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Sin dall’età classica vige in Occidente la tradizionale distinzione che oppone le arti dinamiche del tempo alle arti plastiche dello spazio, parola contro figura, poesia contro pittura, si potrebbe dire. La contrapposizione occasionò, come si sa, innumerevoli contese e reiterati interventi volti a stabilire la superiorità estetica ed espressiva delle prime arti sulle seconde o viceversa: una contesa, invero, oggi piuttosto datata. Ma se ci spostiamo in Estremo Oriente, per esempio in Cina, le cose, in particolare la distinzione tra figura e parola, assumono un altro senso. In base a tale senso, non vi sono dubbi nell’assegnare alla pittura la palma della vittoria su tutte le arti. Ma qual è il significato profondo di tale preminenza? Per avvicinarci a una risposta, ci riferiamo anzitutto a ciò che Shitao chiama “tratto”.

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Shitao è il più famoso dei nomi d’arte di Zhu Ruoji, la cui data di nascita si colloca tra il 1641 e il 1642. Di famiglia imperiale, patì lo sterminio totale dei suoi parenti nel corso della guerra civile e del crollo della dinastia Ming, alla quale si sostituì la dinastia Quing tra il 1644 e il 1645. Nascosto da un servo fedele presso i monaci del monte Xiang, il bambino crebbe e si istruì in questo monastero buddista dedicandosi alla pittura. Con gli pseudonimi di Onda di pietra (Shitao) e di Cucurbita amara viaggiò poi per la Cina divenendo famoso, Negli ultimi anni (la sua morte si colloca tra il 1703 e il 1710) si avvicinò alla pratica e al pensiero del taoismo. Oltre alla sua opera pittorica, che è tra le più alte della intera tradizione cinese, egli scrisse anche un trattato “Sulla pittura”, ed è qui che troviamo le sue riflessioni sul “tratto”. “Il tratto [del pennello] è l’origine di tutti gli esseri, è la radice delle diecimila forme. La pittura non sarebbe dunque arte suprema soltanto, ma addirittura l’origine di tutte le cose? Senza pittura non vi sarebbe dunque “realtà”? Un’ipotesi che suona di certo singolare, per non dire: stravagante. Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni? Dobbiamo leggere qui delle semplici metafore? Ma metafore, “trasferimenti”, in che senso? In ogni caso il senso resta ambiguo e per aprirci la via alla sua comprensione adeguata ci riferiremo ora a un testo classico: “L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica”.
Ne è autore Ernest Fenollosa (Salem, Massachusetts, 1853-Londra 1908), poeta, orientalista e primo teorico dell’arte asiatica. Fondatore della Tokio Art Academy e autore della prima importante storia dell’arte Orientale, composta nel 1906 e apparsa postuma nel 1912 con il titolo “Epoche dell’arte cinese e giapponese”, Fenollosa donò al museo dì Boston una straordinaria raccolta di pitture cinesi e giapponesi. Nel poemetto “East and West” (1893) egli auspicò l’unione delle arti e delle culture d’Oriente e d’Occidente come preludio a una futura civiltà globale. La sua opera ebbe notevole influenza su W.B. Yeats e sull’”imagismo” e “vorticismo” di Pound, il quale si diede alla ricerca di una lingua poetica condensata, essenziale e visionaria, a imitazione dell’ideogramma inteso come stenografia pittorica, ovvero come concentrazione metaforica di richiami visivi.
Leggiamo l’esordio del saggio di Fenollosa: «Il secolo ventesimo non solo apre una pagina nuova sulla storia del mondo, ma schiude anche un sorprendente capitolo. Orizzonti di strani futuri si aprono all’uomo; culture che abbracciano il mondo intero, svezzate quasi dall’Europa; per nazioni e razze responsabilità mai sognate. Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo». Dopo queste rapide notazioni, che sembrano dei nostri giorni, Fenollosa elenca molti pregiudizi occidentali nei confronti della cultura orientale. L’idea per esempio che i cinesi siano un popolo di materialisti, i giapponesi di “plagiari”; il vezzo di fare dei costumi di quei popoli materiale esotico da operetta e così via. Anziché demolire i loro porti e le loro fortezze con le nostre navi da guerra (come allora accadeva), anziché limitarsi a sfruttare i loro mercati, le nazioni occidentali, dice Fenollosa, dovrebbero impegnarsi a comprendere una civiltà la cui antichità è doppia rispetto alla nostra e il cui livello è pari a quello degli antichi popoli mediterranei, «Abbiamo bisogno dei loro migliori ideali per alimentare i nostri ideali incastonati nella loro arte, nella loro letteratura, nella tragedia della loro vita».
L’arte poetica è dunque il punto di riferimento del saggio, per la quale arte è però subito necessaria una precisazione. Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo: non qualcosa di accidentale, né di astrattamente metaforico. Fenollosa esemplifica la sua tesi con un riferimento concreto a un verso poetico che, tradotto in italiano, suonerebbe “Il sole sorge all’orizzonte”. Noi ascoltiamo i significati verbali o li leggiamo attraverso la scrittura alfabetica ma non osserviamo la scrittura alfabetica. Non avrebbe alcun senso per noi descriverla e analizzarla cosi: lineetta verticale con puntino, lineetta verticale più lunga, segno a serpentina e così via. Nel caso invece del verso cinese proprio questo si deve fare: si deve osservare attentamente la figura degli ideogrammi per comprenderne il senso.
Cosa vedremmo allora leggendo? Vedremmo l’ideogramma del sole che occupa la parte sinistra del foglio (una specie di piccolo quadrato), A destra l’ideogramma dell’est, cioè ancora il sole che traspare però tra i rami di un albero stilizzato. Nell’ideogramma centrale che traduciamo col verbo “sorgere”, osserviamo sempre l’ideogramma del sole, posto un po’ più in alto rispetto al precedente, e sotto di esso una linea verticale che figura il venir fuori dalla terra di quello stesso tronco d’albero che vediamo raffigurato nel terzo ideogramma, Di fatto vediamo il sole sorgere sull’orizzonte. «Con l’occhio si vedono e si leggono in silenzio i caratteri, uno dopo l’altro», dice Fenollosa. Ed è così che la scrittura cinese ingloba un antico tratto pittografico. La pittura cinese, dice ancora Fenollosa, è qualcosa di più che simboli arbitrari; essa ha il vantaggio di combinare il tempo della parola parlata con lo spazio della figura. Essa «parla simultaneamente con la vivacità della pittura e con la mobilità dei suoni. In un certo senso è più oggettiva, più drammatica di ciascuna delle due separatamente. Leggendo il cinese non stiamo ad agitare bussolotti mentali, ma osserviamo cose evolvere il loro fato».
Un altro esempio è riferito a un verso che potremmo tradurre così: “L’uomo vede il cavallo”. Anche qui non simboli arbitrari, ma «la vivida pittura stenografica delle azioni naturali». Dapprima osserviamo la figura stilizzata dell’uomo sulle sue due gambe. Poi il suo occhio che percorre lo spazio: una figura audace di gambe che corrono sotto un occhio che si protende innanzi. Un disegno bizzarro e insieme straordinario: indimenticabile una volta visto. Infine il cavallo, saldo sulle sue quattro zampe stilizzate e la sua coda fluente. Ecco come la poesia cinese descrive le cose.
Più che cose in realtà vediamo azioni, «pitture stenografiche di azioni o progressioni». Ecco altri esempi.
L’ideogramma dì “parlare” è una bocca da cui escono parole e una fiamma […], l’ideogramma di “commensale” è un uomo e un fuoco. Non esiste in natura un vero nome, una cosa isolata. Le cose non sono che punti terminali, o meglio, i punti d’incontro delle azioni, sezioni intersecanti le azioni, istantanee. Né è possibile in natura un verbo puro, un moto astratto. L’occhio del lettore vede nome e verbo come un tutt’uno: cose in moto, moto nelle cose, è così che la concezione cinese tende a presentarli. Il sole sotto le piante in germoglio è “primavera” […], il campo di riso più la fatica uguale “maschio”, barca più acqua uguale “scia”, “increspatura”, ecc.
Uno dei fatti più interessanti della lingua cinese è che vi vediamo non solo le forme delle frasi, ma come le parti del discorso crescono, sviluppandosi l’una dall’altra. Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate. La lingua cinese naturalmente non conosce la grammatica.
(Carlo Sini)
Poesie cinesi di Li Bai (701-762 d.C.) “Bevendo da solo con la luna” Esercizi di traduzione – Epoca Dinastia T’ang
Bevendo da solo con la Luna (prima traduzione)
Da una brocca di vino, in mezzo ai fiori,
solo, mi verso da bere, senza un amico accanto.
Levando la coppa, invito la pallida luna.
Ora siamo in due e, con la mia ombra, addirittura in tre.
La luna – è vero – non osa bere
L’ombra, poi, si limita a seguirmi macchinalmente.
Ma, almeno per un poco ho trovato dei compagni: la luna, l’ombra,
disposti a fare allegria, per arrivare alla primavera.
Mi metto a cantare, e la luna tenta in modo maldestro qualche passo di danza.
Mi metto a ballare, e l’ombra si agita scompostamente.
Finché sono stato lucido, direi che ci siam fatti buona compagnia.
Ma poi ho preso una bella sbronza, e ciascuno se n´è andato per conto suo.
Ormai legati per sempre, senza passioni,
ci diamo appuntamento, lontano, sul fiume delle nuvole.
月下獨酌
花間一壺酒 獨酌無相親
舉杯邀明月 對影成三人
月既不解飲 影徒隨我身
暫伴月將影 行樂須及春
我歌月徘徊 我舞影零亂
醒時同交歡 醉後各分散
永結無情遊 相期邈雲漢
(seconda traduzione)
Bevendo da solo con la Luna
Dal boccale di vino tra i fiori,
Sol bevevo senza compagnia.
Alzando il bicchiere domandai la luminosa Luna,
Portami l’ombra mia e diventiamo un trio.
La Luna non comprende la mia bevuta,
L’ombra segue silenziosa la mia figura.
La Luna accompagna temporaneamente l’ombra,
Prendo l’occasione per gioire un po’.
Il chiaro di Luna fa una passeggiata quando canto,
L’ombra galleggia insieme quando danzo.
Apprezzando d’essere amici mentre son sveglio,
La compagnia termina quando divento ubriaco.
Facciamo durare quest’amicizia per sempre,
Ci rincontreremo nel vasto cielo.
(terza traduzione)
Seduto lì tra i fiori, con la brocca di vino –,
festino solitario, privo di amici intimi –,
sollevo il mio boccale e invito il chiaro di luna.
Insieme all’ombra, poi, saremo in tre,
giacché la luna non si negherà al bere.
E mentre l’ombra seguirà il mio corpo,
intanto, al fianco suo, io scorterò la luna.
La via della gaiezza termina a primavera;
mentre la luna ondeggia, al mio canto, qua e là.
Ed ha un sussulto l’ombra, fremendo, alla mia danza.
Da sobri, noi viviamo di una gioia comune;
quando poi, nell’ebbrezza, ciascuno si disperde.
Noi tre, per sempre uniti, vagando senza affetti,
infine, in lontananza, saremo alla Via Lattea.
[Poesia cinese dell’epoca T’ang, traduzione di Leonardo Arena]
Gu Cheng, poeta delle nuove generazioni cinesi dalla biografia piuttosto tragica. La poesia si trova in questa raccolta: Occhi Neri – poesie giovanili ed è stata tradotta da Stefania Srafutti.
不要睡去,
不要亲爱的,
路还很长不要靠近森林的诱惑
不要失掉希望
请用凉凉的雪水
把地址写在手上
或是靠在我的肩膀
度过朦胧的晨光
撩开透明的暴风雨
我们就会到达家乡
一片圆形的绿地
铺在古塔近旁
我将在那儿
守护你疲倦的梦想:
赶开在一群群黑夜
只留下铜鼓和太阳
在古塔的另一边
有许多细小的海浪
悄悄爬上沙岸
收集着颤动的音响
Ritorno
Non andare a dormire, no
Amore mio, la strada è ancora lunga
non accostarti alle seduzioni della foresta
non perdere la speranza
Per favore con gelida acqua di neve
scrivi l’indirizzo sulla mano
oppure appoggiati alla mia spalla
per attraversare la semioscurità dell’alba
Aperta la tempesta trasparente
possiamo ritornare a casa
un cerchio di terra verde
si stende vicino a un’antica pagoda
Io sarò là
difenderò i tuoi sogni sfiniti:
respingerò folle di notti nere
lascerò solo i tamburi di bronzo e il sole
Dall’altro lato dell’antica pagoda
molte minuscole onde del mare
si arrampicano sulla sabbia silenziose
raccogliendo suoni tremolanti…

steven-grieco-rathgeb-giorgio-linguaglossa-15-dic-2016
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
“Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni?”.
Vorrei partire da questa semplice osservazione di Shitao. Anche quando scriviamo una poesia adottiamo un “tratto” condiviso e accettato da una lunga tradizione e solidificatosi nella sintassi e nelle proposizioni. Ma, al di là di questa ovvia considerazione, se ritorniamo con la mente al problema del “tratto”, e lo colleghiamo ad una sua configurazione non più (o almeno, non soltanto) lineare-temporale ma anche (e soprattutto) ad una configurazione spaziale tridimensionale o quadri dimensionale, ecco che il problema del “tratto” ci può illuminare su ciò che stiamo facendo oggi in Italia nella poesia. Voglio dire che se noi accettiamo l’assioma, senza discuterlo, secondo cui la poesia è costituita come un discorso che si confeziona con l’abito lineare temporale del discorso, allora mettiamo un punto alla questione sollevata e non andiamo più avanti di un centimetro. Il discorso della poesia sarà quello che si svolge come un discorso lineare-temporale. Ma se noi mettiamo in discussione questo assioma e diciamo che la poesia è un discorso che si può sviluppare nelle tre direzioni dello spazio (oltre le due direzioni del tempo) tramite l’utilizzazione del “tratto” visto come una “immagine” in movimento, ecco che avremo fatto un decisivo passo in avanti.
Quindi, è il problema del “tratto” verbale (cioè della parola), che deve essere riconsiderato secondo questa nuova impostazione concettuale.
Tynjanov ne “Il problema del linguaggio poetico” (trad. it. Saggiatore, 1968, pag. 67) scrive:
“La parola non ha un preciso significato. È un camaleonte in cui si manifestano non solo sfumature diverse, ma talvolta anche diverse colorazioni.
L’astrazione della «parola» è insomma un cerchio il cui contenuto sarà ogni volta diverso in dipendenza della struttura lessicale in cui si colloca e delle funzioni di ogni singolo elemento del discorso. Essa è come una sezione trasversale di queste diverse strutture lessicali e funzionali”.
Questo lo dico per ricollegarmi alle brillanti considerazioni espresse in altri commenti da Steven Grieco Rathgeb, la cui sensibilità di poeta è più vicina a quanto andiamo dicendo per via della sua formazione culturale non italiana essendo vissuto per quasi tutta la sua vita in Asia e per aver studiato la poesia indi, giapponese e cinese antica.
Lo riflessione sull’ideogramma cinese ci può aiutare a capire la interdipendenza, la strettissima e antichissima correlazione della «parola» intesa quale «tratto» pittografico, figurativo, proprio della scrittura delle lingue orientali (cinese) e le linguae occidentali che ormai si sono emancipate da quella antica dipendenza, e l’hanno quasi rimossa del tutto, con inevitabile svantaggio per la scrittura poetica che così è venuta a perdere la ricchezza e le sfumature insite nel concetto di «parola» quale “tratto” pittografico trimensionale.