Marisa Papa Ruggiero, scrittrice, artista verbo-visuale, (studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli, corsi post diploma di Graphic Design, di Pittura – Accademia Belle Arti e diploma di laurea), inizia il suo percorso poetico alla fine degli anni 80 affiancandolo alla sua attività pittorica e didattica negli Istituti superiori nella città di Napoli dove attualmente vive. In poesia esordisce con Terra emersa in L’assedio della poesia ed entra nella Redazione della Rivista di ricerca letteraria: Oltranza. Seguono, dal 1991 ad oggi i seguenti testi di poesia pubblicati con Ripostes, Guida, Manni, Puntoacapo: Limite interdetto,1993; Origine inversa,1995,premio Minturnae, con prefazione di Mariella Bettarini; Campo giroscopico, 1998, con prefazione di Michele Sovente; Persephonia, 2001 con prefazione di Mario Lunetta; Passaggi di confine, 2011, con prefazione di Mario Fresa; Di volo e di lava, con prefazione di Giancarlo Pontiggia, 2013. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde 2008, ed. Il Laboratorio di Nola introdotto da Stelio M. Martini; Il passaggio dei segni, ed. Socrate e alcuni libri in edizioni d’arte. Partecipa con opere grafiche e collages a varie esposizioni nel territorio non solo nazionale. Suoi testi poetici sono rappresentati come eventi teatrali e letture sceniche in siti archeologici. Collabora come redattrice, dal 1998, alla fondazione della rivista di linguaggi in movimento: Risvolti e dà inizio alla sua attività critica. Suoi testi critici, poetici e in prosa sono presenti in riviste italiane ed estere, (tra le altre: Hyria, Novilunio, Oltranza, Lettera Internazionale, Offerta speciale, Risvolti, L’area di Broca, Caffè Michelangiolo, Gradiva), in siti web e in blog letterari. Sue poesie sono apparse nella rivista “Poesia” e nelle seguenti raccolte antologiche: Progetto di curva e di volo, Laboratorio delle Arti; Per voci e per immagini, Spring edizioni; Ad hoc, Lagnes France; Locus solus, la babele capovolta, Ed. Riccardi; Paradossi visuali, Ed. Riccardi; Mundus, Valtrend Editore; Accenti, Società Dante Alighieri; Al di là del labirinto, Ed. L’arca felice; Alter ego, Poeti al Mann, Ed. art,m; I quaderni di Movimento Aperto, Tufano Editore; In forma di scritture. Ed. Riccardi; Forme liquide, De Comporre Edizioni; L’ora zero, ed. CFR, 2014. Attualmente è redattrice della rivista di poesia: Levania. – m.paparuggiero@gmail.com
Appunto dell’Autrice
Mi sono affidata a piani scenici modellati sulle necessità dell’immaginazione, tutti eccentrici rispetto all’asse narrativo. Ho lasciato, tuttavia, in vista alcuni riferimenti immediatamente riconoscibili, come ad esempio, la reggia giudaica, teatro di un evento biblico ben collocato nella casella mnemonica del sapere storico, sul cui fondale si proiettano delle stilizzazioni drammatiche allucinate che ostinatamente cercano di sgrovigliarsi dagli stereotipi di una iconografia fin troppo abusata in sede drammaturgica e filmica. Le due Presenze sulla scena, reali o rifratte, sono interiorizzazioni figurali di due sistemi antagonisti – logos ed eros – la cui unione, fatalmente, non potrebbe che condurre al dirottamento del corso del tempo sul quadrante storico… Inevitabile la scissione, definitiva, tra il mondo dei riti misterici della fecondità e dell’amore legati al culto della babilonese Ishtar incarnati dalla Danzatrice sacra, (è questa la mia personale visione della principessa giudaica, che ho voluto attirare in una zona densa di inquietudine e di pathos) e la potente autosufficienza del Pensiero nuovo, interprete di una Dottrina saldamente strutturata sull’ideologia patriarcale, e destinata a durare…
Il resto (quasi tutto) è fantasia onirica che appartiene solo alla scrittura.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Questo Poema, di cui presentiamo solo la prima parte, di Marisa Papa Ruggiero, si muove nell’ambito dei concetti dell’entrelacement e dell’aspettativa. Il primo consiste nella intromissione, nell’ambito di un ordito narrativo, di più personaggi o di più fili narrativi, ed è quindi un espediente retorico di origine narrativa; il secondo invece è più proprio dei testi poetici rispetto a quelli narrativi in quanto in essi l’intensificazione dell’attesa è un espediente irrinunciabile, di qui ne deriva la compressione spazio-temporale e lo sviluppo di un deteminato tipo di sintassi semanticamente attrezzata. In tale contesto stilematico hanno rilievo procedure come «lontananza», «profondità», «gradazione», «sfondo», oppure «ottica, «visuale», angolatura», «luce» ed un rimando metaforico a nozioni temporali come «previsione», o «possibilità di eventi», che lo rende strettamente affine al senso di «aspettativa».
Per converso, «aspettativa» – ad onta del significato squisitamente temporale – ha in comune con «prospettiva» un richiamo etimologico allo «sguardo» in quanto derivato diretto da ex-spectare; mentre il sinonimo di «attesa» da ad-tendere = tendere a, che discende dalla radice indoeuropea di ten, che contiene in sé l’idea di una dinamica contratta in un irrigidimento. Si profila a questo punto come lo stile di questo poemetto sia uno Spiegelspiel, un curioso «gioco di specchi» tra i due poli di questa oscillazione prospettiva/aspettativa, mediante i quali l’uno si costituisce attorno a coordinate spaziali e l’altro sembrerebbe procedere con un moto inverso ma simmetrico, da coordinate temporali a coordinate spaziali. Il risultato di queste forze conduttrici del testo è uno stile amalgama, che tende ad omogeneizzare e analogare (se mi si passa il termine) i contenuti lessicali e semantici di diversa provenienza.
Marisa Papa Ruggiero
Jochanaan
Questa fame di gravida serpe è scesa nuda in giardino
Ѐ qui dentro, in bave setose il respiro asmatico
che ha preso la mia forma: deve aver troppo
fissato lo scampanìo mortale
che imprigiona il caos sotto le ossa
e mi graffia in corpo una sinfonia eretica,
con dita scarlatte pizzica
corde complesse e già uno sciame
d’api rossastre alluna nel mio occhio
e congiunge i punti del Carro
mentre le Furie bambine altalenano
sulla grande Bilancia
che si specchia sui vetri come un fondo marino
siamo, vedi, oscillanti alghe al di là del vetro,
frutti strappati acerbi
sui futuri quadranti della lingua
che mi scavi di notte
e ogni notte a venire e te lo dico
rubando il verso alla cornacchia bianca (da me adottata)
te lo ridico in lingua oltremare e in fulgente cadmio
che ti viaggio sotto lo sterno e
ti lucido le squame (sono secoli che lo faccio)
un trono dentro ti addobbo di magenta e oro
*
Non guarderò la luna in cammino leccare
il ghigno sanguigno del parco, seguirò in bave setose
il taglio di luce oltrepassare la soglia
dove nulla è mai iniziato
e sarà un brillìo di zolfi incendiari ad aprire le danze,
sarà un murales sgargiante dove fummo travolti
da uno scatto di giro
e ci sorprese il già stato al punto infinito
dove sforammo, armati centauri, la linea gialla che taglia il confine
o dove inseguiti scagliammo
la prima lancia a Lascaux sul bisonte in corsa
e restammo nel coito conficcati tra le rocce
e lì stecchiti fossili trasparenti ambre
o più tardi, sgranati nel peso occultammo
tra le scogliere della lingua gl’indizi
del nostro passaggio sul graffito a parete
della Meridiana gigante precipitando
con ali di Icaro oltre la traiettoria segnata
per ritrovarci nella pelle blindata
di questo crocevia zodiacale
interdetto alla grazia
che ancora incendia la torre, lo stesso rivolo
di un rosso saturnino emula il sangue
della mannaia su cui s’adagia lo sguardo
ma già il fosfene incendiario fonde i cristalli
e la culla delle primizie cade ammutolita
al centro della danza …
in questa danza io esisto, io principio a morire
*
Il palco ruggisce un rosso-viola strisciante
nella coppa del cranio, io cerco …
io cerco fuori tempo l’azione!
Laceriamo uniti la fissità del copione
dove il sentiero si biforca, seguimi!
Che sia l’artiglio di un deus infero
o di un demon battesimale
inteso dalle mie leonesse come uno di loro!
Che divampi ritta nel sole
questa nascita eretica e ribelle!
Forzerò le facce del cubo coi denti, qualcosa so
della fioritura quando inscena se stessa
e asimmetrica serpeggia fra i tronchi,
queste nostre ombre lunghissime sulla mappa anfibia
della domanda
che corre in cerchi concentrici ignorando
l’insidia scritta nel cerchio più vecchio dove l’inizio crollò
nel punto esatto di fuga
e le prove sui nostri volti si sciolsero
coi colori dell’affresco nella Sala delle Sembianze
io cerco …
sotto la soglia acustica il fulgore! fuori campo l’azione!
contraggo il muso delle visioni, ed è già martirio …
dalle vesti annuso la follia che sale
come un cane annuso l’elica viperina
che s’attorce in danza … il mio regno
Jochanaan, il mio regno è
un parto della mente
che attende il compimento …
e già un po’ prima o al di sotto lo scatto
freme l’ora che ancora non c’è
ma da me vuole tutto!
Che sia sapiente contagio la tessitura dei corpi
dietro la soglia corticale,
come mercurio s’arrampica in vena
su per i lucernari dipinti
da cui a distanza guardiamo
per riconoscerci folli!
Di nascosto congiungo le otto punte stellari
tatuate sul ventre per disfarle ogn’istante
nelle opali tigrate dei tuoi occhi
che al sole sfavillano
tu, nel deserto nudo di questa scena!
ma il palco laggiù ringhia un’orgia di spezie
e scarica zolfo incendiario nella giugulare …
il palco è una forca eretica che la luna insanguina!
E’ fuori scena l’azione! Avvicinati!
Scandisci con me la morsa
di un turbine sotto la pelle, esplora
negli alveoli della carne
le coordinate algebriche di una sottile scrittura
in una formula essenziale!
Il mio regno non è
che uno scatto anomalo di rotazione
sul quadrante cosmico …
Insorge psichica l’anca sottile
da antichi papiri, ingravida semi di porpora
e spezie in danza sfiorando
da una sponda all’altra della mia nascita
geroglifici argillosi su tavolette vergini
in questa riva orientale
della luna rossa,
i sigilli sumeri della città luttuosa
impigliati alle ciglia,
i denti della notte sul mio seno
E’ una colonna che vedo
di lettere
che svetta in moto spiralico
ai limiti dell’equilibrio, non il corpo vedo
da questa fossa profetica pizzicando le corde
scontando la voce in pallore
in un letto di ortiche – la sfida
insonne cucita alla guancia –
sbattendo le ali in ampolla di vetro,
la preda nuova spiando alla soglia del secolo…
raggela, mio re, il sussulto
afono salire dai pori assetati
per conquistare il digiuno,
il tuo urlo sapiente di luce spinosa
scalato sui tasti gravi come crampi alle costole,
come un fardello d’ossa,
le tue note d’un refrain velenifero
dai virginei virgulti appesi alla cintola
come un cespo di bisce neonate
a frusta del corpo
ma il secchio torna vuoto dal pozzo
e le civette a quest’ora s’appostano a frotte
sulle istoriate vetrate dai folti riverberi
mentre tarme fameliche nidificano sulle nostre orme future
e la Morte regina ci precede di stanza in stanza…
ma nessun volo d’uccello vide
il giardino dei fiori strappati, deserta la vasca dei pesci
né la maschera di pelle umana ruotare sul piano …
(nessun uccello saprebbe dire chi in punta di piedi
nella penombra irrompe!)
Tra spore papaverine io sola follemente resisto
alle crepe ferrigne screziate di porpora,
resisto alle sagome ierodule dal freddo profumo
ma non alle azzurre tarantole all’aspide ebbro di luce
che insemina grani nel ventre,
ogni forma di questa pianta ho potato
perché esplodesse in danza:
il contagio stellare ti riverso a gocce!
*
Divoro, divoro in danza le mie radici che spaccano l’erba
tra lentischi assiderati affacciati agli inverni
in fondo alla sete che arrossa la fonte
a piedi nudi sui sassi, nel fiume salato
spingo a spirale le sfere sfogliando
il migrare del seme
Sapere …
quanto scavare, sapere quanto
per fissare nel masso il sigillo aureo
che resiste alle mani, ma tu
colma la coppa prima che il raggio
compia il suo giro, mi strazia
in aspro squilibrio la dualità dei nomi,
le nostre giunture scisse effigiate sul nulla,
i segni delle ferite lasciati accanto
*
Galoppiamo nella valle appena desta
ma siamo figure riflesse
su questa valle che si rivolta all’indietro come un foglio
o come un telo lasciato ad asciugare, fu lì
che l’idea si scisse alla forma
nella necropoli cranica
e nacquero spore furiose nella tribù degli uccelli impazziti
fu lì che gettai
sulla tavola il ferreo pendaglio
l’amuleto dai cunei sottili di un perso alfabeto:
il contrassegno tossico del mio scacco al re …
Lo gettai nel vento spingendo il galoppo
tra schizzi di fango sul viso
fino alla cella blindata varcando il fossato
gli stretti cancelli come steli di
tenebra con dita scarlatte io non posso
fermare la danza!
La tagliola sull’erba ha la luna tra i denti:
è questo il punto in cui il sentiero bicorne s’affaccia
ed io getto la pigna accesa nel braciere delle spezie
come un colpo di dadi e scarto
il re di stagno – voglio
un riparo, lo voglio nei tuoi alfabeti
infreddoliti come un regno flessibile
raccolto nel palmo, altrove
grida ulcerate silenziano il soffio:
qualcuno bara ai dadi e il dipintore folle di là
ha già annegato i corpi nella biacca
mentre il nano col muso schiacciato sui vetri
ci fissa con palpebre etrusche
e già l’orto sbrina sul telone delle maschere
su questa sponda orientale del Mar Rosso
e il rospo tonfa nella tavolozza di un verde acquitrino
come un franare di note, di raschi e scrosci
Dammi notizia se puoi delle stelle
Tu sai che è adesso, è ora che accade
Puoi guardare giunchi ed arpeggi arcuare
la torre spiralica attorno al mio asse!
e di poco in poco oscilla si torce
dalla sala degli arredi alle fornaci per il cibo,
così restringo il tortile giro e ancora restringo
sulle tue nudità le mie spire, tu
rivolta le note fino a farle saltare!
rovescia il buio in azzardo, divoralo!
in ogni vena il mercurio sale veloce
puoi spiare
il resto di noi appeso alle dita,
su noi si voltano vertiginose le pagine
su noi deragliano:
ogni pagina sfoglia una risacca d’anni …
Ecco mio re i quanti sismici del mio seme
fusi al tuo raggio gamma
in stereofonia cosmica!
Venni a sfamarti, accostati!
venni col corno ricurvo e la regalità del djembé africano
venni con balsami d’erbe e cristalli di rocca
lo spettro dei colori in ogni dito,
venni coi miei arnesi di tortura, tu alzati!
Gridali nell’amplesso i miei nomi, toccali!
In rosso cinabro ti narro
l’azzardo dei veli svettanti di prua
sulla torre babelica mentre segna le sue lunazioni
dei semi e delle maree:
questa danza è come olio dato alle torce
sulla casa oscura-solare della feconda Ishtar,
tu seguimi nella città di Uruk,
t’invio vene aurifere da bere, datteri appena colti
sciami d’ali dorate per la semina e
tenebra
*
Ossidi di rame nella fornace disciolsi
d’una sentenza già scritta, già scontata
mentre il piano d’uscita traghettava figure
fatte d’altro elemento
che non ci somiglia
in questa sacca asmatica di tempo,
in finto marmo effigiati nei cortili patrizi
decapitati
ma io so che la tua guancia destra
non è ancora emersa dal mio pennello!
fiato e pelle, preda di strazi
di me faccio ascolto cogli occhi, da qui
a morsi esploro il contagio squamoso
tatuato alla nuca, questa castità
oscena come rettile anfibio che stringo
alle cosce che spruzza veleno negli occhi
e ancora s’aggrappa alla cresta di scoglio
l’uccello senz’ali dal canto strappato, io credo
solo allo spasmo
affamato di bestia che spinge da dentro
che scorre col sangue
a cui tendo a conca la mano
scuoiata, eccola è qui
l’allucinata orchestra che raggela
la forma
che spacca i cristalli
che fa ringhiera al vento in tutte
le peregrinazioni di animale indocile
e sveglia ad uno ad uno i miei molossi urlanti
tra le coltri di sabbia…
ecco il telo impigliato ai cancelli
che il vento furiosamente torce
incessante forma
smottata dentro –
ecco l’asprigno bruciapapille del gelso nero
dove s’intrecciano le sinapsi elettriche
del furore e della
malia
Se di te invoco l’essenza dove non so cercare
mi colmo di schegge e aghi ricurvi
sotto i pergolati arabi o tra i ginepri orientali,
ci fa duali
lo scandalo di opposti pesi
nel cavo delle vertebre che spingono al volo
e nell’artiglio non resta che strappo
amputato del nome
ma si doveva, con nottambule dita
filare di bave i segni,
rovesciare i cunei di una spenta scrittura
in un’equazione folle…
si doveva pestare grani sapienti
nel mortaio sfondato, aspirarne le polveri
succhiarne l’orrore fino all’osso, fino
all’innocenza …
si doveva
toccare il sangue …
e rivedo le mie mani sventrare
l’uccello dal piumaggio imperiale
catturato sui monti d’Orione
dove cedo su ogni pietra viva una gemma,
ove un raggio stellare ammicca
in punta d’archetto e disincarna
la danza delle mie spoliazioni perché io sia
sacralmente nuda sul ciglio del sentiero
come un vagito o una resa,
calda spiga…
*
Sui parati a losanghe siamo figure
sovrimpresse che fumano
da un narghilè dipinto
ma tu guardi da un punto strabico
della tastiera
sorpreso da uno sfolgorio di lama riflesso nel mio occhio
che è l’identico composto chimico
del tuo cristallino
rubato al lampo che serpeggia nella stanza
dove mastichiamo foglie di the arabo
e fumiamo intrecciati al fumo
delle nostre sembianze incise a puntasecca
sui parati a losanghe…
*
Chi detiene il protocollo delle attese perdute
il sillabare freddo nel circolo linfatico?
In questa cruna passi, in rughe in screzi, ramifichi
rampicante malato ad accerchiare
sotto l’unghia una torva misura,
io con la lingua il fango ti scrollo dai neri capelli
dal corpo esile il manto di capra:
questa fame, Jochanaan, questa fame è
appendersi ai suoni!
è lasciar cadere gli oggetti perdere peso assottigliarsi sfinire
è disfarsi, disfarsi del calcio delle vertebre,
veder sciogliere il nome in combustione lenta
Questa fame, Jochanaan, è
un lento spogliarsi …
è entrare di stanza in stanza in punta di piedi dove
non fummo mai stati