Antonella Zagaroli
“Potrei entrare nel labirinto
in quel vortice dove tutto si confonde
e il bianco accoglie ogni senso,
forse mi scoprirei come sono
nuda vertigine profumata.
Per rivelare la cadenza al ritmo
ti incontrerei sugli scogli, vergine madre mia”.
(1998)
“canto e brindo
con chi sa ascoltare nomi in risonanza,
all’orecchio strumento m’inchino.”
Fra tenerezza e turbamento
madre e suo nutrimento,
dai pori della terra semente aria
la maschera ritrova il suo senso,
nella corda d’altalena
nell’occhio della memoria, a schegge:
“Arresa al mondo possibile
dischiudo il crocicchio claustrale
per te, elisir accoccolato entro ogni cunicolo.”
Da Primo alfabeto 2002
È l’ora rosa
rintoccano le foglie
sui dorsi dei cavalli
su pietre che evaporano
vita solitaria,
nella dimora a bocciolo
avanza il centro che accoglie,
lascia inermi.
Dopo gli scrosci al buio
rrurr rrurr rrurr rrurr
la tortora si risveglia alla pienezza.
La riconducono primitive dee
danzando
in mezzo a parole senza pelle.
Dal flauto l’alito cresce alto
sfiora il confine al cielo
ridiscende
lentamente
in ogni organo,
torna a terra in continuità.
Da Venere Minima 2010
Paolo Polvani
La violoncellista
La violoncellista estrae dal pozzo della notte
un alveare volante, le rotaie
della metropolitana, un tonfo,
un garrulo stuolo di cornacchie,
il vento che gonfia le lenzuola, il vento
che fa di marzo un maestro di nitidezze.
L’archetto si profuma di laghi.
La violoncellista ci abitua ad ogni sorta di miracolo marino
la testa gonfia di singhiozzi
percorre le incongruenze delle periferie
i sussulti dei treni inghiottiti dalla nebbia
i tornanti scoscesi dell’amore.
La violoncellista esibisce a volte un sorriso che non è di questo mondo
ricorda le beatitudini del bosco
siepi di rosmarino spalancate sulle palpebre.
Ma io voglio vedere le sue gambe voglio vedere
se l’alba le disegna una città di mare sulla fronte.
L’ultima dimora di Tchiajkovski
Di Tchiajkovski abbiamo visto l’ultima dimora
passando in pullman di sfuggita
e ora è qui che ci abbaglia
ci fa lacrimare seduti
e dimenticare che ci ospita la pancia luccicante di un teatro.
Le passeggiate lungo i viali della Neva.
Le bocche che si cercano sono finestre sigillate
che scoprono i denti in un ghigno obliquo.
Queste sono le carezze che distribuisce il violino.
Le pozzanghere riflettono il cielo
di una profonda estate
cielo di velluto e smalto col fiato di uccelli fiduciosi.
Questi sono i vibranti schiaffi dei timpani.
I fulmini che scaglia il flauto si nutrono dei brividi
che costeggiano la vita come un mare perenne,
grigio e tormentato e austero Baltico,
solcato da battelli e dalle barbe dei loro capitani.
I caldi abbracci degli ottoni convergono all’ombra dei palazzi
interrogandosi sulla direzione della notte,
sui messaggi del vento,
sul moto ondoso delle morti e sul brulicante
prato delle rinascite.
Il maestro cavalca l’onda del fiume scintillante
ne conosce le anse fruscianti d’erba, i segreti anfratti,
conosce le carezze dei salici fulgenti.
Ma è il sole che si agita e che ci fa tremare.
L’orchestra invita il sole a splendere più forte.
Giuseppina Di Leo
Quaresimale
(pausa)
Chiasmo stupore e sogno.
La lingua balbetta precisi rigori
parole di fiele da stille di miele
suoni d’inverno in converse primavere.
Per due soldi e un rancio di pane
sul punto solleva a gola d’organo
il basso la nota del pianto cattedrale.
(da Slowfeet, Gelsorosso 2010)
Il silenzio, silenzio non è. Se in questo silenzio
si ferma il giorno. Nell’ora della compieta
le parole fanno parentesi graffe
senza testa né coda;
tra riquadri luminosi evidenzia la pietra
i solitari profili umanoidi restano assorti in posa.
Dicono che tutto viene rimandato, pazientemente
separano note taciturne da porre al fondo dell’io
da chissà quale piano virtuale racchiuso dentro.
Ora, che un acuto bizzarro scaccia via anche il sole.
(2010 / 18 giugno 2014)
Lucia Gaddo Zanovello
Volúmine
Tiene cosí alto il tono
questa verità
che assorda
vibrando
tutte le stelle dei sentimenti
che trapungono
di malinconica meraviglia
il cobalto della notte.
Erma salì
profetica e perfetta
èmato enfiando nelle vene
igneo sguardo
a contemplare
l’errante errare
di quest’isola nel mare
che ha radice qui nel centro
dell’abisso che non vedi.
Canta ora con un’eco di risacca
a squarcia fiordo dentro il cuore
della musica interiore
la ridico come posso,
ma è una rana dentro il fosso
che una luna ha tinto in rosso.
(da Memodia, 2003) Continua a leggere