SULLA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI: L’ESTETICA DELLA DENUNCIA   – Commento di Antonio Sagredo. Parte I

alfredo de palchi

alfredo de palchi

Devo certo sottrarmi non alla biografia, ma alle tante biografie di Alfredo De Palchi, poi che per quanto mi riguarda potrei essere davvero distratto dal rilevamento degli aspetti più estetici dei suoi versi e delle arterie dei concetti e dei sensi che si diramano generando, tra molteplici e minuscoli labirinti, quel che definisco “l’estetica della denuncia”.
E non dico sublimazione della violenza, ma calibratura sanguigna delle parole per meglio centrare gli obiettivi – siano essi sociali, politici, ideologici, poetici, artistici, sensuali, d’amore per il femminino (come in Carnale Essenza e Foemina Tellus), ecc., e affondarvi dentro ciascuno di essi il proprio lucido stiletto.

Non mi sprecare nel tragitto:
ti sto accanto per ricostruirmi
struggendo con la testa graffiata di spine.

(dalla poesia Ultime, che dà il titolo alla raccolta omonima 2000-2005)

che è una risposta non velata e nemmeno rassegnata ad alcuni versi della poesia Essenza carnale del 1999:

Ancora mi insegni con la testa inchinata a sinistra
Con l’occhio bituminoso che scruta per una risposta
– non so rispondere.

(da Paradigma, 1950-2000)

alfredo de palchi in Italia, 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

 Sono questi due quadri: il primo in moto, il secondo è stasi.
E sono come l’alfa e omega del Poeta: tutta la sua vita, tutta la sua poesia, vita poetica o poetica vita sono come racchiusi in questo circolo speculare, anche quando la donna non ancora appariva come presenza fondante della sua materia di uomo-poeta; ma questa stessa materia vivente era già in subbuglio per eventi che escludevano, come dire, la Musa. Poi l’avvento della donna diviene per il poeta primario ed inestinguibile segnale delle prime fondamenta su cui costruirà la propria fortezza.
C’è nei primi tre versi come un tacito accordo tra la donna e l’uomo, e l’uomo qui ha sulla testa una corona di spine di un Cristo-vampiro bisognoso d’energia femminile (Maddalena) per rigenerarsi e di nuovo prendere le armi della parola e combattere. Ma se questi versi hanno per sfondo un rosso che segna un tragitto perché il sangue sia vivificante; i tre versi successivi invece si colorano del nerastro lenzuolo di occhi femminili – vigili e supplicanti una risposta – su cui poggia, di nuovo, la testa del poeta, che non sa rispondere.
La giovanile denuncia è graffiante e nel giovane poeta si ammanta subito d’estetica per i miti che gli indicano almeno una direzione: Villon, Rimbaud e Nerval e altri (che poi non saranno più sufficienti a contenere tutta la sua acrimonia!), ma tant’è che la conquista della propria autonomia comporta lo

sputo sui compagni che mi tradirono
e in me chi forse mi ricorda

(da Un’ossessione di mosche)

(la comprensiva raccolta La buia danza di scorpione, 1947-1951, include poesie tratte da: Il principio, Un’ossessione di mosche, Carnevale d’esilio, Il muro lustro d’aria)

 E questi sono i versi originari su cui poggerà tutta la sua azione e reazione : egli sa d’essere innocente e non importa a lui se gli altri lo credono colpevole: non è questo il punto, poi che già si è insinuata la santa e “alta malattia” (Pasternàk) che è la Poesia.
Non per nulla ogni capitolo s’apre con un verso-simbolo-segno di Villon come se fosse un contrappasso, ma ha più sapore di un refrain!
Il poeta De Palchi è consapevole d’essere stato investito di un potere che ha nel Verbum la manifestazione più mirabile che l’uomo possiede nella sua interiorità, e ancora una volta i suoi versi (e ve ne sono a decine tendenti al sublime) esprimono lo stacco tra il poeta e la plebaglia:

anch’io sono, io
mi credo
altri osserva che non sono –
com’è possibile
se sulla croce di tutti ulcerata
mi svuoto le gote
se circondato non c’è chi
mi disseti
solo chi impreca

(da Carnevale d’esilio)

E l’(auto) tortura, l’esilio da se stesso, la sofferenza immeritata fanno scattare il grido e la supplica, e allora non posso che accomunare il Cristo di De Palchi a quello di Majakovskij, benché come potete osservare tra i due non sono le ideologie a contare e a marchiare la persona, ma è altro e altrove (nel nome sempre della Poesia!) il significato che li presenzia sul palco di una recitazione che se non fosse vera sarebbe una tragica finzione:

“Sole!
Padre mio!
Almeno tu abbi pietà e non ti torturare!

È il mio sangue da te versato che si sparge per la valle terrena.

È la mia anima
come pezzi di una nuvola stracciata
nel cielo riarso
sulla croce arrugginita del campanile!
Tempo!
Almeno tu, sciancato imbratta-tele
impiastriccia il mio sembiante
nel reliquario del mostruoso secolo!
Io sono solo, come l’ultimo occhio
di un uomo che va verso i ciechi!.

(Majakovskij da Alcune parole su me stesso – 1913)

alfredo de palchi e roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

 In De Palchi si dipana in un misto di commiserazione e misericordia verso se stesso, la propria natura di uomo destinato alla sofferenza: la teologia e la cristologia è presente nel poeta fin dalla prima infanzia e paradossalmente si fa più acuta e vissuta perché non gli “mancava e non sentiva l’assenza” di un padre naturale: era amatissimo dalla famiglia, tant’è che il poeta dichiara: “Dovevo avere un padre?”. E se col tempo la teologia si muta in a-teologia: rifiuto di un Dio-Padre… mai visto e amato ; la cristologia è presente nei suoi versi con tutta l’afflizione che si porta dietro: Cristo è più volte menzionato, e difficilmente noi scorgiamo nei suoi versi allusioni blasfeme. Il figlio del padre è il poeta stesso! Il Poeta è dunque padre e figlio di se stesso!
Il poeta russo perse il genitore quand’era bambino, ne sente la mancanza e l’assenza anche se amato dalla madre e dalle sue sorelle; e fin da bambino fu attratto dalle icone, e tanto si immedesimò in quel Cristo iconografico, che ne vediamo e sentiamo il suo dolore in decine e decine dei suoi versi fino a identificarsi col Cristo stesso, e di questi prendersi fisicamente la responsabilità della sofferenza fino ad auto-torturarsi.
La figura del Cristo è dunque più vicina ai due poeti, e poi che umana e terrestre è più accessibile; mentre al contrario, e per entrambi, Dio-Padre Celeste, è troppo distante, per cui diviene l’unico bersaglio preferito del figlio. Il Padre Celeste non ascolta il figlio che si ribella, ma che gli urla in faccia:

io sono dovunque ci sia pena:
su ogni goccia di fluido lacrimale
ho crocefisso me stesso sulla croce.

(Majakovskij da La nuvola in calzoni -1914-15)
E De Palchi pare rispondergli:

e non dimentico
che nessuno mi ha crocefisso
se non io stesso

(da Anonymus Costellation, 1953-1973)
Non sono poi tanto dissimili: sia in questo auto-torturarsi, sia nel rapporto, almeno nel segno di una reazione rigeneratrice, contro il pubblico:

non c’è angolo dove nascondersi
i ghigni intorno mi ghermiscono

(da “Carnevale d’esilio”)

ma io sono:
“vivo! È bello vivere”

nonostante che
la morte medita perfezione

(da “Il muro lustro d’aria” in La buia danza di scorpione, 1947-1951)

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, claudia marini e luigi manzi - Roma, 2011

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, claudia marini e luigi manzi – Roma, 2011

 Dileggiati sono entrambi dalle masse (e tutti i poeti in rivolta lo sono); hanno più o meno la medesima età quando si impennano come un vessillo insanguinato: De Palchi per una colpa che non commise subisce torture fisiche che segano la mente; Majakovskij perché incompreso (altro genere di tortura che sfianca il cerebro) fino alla fine dei suoi giorni, e s’uccide sotto la sua stessa croce. Due identificazioni/immedesimazioni col Cristo (similari in tanti altri poeti), ma con finalità distinte e differenti. E questi due poeti hanno anche in comune un’arma: lo sputo… che ricevono e che restituiscono!

Ma adesso passiamo ad altro, altrimenti si rischia di impantanarsi tra le analogie e se ne resta invischiati per il fascino che emanano!
De Palchi non fugge mai, la fuga è lui stesso, la fuga è tale perché si realizza nella persona che l’accoglie con tutto quell’universalismo che la contiene e da cui è contenuto. È, dunque, la fuga un luogo chiuso, un cantuccio, un sottoscala oscuro e umido da cui si genera l’urlo che rintrona esponenziale dal fondo del vortice delle scale fin nel mondo esterno, come quello di Mandel’štam in quella Pietroburgo nera e torbida.

E la fuga è anche quel ponte di Hart Crane (compagno ideale per De Palchi, come tant’altri irregolari) che in apparenza è luogo vasto… quanto la sua arcata: suo limite ineludibile, e da cui

Si possono imparare —
questa scissione, questo bruciare,
ma solo da chi intenda
di nuovo consumarsi.

alfredo de palchi Paradigm-5 È la fuga che fa scolare il sangue in rivoli durante i tragitti verso i sobborghi inesplicabili di quelle città e metropoli immense e pestifere, che non sai se frequentate da vampiri o Moloch (A. Ginsberg), o semplicemente spazzature umanoidi che si aggirano tra patiboli di marcio legno e di carcasse approntate per finzioni di trionfi che acclamano chicchessia.
E tutti i poeti di per se, ovunque c’è una sofferenza, sono differenti testimonianze di viaggi compiuti e incompiuti, viaggi da camera, viaggi che non sopportano un minimo di cambiamento geografico, viaggi invisibili su sentieri e acciottolati impervi, viaggi insensati, viaggi solamente pensati e mai realizzati; e il peggiore dei viaggi è quello interrotto d’un tratto perché ti decolla il capitale della ragione: è quella stessa mentalità provinciale di un paesino qualsiasi che te la ritrovi in quella mela marcia metropolitana di New York, e

….a dito m’indica
la gente – hai ucciso –
mentre:
laggiù case strade uomini
la delinquenza onorata, volumi di leggi
la città informe, verme che si divora

(dal poemetto Ricordo del 1945 (1948) n. 9,)
[La raccolta Sessioni con l’analista racchiude gli anni dal 1948 al 1966, ma pubblicata nel 1967; e contiene il poemetto “Ricordo” del 1945 (1948) n. 9; “Reportage” del 1957, Bag of Flies -New York 1961, e Sessioni con l’analista 1964-1966].

Il passaggio è dunque avvenuto e tu speri a una fine della fuga anche sotto gli acquazzoni luminosi (“tutto è splendore che godo”) da cui speri nuova rinascenza; e intanto la forma della denuncia del verso si raffina nel nuovo mondo, e anche se sei già a New York e le tue visceri sono lacerate “per ricordi improvvisi”,… tu respiri, vedi e senti nuove desolazioni, e infine sei:

-al bar
strepito la mia ostilità: doppio whisky,
prego –

( Reportage, 1957)

e in te esplode quel sentimento che non controlli e che ti dà una sensazione di immane liberazione e, come un novello Dylan Thomas, il poeta Alfredo De Palchi (con la dovuta differenza che qui s’impone):

Se ne andava goffo deambulando la mal’anima,
come se il corpo una zavorra di terrori si portasse
dietro ratti, ischemie e pallori rossogonfi – per celebrare
sulle strade il suo etilico… precario guazzabuglio!

(Antonio Sagredo, Poesia dell’anno corrente, 2008)

e, anarcoide sublime, passeggiando dominato dalle altezze di cemento bituminoso, grida:

– amo il disordine
la violenza
l’annullamento delle autorità
religioni nazioni…

ma senti pure che la preistoria barbarica non s’allontanata per nulla dal tuo cerebro, perché:

pure discosto l’uomo d’oggi
paleolitico
è presenza che sbilancia –

(da Reportage, 1957)

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Una risposta a “SULLA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI: L’ESTETICA DELLA DENUNCIA   – Commento di Antonio Sagredo. Parte I

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