepolcro).

 Wallace-Stevens Quotes Sunday morning è un poema in chiave meditativa su una figura femminile che consciamente rifiuta la credenza in una vita dell’al di là; è la vita di qua che ella desidera, anche se non «meaningful», anche se priva di  «imperishable bliss».

Nelle prime quattro strofe la signora borghese dichiara espressamente la sua propensione per le bellezze della vita, per la natura e la sua bellezza, e rigetta esplicitamente i dogmi della religione del sangue e della morte.

Wallace-Stevens-Quotes-2  A questo punto, però, interviene la voce narrante del poeta il quale interrompe la meditazione della signora per esporre la tesi secondo cui «beauty» è «death» e che la morte ha un ruolo supremo nel rivolgimento dell’essere. Ma l’argomentazione di Stevens è sibillina, è una confutazione della confutazione. Dapprima sembra voler confutare la meditazione della signora borghese, sembra parteggiare per  le ragioni che stanno alla base della religione della «morte» e del «sacrificio», ma in realtà il poeta si fa beffe del «heaven» e degli sforzi vani degli uomini per raggiungere quel luogo dove la vita non è più macchiata dalla morte, perché la vita è una buona cosa, e la morte, dalla quale la vita dipende, deve essere anch’essa una buona cosa, afferma con paradossale spirito umoristico Stevens. Cosa c’è nell’immaginario «paradiso»?, «no change of death», i fiumi scorrono verso nessun mare, i frutti maturi non cadranno mai dagli alberi, le immagini associate con la religione e la vita in un al di là, sono tristi e prive di vita.   Come si vede, una argomentazione dal duplice risvolto, che potrebbe apparire ambigua ma che in realtà è chiarissima ed esposta con un fraseggio colloquiale di grande compostezza e, direi, sostenutezza formale. In alcuni passaggi anche  il lessico di Stevens opta per il desueto e l’arcaico come per sottolineare l’austerità e l’importanza di quanto si viene dicendo. Per Stevens compito della poesia è quello di sostituire in qualche modo il ruolo svolto dalle religioni moderne nel fornire forma e significato alla vita umana («poetry and poets must take the place of religion and priests to provide form and meaning for human life»).

Faulkner, Others Get Book Awards

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 La terza strofe esalta la serena numinosità della religione pagana greco-romana attraverso la figura di Giove a fronte della più democratica religione cristiana; la quarta strofe segna invece il passaggio ad una maggiore consapevolezza: sia la religione pagana che quella cristiana sono opera del passato, sono tramontate per sempre. Nella quinta strofe di nuovo affiora il pensiero della morte e la signora è tentata dal bisogno di una duratura beatitudine. Ogni strofe introduce una variazione e una contraddizione rispetto alla precedente.

Uno dei punti più importanti della poetica di Stevens risiede nella convinzione che la bellezza è preda dell’attimo, della sua transitorietà. Tutti moriamo e tutto cambia, così l’idea della permanenza è una pessima e falsa idea, una illusione funesta che preannuncia l’altra grande illusione del «paradiso».  Cristianesimo, induismo e qualsiasi altra religione che si basi sulla permanenza è una illusione, frutto di un desiderio, una proiezione. La permanenza non è altro che il circolo di vita e morte. Religioni, miti, filosofie, culture sono tutte finzioni destinate ad essere dimenticate. Il poemetto vuole dirci qualcosa intorno alla gioia per la scoperta che l’uomo è un essere tendenzialmente e intimamente gioioso: « this happy creature-it is he that invented the Gods».

istevew001p1 Nella sesta stanza il poeta medita sul luogo chiamato «heaven»: “Is there no change of death in paradise? Does ripe fruit never fall?“. Se i fiumi scorrono ma non raggiungono gli oceani, se i frutti maturano ma non cadono dagli alberi, se c’è solo «beatitudine» e non il suo contrario che solo le darebbe significato e consistenza, ne dobbiamo dedurre che esso non sia propriamente questo luogo della eterna felicità, in esso sarebbe impossibile vivere, esistere, e sarebbe oltremodo noioso, insignificante soggiornarvi.

Wallace-Stevens-Quotes-1 Nella settima stanza Stevens descrive la religione del futuro, il nuovo paganesimo nel quale l’intero universo è fatto oggetto di adorazione, nel quale gli esseri umani saranno uniti in fratellanza, uniti nella convinzione che ogni uomo è transitorio, che anche Gesù  (Dio) è morto, è una figura storica e come tale anch’egli sottoposto alle leggi del mutamento e del ciclo vitale della natura. La conclusione è dichiaratamente panica, liberatoria, gioiosa: una voce si annuncia con queste parole alla signora borghese:

Lei ode, su quell’acqua senza suono,
una voce che annuncia: « La tomba in Palestina
non è un chiostro di spiriti indugianti,
ma la tomba di Gesù, in cui egli giacque ».
Viviamo in un vecchio caos del sole…

(Giorgio Linguaglossa)

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Sunday Morning (Mattino domenicale)

I.
Complacencies of the peignoir, and late
Coffee and oranges in a sunny chair,
And the green freedom of a cockatoo
Upon a rug mingle to dissipate
The holy hush of ancient sacrifice.
She dreams a little, and she feels the dark
Encroachment of that old catastrophe,
As a calm darkens among water-lights.
The pungent oranges and bright, green wings
Seem things in some procession of the dead,
Winding across wide water, without sound.
The day is like wide water, without sound.
Stilled for the passing of her dreaming feet
Over the seas, to silent Palestine,
Dominion of the blood and sepulchre.

I.
Compiacenze dell’accappatoio, caffè e arance,
a tarda mattina su una sedia al sole,
e la libertà verde di un cacatua
sul tappeto si coniugano per dissipare
la sospensione religiosa del sacrificio antico.
Lei sogna un poco, sente l’oscuro
peso dell’antica catastrofe, quasi
una bonaccia che oscura luci d’acqua.
Le arance pungenti e le ali luminose, verdi,
paiono oggetti in una processione di morti,
che s’inoltra su acque ampie, senza suono.
Il giorno è un’acqua ampia, senza suono,
calmata perché lei vada coi piedi sognanti
sopra i mari verso la silenziosa Palestina,
dominio del sangue e del sepolcro.

wallace stevens harmonium
II.
Why should she give her bounty to the dead?
What is divinity if it can come
Only in silent shadows and in dreams?
Shall she not find in comforts of the sun,
In pungent fruit and bright green wings, or else
In any balm or beauty of the earth,
Things to be cherished like the thought of heaven?
Divinity must live within herself:
Passions of rain, or moods in falling snow;
Grievings in loneliness, or unsubdued
Elations when the forest blooms; gusty
Emotions on wet roads on autumn nights;
All pleasures and all pains, remembering
The bough of summer and the winter branch.
These are the measure destined for her soul.

II.
Perché dovrebbe dare le sue sostanze ai morti?
Cos’è la divinità se giunge solo
nei sogni e in ombre silenziose?
Non troverà forse nel conforto del sole,
In frutti pungenti e ali verdi, luminose,
o in ogni balsamo e bellezza della terra
Cose da amare come il pensiero del cielo?
La divinità vivrà dentro di lei:
passioni di piogge, umori di nevicate,
dolori in solitudine o esaltazioni incontrollate
quando il bosco è in boccio; folate d’emozioni
su strade roride nelle notti autunnali;
tutti i piaceri e le pene, ricordando
la fronda estiva e il ramo dell’inverno.
Queste le misure destinate a lei, all’anima.

Portrait of Wallace Stevens Wearing a Suit
III.

Jove in the clouds had his inhuman birth.
No mother suckled him, no sweet land gave
Large-mannered motions to his mythy mind.
He moved among us, as a muttering king,
Magnificent, would move among his hinds,
Until our blood, commingling, virginal,
With heaven, brought such requital to desire
The very hinds discerned it, in a star.
Shall our blood fail? Or shall it come to be
The blood of paradise? And shall the earth
Seem all of paradise that we shall know?
The sky will be much friendlier then than now,
A part of labor and a part of pain,
And next in glory to enduring love,
Not this dividing and indifferent blue.

III.
Giove ebbe un parto inumano fra le nuvole.
Nessuna madre l’allattò, né terra dolce diede
movenze ampie alla sua mente mitica.
Passò fra noi, come un re bofonchiante,
magnifico, passerebbe fra i vassalli,
finché il nostro sangue, unendosi, virgineo,
al cielo esaudì il desiderio a tal punto
che anche i vassalli lo videro, in una stella.
Fallirà il nostro sangue? O diverrà
sangue del paradiso? E sembrerà
la terra tutto il paradiso che sapremo?
Il cielo sarà molto più amichevole che ora,
parte fatica e parte anche pena,
secondo in gloria all’amore duraturo:
non questo blu indifferente e divisorio.

Wallace Stevens 2
IV.
She says, “I am content when wakened birds,
Before they fly, test the reality
Of misty fields, by their sweet questionings;
But when the birds are gone, and their warm fields
Return no more, where, then, is paradise?”
There is not any haunt of prophecy,
Nor any old chimera of the grave,
Neither the golden underground, nor isle
Melodious, where spirits gat them home,
Nor visionary south, nor cloudy palm
Remote on heaven’s hill, that has endured
As April’s green endures; or will endure
Like her remembrance of awakened birds,
Or her desire for June and evening, tipped
By the consummation of the swallow’s wings.
IV.
Lei dice: « Sono paga se uccelli ridesti
prima del volo, saggiano la realtà
dei campi nebbiosi con interrogazioni dolci;
ma svaniti gli uccelli, per sempre partiti
i loro campi caldi, dov’è il paradiso? »
Non c’è nessun luogo profetico,
Nessuna vecchia chimera della tomba,
Nessun eliso dorato, o isola
melodiosa, dove spiriti hanno stanza,
nessun sud visionario, né palma nuvolosa
remota sulla collina del cielo, che sia
duratura quanto il verde d’aprile, o durerà
come il ricordo ch’essa ha degli uccelli ridesti,
o il desiderio del giugno e della sera, segnata
dal culminare delle ali della rondine.

Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1
V.
She says, “But in contentment I still feel
The need of some imperishable bliss.”
Death is the mother of beauty; hence from her,
Alone, shall come fulfillment to our dreams
And our desires. Although she strews the leaves
Of sure obliteration on our paths,
The path sick sorrow took, the many paths
Where triumph rang its brassy phrase, or love
Whispered a little out of tenderness,
She makes the willow shiver in the sun
For maidens who were wont to sit and gaze
Upon the grass, relinquished to their feet.
She causes boys to pile new plums and pears
On disregarded plate. The maidens taste
And stray impassioned in the littering leaves.

V.
Poi dice: « Nell’appagamento provo pur sempre
il bisogno di una felicità imperitura ».
La morte è madre di bellezza: dunque solo
da essa verrà la realizzazione dei nostri sogni
e desideri. Per quanto essa sparga le foglie
di una cancellazione sicura sulla nostra via
– La via presa dal dolore malato, le molte vie
su cui il trionfo intonò note stentoree,
o l’amore sussurrò un poco per tenerezza –
essa fa trepidare al sole il salice
per fanciulle abituate a sedere e guardare
l’erba, abbandonata ai loro piedi; spinge
i ragazzi ad ammonticchiare prugne e pere nuove
su vassoi trascurati. Le fanciulle le gustano
e procedono appassionate fra le foglie sparse.

wallace stevens quotes 5
VI.
Is there no change of death in paradise?
Does ripe fruit never fall? Or do the boughs
Hang always heavy in that perfect sky,
Unchanging, yet so like our perishing earth,
With rivers like our own that seek for seas
They never find, the same receding shores
That never touch with inarticulate pang?
Why set pear upon those river-banks
Or spice the shores with odors of the plum?
Alas, that they should wear our colors there,
The silken weavings of our afternoons,
And pick the strings of our insipid lutes!
Death is the mother of beauty, mystical,
Within whose burning bosom we devise
Our earthly mothers waiting, sleeplessly.

 

VI.
Non c’è mutamento di morte in paradiso?
La frutta matura non vi cade mai? O i rami
sono sempre carichi in quel cielo perfetto,
immutabili, eppure simili alla nostra terra peritura,
con fiumi come i nostri che cercano mari
che non trovano mai, le stesse coste lontananti
che non toccano mai con una fitta inespressa?
Perché porre la pera sugli argini di quei fiumi
o profumare quelle coste con le prugne?
Ahi se portassero i nostri colori lassù,
le tessiture seriche dei nostri pomeriggi,
e pizzicassero le corde dei nostri liuti insipidi!
La morte è madre della bellezza, mistica,
nel cui seno infuocato intravediamo
le nostre madri terrestri in attesa, insonni.

wallace stevens copertina
VII.
Supple and turbulent, a ring of men
Shall chant in orgy on a summer morn
Their boisterous devotion to the sun,
Not as a god, but as a god might be,
Naked among them, like a savage source.
Their chant shall be a chant of paradise,
Out of their blood, returning to the sky;
And in their chant shall enter, voice by voice,
The windy lake wherein their lord delights,
The trees, like serafin, and echoing hills,
That choir among themselves long afterward.
They shall know well the heavenly fellowship
Of men that perish and of summer morn.
And whence they came and whither they shall go
The dew upon their feel shall manifest.
VII.
Agile e turbolento, un cerchio d’uomini
canterà orgiastico un mattino d’estate
la sua devozione impavida per il sole,
non come un dio, come un dio dovrebbe essere,
nudo fra loro, come una fonte nuda.
Il loro canto sarà di paradiso, uscito
dal loro sangue, ritornato al cielo;
e nel canto entrerà, voce per voce, il lago
ventoso onde il loro signore gode,
gli alberi come serafini e le colline echeggianti,
che fra di sé intonano un coro prolungato.
Essi conosceranno bene la celeste compagnia
degli uomini perituri e della mattina estiva.
E d’onde vengono e dove si recheranno
la rugiada ai loro piedi manifesterà.
VIII.
She hears, upon that water without sound,
A voice that cries, “The tomb in Palestine
Is not the porch of spirits lingering.
It is the grave of Jesus, where he lay.”
We live in an old chaos of the sun,
Or old dependency of day and night,
Or island solitude, unsponsored, free,
Of that wide water, inescapable.
Deer walk upon our mountains, and the quail
Whistle about us their spontaneous cries;
Sweet berries ripen in the wilderness;
And, in the isolation of the sky,
At evening, casual flocks of pigeons make
Ambiguous undulations as they sink,
Downward to darkness, on extended wings.

 

VIII.
Lei ode, su quell’acqua senza suono,
una voce che annuncia: « La tomba in Palestina
non è un chiostro di spiriti indugianti,
ma la tomba di Gesù, in cui egli giacque ».
Viviamo in un vecchio caos del sole,
o vecchia dipendenza di giorno e notte,
o solitudine insulare, senza sostegni, libera,
da quell’acqua ampia, inevitabile.
Cervi passano sui nostri monti, le quaglie
fischiano intorno gridi sotterranei;
bacche dolci maturano nella boscaglia;
e nell’isolamento del cielo, a sera
stormi casuali di colombi compiono
ondulazioni ambigue mentre affondano
giù nell’oscurità, con ali estese.

 

Wallace Stevens (Reading 2 ottobre 1879 – Hartford 2 agosto1955) studiò giurisprudenza ma lasciò l’avvocatura per lavorare a Hartford come dirigente di una società di assicurazioni. Nella sua poesia è visibile la filiazione dalla grande poesia europea e francese in particolare. Nonostante i molti echi dei grandi romantici inglesi, la sua poesia va letta nel contesto del rinnovamento del linguaggio compiuto dal Modernismo letterario angloamericano. Dalla raffinata ed enigmatica eleganza della prima raccolta Harmonium (1924) alle riflessioni più politiche di Ideas of Order (Idee di ordine, 1936), ai poemi della tarda maturità, Stevens approfondisce il rapporto dialettico realtà-fantasia, con una spettacolare serie di variazioni e con una grandiosità progettuale ed esecutiva che lo impongono come uno dei poeti più consapevoli e compiuti del Novecento non solo in America. Nel 1955  la raccolta delle sue poesie gli valse il Premio Pulitzer. In Italia la poesia di Stevens fu tradotta tempestivamente nel 1954 da Renato Poggioli, che intrattenne un’ampia corrispondenza con Stevens e ne citò stralci nel commento alla raccolta Mattino domenicale ed altre poesie (1954). Dagli anni 1980 sono apparse numerose altre traduzioni commentate, anche se Stevens rimane un poeta per poeti sia in America che all’estero.

Harmonium, raccolta di poesie, 1924. Ideas of Order – Idee di ordine, 1936. Owl’s Clover, poemetti, 1936. The Man with the Blue Guitar – L’uomo con la chitarra azzurra, 1937. Parts of a World – Parti del mondo, raccolta di poesie, 1942. Transport to Summer, raccolta di poesie, 1947. The Auroras of Autumn – Le aurore dell’autunno, raccolta di poesie, 1950. Collected Poems – Raccolta dell’opera poetica complessiva, 1954. Opus Posthumous – Raccolta di prose e poesie disperse, 1957. The Palm at the End of the Mind – La palma della fine della mente, antologia del 1972. The Necessary Angel – L’angelo necessario, saggi, 1951. Letters of Wallace Stevens – Lettere di Wallace Stevens, a cura di Holly Stevens, 1966. Segretari della Luna: Le lettere di Wallace Stevens e Jose Rodriguez Feo, a cura di Beverly Coyle e Alan Filreis, 1986. Mattino domenicale ed altre poesie, a cura di Renato Poggioli (Torino, Einaudi, 1954, 1988). Il mondo come meditazione. Ultime poesie 1950-1955, a cura di Massimo Bacigalupo (1986; edizione riveduta, Milano, Guanda, 1998, 2010). Note verso una suprema finzione, a cura di Nadia Fusini (1987). L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo (1988; edizione riveduta, Milano, SE Studio Editoriale, 2000). Aurore d’autunno, a cura di Nadia Fusini (Milano, Garzanti, 1987). Harmonium. Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo (Torino, Einaudi, 1994). Domenica mattina, a cura di Francesco Dalessandro, (Roma, Edizioni Il Labirinto, 1998).

 

6 commenti

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6 risposte a “Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo

  1. “Nella settima stanza Stevens descrive la religione del futuro, il nuovo paganesimo nel quale l’intero universo è fatto oggetto di adorazione, nel quale gli esseri umani saranno uniti in fratellanza, uniti nella convinzione che ogni uomo è transitorio, che anche Gesù (Dio) è morto, è una figura storica e come tale anch’egli sottoposto alle leggi del mutamento e del ciclo vitale della natura. La conclusione è dichiaratamente panica, liberatoria, gioiosa” (Linguaglossa)

    Poiché anche Stevens parla al futuro e “descrive la religione del futuro, il nuovo paganesimo nel quale l’intero universo è fatto oggetto di adorazione” non si vede che guadagno o differenza ci sia tra la sua visione “panica, liberatoria, gioiosa” e quella delle criticate religioni precedenti questa sua (ipotetica). Tra immaginare la gioia in un futuro statico e immobile e immaginarsela in un futuro transitorio e mutevole non vedo differenza di fondo.

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  2. WALLACE STEVENS, SUNDAY MORNING

    Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo


    Posso rispondere con i versi di Milosz in una poesia del 1957 (Non di più), egli scrive: «Dovrei dire un giorno come ho mutato / Parere sulla poesia e come è successo / Che mi consideri oggi uno dei tanti / Mercanti e artigiani dell’Impero del Giappone / Che componevano versi sui ciliegi in fiore, / i crisantemi e la luna piena».

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  3. Domenico Ludovici

    WALLACE STEVENS, SUNDAY MORNING

    Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo


    La settima strofe è quasi un inno al sole. In essa si ricordano le antiche religioni, quando in una danza selvaggia gli uomini cercavano una comunione che facesse scaturire da loro stessi la divinità. E’ un inno alla mortalità delle cose e delle creature umane.

    Ma ecco di seguito un altro commento alla poesia. (Tra parentesi, la traduzione Francesco Dalessandro – citata nella bibliografia di Stevens in italiano riportata da Linguaglossa – è di gran lunga la migliore fino ad ora. Al confronto, questa (dello stesso Linguaglossa?) mi sembra rozza.

    Commento:

    Il poemetto è una critica al Cristianesimo tradizionale, e in particolare alla dottrina dell’immortalità personale. Il poeta vuole comunicare la sua convinzione che il meglio per noi è un’esistenza mortale, cosciente della sua caducità, ma fatta della semplice e vera comunione con la realtà che ci circonda; qualcosa che si avvicina molto al sentimento religioso tradizionale, ma che in qualche modo riesce anche a trascenderlo.

    1) La prima strofe ci presenta la protagonista del poemetto: una donna che, appena alzata, prima di vestirsi e di andare a sedersi in giardino, per consumare al sole la prima colazione, siede alla toletta, a spazzolarsi i capelli, poi, forse, gira per casa, in perfetta armonia con le cose che la circondano e che lei ama, toccandole o solo sfiorandole, compiaciuta di se stessa, con intima soddisfazione. E’ una domenica mattina, all’ora in cui tutti sono in chiesa e anche lei dovrebbe esserci. L’armonia con l’ambiente circostante le eccita i sensi e disperde ogni paura e senso di colpa. Ma tutto dura un attimo, perché quelle paure ritornano e anche l’ambiente cambia aspetto: ogni cosa sembra far parte di un corteo funebre “che si snoda su liquida distesa (il mare? l’oceano?) senza suono”; ora, anche il giorno le appare così. Con l’immaginazione è già nella “silenziosa Palestina, regno del sangue e del sepolcro”, dove forse contempla la resurrezione.

    Le strofe che segnono sviluppano la situazione di questa figura di donna e ne commentano alcuni pensieri, fino alla rivelazione che una “voce” le reca.

    2) Il Cristianesimo, commenta il poeta, è la religione della morte e dell’irrealtà. Il mondo è vivo e solare, sensuale, vibrante; vi esistono infinite cose capaci di assumere i valori celesti. Ciò che veramente è divino è l’umanità ed è nell’uomo che deve vivere, nella comunione con la natura, nella gioia e nel dolore, nell’alternarsi delle stagioni e delle emozioni che esse generano.

    3) Il Dio primitivo e assoluto fu, in principio, una creatura disumana; ma la sua incarnazione, fondendo il sangue umano col divino, congiungendo il relativo e l’assoluto, diede soddisfazione al desiderio dell’uomo per una divinità umanizzata, il cui paradiso sia qui in terra.

    4) La donna riflesse che le piace godere della natura e della realtà, di tutto ciò che emoziona. Ma tutto dura troppo poco: la natura non è il vero paradiso, perché troppo effimero. Il poeta ribatte che ancor più effimero è il mito dell’oltretomba e che niente è più durevole dei continui mutamenti della natura.

    5) La donna dice ancora che sente il bisogno di una felicità immortale. E il poeta replica, svolgendo il punto di vista della donna: sì, è vero, solo la morte può esaudire tutti i nostri desideri e tutti i nostri sogni. Anche se è la cancellazione di ogni esperienza umana, essa ci ha sempre attirati. E’ come il salice che attira ragazze innamorate, mentre i ragazzi riempiono cesti di frutta per loro, che assaporano i doni, ma ignorano gli innamorati.

    6) Però il paradiso duraturo che può darci la morte è segnato da monotonia: forse è specchio di quello terreno, ma quando niente cambia, quando niente muore, niente si rinnova.

    7) Questa strofe è quasi un inno al sole. In essa si ricordano le antiche religioni, quando in una danza selvaggia gli uomini cercavano una comunione che facesse scaturire da loro stessi la divinità. E’ un inno alla mortalità delle cose e delle creature umane.

    8) L’ottava e ultima strofe si riallaccia alla prima. Una voce rivela alla donna che la tomba in Palestina non è altro che il luogo dove fu sepolto un uomo. E il poeta commenta con versi davvero molto belli che l’universo in cui viviamo è quello dei sensi, del disordine e della caducità delle cose: un’isola nell’universo in cui manca ogni concreta esperienza cristiana di eternità, poiché vi regna il mutamento.

    Cordialità
    Domenico L.

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  4. SEI POESIE DI LORIS MARIA MARCHETTI

    Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo


    Ecco un poeta italiano che confeziona minuscoli cammei del pensiero, nature morte, pensieri raffreddati: è Loris Maria Marchetti e le poesie presentate sono tratte da Suite delle tenebre e del mare (puntoacapo, 2016). Marchetti, come Wallace Stevens, tiene basso il profilo prosodico, il lessico è sempre scelto per il piano basso, il termometro fonosimbolico idem, non c’è alcuna variatio, non ci sono entanglement né shifter, il narratum scivola leggero e, sembra, senza inciampi sintattici e/o grammaticali. Come nella poesia di Stevens il linguaggio è selezionato per veicolare una interpretazione doxa, le interrogazioni sono ispirate a tranquille esegesi, il mondo non sembra essere neppure tanto problematico: c’è la visione delle cose che sembrano tranquille, stanno al posto loro assegnato, non scappano, il mondo è ordinato, «anche le Festività sono archiviate» dice il poeta senza apparenti ambasce e senza apparenti inquietudini. Quello che appare dalla poesia di Loris Maria Marchetti è un mondo tranquillamente sproblematizzato, sponsorizzato, tranquillamente dato, un mondo diventato un dato che, di per sé non richiede alcuna spiegazione o esegesi. Che altro chiedere al mondo del villaggio globale? Che altro chiedere alla poesia se non di riflettere quel mondo che appare davanti agli occhi? «un illusorio orizzonte immateriale»?:

    Brulica il golfo di barche, di scafi, di vele –
    trasparenti d’incanto si stendono sul mare
    ragnatele di nuvole al primo calare del sole
    di un’esemplare domenica d’agosto.
    Altrove, ieri, un amico è morto,
    un amico ancor giovane. A ogni istante
    altri amici, ignorati, sulla Terra
    salpano involontari alla scoperta
    della verità. Più salda, forse, più reale
    dell’insondabile accordo nuziale
    d’acque e di cieli, miraggio intermittente
    di un illusorio orizzonte imateriale.

    *

    Un tepore affettuoso, una brezza gentile…
    Anche le Festività sono archiviate
    e ormai gennaio va per la sua strada.
    Ma è indecifrabile la stagione mite
    intorno a questi scogli a queste onde,
    non è il profumo di resurrezione
    prossima, sembra l’estrema eco
    di un latino novembre esuberante
    fermamente deciso a non spirare…

    Che ne sarà del nostro inverno
    del nostro inverno,
    inevitabile?

    *

    Nel sogno
    la mèta sulla spiaggia
    non rimane mai fissa e non si coglie
    mai o perché le correnti fan deviare
    il nuotatore o perché la terraferma
    ruota e si sposta senza sosta
    (come peraltro il nuotatore)

    Nel sogno
    l’eroe per sua fortuna
    sa nuotare ed ha fiato e intestardisce
    a raggiungere riva a tutti i costi
    (almeno per alimentare
    il prossimo quasi identico
    sogno).

    *

    Il livello del mare può variare,
    non sempre si può ancora “toccare”
    dove “si toccava” il giorno innanzi
    o qualche settimana prima
    (le correnti, la luna, è risaputo…).
    Sincero avvertimento
    anche per chi non nuota in acqua.

    *

    La minuscola conchiglia biancogrigia
    ritrovata per caso nella sabbia
    oltre a una strana forma un po’ bislunga
    reca un curioso forellino ellittico
    sull’appuntita sommità del dorso:
    troppo perfetto, troppo calcolato
    per ritenerlo accidentale.

    *

    Non è un arco di mare sconfinato
    (figura di Infinito immaginario)
    quello che per ore e ore dal terrazzo
    scrutano i tuoi occhi ormai delusi
    di Messaggi attendibili,
    rassegnati al silenzio
    di eloquenti riscontri…
    Ma è pur sempre
    il tuo mare
    che con musica d’onde e di correnti
    sciaborda ai tuoi piedi
    ti culla nel sonno
    ti desta più lieve al mattino…
    ti seduce a pensarlo divino.

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  5. Boris Pasternak (Versione di Paolo Statuti) poesia tratta da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti https://musashop.wordpress.com/2017/08/21/il-bosco/#comment-1209

    Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo


    Nel bosco

    I prati erano offuscati dal caldo lilla,
    Nel bosco turbinava un buio di cattedrale.
    Che restava loro al mondo da baciare?
    Esso tutto era loro, come morbida cera da plasmare.

    C’è un sonno tale, – non dormi ma soltanto sogni,
    Che desideri il sonno; che sonnecchia un uomo,
    Cui attraverso il sonno ardono sulle ciglia
    Due neri soli pulsanti sotto le palpebre.

    Scorrevano i raggi. Scorrevano scarabei lucenti,
    Il vetro delle libellule vagava per le guance.
    Era pieno il bosco d’uno scintillio minuzioso,
    Come sotto le pinzette dell’orologiaio.

    Sembrava essersi assopito al tic-tac delle cifre,
    Mentre in alto, nell’ambra asprigna,
    Le ore più provate nell’etere
    Qualcuno sposta secondo il calore.

    Le spostano, scuotono gli aghi
    E seminano l’ombra, affaticano e forano
    Il buio dell’alberatura, che si è innalzato,
    Al languore del giorno, sull’azzurro quadrante.

    Sembrava che l’antica felicità volteggiasse,
    Sembrava – il bosco preda del tramonto dei sogni.
    I felici non guardano l’ora.
    Ma quei due, sembrava che dormissero soltanto.

    1917 (100 anni fa!)

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