Daniele Santoro è nato nel 1972 a Salerno, dove si è laureato in Lettere classiche, e vive a Roma dove insegna. Suoi testi poetici e di critica sono stati pubblicati in varie riviste, tra cui «Studi Danteschi», «Erba d’Arno», «Sincronie», «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», «Caffè Michelangiolo», «La Mosca di Milano», «Il Monte Analogo», «Italian Poetry Review». Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Diario del disertore alle Termopili (Nuova Frontiera, Salerno, 2006); Sulla strada per Leobschütz (La Vita Felice, Milano, 2012).
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Un autore della generazione degli anni Settanta, il salernitano Daniele Santoro, parte dall’assunto che il referente esiste; ma c’è una differenza tra il reale «esterno» al linguaggio e quello «interno», e la referenzialità del linguaggio dinanzi al cosiddetto «reale» non è cosa così scontata come il senno sproblematizzato ci vorrebbe far intendere. Dopo Frege, Saussure, Derrida e Lacan sappiamo che la catena dei significanti si è autonomizzata in rapporto ai significati: di qui «l’arbitrarietà del segno». Il fondamento non garantisce più alcun vincolo del nesso referenziale: parliamo dello scarto del rapporto significante-significato: il
garante del fondamento (l’«io») ha cessato di essere il fondatore. La fondazione a priori di quel rapporto ha fatto fiasco. Il processo di significazione della poesia di Daniele Santoro adotta la categoria della dis-locazione del referente, parla di un «oggetto» lontano per parlare dell’«oggetto» del presente. Il soggetto diventa un luogo ermeneutico del significato di un «oggetto» lontano (nel tempo e nello spazio). Così, dare la parola ai morituri deportati nei campi di sterminio nazisti è un modo come un altro per far parlare l’impossibile, l’inaudito, un «oggetto» lontano per meglio parlare dell’«oggetto» presente. È un modo intelligente per mettere implicitamente in panni derisori la scena, il palcoscenico della finzione della poesia che ruota attorno alla pagliacceria dell’«io»: quale oggetto? Che cos’è l’oggetto? E perché proprio quell’oggetto che ruota come un pianeta attorno al sole dell’«io»? Il discorso poetico di Daniele Santoro restituisce la parola a coloro che sono stati interdetti, rimuove la lapide di una rimozione storica per restituire un «significato» alla storia degli uomini. È un discorso poetico liberale, nel senso che vuole liberare gli uomini dalla schiavitù della menzogna, per restituirli alla loro libertà: il discorso poetico diventa così una indagine sul «senso» del nostro divenire e sul «senso» di ciò che siamo diventati, sulla coscienza attuale dell’inautenticità generale. È un microscopio sulla identità dell’«oggetto». Perché e in che modo si costruisce un «valore»? Che significato ha la falsa coscienza di ciò che l’ideologia di una civiltà ha descritto come norma valoriale? Diario del disertore alle Termopili (2007) è un breve diario scritto in fretta da un disertore alla battaglia delle Termopili che commenta la falsa retorica e il falso racconto della storica battaglia avvenuta duemilaecinquecento anni fa tra spartani e persiani. È il discorso sulla «verità» il vero obiettivo del poeta salernitano, ripristinare la «verità» su eventi accaduti in un tempo lontano per guardare il mondo d’oggi. La seconda opera Sulla strada per Leobschütz (2012), ci consegna i discorsi dei (e sui) reietti, le vittime dell’Olocausto, come se fossero stati presi dal vivo mediante un registratore nascosto negli hangar:
voi non sapete un uomo che significhi / sfinito, sfilare nudo a passo militare / il piede congelato nel suo zoccolo di legno / malgrado la diarrea gli coli per le cosce / o gli dolorino i testicoli per un edema da digiuno // sfilare invece, addirittura correre / quando sarà il suo turno, non dimenticare / di togliersi il berretto, non guardarlo in faccia
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dillo che sei un filosofo, un intellettuale / e che sai a menadito Platone, Plotino, Porfirio / e che hai insegnato ad Heidelberg, a Friburgo. / La tua chiara presenza al campo ci lusinga / un corno, Professore, un fico secco /
delle tue irrefragabili elucubrazioni. / è bene che tu faccia un po’ esperienza / della realtà del mondo, di cosa lo governa / e di che è veramente fatta l’immanenza. / più convincente qui dei tuoi filosofami è il nerbo / di bue che stringe l’SS nelle mani / e il logos fa tremare, il nous, il nomos / e manda la tua metafisica a riposo.
Se il senso della poesia manca, manca la poesia il suo bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione del significato. La poesia esprime il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia della « nuova generazione» è appunto ricostruire una relazione tra il significato e il significante, ma in termini del tutto diversi rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nel tardo Novecento.
In un mondo in cui i rapporti umani sono diventati un problema tra gli esseri riprodotti come talismani magici e ridotti a vasi incomunicanti di un messaggio che è stato soppresso dalla prassi telemediatica, resta il problema di come sproblematizzare il problematico, e di come problematizzare ciò che è stato falsamente sproblematizzato; di come liberare le emozioni dalla cella dell’«io» che racchiude l’inautenticità generale del mondo dell’omogeneizzazione linguistica.*
*da Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) EdiLet, Roma, 2013 Societa Editrice Fiorentina pp. 150 € 14
Inediti da Triumphus feritatis
Aiace Oilèo
Aiace Oilèo violentò Cassandra
nel tempio del Palladio, sull’altare
così sfogò l’ebbrezza, il
fascino della conquista, rise
smodatamente rise, bestemmiò di cuore.
Poi delirante ancora imbambolata
in spalle se la mise, la mostrava
fenomeno da baraccone ai suoi soldati;
insomma consentì che ne abusassero
compreso il re Agamennone che se ne innamorò;
per questo Aiace lo prendeva in giro. Continua a leggere