Mahmoud Darwish (1941-2008) è uno dei cantori della Resistenza palestinese. Nei suoi versi rivivono il deserto, i profumi, i fiori della Palestina e l’intera sua opera resta nel cuore del suo popolo come segno d’amore ed inestinguibile grido di disperazione.
La sua vicenda umana ha inizio nel 1941 in un villaggio della Galilea, successivamente cancellato dalla guerra del 1948, che aveva sancito la nascita dello Stato di Israele, precipitando i palestinesi nella nakba, la catastrofe e causandone la diaspora.
Una vita, la sua, marchiata a fuoco dalla storia del suo territorio, La fuga in Libano con la famiglia sarà seguita dal ritorno clandestino in patria: «Il viaggio del ritorno avvenne di notte: strisciavamo pancia a terra…Dopo tanta fatica mi ritrovai in un certo villaggio. Che delusione! Non era il mio…Non capivo…come fosse accaduto che l’intero mio mondo fosse sparito» Al posto del villaggio era sorto un insediamento ebraico.
Il senso di smarrimento e di perdita si radica nell’animo del poeta, che da allora e per sempre si sentirà “infiltrato” nel suo paese. Nei suoi versi la categoria di “straniero” non si limita a definire l’Altro, la “vittima vittoriosa” insediata nel territorio natale del poeta – diverso dal nemico, il quale è pur sempre un uomo che ha una voce ed ha diritto ad esprimersi. Lo straniero, egli dice, è dentro di noi. L’ambivalenza di questa categoria compare nel riferimento alla storia d’amore con una donna ebrea: «Ebrea era la donna che mi amava, ma anche quella che mi odiava».
Il forzato nomadismo lo porta a Parigi, negli Stati Uniti e infine a Ramallah ed Amman.
Benché egli riconosca la poesia come unica patria, «una patria di parole», nella sua condizione di straniero Darwish afferma con determinazione la propria essenza di “arabo” collocandosi all’interno di una realtà molto più ampia, comprendente una lingua, una cultura, una religione.
E, in quanto arabo, egli tende a coniugare il ritmo, la forma epica e lirica costitutivi della sua tradizione con gli autori “occidentali” che sente maggiormente affini – Lorca, Neruda, Bréton, Char, T.S.Eliot e l’amatissimo Dereck Walcott. Ma la tensione principale è indirizzata alla definizione di una estetica personale avendo come punto di partenza una domanda: «Da dove viene la poesia?/ Dall’acume del cuore o dal primitivo senso/ dell’ignoto?»
Al fine di superare la forzata subalternità culturale derivante dalla negazione della cultura palestinese da parte dell’invasore, il poeta s’investe del ruolo di cantore” troiano”, descrivendo la distruzione della sua “città” dal punto di vista degli sconfitti.
Assunta la propria terra come metafora della condizione umana, la sua scrittura si discosta gradualmente dal piano realistico a quello metafisico con un linguaggio intensamente onirico.
Nella fase della diaspora, la Palestina acquista così per il poeta una funzione metastorica: Paradiso perduto, terra che rivive oggi l’esodo degli arabi dall’Andalusia nel 1492.
L’opera Undici astri sull’epilogo andaluso (1982), rievocando insieme alla gloria araba di Granada la poesia degli arabi andalusi prima della Reconquista spagnola, canta il rimpianto per un’epoca di tolleranza nella civile convivenza delle tre religioni monoteiste entro un’area, quella del Mediterraneo, che per Darwish è il principale riferimento storico-geografico e culturale.
La dimensione tragica dei suoi versi si coagula nella ricerca di un linguaggio atto a creare una forma di “epopea lirica”, i cui protagonisti perseguono una ricerca individuale come «creature marginali, che si interrogano sulla loro esistenza.». Pur restando immutato l’attaccamento alla terra d’origine, cantata come l’innamorata, o come terra madre, la delusione derivante dalle risoluzioni dell’ONU disattese da Israele unita al disaccordo con la dirigenza palestinese lo allontanano dall’impegno attivo.
La morte, sopraggiunta all’improvviso il 9 agosto 2008, ha risvegliato un immenso cordoglio dovunque (meno che in Italia), confermando la grandezza dei suoi versi, che, come la Fenice, annunciano una certezza di eternità: «Un giorno sarò uccello, dal nulla/ trarrò la mia esistenza. Ogni volta che le ali bruciano/ avvicino la verità, rinasco dalla cenere.» ( Murale, p.11)
Bibliografia minima
Memoria per l’oblio, Jouvence 1996
Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?, a cura di Lucy Ladikoff Guasto, San Marco dei Giustiniani, 2001
La mia ferita è lampada a olio, De Angelis 2006
Oltre l’ultimo cielo, La Palestina come metafora, epoché, 2007
Murale, a cura di Fawzi Al Delmi, epoché 2005
Il letto della straniera, epoché 2009
Come fiori di mandorlo o più lontano, epoché 2010
Molte poesie, come quelle riportate qui di seguito, sono comparse in Italia singolarmente nei siti web dedicati al poeta.
Poesie di Mahmud Darwish
Carta d’identità
Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità e’ la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
ne’ ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
Prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa e’ come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!
Il sogno dei gigli bianchi
…
Io sogno gigli bianchi
in un ramo d’olivo
un uccello che abbracci il mattino
sopra i fiori di limone …
Io sogno gigli bianchi
in una strada di canto
e una strada di luce…
Io sogno
e voglio un cuore buono
che non sia pieno di fucili
e un giorno intero di sole …
Voglio un bimbo che all’alba sorrida
non un pezzo di ricambio
in strumenti di guerra.
Son venuto per vivere il sole
che sorge, ma non quello che tramonta.
E non ho voglia di morire
e combattere donne e bambini … Continua a leggere