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A fine gennaio del 2012 mi recai alla sesta edizione dei “Ritratti di poesia” al Tempio di Adriano curata da Vincenzo Mascolo per la Fondazione Roma dove erano esposti i ritratti fotografici di 12 poeti realizzati da Dino Ignani. La mia attenzione fu subito attratta dalla foto che ritraeva la poetessa Maria Luisa Spaziani della quale si vedeva soltanto la testa sovrastata da un grande disegno, il tutto sommerso da scaffali carichi di libri. Per caso, passando accanto a Dino Ignani che colloquiava con Romano Maria Levante, udii che il fotografo asseriva che il disegno era di Picasso. D’istinto, guardai il ritratto. Ignani stava dicendo che il pittore lo aveva disegnato, in miniatura, su un tovagliolino di carta di un ristorante, e che quello era il ritratto di Picasso successivamente ingrandito.
Questo l’antefatto.
In questi giorni, 7 e 8 giugno a Roma, al Ninfeo di Villa Giulia, e il 15 giugno alle Terme di Traiano a Civitavecchia, si sta tenendo un festival di poesia femminile dal titolo “Eros e Kairos” nel quale è esposto il ritratto fotografico della poetessa Maria Luisa Spaziani dove appare in evidenza, alle sue spalle, una litografia. Poche righe sottili che incorniciano un volto ovale. Bello, non c’è dubbio, si riconosce la maestria del tocco di Picasso.
Torno a casa e, come colto da un’improvvisa ispirazione, guardo la mia libreria dove sono accatastati migliaia di volumi in un terribile disordine e mi capita sotto gli occhi il libro di memorie della Spaziani dal titolo “Montale e la Volpe”, edito da Mondadori, dove lei parla della sua vita, lo apro a caso alle pagine 87-88 e leggo il passo nel quale racconta la storia della nascita del “ritratto” che l’autrice fa risalire al 1955:
«…raggiunsi Aix-en-Provence dove mi aspettava l’amico egiziano Aziz Izzet… Abitavamo nella “torre di Cézanne” e da lì ogni giorno si facevano visite ai pittori e prati di lavanda. Un giorno Aziz mi dice, come se niente fosse: “Perché non andiamo a trovare Picasso?”. “Ma perché no?” dissi ridendo. Sapevamo delle difficoltà che i miei amici giornalisti avevano più volte incontrato chiedendo un’intervista al pittore più famoso del mondo. “Proviamo” dice Aziz. “Qui siamo a Parigi. Non tutti sanno che ogni tanto scappa a Vallauris tutto sol, senza telefono, a fare le sue amate ceramiche.” Andiamo, nessuno al cancello dell’orto, la porta dell’atelier è aperta. Picasso ci vede, grida comunque un suo buongiorno e s’informa se siamo giornalisti. “Ma no, siamo poeti!” “Allora entrate e servitevi, c’è dell’acqua e del vino di Malaga, ditemi quello che avete da dire ma non interrompete il mio lavoro” Ci avviciniamo. Lui alza il braccio destro forse per mostrarci la mano sporca di creta, e così facendo gli casca dai fianchi una specie di perizoma o asciugamano, per cui rimane completamente nudo. Con disinvoltura si china, raccoglie quell’unico drappo, e lentamente, senza scusarsi, se lo annoda intorno ai fianchi dicendo, chissà perché, “Rubens è il più grande” con il tono assolutorio e conclusivo con cui in ambito diverso si sarebbe detto “Allah è grande” o “a tutto c’è rimedio”. Poi mi guarda di profilo, decide che sono “un bel tipo di spagnola”, e mi fa quell’abbozzo di ritratto che doveva poi comparire sulla copertina di un mio “Oscar” Mondadori».
Ma una diversa storia del ritratto è raccontata dal figlio del barbiere di Picasso, di nome Eugenio Arias, intimo e fraterno amico del pittore, il quale rivela che la litografia, dal titolo “La Espagnola” fu messa in vendita nel 1960 a Parigi per aiutare gli esuli spagnoli. Il ritratto, secondo la versione datane da Eugenio Arias rappresenta la madre di Arias la quale impersonava, secondo Picasso, la donna tipicamente spagnola (edizione limitata, litografia originale, numerati a mano 500 esemplari) datata ottobre 1960, litografia su carta Fabriano mm 690×520, es. 37×141 Editore e Stampatore il Bisonte Edizioni d’Arte – Firenze.
A pochi chilometri da Madrid sorge oggi il Museo Picasso che espone le opere regalate dal pittore al suo barbiere ed amico Eugenio Arias. Da lui prende il nome l’intera collezione che comprende 71 opere tra dipinti, porcellane e libri realizzati dall’artista tra il 1948 e il 1972. Le opere sono state successivamente donate da Arias alla Comunità Autonoma di Madrid nel 1982. Visitando il museo si può osservare anche il ritratto “La Espagnola” della madre di Eugenio Arias.
Queste sono le due versioni, certamente molto diverse, sull’origine del “ritratto” di Picasso alla poetessa Maria Luisa Spaziani (secondo una versione) e del “ritratto” alla madre del barbiere di Picasso, Eugenio Arias, esposta al museo Picasso (secondo la seconda versione). Per mia parte, mi sono limitato, diciamo, per pari opportunità, a presentarle entrambe al lettore affinché si faccia una propria opinione in proposito.
In proposito c’è anche un appunto di Renato Minore il quale riferisce il “racconto” della Spaziani secondo questa versione nel 1955 Picasso le avrebbe fatto in margine a un pacchetto di sigarette un ritratto… e che poi, «dieci anni più tardi l’ho trovato riprodotto in una litografia alla libreria Einaudi di Roma. L’ho comprato per 50.000 lire». (tratto da “La promessa della notte”, pag. 207, cap. Maria Luisa Spaziani una parola che non mente. di Renato Minore. Donzelli).
Il che sarebbe una variante del “racconto” principale.
MARIA ROSARIA MADONNA POESIE SCELTE da “STIGE” (1992) ASCESI ED EROTISMO IN STIGE Commento di Domenico Alvino – Parte I
da Stige (1992)
Egredientes latrinitatibus meo pectore
armet oratio, regredientibus de platea
mea mens armet fortitudo atque
ad omnem incessum manus pingat crucem.
*
Cave, ne aures perfores, ne cerussa
et purpurisso consacrata Cristo ora depingas,
né collane d’auro et perle ornino
meo volto, nec capillum irrufes.
Habeat alias margaritas.
*
Oratio sine intermissione, ut sempre
me diabolus inveniat occupatam.
*
Così coltivo l’anima, quae futura est
templum Domini; non est obiurgare
si tardior procedo. Nihil aliud convenit audire,
nihil loqui. Turpia verba non intelligo.
*
Horam tertiam, sextam, nonam,
diluculum quoque et vesperam.
Nec cibus nisi oratione praemissa
nec luxuria nisi intercessione gratia.
Noctibus legere, orare, psallere.
*
Nihil ita offendit deum quam desperatione
quia desperatione incredulitatis indicium est.
Si petenti datur et quaerens invenit et
pulsanti aperitur… me misera.
Si caeca fuero oratio me consolabitur.
Unicum raptus est luxuria.
Plango quod accidit sed quia placet Domino
aequo animo sustinebo.
Extremam expectabo mortem et breve putabo
malum, quod finis melior subsequetur.
Nihil aliud nisi Dominum cogitabo.
*
In fusca tunica incedo,
intra inopia cellula in trono.
Lingua et focum fero.
Frigus, languor et nuditas.
Intra caecos reddit mea cupiditas
atque avarizia hominum.
*
Onusta incedo in capillos auro splendente.
Intra serpentes et scorpiones
secura ingreditur.
Nuditas intra serpentes et scorpiones
*
Hostium plena sunt omnia.
Caro fragilis, et cinis futura
post modicum pugnabo sola
cum pluribus.
Et ferarum in amaritudine repleta.
*
Memini me clamantem
in cellulam meam prisquam
Domino rediret increspante tranquillitas.
Inteso come opera d’una sconosciuta o come straluno di un indotto ignaro di regole e principi linguistico-espressivi, questo libro, Stige, uscito nel ’92 a Roma (Scettro del Re), non ha avuto dalla critica recensione o scheda o annuncio: niente. O forse in tutt’altro affaccendata, la critica non s’è accorta d’un libro che, considerato in sé e per sé, poteva rivelare una sua propria identità, e di conseguenza aver titolo perfino ad un luogo della storia che gli competesse e starvi a viso aperto, senza finzioni o mascherature, turlupinanti o meno che esse fossero.
Ma la critica poi non aveva mica questi gran torti. Davvero il libro si presentava irto di sconquassi d’ogni genere, e qualcuno si chiese perfino se davvero esistesse una Madonna poeta o se questo nome fosse apposto all’ombra d’uno inteso a mettere a berlina le pompose scritture classicistiche, sempre lì a pavoneggiarsi, non per altro, che per un agghindo loro greco o latino, che Madonna o chi per lei forse non riteneva più oramai decifrabile da nessun pur sagace comprendonio di questi tempi – e a ciò alluderebbe il subbuglio maccheronico di un testo che si presentava composito, zeppo di reminiscenze scolastiche molto vaghe, di prestiti forse, ma più di furti da opere di mistici e teologi e fondatori d’ordini religiosi, prestiti e furti per di più stravolti non si sapeva se ad arte o per imperizia. Si poteva anche pensare che si trattasse d’un gesto vendicativo sotto specie di burla contro il mondo accademico, la critica o la stampa, da parte di chi se n’è veduto regolarmente sbarrate le porte, essendo essi attesi unicamente a qual si fossero classicismi e a forme artistico-letterarie sancite dai soliti baronati accademici o dai caporioni della cultura in generale, pregiudizialmente alieni dal considerare proposte nuove, che cestinano a priori con l’incarto e tutto, senza curarsi di vedere se avessero o meno qualche oggettivo valore.
pittura parietale romana epoca pompeiana
Ma pur così scombiccherato, questo libro ha la curiosa caratteristica – forse ignota all’autore stesso, inteso com’era solo a un gabbo vendicativo – che fin gli “scombiccheri” si mettono a far da tecnemi e attivano operazioni di poesia insospettabili in un libro simile. Ne consegue che esso, magari anche fuor d’intento, s’inserisce di forza in una bene attestata tradizione di poesia, ma per romperla dal di dentro, e in più avvalorandosi nell’atto di mettere allo scoperto un sacer innominabile, tenuto finora nascosto, per un sentore sulfureo che per la loro piccineria mentale ne avevano la letteratura e l’arte, nonché la critica e la cultura in generale. Proprio ciò è invece sufficiente per aprire il libro e leggerlo, vedere quel che in se stesso sia e se un posto gli competa nella mente umana, ove si conservi a fare storia delle lettere e dello spirito. Per cominciare, eccone qui un campione:
Veniat sua jurisdictione terribilis
Supra mea culpa tollita, veniat
Sua maledictione supra mea carne bollita,
veniat Arcangelo superno supra mea
jocundissima ferita, veniat mea glabra
infernalia supra infermità condita,
veniat mea liquidissima suspicione
supra intenzione amarissima, veniat
asprissima dipartita post meo iocundo
delitto.
*
Si cum tuo licore nel mio core
versato, si cum tuo livore sul mio
onore posato, si cum tuo stiletto in mio
diletto infernato, si cum tua malia
in mia regalia instanato, si cum mea
trebile ardua Canossa supra tue
ossa annerato, sic transeat mea amaritudo.
Interceda tunc lux sancta et benefica
affinché lo mattino more ustorio
vampa infuocata discacci l’ombra
e mora lo demonio dello inferno!
io sempiterno dolzore amo e rinsavisco
e marcisco e porto lo crocefisso sulle spalle
leggero come l’albero di betulla Continua a leggere →
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