Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos,1999), Vie di Fuga (2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (2007), durante il dopocristo (2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011), Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sonostati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura quali Tratti, Il Guastatore, Il Foglio Clandestino, Prospektiva. Nel 2016 esce il volume Caleranno i vandali che ricomprende le poesie qui pubblicate, (Samuele).
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Nella poesia di Flavio Almerighi la tradizionale struttura gerarchica dei parametri compositivi (la concatenazione paratattica, quella ipotattica, la metafora, la metonimia, il parlato, il ready made, il commento, il discorso, il meta discorso etc.) che pone al primo posto per importanza, ad esempio, il «parlato» e che relega a un ruolo secondario tutto il resto, va a farsi benedire. Ad esempio, l’intensità e il timbro delle parole e dei polinomi frastici, vengono messi in un piano subordinato. In questo concetto di strutturazione gerarchica degli elementi compositivi non ha importanza quale parola debba essere pronunciata, né la sua concatenazione o la sua posizione nella frase, né la sua durata (se sia cioè breve o lunga o in un qualsiasi rapporto temporale con un’altra parola), o il suo significato; ad avere importanza è invece il suo aspetto di sorpresa, il suo aspetto filmico, la sua collocazione registrica all’interno della composizione e, soprattutto, il suo attacco, che dev’essere, per così dire, privo di origine e di nesso causale. Tipico è l’incipit della poesia di apertura del volume, con la sua dinamica minimale, ai limiti del non sense della prosa, ai limiti della battuta di spirito, del casuale, dell’involontario. Infatti, grande ruolo riveste in questo tipo di poesia il senso dell’humour, la battuta di spirito, la fumisteria fine a se stessa e il sarcasmo che, come una macchina celibe, gira a vuoto in un tempo vuoto e in uno spazio anch’esso sostanzialmente vuoto.
Ecco, direi che tutta questa impalcatura registica serve ad individuare il «vuoto» della condizione umana.
Di sette mattine
cinque sono sbagliate
due superflue.
Questa caratteristica stilistica costituisce una dichiarazione di poetica e di estetica estremamente significativa. Si tratta, in sostanza, di concepire la composizione poetica secondo la sequenza tipica dell’illogismo, cioè di quel procedimento che ha l’apparenza di voler significare un discorso causale ordinato, ed invece ne ha uno illogico e disordinato, frastagliato. In questa procedura compositiva, il dettaglio e il frammento assumono una connotazione particolarmente privilegiata a discapito dell’effetto macroscopico all’interno della composizione. Le componenti elementari del linguaggio poetico sono le parole, ma dislocate in modo che esse non siano più significanti, non poggino su significanti musicali, quanto invece rinunciano a qualsiasi forma di orchestrazione semantica e semasiologica o sinfonica. Anche la struttura metrica incardinata sul verso breve è funzionale alla esigenza di non offrire respiro al lettore, che viene condotto per mano da una improprietà all’altra, da un disformismo all’altro, direi senza tregua, senza fornirgli alibi. Si ha una netta ripulsa per la costruzione d’insieme per movimenti sintattici consequenziali, quanto invece un riconoscimento, una presa d’atto della costituzione per segmenti e per differenze tra i segmenti della composizione poetica. Con quel che ne segue nei confronti dei riflessi della musicalità che diviene atonale, spezzata, a singhiozzo, «dodecafonica» quasi, con quei respiri stretti e chiusi e, spesso anche claustrofobici, incidentati, accidentati forniti dal verso breve.
Si può parlare di espressionismo distratto (cioè con delle distrazioni, dei lapsus, delle obliterazioni, dei tic), là dove si intendono gli effetti della poesia come affini alla performance logologica. Possiamo dire che la mancanza di una dimensione progettuale è tipica di questo tipo di poesia che vive nell’esecuzione del momento, nella attimità del compositore e del lettore, in questa coniunctioimpossibile e incredibile. Poesia tipicamente moderna, che fa uso del montaggio, dei relè, delle valvole, degli scambi, che ha saputo apprendere e mettere a frutto la lezione della pubblicità, delle scritture e delle immagini mediatiche che oggi ci invadono in ogni dove in modo parossistico e nervoso. Poesia fatta di filamenti dendroidi, ricca di elettricità che percorre circuiti elettrici imprevedibili.
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Caleranno i Vandali
Niente fuga in ferrovia,
nessun distanziarsi in autobus
schiacciati senza intimità
dentro tripudi d’indifferenza,
dove cortili più che brevi
scordano poche soffitte rosse.
Caleranno i Vandali
pochi e male armati
spaventati cederanno
al ritardo che li acceca,
scagliati già supini
dai mari alla Penisola.
Noi dietro il vetro in utopie,
ogni cosa non va bene
qualche idea da collezione
nasce morta, già rubata
paia di ciabatte all’ombra
di vecchie colonie estive,
caleranno i Vandali,
gli Unni sono qui.

H. Bosch Cristo portacroce
nei giorni d’Avvento
nei giorni d’Avvento
niente amori a controllo numerico
ma folate di vento nudo
vergognavano la pelle
tanto da sentirla svestire,
eravamo un continuo specchiarci,
siamo usciti a fumare spesso,
una si chinava addosso
l’altro rovinava, un acero a guardare
ed era tutto molto bello
Radio Monte Ceneri
I giorni della vecchiaia,
quando tutti amano chi
non si vuole più vedere,
tutti quei giorni, tanti,
tanti da venirne a noia
fuori veloci, distratti,
pensando a tutto fuorché,
e le stagioni sono caldo
freddo, niente più
il pensiero scivola oltre,
verso chi è fatica cercare,
vuoto come un salice,
ma quando sarà il momento
l’eredità è la stessa sedia
lasciata libera un momento.

H. Bosch Cristo portacroce
Fuori tema
Non andrò fuori tema,
voglio solo sapere
che strada è questa,
senza sapore e avvitata
come un sommergibile,
se sarà lunga finché vivo,
voglio giornate meno storte,
qualcuno starà peggio di me,
scrivere gesta d’illusi
aspiranti bancari
che non conoscono
il pollice opponibile
unico vero requisito
per questa professione,
fibrillazioni ottiche
ne ho vedute tante
e la vista non è più
gagliarda come un tempo,
sarò fan di Vernon Dexter
sempre accapigliato
a luci spente col destino
sognante Passatore,
andrò fuori tema,
andrò fuori strada
laterale di campagna
ostinatamente silenziosa
Diari del roseto
La mia vita, l’osservo,
uggiola di vento prezioso
porta e si dimentica
ferma per sempre,
il bello senza vendemmia
muore di fame.
Perso il filo del proemio
diventa l’anagramma
profumato di tappo,
solleva tutta la gonna
fino al petto ricolmo
di allettanti promesse.
Credo sia tempo di siccità
per me, roseto senza volo
spine dappertutto,
aspettando la pioggia
morto di sete.
Uomini e altra gente
Spiegami tu quei fiori
freschi per poche ore,
le tante audizioni
fatte a nessuno,
che, come bianco
degli occhi o nei capelli,
crescono durante il sonno.
Non mi perderò
mai più nella nebulosa
di margherite e oceano
ha detto il ministro
dei poveri cristi,
non ce n’è più, ha gridato
correndo verso il mare.
La sera tardi
uomini e altra gente,
volti da sciacquare,
da quel punto guardano
ognuno a modo suo
fondi di caffè.

H. Bosch Cristo portacroce
Ho visto tanta pioggia
Oggi mi sono buttato fuori,
ho fatto un segno di croce
e mi sono sentito solo
si dice d’uomini e cani,
ho detto e scritto parole
non ne ho inventata una.
Ho visto tanta pioggia,
caduta nottetempo di nascosto,
dormire nelle buche
dimenticate in strada.
Mia figlia
mi ha mandato a quel paese.
Il mondo non ha luce interiore,
solo finestre accese
viste da fuori, senza vetro
dove la nebbia entra
e non chiede permesso.
La stazione deserta
mentre leggevo il giornale
mano a mano si è riempita.
Basterà un trapianto di cuore
da amante ad amante
a tutti gli scomparsi
dalle finestre senza vetro.
Mentre sediamo di fronte
siamo sorpresi, dispersi,
la pioggia dorme ancora
nelle buche in strada.

H. Bosch Cristo portacroce
ancora mare
Avrò tempo di riflettere
sull’infinita concia del pensiero,
che la mia vita non vale l’altra
sibila ogni steccato,
il passato emozionato dimentica
ossida ogni argento
sul mio bagaglio di fragori vuoti
differenza con quel che sono,
avrò tempo di riflettere
ancora mare, il mare
indimenticato rigurgito di spine
mi dà il braccio.
cargo
è stanco non ha voglia
di farsene carico,
l’emozione pesa
come ogni macigno,
è passato un cargo ferroviario
interminabile, scoperto, carico
di furgoni bianchi
freschi d’aria e di fabbrica,
allora ti ha pensato
come succede ogni giorno,
senza pubblicità

H. Bosch Cristo portacroce
Il calicanto lo sa
I Beckett,
originari della Louisiana Francese,
sfidarono a lungo la sorte
con la caratteristica approssimazione
da cittadini del nuovo mondo.
Anch’io penso a te ogni giorno
nervoso come un violino,
il freddo è finito
il calicanto lo sa.
Ricordi il loro ultimo rampollo?
Venne fulminato dal temporale
durante un duello di spade,
fu ritrovato morto per l’appunto
nel sepolcreto di Hart Island
dove nessuno è mai nato,
ovunque, persino nel silenzio,
ogni lettera mai vergata nega
per principio che saremo salvati,
noi pattume degli dei
lanciato in corsa dai finestrini.
Iosif Aleksandrovič Brodskij PENSIERI SULLA POESIA “Arrivederci, o magari addio”, a cura di Giorgio Linguaglossa
Iosif Brodskij
Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-à–tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.
Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.
Questa generazione la generazione nata proprio nel momento in cui i forni crematori di Auschwitz lavoravano a pieno regime, in cui Stalin era allo zenit del suo potere divino… questa generazione è venuta al mondo per continuare quello che, in teoria, doveva interrompersi in quei forni crematori e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano. Il fatto che non tutto si sia interrotto – almeno in Russia – è un merito che va attribuito in misura non trascurabile alla mia generazione; e io sono fiero di appartenerle. E il fatto che io sono qui oggi è un riconoscimento dei servigi che questa generazione ha reso alla cultura; anzi – vorrei aggiungere ricordando una frase di Mandel’stam – alla cultura mondiale… Esisteva, presumibilmente, un’altra via: la via di un’ulteriore deformazione, la poetica delle rovine e dei detriti, del minimalismo, della voce strozzata […] Noi l’abbiamo rifiutata perché la scelta in realtà non è stata nostra, è stata una scelta della cultura – ed è stata, ancora una volta, una scelta estetica piuttosto che morale.
La dipendenza [del poeta dalla lingua] è assoluta, dispotica; ma è anche liberatoria. Infatti, pur essendo sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora la smisurata energia centrifuga che le è conferita dal suo potenziale temporale, cioè da tutto il tempo che ha davanti a sé. E questo potenziale è determinato non tanto dall’importanza quantitativa della nazione che parla (benché sia determinato anche da questa) quanto dalla qualità della poesia scritta in questa lingua. Basterà ricordare gli antichi autori greci o latini; basterà ricordare Dante. E quello che oggi si va scrivendo in russo o in inglese, per esempio, garantisce l’esistenza di queste lingua anche nel corso del prossimo millennio.
Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.
Tutti e tre sono infatti presenti nella lingua… Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Quando si è provata una volta questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere questa esperienza.
[Iosif Brodskij, Dall’esilio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1988, pp. 46, 59-60]
La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.
Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo. Continua a leggere →
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