Archivi del giorno: 30 giugno 2014

TRE POESIE di IVAN POZZONI – “I destini dell’arte: dall’Atelier, alla «filiera»” e una pseudo poesia di Lorenzo Pezzato

Ivan Pozzoni Patroclo non deve morire    canciani

 Christopher William Bradshaw Isherwood; Wystan Hugh ('W.H.') Auden by Louise Dahl-Wolfe

Christopher William Bradshaw Isherwood; Wystan Hugh (‘W.H.’) Auden by Louise Dahl-Wolfe

L’estenuante richiamo, introdotto da ogni sorta di «autore», nell’area dell’editoria, alla teoria dei c.d. diritti d’autore mi obbliga a un breve tentativo di analisi dell’insensatezza e dell’anacronisticità di tale atteggiamento «alienato». Già nel moderno, «il grande successo mondano e di mercato dell’arte contemporanea rischiava di neutralizzare e imborghesire le tensioni più vitali delle ricerche d’avanguardia. Contro questa tendenza reagiscono le nuove avanguardie del dopoguerra […]» [F. Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2008, 18]: il «[…] successo commerciale e mondano dell’arte d’Avanguardia esplode negli anni Venti […]» [ivi, cit., 15], mettendo in crisi il modello medioevale e umanista di individualità dell’«opera d’arte»; nella definizione di «opera d’arte» cade il riferimento esclusivo al binomio artista / pubblico («La funzione del pubblico […] ha un grande peso per quello che riguarda il consolidamento e allargamento del successo di artisti e opere, ma non incide per nulla nella prima fase di selezione e affermazione dei nuovi artisti e delle nuove tendenze, dove contano solo gli addetti ai lavori e il pubblico ristretto del microambiente artistico […]» [ivi, cit., 49]). Col tardomoderno – come sostiene B. Rosenblum – il modello stesso dell’artista come unico autore dell’«opera d’arte» si sgretola, «alienando» l’artista contemporaneo, liminalizzandolo: «La situazione paradossale dell’artista contemporaneo è che, da un lato, la sua figura viene per molti versi mitizzata, in funzione dell’ideologia dominante, in quanto simbolo e paradigma “assoluto” della libera creatività individuale […] dall’altro lato, per poter emergere, affermarsi ed essere riconosciuto a livello socioculturale e socioeconomico, deve accettare, in misura più o meno pesante, di adeguare la sua produzione ai condizionamenti “normalizzanti” del sistema, con effetti indubbiamente alienanti» [ivi, cit., 175/176]. L’«opera d’arte» diviene «sistema», à la von Bertalanffy, o, meglio, «filiera», interazione feedback tra «agenti» diversi (artista / mediatori culturali / editore / tipografia / distributori / corrieri / depositi / negozi / destinatari): «[…] dalla nostra prospettiva di analisi sociologica, l’artista obiettivamente non risulta essere l’unico creatore dell’opera d’arte, ma solo uno degli agenti nel processo di realizzazione di questo specifico prodotto allo stesso tempo culturale ed economico, di questa speciale “merce culturale”» [ivi, cit., 175].

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  Che senso ha, se non a scopo parassitario, come anacronistico sindacalista di diritti defunti, il reclamare e berciare dell’artista volti ad avocare interamente a se medesimo i diritti d’autore su una determinata «opera d’arte», trascurando, nella sua condizione di alienato, o, nella maggioranza dei casi, di disinformato totale sullo stato sociologico della sua stessa arte, di ricordare i c.d. doveri d’autore?         L’«opera d’arte» come «filiera» di interazioni feedback tra «agenti» diversi ha urgenza di riscoprire la sua natura contrattuale socialista, contro ogni forma di capitalismo, contro ogni logica di mercato, contro ogni incidenza assistenzialista; artista, mediatori culturali, editore, tipografia, distributori, corrieri, depositi, negozi e destinatari sono immersi in una vicendevole relazione di diritti e doveri.

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Non essendo «autore» dell’«opera d’arte», l’artista non alienato e non ignorante, deve assumersi il dovere di concorrere ad essa, come tutti i restanti «agenti» della «filiera», in tutti i fattori di «produzione» (creatività, lavoro e finanza). Nel tardomoderno, con l’affermarsi del dato sociologico della collettività dell’«opera d’arte», è alienazione dell’intellettuale inattuale che, benché immerso in contesti di partnership estesa di creazione dell’«opera d’arte», continui a delirare, con sicumera o aggressività, di diritti d’autore, ignorare la nuova categoria socioeconomica del dovere d’autore, smarcandosi, con arroganza parassitaria, dai costi della (anche) sua attività. Col riconoscimento del dovere d’autore è finalmente in grado di nascere e sopravvivere, in editoria, contro i cartelli della macro e necro editoria, una reale microeditoria socialista, incentrata sui valori dell’equità e della solidarietà.

(Ivan Pozzoni)

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

 

 

 

 

 

 

 

Ivan Pozzoni

MALA TEMPORELLA CURRUNT

Mala temporella currunt, i tempi dell’artista raccomandato,
senza ricevuta di ritorno ad uno stile insanguinato,
i tempi delle crocchie editoriali, degni epigoni del cucchismo,
– Cucchi esordì all’Inter nel lontano 1982- un maestro d’antan-(agonismo),
i tempi delle sensuali scrittrici in versi, prostituite alla sintassi
versate, inoltre, con editor, redattori, dirigenti, a collaudare materassi,
i tempi delle riviste nazionali aperte a cooptazioni
almeno io mi vendo a tutti a 20€, senza rotture di coglioni.

O temporella, o mores! Le mie Catilinarie post-moderne
annoierebbero persino Cicerone, se non Catone,
novello uticense utente, vittima di un’editoria latente,
distinta in microeditoria, condizione di scarsità di risorse,
e macroeditoria, causa aggregata di scarsità di sonetti,
e, ultimamente, in necroeditoria, bene ipse dixit Ceronetti.

Mafia tempora currunt, et temporella fugit,
Marchesi se ne avvide in tempi di repubblica,
il Cavaliere se ne avvede in tempi di monarchia,
mafie, camorre, ndranghete s’agglutinano anche nell’editoria,
l’Atelier è dell’artista alla moda, dell’artista sbarbato,
io, sempre vestito da barba, non verrò mai apprezzato,
non mi ruga sul collo il cartellino del prezzo
come Fantozzi, azzurro di sci, a Courmayeur (credevate, a Cortina D’Ampezzo?).

Mala temporella currunt, i tempi dell’artista ermetico
che non incellofana i suoi libri insieme a tubetti d’anti-emetico,
i tempi del tutto gratis, del tutto dovuto, del tutto diritto
tutto diritto, ci pensa Rocco a pub(bl)icare il manoscritto,
dimenticando, senza commenti, che anche Dante Alighieri
dové leccar molti sederi, nel reperir finanziamenti.

andy warhol campbell-tomato soup parmesan cheese-chilli

andy warhol campbell-tomato soup parmesan cheese-chilli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA REPUBBLICA DEL PORNASIO

Finalmente, l’Italia è diventata un Pornasio,
l’amore di battere (sui tasti) ha adescato il cittadino medio,
la borghesia ex democristiana si spintona nelle redazioni di Atelier,
epigoni, a branchi, pascolano sui monti d’Elicona,
sui blog ipertrofizzano critici non degni di Nota,
sono diventati tutti vati, arroganti e maleducati,
l’attempato scrittore del ‘92 ci richiama,
con insulti d’ogni genere, alla deferenza,
lontano kilowatt dal capire che esser usciti con due plaquette
da 1000€ è indice di mera deficienza,
vallo a far intendere che la democrazia lirica non è la democrazia dei dilettanti,
non basta saper mettere una croce sotto un testo a diventare Cavalcanti.

Mettiamoci una croce sopra, dai!, e una fossa sotto,
a vecchi rincoglioniti blateranti con lo stile di Zanzotto,
c’è un ritorno ad Omero, buon’anima, nella corsa al precipizio
delle giovani promesse della poesia contemporanea, settantenni da Odissea (nell’ospizio),
i dati sociologici ci dicono che s’è alzata l’aspettativa di vita artistica,
magari con pasticche di Viagra a sbloccare afflussi alla vena conformistica,
e noi, “generazione dimenticata”, a quarant’anni vagiamo rannicchiati in posizione fetale,
accompagnati da cinquantenni e sessantenni in piena crisi prepuberale.

Pornasio, l’arte italiana è diventata una Reggenza del Carnaio,
tutti arrapati a mettere bibliografie sui siti, come scambisti nel capannone d’un materassaio,
a chiedere recensioni, a scrivere recensioni, a vendere recensioni,
a sostenere, con burbanza, che collaborare ad antologie a pagamento è un gesto da cafoni,
salvo scoprire i medesimi, coerenti, a vender corsi e introduzioni a prezzi di mercato,
l’artista mestierante vuole essere appagato, o strapagato?, lasciando a fine corso, debito, certificato.

Chi non sa fare niente scrive, o cerca di candidarsi in assemblea
di condominio, rionale, comunale, regionale, nazionale od europea,
roba che a saperlo Giordano Bruno sarebbe morto di diarrea,
senza il fastidio di dover finire al rogo nel tentativo disperato di difendere un’idea,
sono stati inutili cinque anni d’università, tre di liceo, due di ginnasio:
se avessi fatto il baby squillo o l’enfant prodige della grammatica italiana,
avrei meritato maggiore stima nell’artistica repubblica del Pornasio? Continua a leggere

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Massimo Cacciari “Labirinto filosofico” (Adelphi, 2014) letto da Antonio Gnoli

massimo cacciar

massimo cacciari

(da la (Repubblica 13 maggio 2014)

Provate a immaginare cosa sarebbe la nostra civiltà, l’Occidente, senza il pensiero greco. Se a un tratto, come per incanto sparissero – che so? – i frammenti presocratici, i dialoghi platonici, i libri di Aristotele, tanto per citare i referenti più importanti e noti. Pensereste forse che noi, gli eredi naturali, saremmo gli stessi? Non so immaginare gli effetti: ma forse che la democrazia sarebbe oggi la stessa senza quell’intenso modo di pensarla e realizzarla ad Atene tra il quinto e il quarto secolo? E la ragion e avrebbe avuto la stessa attenzione che le filosofie successive le hanno dedicato? Sicché, mentre leggevo il nuovo libro di Massimo Cacciari, non potevo esimermi dal constatare quanto rilevante e imprescindibile sia stata quell’eredità di cui oggi abbiamo perso i tratti più perspicui e filosoficamente arditi. Da decenni – da quando uscì Krisis nel 1976 (che credo egli ritenga in larga parte superato) – Cacciari esercita il suo talento sui nodi principali del pensare filosofico.

massimo cacciari labirinto filosofico Che proprio in quanto è un pensare (e un conoscere) non va confuso con la sua storia né con gli ambienti sociali da cui pure è scaturito. Di qui l’alta tensione teoretica che corre lungo tutte le pagine di questo vero e proprio Labirinto filosofico (Adelphi). E titolo non poteva essere più adatto per rilevare i dubbi, le oscurità, i tormenti che un percorso del genere provoca. Molto simile all’errare: sia in quanto possibilità di errore, cui ogni esperienza si espone, sia perché la filosofia, in ultima analisi, è un cammino complicato. Verso dove? Verrebbe da chiedersi. E la risposta chiama in causa la verità. Anche se questa non può essere ridotta ai metodi della scienza o alle estenuate versioni postmoderne, due culture che si sono dimostrate incapaci di assolvere un compito tanto estremo quanto necessario: pensare il reale.

massimo cacciar

massimo cacciari

 Pensare cioè l’Essente (o l’Ente) più che l’Essere. Vi è dunque in Cacciari un richiamo alla concretezza della filosofia estranea alla vecchia metafisica. L’Essente (la Cosa) non è semplicemente questo o quell’oggetto. Non è la penna o il computer con cui scrivo o il tavolo su cui poggia il libro: oggetti la cui conoscenza richiede astrazione (cioè predicazione). L’essente – di cui con qualche forzatura possiamo dire si componga la realtà – è certamente questo ambiente di relazioni che vive nel mondo, ma è anche qualcosa di più. Che eccede queste relazioni e tuttavia è nel mondo.

Compito della filosofia è interrogarsi su ciò che possiamo dire della Cosa, la sua predicazione in quanto Ente, ma anche sulla sua indicibilità, sul fatto che l’Ente non è riducibile interamente al modo in cui lo diciamo. Cos’è questo linguaggio specialistico – che circola nel libro – che per il solo fatto di essere formulato con estrema acribia filologica sembra rinviare alle antiche dimore metafisiche del pensiero greco? Uno degli esiti sorprendenti del lavoro di Cacciari risiede nella riabilitazione, se così si può azzardare, di quella metafisica che Nietzsche (e lo stesso Heidegger) – stante almeno le letture postmoderne – avevano condannato. Letture (si pensi a quelle svolte da Rorty e Vattimo) che hanno esecrato la metafisica per la sua natura totalitaria e chiusa. Dimenticando l’enorme apporto alla costruzione di un linguaggio senza il quale sarebbe perfino inutile immaginare di filosofare. Cacciari conosce le insidie e le aporie che da essa si sono generate.

massimo cacciar

massimo cacciari

 Ma non rinuncia a una propria idea di metafisica, o meglio di filosofia che la disincaglia dal pensiero teologico. Come quest’ultimo cerca una realtà (Dio) dietro l’apparire, così la filosofia tratta della materia dell’apparire. Cos’è l’apparire? Potremmo definirlo come l’inesauribile rapporto con l’esperienza. Con la vita sensibile. Non un’esperienza astrattamente intesa (come è quella che ci propone la scienza), ma temporalmente determinata e dunque molteplice e variabile. Che non assicura solidi fondamenti, ma dona la propria inesauribile disponibilità. Ci siamo dentro? Sì. Ma non come soggetti che potrebbero anche starne fuori, per poi, magari, conoscerla successivamente. L’esperienza (realtà) ci ricomprende. Oltre ogni dualismo. Oltre ogni artificiale separatezza tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto

 Lo stesso rapporto, che intercorre tra l’esperienza e noi, c’è tra pensiero e linguaggio. Non viene prima il pensiero e poi la maniera di esprimerlo (o viceversa): non c’è un contenente e un contenuto. Concrescono insieme. Abitano nella medesima e inesauribile realtà. Esiste qualcosa prima di questa relazione? C’è il mito che è già una “voce”, un suono prima ancora di essere linguaggio o nome: la traccia di un tempo in cui l’uomo comunicava con cenni o atti o corpi.

 La scrittura è perciò all’origine gesto e suono. Coincide con la voce mitica, dice Cacciari, che si agita all’interno di ogni parola. Ed è quel “suono” (ancora una volta indicibile) che il poeta cerca di rievocare. C’è un dire – come osserverà Heidegger – che è comune tanto al pensare poetico quanto a quello filosofico. Le due forme non si compiono l’una nell’altra. Mantengono una relazione. Ed è da questo nesso che ciascuna trae forza senza confondersi nell’altra. La filosofia che Cacciari insegue, fin dentro le più segrete interrogazioni, non è dualistica: non c’è il mondo incorrotto delle idee da un lato, e dall’altro quello, nel quale viviamo, soggetto a errore e fraintendimento. La partita, tutta intera, si gioca nell’al di qua: la filosofia ha come presupposto il mondo (e il mondo è l’interezza di fatti e di nessi). Continua a leggere

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