Luigi Celi sull’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18). “lo smarrimento delle grandi narrazioni”; “La dis-locazione del Soggetto”; “La perduta primazia del Linguaggio”; “Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”

L’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, pubblicata per le Edizioni Progetto Cultura, Roma 2016, si distingue per i testi antologizzati e per l’introduzione acuminata, per certi versi Unheimlich (perturbante), del curatore. Linguaglossa volge la sua attenzione in prevalenza al Ground, al Fondamento per lui ormai franto, della Kultur.

L’Antologia include nomi importanti. Dirò solo di quelli di cui conosco, almeno in parte i testi, gli altri non me ne vogliano.

Nell’ampio recinto della poesia novecentesca e contemporanea per la sua storia e per la qualità della sua opera spicca Alfredo De Palchi, sempre sorprendente nei suoi versi, poeticamente tagliente, soprattutto nelle invettive, c’è molta realtà e pensiero nella sua poesia.

Altri emergono per il prestigio dei loro curricula o sono poeti della cui bravura non si può dubitare, a iniziare da Carlo Bordini, che si impone con la sua lieve autoironia e ci offre una poesia d’“anima piena di microfratture”, compiuto esito di una scrittura moderna di frammento; Guglielmo Aprile, invece, sembra essere il più «antico» tra i poeti presentati.

Irraggiano luce le policrome immagini in versi di Renato Minore che cerca “l’invisibile punto di convergenza di tutti i colori”; in dialogo con suggestioni provenienti dall’Oriente si muove sull’onda dell’impermanenza verso “un vuoto pieno di vuoto” come piuma che cade nel fondo… Minore rende mercuriali, inafferrabili, soggetto e oggetto, focalizza “anelli” di luce “nella sfera del piccolo”, mobili biglie colorate, pixel in danze casuali, ciechi sciami sapienti accucciati sulla punta di uno spillo.

Steven Grieco-Rathgeb è poeta capace di veicolare nelle sue poesie suggestioni e apporti di una cultura planetaria: “accostando le labbra al bicchiere” ottiene “in dono per breve la visione/ che varca il punto di fuga”…; dalla sua esperienza vissuta in Oriente, dall’India al Giappone, attinge il sentimento dell’“evanescenza di tutte le cose”, e trasferisce in un parlare lieve, in un sussurrare dialogico, cadenze, intonazioni, respiri e fluttuazioni su cuscini di mare, memorie di incontri, anche ricordi in frantumi, armonie inudite, vuoti oscuri di “un’impervia, ubriaca pienezza”… è la filosofia dell’ ukiyo-e !

Fanno eco in un Occidente mitico, che si dibatte tra archetipi e memorie omeriche e tragiche, i versi di Gino Rago che rivisitano la “guerra di Troia”, la sua caduta e il dolore estremo di ogni madre di cui è archetipo Ecuba … “il grembo è tutto” (…) “amammo il greto asciutto di madri remote” cantava Rilke; Rago ci s-vela “la verità del tragico suggello”, cioè, appunto, “come è finita la guerra di Troia”, in una articolazione poematica di largo respiro, che risponde seriamente all’ironico verso di Brodskij, che dà il titolo all’Antologia. Anche la poesia di Francesca Diano rilegge il mito ma non per attualizzarlo quanto per consegnarci una nuova lettura di esso.

Maria Rosaria Madonna offre una poesia di qualità in altalena tra storia e mito. Adam Vaccaro oscilla anch’egli con grande perizia tra “poesia di pietra” e “poesia di carne”. Anna Ventura ci stupisce con versi eccentrici, fuori del tempo e dello spazio, con le sue rappresentazioni, di Torquemada e altri personaggi, che sembrano sculture all’aperto. E poi i testi straordinari di Stefanie Golisch.

Lucio Mayoor Tosi scrive come dipingendo un irrappresentabile Koan, dialoga mentre medita… e infrange il senso sull’ombra dura dei suoi quesiti, ombra che gli viene incontro.

Antonella Zagaroli ha una poesia di leggerezza graffiante… orge di stelle e versi fuori dal recinto, mentre Flavio Almerighi introduce nel verso una drammatica e graffiante leggerezza.

Abbiamo poi la poesia barocca, sensuosa e puntuta di Antonio Sagredo. Sagredo danza sui suoi versi come uno Zaratustra su carboni ardenti e con lui danza chi legge. Versi accaldati di sesso, raggi libertini, non manca di coniugare a un acceso lirismo la poesia di pensiero.

Porta in sé il tragico, la poesia di Edith Dzieduszycka, con una versificazione asciutta, puntuale, chiara e distinta, rispondente almeno in ciò alla tradizione francese, per quanto in questa Antologia la scelta della poetessa sia orientata su testi di metapoesia, di riflessione in versi sulla propria scrittura.

La scelta del curatore non tiene molto in conto la poesia civile. Il recupero della dimensione sociale avviene (se e quando si dà) su altri piani, primo tra tutti quello della ri-mitologizzazione dei miti. Oltre il già citato Gino Rago, abbiamo la poesia al femminile, più classica nella forma che nel contenuto, di Rossella Cerniglia. Letizia Leone spicca con la sua poesia della crudeltà degna di un Artaud: il “supplizio fossile”, l’“estasi della macellazione” del satiro Marsia ad opera di un Apollo che rivela i limiti ermeneutici di chi vede nell’apollineo soltanto aspetti estetizzanti, Apollo è in realtà il double inquietante di Dioniso. Incalzante… tambureggiante nel verso, estrema e raffinata, Letizia Leone edifica cattedrali risuonanti che s-pietrificano, organi e orchestre di archetipi… e sangue.

Non è assente, nell’Antologia, la poesia di pensiero, a cui almeno per alcuni testi mi inscrivo anch’io, insieme a Linguaglossa, rivendicando le differenze, com’è giusto, nello stile e nell’intento. Questo tipo di poesia ha un minimo comun denominatore basato su una scommessa: fermentare i versi con i semi di domande abissali, quelle che la stessa filosofia moderna ha cessato di porre da quando ha preteso di aver ridotto a “non senso” ogni proposizione che non sia scientifica.

Insieme a Linguaglossa diversi poi sono gli autori che mostrano una forte propensione all’innesto, alla poesia colta. La qualità della poesia è più che evidenziata in questa Antologia dal lavoro scaltrito sul linguaggio, dalla capacità di articolare conoscenze, di operare innesti in osservanza a quel criterio o spirito della scrittura moderna, che si è imposto a livello planetario a partire dal “modernismo” di Pound ed Eliot. Così operano Ubaldo De Robertis, Giuseppina Di Leo, Mario M. Gabriele, Giuseppe Panetta Talìa, e certo non si escludono i poeti citati, tutti molto abili, convincenti. Ci sono alcuni che hanno cercato di recuperare la struttura poematica, come Rago e Giulia Perroni.

Giulia Perroni antologizza testi lontani tra loro; gli ultimi, tratti dal poema La tribù dell’eclisse,  denotano una luminosa/oscurità – “una complessità fatta ragione”, “una complessità fatta Babele” – per l’uso insistito, sguincio, dell’ossimoro e della metafora: “Per metafore un mondo in sé complesso”. Sebbene la scrittura sembra frangersi in “titoli di capitoli mancanti” o in “arpeggi di un incessante divenire”, ciò è a “custodia dell’infinito perdersi”, “in un viavai” d’immagini sonore teso a “un punto irraggiungibile” di cui “ogni vibrare è specchio”.

Torniamo adesso alla Prefazione di Giorgio Linguaglossa. Essa costituisce una qualificata componente di questo libro bifronte, ha un tale spessore filosofico da dover essere onorata, problematizzata. Si sostiene una tesi estrema, che nel mondo contemporaneo, accentuatamente nella poesia italiana, a sfaldarsi non siano solo le poetiche tradizionali, ma proprio il linguaggio come possibilità di conoscenza onto-logica; con il crollo del nesso essere/logos è stata compromessa la relazione tra soggetto e oggetto. Dopo Derrida e Lacan, per Linguaglossa è stata distrutta la possibilità di attingere il Fondamento, al punto che l’arbitrarietà dei segni, in poesia, si è mutata in “lallazione” di un falso “io”. Giudizi drammatici, frustate anche per gli autori dell’Antologia. Un cumulo di rovine si accresce come di fronte all’Angelo di Klee trascinato a rovescio dal vento mentre si copre il volto con le ali.

Ci soffermiamo sulla negazione del binomio soggetto/oggetto. La psicoanalisi di Lacan ci ha insegnato che “Esso”, l’ “Inconscio” parla; “l’io non parla, è parlato”; “noi siamo parlati”, “non parliamo”…; non è chi non veda la consonanza tra lo psicoanalista e il critico, ma non so se su questo limaccioso, abissale limen Linguaglossa intenda accamparsi senza riserve. Il “principio di indeterminazione” di Heisemberg, certo, ci dimostra che nella fisica subatomica lo strumento che si adopera per l’osservazione delle particelle subisce una pur minima modifica nel momento stesso in cui cerca di determinare l’oggetto; si darebbe cioè una sorta di biunivoco contraccolpo: l’oggetto modifica il soggetto e viceversa. Generalizzando, è come dire che né oggetto né soggetto valgono assolutamente. Mi domando se ciò che ha rilevanza nella fisica sub-atomica valga comunque in filosofia o nel mondo sociale o nella fisica non subatomica. Per Giorgio Linguaglossa i linguaggi della poesia si sono “de-territorializzati”: ciò equivale al “rotolare della X verso la periferia”, di cui parlava Nietzsche, quale idea del soggetto che “si andava a frangere nella periferia”; la cosa non attiene quindi solo l’uscita del pianeta poesia dall’orbita di ogni sistema planetario dei linguaggi sensati. Potrei dar forza storico-critica all’argomentazione di Linguaglossa, aggiungendo che il processo in questione ha due poli, il primo attiene all’affermazione della centralità del Soggetto, almeno da Cartesio a Fichte, il secondo segue il movimento opposto di dissoluzione della soggettività, cosa che può essere connessa con la morte di Dio, come annunciata nella Gaia Scienza. Foucault a sua vota proclamava, all’interno del suo rigido strutturalismo, che anche l’uomo è morto. Non è stato Nietzsche ad aver contestato per primo il “soggetto” quale sorgente e termine della filosofia?.

Si apre nel tempo moderno una parabola che sembra voler giungere ora a tragica conclusione. Il Moderno per molti versi nasce dalla Rivoluzione scientifica e dalla “rivoluzione copernicana” operata (in filosofia) prima che da Kant, da Galilei e da Descartes. Quest’ultimo ha posto rigorosamente il problema del metodo scientifico e filosofico della modernità, ha dettato le regole ad directionem ingenii e attraverso il superamento del “dubbio metodico” è approdato al Cogito, al Soggetto che pensa e perciò esiste. Questo Soggetto recupera la conoscenza della realtà attraverso le idee di Res cogitans e di Res extensa; non si procede dalla realtà alla conoscenza, ma si segue il percorso opposto. Attraverso un cogitare metodicamente matematizzante sarebbe possibile la “certezza” del conoscere, anche in metafisica.

La centralità moderna del pensare “soggettivo” sul piano di ogni operatività, anche nell’arte, nella poesia, non equivale ancora a quel totale arbitrio che poi nel tempo – sul crollo di questa premessa cartesiana – si è sviluppato, ben oltre le divaricazione tra arte e scienza, fede e scienza nella deriva postmoderna che giunge alla frantumazione dei canoni in arte, poesia e nel tracollo dell’etica. Quando una pluralità non è riconducibile all’unità, non c’è più forza gravitazionale, i molti diventano un coacervo caotico. Queste mie osservazioni, mi chiedo, rinforzano o indeboliscono la tesi di Linguaglossa? Subito dopo Cartesio l’attacco empirista, pre-illuminista e illuminista al Soggetto, viene condotto, e più radicalmente, in Hume, fino alla contestazione dell’esistenza di un “io sostanza”. L’io individuale per Hume è solo un’identità fittizia e l’essere è ricondotto alla percezione dell’essere. Kant chiamerà fenomeno ciò che possiamo conoscere, l’oggetto è fenomeno, non noumeno, cosa in sé. Nel XVII e nel XVIII secolo dunque si opera una svolta cruciale si sfalda la vecchia visione del mondo, le idee stesse di soggetto ed oggetto vengono rielaborate più volte.

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordoPsicoanalisi, Sociologismo e Neoempirismo nel XX sec. hanno dato il colpo di grazia ad una concezione unitaria del Soggetto, nonostante che la Critica kantiana avesse recuperato a livello trascendentale il primato del Soggetto (“L’io penso” legislatore), smontando la critica humiana come affrettata e incauta. Non si tratta più del soggetto individuale ma di una Soggettività trascendentale. Le forme del conoscere (e poi dell’agire) sono a priori, operano indipendentemente dall’esperienza e ne costituiscono la precondizione universale e necessaria. Il trascendentale (da non confondere con il trascendente) della Soggettività è un modo di conoscere gli oggetti, i fenomeni, grazie alle intuizioni di spazio e di tempo e a categorie (attività a priori) comuni a tutti gli individui. Il Soggetto si rivela ancora una volta, dopo Cartesio “legislatore della natura”, una Volontà, un “Volo”, più che un “Cogito”. Da questa radice, cioè a partire dalla Rivoluzione scientifica, nasce quindi il carattere impositivo della tecno-scienza e della cultura occidentale tout court. Cosa che, se pure in altri termini, è stata evidenziata da Heidegger, con il concetto di Gestell, da Nietzsche con la “volontà di potenza”.

Hegel rappresenta il tentativo estremo e più sistematico di recupero dell’ontologia: “il reale è razionale e il razionale è reale”, vuol dire per Hegel che la Ragione appartiene all’universo, come un’anima al corpo, ne è la Legge immanente di sviluppo in termini dialettici, e la soggettività diventa un momento del processo di autocoscienza dello Spirito del Mondo. Anche l’oggetto non esiste se non come momento di una dialettica universale. Marx rovescerà in senso materialistico la Weltanschauung hegeliana, conservando alla realtà socio-economica, che egli considera strutturale, un carattere dialettico, ma il termine soggettività e tutto ciò che si possa riferire al soggetto verrà depotenziato. Se vogliamo l’unico soggetto della storia a cui riconoscere un qualche peso strutturale (non sovrastrutturale) è la classe operaia vista all’interno delle contraddizioni sociali quale unico motore della rivoluzione.

La critica al Soggetto ha avuto ripercussioni drammatiche in politica. I totalitarismi hanno elevato da una parte monumenti all’arbitrio del Capo, quale personificazione dello Stato Assoluto, e dall’altro hanno ridotto, nella loro Statolatria, i singoli a escrescenze callose della collettività.

Della colpevolezza della Ratio, del Cogito nel mondo moderno ha piena consapevolezza Linguaglossa. Anche in poesia egli trasporta la sua tesi: il moderno non si è liberato dalla sua colpa ma l’ha istituzionalizzata; certo “il signor Cogito” ha distrutto il “quaderno nero”, ma “la polizia segreta” lo cerca; “il sole si è inabissato”, e “la Lubjanca ha convocato il violinista” (il poeta, il musicista, l’artista), ma infine “C’è un solo colpevole”… è “il signor Cogito”…

La progressiva emarginazione della poesia nella modernità, in Occidente, ha dato luogo al canto consolatorio, sommesso, di una umanità dolente, ripiegata liricamente su se stessa, che vive un’esistenza scissa tra pubblico e privato; essa si autocomprende ed esprime nell’ottica del frammento. Anche nelle versioni più elegiache del poetico c’è il tentativo di dare respiro al singolo, aria pura dove s’addensa inquinamento culturale, recupero di bellezza in un mondo di brutture. Questo ambivalente ripiegamento comporta lo smarrimento delle grandi narrazioni della poesia epica, ancora vitali ed efficaci nel seicento, nel settecento, in quei contesti in cui la rivoluzione della modernità non aveva portato a maturazione i suoi frutti. Anche questo è un modo di dare rilievo agli aspetti più inquietanti dell’esistenza. “Gli alberi erano rossi: di frutta o di sangue non importa”…, nota con versi efficaci e incisivi, Alfredo Rienzi.

Ne La nascita della tragedia di Nietzsche viene rivendicato il primato del dionisiaco sull’apollineo sotto la scia del “pessimismo” di Schopenhauer – pessimismo ontologico, presente anche in Leopardi -, il che equivale a cogliere nel tragico la cifra più propria dell’esistente, per quanto nel dionisiaco si affermi anche una visione istintiva, fino alla sfrenatezza, della soggettività. Il tragico è una categoria assoluta che non riguarda solo il passato, esso è rappresentazione, prefigurazione e presentimento di ciò che avverrà nel mondo con due spaventose guerre mondiali e che continua ad evenire sulla soglia dell’autodistruzione del genere. La tecno-scienza coniugata alla logica di mercato non è solo fonte di progresso, ma comporta rischi mortali. È quotidiana la scoperta di un’esistenza umana deprivata di essenza, mercificata, radicata nella struttura socio-economica della storia, divorata dalla frenetica ricerca del “profitto”, dall’onnivora invadenza dei media, del virtuale che ci confonde di irrealtà. Il marxismo aveva denunciato il carattere autodistruttivo della Ragione borghese soggettivista, la incontrollata libera iniziativa, il primato dell’arbitrio mercantile e ad essa aveva opposto la Ragione oggettivata (scientifica) della Rivoluzione comunista, che doveva passare per la lotta di classe e la dittatura del proletariato. L’arte e la poesia dovevano diventare “politiche”, collaborare a questa rivoluzione.

Per ritornare all’Antologia un verso in uno dei testi antologizzati di Ubaldo De Robertis recita: “La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine/ più misteriosa e lieta”….

L’esinanirsi della forma-poesia, certo, è una minaccia che Linguaglossa ha ben focalizzato. Accade alla poesia ciò che si è verificato in filosofia: all’ottica del sistema, di Spinoza ed Hegel, è subentrata l’esigenza di affrontare motivi legati al “particulare”, all’esistenza; ciò è avvenuto in Kierkegaard, Nietzsche, Jaspers, Marcel, Heidegger; ecco allora Ungaretti, Caproni, Montale, Luzi, Penna, Campana, o altrove, rispetto all’ Italia, Rilke o Celan che del tragico assapora il calice delle rovine nel frammento non consolatorio. La cultura moderna volge al problematicismo, allo scetticismo, al nihilismo. Vengono sollevate questioni di confine, sui rapporti tra filosofia e scienza, scienza e fede, politica e arte, e la poesia ha dovuto slittare verso la prosa. Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo; non ci si accontenta di scrivere sull’amore, la vita, la morte, la bellezza; i poeti non accettano che la ragione matematizzante e strumentale della tecnica riduca l’uomo a mero ingranaggio di un sistema economico, finanziario o politico. Rispetto alla poesia civile, più prosasticamente aggressiva degli ultimi decenni, tuttavia anche in alcuni testi di questa Antologia, ritroviamo un’esigenza di conoscenza che fa superare alla poesia il ristretto ambito estetico, a cui molti – non certo Giorgio Linguaglossa – vorrebbero inopinatamente circoscriverla.

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

 

 

39 commenti

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39 risposte a “Luigi Celi sull’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18). “lo smarrimento delle grandi narrazioni”; “La dis-locazione del Soggetto”; “La perduta primazia del Linguaggio”; “Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”

  1. Un buon lavoro questo di Luigi Celi sull’Antologia di Poesia Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia, di Giorgio Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016, pagg.349, che spazia su diverse angolature estetiche, con autori sempre in work progress,di nuova sensibilità biologica nei confronti del Logos; intendo qui citare alcuni nomi (per non fare una anagrafe globale di tutti gli antologizzati presenti),e cioè Ubaldo De Robertis, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Gino Rago, Carlo Bordini, Patrizia Leone, Steven Grieco Rathgeb e altri ancora. Trattasi di una antologia che ha aperto una grande problematica di riflessione rispetto a quelle di fine secolo, senza grandi omissioni e arbitrarietà.

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  2. Come dice il titolo della Antologia di poesia

    “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” (Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18)

    la categoria centrale che mi ha spinto a mettere insieme poeti diversi in una Antologia è stata quella dell’Oblio della Memoria, ovvero, la dimenticanza. La mia personale scelta è stata quella di individuare poeti che avessero al centro della propria poiesis la tematica (invisibile) dell’Oblio della Memoria. Al di là delle distinzioni di genere e di specie, al di là delle idee e delle scelte ideologiche, mi è sembrata questa la chiave di volta per trovare la giusta intonazione per aderire ad un linguaggio significativo. E ciascun autore, intenzionalmente o meno, mi sembra che si sia mosso in questa direzione. A volte si sceglie una direzione di ricerca senza saperlo e senza volerlo; le direzioni si impongono da sé, sono i tempi storici che decidono per un indirizzo piuttosto che per un altro. Certo, viviamo in una epoca che ha messo la memoria del computer al centro della nostra vita quotidiana, e questo è un fatto significativo; oggi è il pc il salvadanaio della memoria. Il pc ci ha liberati dalla necessità di mantenere una memoria attiva, ed essa se ne è andata nel profondo della nostra psiche. E allora i poeti se la devono andare a cercare lì, non sanno più dove andare a rovistare, si muovono alla ricerca di qualcosa che è scomparsa. Ed ecco gli altri elementi caratteristici di questo fatto: ecco che sono diventati significativi l’Estraneo, l’Assenza, l’Altro, il Doppio, la Mancanza… tutti fattori che nella poesia recente italiana mancavano, ecco che essi sono riapparsi, come per magia. Ed ecco il Perturbante, l’Estraneo, l’Irriconoscibile che vengono avanti. E la poesia è diventata prospettica, multilaterale, mutagena. Ecco che sono cambiati i temi, le tematiche: non più quelle del «privato» e del «quotidiano» ma quelle del «Doppio», dell’«Estraneo»; ecco che molti poeti si sono indirizzati verso il traslato, il «simbolico», il «frammento», il «mosaico», la quadri dimensionalità, hanno affrontato temi eterni, che appartengono alla nostra cultura dalle origini: il Minotauro, le suggestioni del mondo omerico, la nuova mitologia del contemporaneo de-mitologizzato…
    In tutto ciò, le «classiche» questioni incentrate sul Linguaggio sono venute meno pressanti, anzi, sono sparite del tutto…

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  3. Salvatore Martino

    Sì ma un brandello di testi NO!! Salvatore Martino

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  4. (da un Appunto di Maria Rosaria Madonna degli anni Novanta)
    .
    Ho ritrovato, tra le mie carte, questo appunto inedito di Maria Rosaria Madonna degli anni Novanta, destinato ad un articolo sulla rivista “Poiesis” che poi non trovò luogo. L’ho riletto più volte. Non so bene cosa significhi ma credo che possa benissimo andare d’accordo con la poesia di Letizia Leone [cui era accluso, vedi il post in questa Rivista] ma anche con la perdita della fiducia nel linguaggio poetico quale luogo privilegiato del poetico.
    .
    «La poesia è linguaggio dell’insolenza e della fraude. Non credete ai falsi untori del perbenismo. Forse la poesia è più assimilabile al cannibalismo dello Spirito che ad altre attività del corpo mentale. Un ricordo sublimato e civilizzato di quell’ancestrale rito cannibalico. In ultima istanza, la poesia non può essere rapportata alla poesia se non dal punto di vista puramente storico sistematico; nella sua essenza è attività di fagocitazione di mondo, internalizzazione degli oggetti del mondo tramite il sistema segnico-simbolico qual è il linguaggio. Forse, alla base della Musa, v’è una fissazione della libido allo stadio della cloaca, ciò che nell’età adulta si converte in sublimazione, conglomerato degli oggetti internalizzati in spirito linguistico, in fame di mondo, seppure di un mondo ridotto a lacerti fonematici che rammenta il mondo reale come lo specchio da toeletta rammenta lo specchio ustorio.
    Dunque, è chiaro, la poesia può sorgere soltanto come risvolto negativo della prassi. La poesia è risvolto negativo della prassi e specchio ustorio.
    L’ostinazione onanistica al volo poetico (un privilegio o una dannazione?), con il senso di colpa che l’accompagna, rivela l’intima natura requisitoria dell’attività artistica, il legame intermesso e rimosso delle pulsioni subliminali che le ricollega al pene simbolico. Di qui la strafottente diffusione di essa pratica ai giorni nostri, pratica di massa, onanismo di massa. Di qui l’accusa, di matrice zdanoviano-pretesca all’attività poetica quale mansione insulsa e parassitaria ai fini della compagine del «Nuovo Mondo».
    Forse, il «Nuovo Mondo» che abbiamo costruito si regge proprio sulla grande menzogna di una estetica di matrice zdanoviano-pretesca».

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  5. Sono impressionata dal commento che Luigi Celi fa alle mie poesie:”i palpiti del cuore di una strega che si vendica di Torquemada”; non credo che Celi conosca la mia biografia,ma certamente ha capito qualcosa di vero, anche se nascosto dietro la mia veste monacale, dietro il passo imperturbabile di chi si è abituato a camminare sul baratro.

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    • Giuseppe Talia

      Ho sempre sospettato che in Lei, carissima Ventura (il cognome la dice lunga) ci fosse altro rispetto alla semplice apparenza. Forse spinta oltre, oltre lo stabile, nello scibile misterioso. Dall’unica foto di Lei che circola sull’Ombra, trovo una certa somiglianza con una mia zia a cui ero molto legato. Una donna che incuteva timore reverenziale e che tutti trattavano con grande rispetto. Lei mi piace, signora Ventura.

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  6. 29 personaggi in cerca d’autore. Col Sommario fanno trenta. L’autore misterioso si è perso tra la caduta degli antichi dei, la scomparsa dell’unico Dio – ultima nave di Ulisse, come scrive Adam Vaccaro – e lo stesso Ulisse, oggi Alfredo De Palchi; pagina 71, posto, vedi il destino, a fianco di Rossella Cerniglia: il diavolo e l’acqua santa. Superbo il prologo di Rossella Cerniglia in Penelope. Testi scritti in presenza di poesia (chi lo disse?) che a volte s’affaccia come ” Luminosa e vuota nella foresta del mare” di Grieco Rathge – che però non si ripete. Qui servirebbe una parentesi sull’intercalare di poesia, che oggigiorno è come sale: ne basterebbe un niente. Prossima volta. La circostanza di doverne parlare si presenta ora, non a fine estate come avrei sperato, dandomi il tempo solo per qualche veloce considerazione. Per conto mio me ne sto con Antonella Zagaroli, Renato Minore (è come se ora / io e te fossimo costretti a muoverci / sulla superficie di un filo elettrico), Guglielmo Aprile (ma all’ultimo proprio / sono scappato); anche se poi bazzico con Mario Gabriele, tra gli alberi, di cui due divenuti familiari: Giorgio Linguaglossa e il surrealista barocco Antonio Sagredo (non gli piacerà, a Antonio. Nemmeno a me. Giorgio dice che Sagredo è indefinibile). Devo anche ringraziare Luigi Celi per avermi portato alla scoperta dell’inutilità del secondo verso, negli Haiku, quello di 7 more. Certo che, se tolto, serviranno aggiustamenti ma, e prendo a caso:
    “Barca stagliata / ferma anche il sole” è secondo me è meglio di “barca stagliata /sul ciglio dell’orizzonte / ferma anche il sole”. “Tra i gelsomini /sa di liquore”. “Fanciulle in fiore / lampade e fuoco” e così via. Preziosissima scoperta che collego a quanto si è detto sul mitico frammento, al momento mia unica terra promessa; per quanto, qui e là nell’antologia, se ne possono scorgere le tracce. Linguaglossa per modalità il più vicino.
    Ringrazio per i molti quesiti posti, sia nella prefazione di Linguaglossa che nel sapiente commento di Celi. Scrive Celi: Quando una pluralità non è riconducibile all’unità, non c’è più forza gravitazionale, i molti diventano un coacervo caotico” ma Linguaglossa risponde che l’unità è data da L’oblio della memoria. Era una notte buia e tempestosa… tempestosa e buia. Buia e tempestosa era la notte. Buio e tempestoso l’oblio. Ohibò, direbbe l’Attolico. A tutta prima questa faccenda della perdita della memoria ha l’aria di essere un pensiero molesto. Ma il tema della dislocazione, del dove porsi, conduce indirettamente alla dimensione sociale – regno dell’oblio dove serve nettezza. Eppure do ragione a Maria Rosaria Madonna quando dice che poesia è il “ricordo sublimato e civilizzato di (un) ancestrale rito cannibalico”. Che è “Fame di vita”.

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    • Giuseppe Talia

      E mentre ascolto Debussy, la luna sta sorgendo dal mare Jonio, rotonda di giallo paglierino, a nessun’altra uguale. Domani sarà piena. Vedo il suo occhi destro, mare Serenitatis e quello sinistro, mare Imbrium, e la bocca, stupita, meravigliata dalla bellezza della Terra, mare Nubium.

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  7. Salvatore Martino

    Annotiamo tutti con piacere la conversione di Linguaglossa alla Grande Musica. Salvatore Martino

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  8. Giuseppe Talia

    Grazie a Cieli, che grazie al cielo ci cita, assieme a Ubaldo e Giuseppina.
    Gran bella antologia.

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  9. Steven Grieco-Rathgeb

    Ha fatto bene Luigi Celi a parlare brevemente dei poeti rappresentati in questa antologia, e molto più a lungo della prefazione di Giorgio Linguaglossa. Sono questioni che dovranno essere affrontate sempre di più se si vuole evolvere una possibile nuova poetica la quale, lo ripeto, dovrà sempre di più indirizzarsi ai giovani poeti.
    Non c’è altro modo per uscire dalle secche.
    Ma questo sta già succedendo.
    Ringrazio Luigi Celi per il suo tentativo di dare un sistema, di porre una base per questo argomento.

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  10. Giuseppe Talia

    E di che ti devi scusare? Tranquillo.
    Mi scuso io con Celi per aver scritto Cieli, ma ultimante sono poco con i piedi per terra, nel coelum dei frangiflutti.

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  11. gabriele fratini

    Dunque vediamo… come è finita la guerra di Troia… risultato finale: Grecia batte Troia 2-1 in trasferta, marcatori Ettore (T) nel primo tempo, pareggia Achille (G) nella ripresa e raddoppio in zona Cesarini di Ulisse (G).

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    • Giuseppe Panetta

      Vi sono voci molto più seri della tua scettica propensione. Il che non significa che debbano avere gli ingaggi dei così detti tira pallone, che come si dice, per un destro, o un sinistro, diventano così ricchi da far schifo al maiale. Tu, intanto, nell’antologia non ci sei, e sebbene apprezzi il tuo umorismo, qui lo trovo calcisticamente in fallo.

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      • gabriele fratini

        Caro Panetta, se Bertolucci poteva scrivere di aver rubato due versi a Baudelaire, io che come lei con molta classe mi ricorda non sono nessuno e infatti non compaio neanche nella prestigiosissima antologia, vorrei rubare una ipotetica battuta alla maniera di un nostro comune virtuale amico dicendo lei ha perfettamente ragione in quanto non si ride ai funerali. Ma mi trattengo, perché odio il sarcasmo.
        E così chiudiamo in bellezza o bruttezza (o brullezza) o fate voi questa parva paginetta di metaumorismo. L’ha capita?

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  12. IL PROBLEMA DELLA POESIA ITALIANA da lombradelleparole.wordpress.com

    Il problema della poesia italiana di questi ultimi tre decenni è sempre quello, non è cambiato. Fin quando i poeti italiani penseranno di fare poesia con i commenti ironici, i fraseggi patafisici, il bon ton, il maledettismo, la performance, la pièce teatrale, la poesia giocosa etc. non faranno altro che letteratura di seconda e terza mano, letteratura che segue il modello televisivo e mediatico dello spot e della chat- C’è in giro tanta chatpoetry, anche ben fatta, ben scritta, non lo nego, che riesce anche ironica e a farci sorridere (la poesia di Zeichen ne è un esempio adulto), ma noi chiediamo qualche cosa d’altro alla poesia, oggi, qualcosa che vada oltre il gioco dei significanti o il fraseggio ironico, il motteggio di spirito, la battuta scherzosa… di questa pseudo poesia ne abbiamo così tanta che si auto elimina da sé, anzi, si è già auto eliminata.
    Ecco la necessità di una poesia come quella dei Ingeborg Bachmann che abbiamo postato nella Rivista.
    Vorrei pubblicare qui alcuni punti del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica pubblicata sul n. 7 di “Poiesis” nel 1997 che si richiamano esplicitamente alle parole della Bachmann:

    2) Amiamo la vitrea trasparenza della Parola quale atto di massima libertà sottoposto alla legalità della Lingua ed alla legalità dell’essere. Portare la lingua poetica più in prossimità dell’essere. le cose non sono mai state neutrali, ergo il nostro essere-nel-mondo non è neutrale. Il linguaggio della anonimia e della faziosità è specchio crudele della prigione all’aria aperta qual è divenuto il nostro mondo. La parole di tutti gli estetismi dilagano, sgorgano da un’unica infetta palude. Chi si arrende a questa realtà, chi ne celebra i fasti, si consegna alla neghittosità della propria lingua.

    3) La questione della lingua è la questione originaria giacché la lingua, in quanto principio rivolto alla comunicazione di contenuti spirituali, è categoria fondante di tutta la realtà.
    Quando a parlare sono le belve, bisogna tacere. E questo ammutolire della parola sovverte l’ordine costituito per definirne uno nuovo. Tra la parola e la sua pronuncia cade l’ombra. Il poeta sa che non può più semplicemente adoperare le parole che trova già pronte, anzi ne è spaventato, e improvvisamente, la lingua perde tutta la sua ovvietà. Il poeta è l’unico che non sa e non può usare le parole. Il suo «dire» implica ogni volta una nuova ridefinizione dei «confini» della lingua, una eterna sfida alle parole per spingerle alla loro verità ultima.

    4) Avvertiamo impellente il bisogno di trovare le parole «vere», capaci di penetrare dentro l’orrore della neutralità e di andare oltre il linguaggio effimero del quotidiano. Un nesso di reciprocità lega il dire e il silenzio, silenzio e verità, l’uno condizione dell’apparire dell’altro. Ed ancora, il problema della distruzione sistematica del Senso, elevata a teoria estetica del negativo.
    Ed infine, il problema del rapporto tra lingua e morale, la zona d’ombra dell’indistinto. Affermiamo che non ci può essere nuova poesia, nuova arte senza uno scatto morale, solo allora la lingua ci presenterà la sua bellezza.

    5) La nostra Epoca veste i panni di una tetra prigione universale.
    C’è e ci sarà metafisica fintantoché c’è e ci sarà durezza dell’Essere.
    L’arte che non scaturisce da una «fisica» non potrà mai attingere la «metafisica».

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    • gabriele fratini

      6) Dare al popolo Panetta et circenses.

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      • Giuseppe Panetta

        Zuzzurellone che sei, Fratina da mangiare a due palmenti. Da quando sei tornato dalla crociera di viaggio di nozze sei peggiorato. Scrivimi che vorrei comunicare in privato (ato).

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        • gabriele fratini

          Ehhh… la crociera è finita da quasi un anno…
          Caro Panetta tu sottovaluti la potenza dissacratoria dell’ironia, ma ancor più la sottovaluta Linguaglossa. Il n. 6 è una semplice battuta che in mezza riga vuole mettere in evidenza, dal mio punto di vista, le assurdità del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica (rigorosamente in maiuscolo! e guai ai vinti!). Ora la poesia metafisica va più che bene, la si fa da sempre e chi vuol esser lieto sia; ciò che io dileggio è il Manifesto della stessa, gli alti proclami, le pomposità… e so che anche tu più o meno la pensi così.
          Sarò lieto di risponderti in privato:
          gabriele_fratini@yahoo.it

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          • gabriele fratini

            PS Fin dai tempi della scuola vanto una lunga tradizione di storpiatura del mio nome, da Fratino a Fratazzo, Fra Tac, Fratonzo, Ftini, Fratete… ma Fratina mi mancava. Aggiungo, commosso.
            Un saluto.

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          • caro Gabriele,
            sono solito non rispondere alle battute di spirito perché dovrei replicare con un’altra battuta… e così all’infinito. Se ne è capace, cerchi di replicare con una tesi argomentata. A quella risponderò.

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            • gabriele fratini

              Non penso che risponderebbe, gentile Giorgio. Ci ho provato tante volte. Lei sembra chiuso al dialogo, arroccato sulle sue posizioni. Il blog dà spazio a molte differenti voci, che non è poco. E mi accontento di questo. Ma appena si viola quest’ aura sacrale che avvolge la poesia gli aedi all’ara vanno in crisi, i consacrati sussultano e fermenta in essi… mi verrebbe da dire il seme del piangere ma so che su queste sponde Onofrio a parte i deliri caproniani non sono eccessivamente amati (deliri in senso positivo). Questa assurda religione della poesia deriva senz’altro da Shelley e Keats, che non avendo più veri o falsi dei in cui credere pensarono bene di riempire i loro vuoti adorando parole e versi, e scrivendone di esemplari, il che va a tutto a vantaggio di noi lettori. Ma è pur sempre una religione vecchia due secoli fondata sul nulla del flatus vocis, un parvo nichilismo d’epoca.
              Buona giornata.

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    • Il poeta, ma un po’ tutti i poeti sono sostenitori di ciò che scrivono.Difficile convincerli a cambiare rotta, e fede linguistica.Le albe, i tramonti, la luna, le stelle, Dio e la fanciullezza sono i soggetti principali che maggiormente interessano i poeti. Claudio Magris in uno dei suoi discorsi ebbe a dire che fin quando il poeta si porta sulle spalle la scala per ammirare l’universo, non dirà mai nulla nella Storia. Ecco la diplegia tra poeta e lettore..A questo punto i sostenitori della poesia omologata potranno sempre esporre le proprie ragioni e motivazioni a sostegno del loro fare poesia.Spesso nell’Ombra delle Parole si assiste a una estrema difesa delle emozioni, chissà perché ritenute essenziali. Allora ben si inquadrano alcuni versi di Milosz quando scrive:nella sua Sinfonia di Novembre: “Sarai vestito di viola pallido, incantevole dolore! E i fiori sul tuo cappello saranno piccoli e tristi”. E’ ciò che lapidariamente può succedere alla Vecchia Poesia che deve necessariamente cambiare rotta in questo nuovo secolo, altrimenti si fermano il Progresso,e la Civiltà della Cultura.

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      • Caro Mario,
        sono d’accordo con te, i poeti aspirano a cantare le albe, i tramonti, le stelle… tutte cose interessanti, non c’è che dire, però da un poeta vorremmo sapere qualcosa di più; anche le gambe di Nicol Minetti sono interessanti, per me addirittura molto belle… però credo che i lettori vorrebbero sapere qualcosa di più e di altro che non le gambe della Signora Minetti (rispettabile persona) o delle olgettine (rispettabili persone, ci mancherebbe!). Eppure, sembra incredibile, in questo paese sono considerati poeti chi si occupa delle gambe della Minetti e di altre consimili quisquilie. C’è qualcosa che non va, credo.

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  13. Pagina 41. Carlo Bordini:
    … sei simpatico, mi disse, anche se non stai morendo.

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  14. INDIRIZZATO AI POETI :
    hO LASCIATO STAMANE QUESTO COMMENTO SUL SITO DELLA RIVISTA http://WWW.PATRIALETTERATURA.COM

    cara Roberta Costanzo,
    mi rendo benissimo conto che in una epoca come la nostra a parlare della “morte” si rischia di venire additati al ridicolo; la poesia che si fa oggi in Italia, almeno a far luogo da “Satura” di Montale (1971), si occupa di quisquilie, di problemucci, del pettine, della borsetta Fendi, delle gambe di Nicol Minetti e di altre quisquilie, tutte, s’intende, importantissime perché fanno parte del nostro mondo. Però, ciò è anche un buon alibi per non affrontare in nessun modo il problema vero: quello della vita e della morte.

    In una famosa telefonata di Stalin a Pasternak, Stalin chiese se aveva qualcosa da dirgli a proposito della sorte di un certo poeta Osip Mandel’stam mandato dal dittatore in esilio in Siberia. Pasternak gli rispose non chiedendo apertamente la liberazione di Mandel’stam, ma dicendogli semplicemente che voleva incontrarlo “per parlargli della vita e della morte”, cioè mettendo il dittatore davanti alle proprie immense responsabilità.
    La telefonata si chiuse lì, il dittatore abbassò il ricevitore.

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  15. gino rago

    Luigi Celi è al servizio della poesia. La sua è una storia di “lunga fedeltà”.
    Con Linguaglossa e pochissimi altri, Luigi Celi sa che
    a guidare i giudizi non sono i ragionamenti ma sono le passioni e le emozioni estetiche… Dirgli “grazie” è perfino riduttivo ( Inclusioni, esclusioni, presenze, assenze…Sono state, sono, saranno materia inestricabile d’ogni Antologia) in ispecie quando egli si sofferma
    sul respiro e la cultura letteraria del curatore di “Come è finita
    la guerra di Troia non ricordo”.
    Gino Rago

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  16. è una delle poche antologie poetiche uscite in Italia che ha ragion d’essere, onorato di occuparne qualche pagina

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  17. SULLA PERDITA DELLA MEMORIA

    Mnemosyne, nella mitologia dell’antica Grecia è la personificazione della Memoria. Figlia di Urano e di Gaia, appartiene al gruppo delle Titanidi. La leggenda dice che dalla copula di nove giorni con Zeus, nacquero le nove Muse, che non sono soltanto le cantatrici divine, ma presiedono al Pensiero, in tutte le sue forme: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica, astronomia.
    Aristotele nel De memoria sostiene: «La memoria non è dunque né sensazione, né concetto, ma un certo possesso o affezione di queste ultime, quando interviene il tempo. Cosicché quelli che percepiscono il tempo sono gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]». La memoria ci riporta all’origine del pensiero occidentale, ovvero, alla filosofia greca. Platone è il primo filosofo a dare un posto centrale alla memoria con la dottrina della anamnesi, ovvero, della reminiscenza dell’anima che, stimolata dalle sensazioni si ricorderebbe delle idee eterne.

    Umberto Galimberti ci mette sull’avviso che per la scienza moderna «la memoria è la capacità di un organismo vivente di conservare tracce della propria esperienza passata e di servirsene per relazionarsi al mondo e agli eventi futuri… Non esiste un centro neuronale della memoria. La memoria non è localizzata in singole zone ma è piuttosto il risultato dell’interazione dell’intera attività corticale».

    Aristotele nel De memoria fu il primo pensatore ad osservare che la questione della memoria è strettamente collegata alla questione tempo e che gli uomini sono gli unici, tra gli animali, a poter esperire questo fatto. Quindi, ecco che la questione della «perdita della Memoria» che sottintende il titolo della Antologia «Come è finita la guerra di Troia non ricordo» è la spia della nostra condizione esistenziale ed esperienziale, di noi che abitiamo la contemporaneità.

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  18. Giuseppe Talia

    A proposito del recupero della memoria, nella casa d’estate, ogni mio ritorno è come se fosse un rientrare nel grembo materno, dei miei anni di nascita e formazione. Così, tra i libri che qui rimangono, ho ritrovato uno di Giulia Perroni, regolatomi da Giorgia Stecher, La Libertà Negata, edizioni il Ventaglio, 1986 con prefazione di Attilio Bertolucci.

    Ne riporto alcune

    *
    Ho una musica dentro
    che mi sboccia alle labbra,
    sale, dolce, senza merito alcuno,
    chi mi stampò il pettirosso
    fra le corde del cuore
    sa di me tante cose,
    che io appena conosco.

    *

    Chi fa un vaso di terracotta
    certamente non aspira all’immortalità,
    in umiltà dispone le sue dita,
    ma modellando
    impercettibilmente l’anima passa
    dalle sue mani alla creta;
    e se il vaso è bello
    su di lui canta eterna luce.

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  19. Lino

    Come è finita la guerra di Troia non ricordo? Strano: alcuni antologizzati c’erano!

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  20. guglielmo aprile

    Questo lavoro prova che i fondali della poesia italiana odierna sono scossi da onde sismiche e conati di rinnovamento, che é forse prematuro immaginare a quali sbocchi condurranno in un futuro più o meno prossimi, ma che sicuramente lasciano intravedere un orizzonte gravido di promesse, al di là della ricerca che ogni autore presentato persegue, con modi e attraverso forme irriducibilmente peculiari. Personalmente, non posso che essere grato a Giorgio, per l’infaticabile opera di ricognizione letteraria che ormai da tempo va conducendo, grazie alla quale ho goduto dell’opportunità di frequentare tante voci tra le più innovative e arricchenti della contemporaneità.

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  21. Guastatore

    La risposta antologica a Come è finita la guerra di Troia non ricordo del 2016 è l’ironica antologia A Troia vinse Patroclo del 2017, con frizzante Premessa del maestro Leopoldo Attolico e collaborazione di molti interessantissimi autori (https://www.ibs.it/a-troia-vinse-patroclo-libro-vari/e/9788899433598).

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