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POEMA di Marisa Papa Ruggiero “Jochanaan” con un Appunto dell’Autrice ed un Commento di Giorgio Linguaglossa

Ritratto del dio greco antico della luce, Apollo.

Ritratto del dio del greco antico di luce, Apollo.

Marisa Papa Ruggiero, scrittrice, artista verbo-visuale, (studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli, corsi post diploma di Graphic Design, di Pittura – Accademia Belle Arti e diploma di laurea), inizia il suo percorso poetico alla fine degli anni 80 affiancandolo alla sua attività pittorica e didattica negli Istituti superiori nella città di Napoli dove attualmente vive. In poesia esordisce con Terra emersa in L’assedio della poesia ed entra nella Redazione della Rivista di ricerca letteraria: Oltranza. Seguono, dal 1991 ad oggi i seguenti testi di poesia pubblicati con Ripostes, Guida, Manni, Puntoacapo: Limite interdetto,1993; Origine inversa,1995,premio Minturnae, con prefazione di Mariella Bettarini; Campo giroscopico, 1998, con prefazione di Michele Sovente; Persephonia, 2001 con prefazione di Mario Lunetta; Passaggi di confine, 2011, con prefazione di Mario Fresa; Di volo e di lava, con prefazione di Giancarlo Pontiggia, 2013. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde 2008, ed. Il Laboratorio di Nola introdotto da Stelio M. Martini; Il passaggio dei segni, ed. Socrate e alcuni libri in edizioni d’arte. Partecipa con opere grafiche e collages a varie esposizioni nel territorio non solo nazionale. Suoi testi poetici sono rappresentati come eventi teatrali e letture sceniche in siti archeologici. Collabora come redattrice, dal 1998, alla fondazione della rivista di linguaggi in movimento: Risvolti e dà inizio alla sua attività critica. Suoi testi critici, poetici e in prosa sono presenti in riviste italiane ed estere, (tra le altre: Hyria, Novilunio, Oltranza, Lettera Internazionale, Offerta speciale, Risvolti, L’area di Broca, Caffè Michelangiolo, Gradiva), in siti web e in blog letterari. Sue poesie sono apparse nella rivista “Poesia” e nelle seguenti raccolte antologiche: Progetto di curva e di volo, Laboratorio delle Arti; Per voci e per immagini, Spring edizioni; Ad hoc, Lagnes France; Locus solus, la babele capovolta, Ed. Riccardi; Paradossi visuali, Ed. Riccardi; Mundus, Valtrend Editore; Accenti, Società Dante Alighieri; Al di là del labirinto, Ed. L’arca felice; Alter ego, Poeti al Mann, Ed. art,m; I quaderni di Movimento Aperto, Tufano Editore; In forma di scritture. Ed. Riccardi; Forme liquide, De Comporre Edizioni; L’ora zero, ed. CFR, 2014. Attualmente è redattrice della rivista di poesia: Levania. – m.paparuggiero@gmail.com

Appunto dell’Autrice

Mi sono affidata a piani scenici modellati sulle necessità dell’immaginazione, tutti eccentrici rispetto all’asse narrativo. Ho lasciato, tuttavia, in vista alcuni riferimenti immediatamente riconoscibili, come ad esempio, la reggia giudaica, teatro di un evento biblico ben collocato nella casella mnemonica del sapere storico, sul cui fondale si proiettano delle stilizzazioni drammatiche allucinate che ostinatamente cercano di sgrovigliarsi dagli stereotipi di una iconografia fin troppo abusata in sede drammaturgica e filmica. Le due Presenze sulla scena, reali o rifratte, sono interiorizzazioni figurali di due sistemi antagonisti – logos ed eros – la cui unione, fatalmente, non potrebbe che condurre al dirottamento del corso del tempo sul quadrante storico… Inevitabile la scissione, definitiva, tra il mondo dei riti misterici della fecondità e dell’amore legati al culto della babilonese Ishtar incarnati dalla Danzatrice sacra, (è questa la mia personale visione della principessa giudaica, che ho voluto attirare in una zona densa di inquietudine e di pathos) e la potente autosufficienza del Pensiero nuovo, interprete di una Dottrina saldamente strutturata sull’ideologia patriarcale, e destinata a durare…
Il resto (quasi tutto) è fantasia onirica che appartiene solo alla scrittura.

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

Commento di Giorgio Linguaglossa

Questo Poema, di cui presentiamo solo la prima parte, di Marisa Papa Ruggiero, si muove nell’ambito dei concetti dell’entrelacement e dell’aspettativa. Il primo consiste nella intromissione, nell’ambito di un ordito narrativo, di più personaggi o di più fili narrativi, ed è quindi un espediente retorico di origine narrativa; il secondo invece è più proprio dei testi poetici rispetto a quelli narrativi in quanto in essi l’intensificazione dell’attesa è un espediente irrinunciabile, di qui ne deriva la compressione spazio-temporale e lo sviluppo di un deteminato tipo di sintassi semanticamente attrezzata. In tale contesto stilematico hanno rilievo procedure come «lontananza», «profondità», «gradazione», «sfondo», oppure «ottica, «visuale», angolatura», «luce» ed un rimando metaforico a nozioni temporali come «previsione», o «possibilità di eventi», che lo rende strettamente affine al senso di «aspettativa».
Per converso, «aspettativa» – ad onta del significato squisitamente temporale – ha in comune con «prospettiva» un richiamo etimologico allo «sguardo» in quanto derivato diretto da ex-spectare; mentre il sinonimo di «attesa» da ad-tendere = tendere a, che discende dalla radice indoeuropea di ten, che contiene in sé l’idea di una dinamica contratta in un irrigidimento. Si profila a questo punto come lo stile di questo poemetto sia uno Spiegelspiel, un curioso «gioco di specchi» tra i due poli di questa oscillazione prospettiva/aspettativa, mediante i quali l’uno si costituisce attorno a coordinate spaziali e l’altro sembrerebbe procedere con un moto inverso ma simmetrico, da coordinate temporali a coordinate spaziali. Il risultato di queste forze conduttrici del testo è uno stile amalgama, che tende ad omogeneizzare e analogare (se mi si passa il termine) i contenuti lessicali e semantici di diversa provenienza.

de chirico ettore e andromaca particolare

de chirico ettore e andromaca particolare

Marisa Papa Ruggiero

Jochanaan

Questa fame di gravida serpe è scesa nuda in giardino
Ѐ qui dentro, in bave setose il respiro asmatico
che ha preso la mia forma: deve aver troppo
fissato lo scampanìo mortale
che imprigiona il caos sotto le ossa
e mi graffia in corpo una sinfonia eretica,
con dita scarlatte pizzica
corde complesse e già uno sciame
d’api rossastre alluna nel mio occhio

e congiunge i punti del Carro
mentre le Furie bambine altalenano
sulla grande Bilancia
che si specchia sui vetri come un fondo marino
siamo, vedi, oscillanti alghe al di là del vetro,
frutti strappati acerbi
sui futuri quadranti della lingua
che mi scavi di notte
e ogni notte a venire e te lo dico
rubando il verso alla cornacchia bianca (da me adottata)
te lo ridico in lingua oltremare e in fulgente cadmio
che ti viaggio sotto lo sterno e
ti lucido le squame (sono secoli che lo faccio)
un trono dentro ti addobbo di magenta e oro
*
Non guarderò la luna in cammino leccare
il ghigno sanguigno del parco, seguirò in bave setose
il taglio di luce oltrepassare la soglia
dove nulla è mai iniziato
e sarà un brillìo di zolfi incendiari ad aprire le danze,
sarà un murales sgargiante dove fummo travolti
da uno scatto di giro
e ci sorprese il già stato al punto infinito
dove sforammo, armati centauri, la linea gialla che taglia il confine
o dove inseguiti scagliammo

la prima lancia a Lascaux sul bisonte in corsa
e restammo nel coito conficcati tra le rocce
e lì stecchiti fossili trasparenti ambre
o più tardi, sgranati nel peso occultammo
tra le scogliere della lingua gl’indizi
del nostro passaggio sul graffito a parete
della Meridiana gigante precipitando
con ali di Icaro oltre la traiettoria segnata

per ritrovarci nella pelle blindata
di questo crocevia zodiacale
interdetto alla grazia
che ancora incendia la torre, lo stesso rivolo
di un rosso saturnino emula il sangue

della mannaia su cui s’adagia lo sguardo
ma già il fosfene incendiario fonde i cristalli
e la culla delle primizie cade ammutolita
al centro della danza …
in questa danza io esisto, io principio a morire
*
Il palco ruggisce un rosso-viola strisciante
nella coppa del cranio, io cerco …
io cerco fuori tempo l’azione!
Laceriamo uniti la fissità del copione
dove il sentiero si biforca, seguimi!
Che sia l’artiglio di un deus infero
o di un demon battesimale
inteso dalle mie leonesse come uno di loro!
Che divampi ritta nel sole
questa nascita eretica e ribelle!
Forzerò le facce del cubo coi denti, qualcosa so
della fioritura quando inscena se stessa
e asimmetrica serpeggia fra i tronchi,
queste nostre ombre lunghissime sulla mappa anfibia
della domanda
che corre in cerchi concentrici ignorando
l’insidia scritta nel cerchio più vecchio dove l’inizio crollò
nel punto esatto di fuga
e le prove sui nostri volti si sciolsero
coi colori dell’affresco nella Sala delle Sembianze
io cerco …
sotto la soglia acustica il fulgore! fuori campo l’azione!

contraggo il muso delle visioni, ed è già martirio …
dalle vesti annuso la follia che sale
come un cane annuso l’elica viperina
che s’attorce in danza … il mio regno
Jochanaan, il mio regno è
un parto della mente
che attende il compimento …
e già un po’ prima o al di sotto lo scatto
freme l’ora che ancora non c’è
ma da me vuole tutto!
Che sia sapiente contagio la tessitura dei corpi
dietro la soglia corticale,
come mercurio s’arrampica in vena
su per i lucernari dipinti
da cui a distanza guardiamo
per riconoscerci folli!
Di nascosto congiungo le otto punte stellari
tatuate sul ventre per disfarle ogn’istante
nelle opali tigrate dei tuoi occhi
che al sole sfavillano

tu, nel deserto nudo di questa scena!

ma il palco laggiù ringhia un’orgia di spezie
e scarica zolfo incendiario nella giugulare …
il palco è una forca eretica che la luna insanguina!

E’ fuori scena l’azione! Avvicinati!
Scandisci con me la morsa
di un turbine sotto la pelle, esplora
negli alveoli della carne
le coordinate algebriche di una sottile scrittura
in una formula essenziale!

Il mio regno non è
che uno scatto anomalo di rotazione
sul quadrante cosmico …
Insorge psichica l’anca sottile
da antichi papiri, ingravida semi di porpora
e spezie in danza sfiorando
da una sponda all’altra della mia nascita
geroglifici argillosi su tavolette vergini
in questa riva orientale
della luna rossa,
i sigilli sumeri della città luttuosa
impigliati alle ciglia,
i denti della notte sul mio seno

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

E’ una colonna che vedo
di lettere
che svetta in moto spiralico
ai limiti dell’equilibrio, non il corpo vedo
da questa fossa profetica pizzicando le corde
scontando la voce in pallore
in un letto di ortiche – la sfida
insonne cucita alla guancia –
sbattendo le ali in ampolla di vetro,
la preda nuova spiando alla soglia del secolo…
raggela, mio re, il sussulto

afono salire dai pori assetati
per conquistare il digiuno,
il tuo urlo sapiente di luce spinosa
scalato sui tasti gravi come crampi alle costole,
come un fardello d’ossa,
le tue note d’un refrain velenifero
dai virginei virgulti appesi alla cintola
come un cespo di bisce neonate
a frusta del corpo
ma il secchio torna vuoto dal pozzo
e le civette a quest’ora s’appostano a frotte
sulle istoriate vetrate dai folti riverberi
mentre tarme fameliche nidificano sulle nostre orme future
e la Morte regina ci precede di stanza in stanza…

ma nessun volo d’uccello vide
il giardino dei fiori strappati, deserta la vasca dei pesci
né la maschera di pelle umana ruotare sul piano …
(nessun uccello saprebbe dire chi in punta di piedi
nella penombra irrompe!)
Tra spore papaverine io sola follemente resisto
alle crepe ferrigne screziate di porpora,
resisto alle sagome ierodule dal freddo profumo
ma non alle azzurre tarantole all’aspide ebbro di luce
che insemina grani nel ventre,
ogni forma di questa pianta ho potato
perché esplodesse in danza:
il contagio stellare ti riverso a gocce!
*
Divoro, divoro in danza le mie radici che spaccano l’erba
tra lentischi assiderati affacciati agli inverni
in fondo alla sete che arrossa la fonte
a piedi nudi sui sassi, nel fiume salato
spingo a spirale le sfere sfogliando
il migrare del seme
Sapere …
quanto scavare, sapere quanto
per fissare nel masso il sigillo aureo
che resiste alle mani, ma tu
colma la coppa prima che il raggio

compia il suo giro, mi strazia
in aspro squilibrio la dualità dei nomi,
le nostre giunture scisse effigiate sul nulla,
i segni delle ferite lasciati accanto
*
Galoppiamo nella valle appena desta
ma siamo figure riflesse
su questa valle che si rivolta all’indietro come un foglio
o come un telo lasciato ad asciugare, fu lì
che l’idea si scisse alla forma
nella necropoli cranica
e nacquero spore furiose nella tribù degli uccelli impazziti
fu lì che gettai
sulla tavola il ferreo pendaglio
l’amuleto dai cunei sottili di un perso alfabeto:
il contrassegno tossico del mio scacco al re …
Lo gettai nel vento spingendo il galoppo
tra schizzi di fango sul viso
fino alla cella blindata varcando il fossato
gli stretti cancelli come steli di
tenebra con dita scarlatte io non posso
fermare la danza!

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

La tagliola sull’erba ha la luna tra i denti:
è questo il punto in cui il sentiero bicorne s’affaccia
ed io getto la pigna accesa nel braciere delle spezie
come un colpo di dadi e scarto
il re di stagno – voglio
un riparo, lo voglio nei tuoi alfabeti
infreddoliti come un regno flessibile
raccolto nel palmo, altrove
grida ulcerate silenziano il soffio:
qualcuno bara ai dadi e il dipintore folle di là
ha già annegato i corpi nella biacca
mentre il nano col muso schiacciato sui vetri
ci fissa con palpebre etrusche
e già l’orto sbrina sul telone delle maschere
su questa sponda orientale del Mar Rosso
e il rospo tonfa nella tavolozza di un verde acquitrino
come un franare di note, di raschi e scrosci

Dammi notizia se puoi delle stelle

Tu sai che è adesso, è ora che accade
Puoi guardare giunchi ed arpeggi arcuare
la torre spiralica attorno al mio asse!
e di poco in poco oscilla si torce
dalla sala degli arredi alle fornaci per il cibo,
così restringo il tortile giro e ancora restringo
sulle tue nudità le mie spire, tu
rivolta le note fino a farle saltare!
rovescia il buio in azzardo, divoralo!
in ogni vena il mercurio sale veloce
puoi spiare
il resto di noi appeso alle dita,
su noi si voltano vertiginose le pagine
su noi deragliano:
ogni pagina sfoglia una risacca d’anni …

Ecco mio re i quanti sismici del mio seme
fusi al tuo raggio gamma
in stereofonia cosmica!

Venni a sfamarti, accostati!
venni col corno ricurvo e la regalità del djembé africano
venni con balsami d’erbe e cristalli di rocca
lo spettro dei colori in ogni dito,
venni coi miei arnesi di tortura, tu alzati!

Gridali nell’amplesso i miei nomi, toccali!
In rosso cinabro ti narro
l’azzardo dei veli svettanti di prua
sulla torre babelica mentre segna le sue lunazioni
dei semi e delle maree:
questa danza è come olio dato alle torce
sulla casa oscura-solare della feconda Ishtar,
tu seguimi nella città di Uruk,
t’invio vene aurifere da bere, datteri appena colti
sciami d’ali dorate per la semina e
tenebra

*

Ossidi di rame nella fornace disciolsi
d’una sentenza già scritta, già scontata
mentre il piano d’uscita traghettava figure
fatte d’altro elemento
che non ci somiglia
in questa sacca asmatica di tempo,
in finto marmo effigiati nei cortili patrizi
decapitati
ma io so che la tua guancia destra
non è ancora emersa dal mio pennello!

fiato e pelle, preda di strazi
di me faccio ascolto cogli occhi, da qui
a morsi esploro il contagio squamoso
tatuato alla nuca, questa castità
oscena come rettile anfibio che stringo
alle cosce che spruzza veleno negli occhi

e ancora s’aggrappa alla cresta di scoglio
l’uccello senz’ali dal canto strappato, io credo

solo allo spasmo
affamato di bestia che spinge da dentro
che scorre col sangue
a cui tendo a conca la mano
scuoiata, eccola è qui
l’allucinata orchestra che raggela
la forma
che spacca i cristalli
che fa ringhiera al vento in tutte
le peregrinazioni di animale indocile
e sveglia ad uno ad uno i miei molossi urlanti
tra le coltri di sabbia…

ecco il telo impigliato ai cancelli
che il vento furiosamente torce
incessante forma
smottata dentro –
ecco l’asprigno bruciapapille del gelso nero
dove s’intrecciano le sinapsi elettriche
del furore e della
malia

marisa papa ruggiero passaggidiconfine

Se di te invoco l’essenza dove non so cercare
mi colmo di schegge e aghi ricurvi
sotto i pergolati arabi o tra i ginepri orientali,
ci fa duali
lo scandalo di opposti pesi
nel cavo delle vertebre che spingono al volo
e nell’artiglio non resta che strappo
amputato del nome
ma si doveva, con nottambule dita

filare di bave i segni,
rovesciare i cunei di una spenta scrittura
in un’equazione folle…
si doveva pestare grani sapienti
nel mortaio sfondato, aspirarne le polveri
succhiarne l’orrore fino all’osso, fino
all’innocenza …
si doveva
toccare il sangue …

e rivedo le mie mani sventrare
l’uccello dal piumaggio imperiale
catturato sui monti d’Orione
dove cedo su ogni pietra viva una gemma,
ove un raggio stellare ammicca
in punta d’archetto e disincarna
la danza delle mie spoliazioni perché io sia
sacralmente nuda sul ciglio del sentiero
come un vagito o una resa,
calda spiga…

*

Sui parati a losanghe siamo figure
sovrimpresse che fumano
da un narghilè dipinto
ma tu guardi da un punto strabico
della tastiera
sorpreso da uno sfolgorio di lama riflesso nel mio occhio
che è l’identico composto chimico
del tuo cristallino
rubato al lampo che serpeggia nella stanza
dove mastichiamo foglie di the arabo
e fumiamo intrecciati al fumo
delle nostre sembianze incise a puntasecca
sui parati a losanghe…

*

Chi detiene il protocollo delle attese perdute
il sillabare freddo nel circolo linfatico?
In questa cruna passi, in rughe in screzi, ramifichi
rampicante malato ad accerchiare
sotto l’unghia una torva misura,
io con la lingua il fango ti scrollo dai neri capelli
dal corpo esile il manto di capra:
questa fame, Jochanaan, questa fame è

appendersi ai suoni!
è lasciar cadere gli oggetti perdere peso assottigliarsi sfinire
è disfarsi, disfarsi del calcio delle vertebre,
veder sciogliere il nome in combustione lenta
Questa fame, Jochanaan, è
un lento spogliarsi …
è entrare di stanza in stanza in punta di piedi dove
non fummo mai stati

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Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Post-meridionalismo Il 16 aprile, a Roma la presentazione della Antologia “Il rumore delle parole.  Poeti del Sud” (EdiLet, 2015) interventi di Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa

Antologia Il rumore delle parole (2)La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa.

Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone. Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili. Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica». Il critico ha proseguito accennando alla attuale «stagnazione del panorama editoriale»  per via delle cointeressenze che attraversano il mondo dell’editoria le cui coordinate editoriali sono dettate dagli Uffici stampa. Cesare Pavese o Vittorio Sereni si muovevano in un diverso assetto editoriale e culturale, non avrebbero mai accettato una situazione come quella odierna. I criteri di selezione dell’Antologia sono stati altri, si sono individuati gli autori in base a  criteri meramente estetici.
Sia Letizia Leone che Giorgio Linguaglossa hanno poi inquadrato la poesia del Sud, come anche quella del Nord nell’ambito della crisi dell’ontologia che è avvenuta nel tardo Novecento.

Altra categoria entrata in crisi, a detta dei presentatori, è la categoria del «nuovo». La poesia è piuttosto da considerarsi come un evento (Ereignis) che capita nel tempo e nello spazio e che si situa nell’intersezione tra due coordinate, che abita un preciso punto dello spazio, del tempo e della storia; una volta avvenuto, l’evento cambia la dimensione, si aprono nuove e inedite prospettive. I critici si sono soffermati su un punto in particolare che contraddistingue la poesia del nostro tempo: gli autori dell’Antologia non si pongono più come seguaci di una ideologia, di un canone, di un modo di scrittura ma aderiscono ad una visione centrifuga e periferica assieme, assumono punti di vista assai distanti gli uni dagli altri e stili di scrittura assai differenti.
Altro elemento invariante rilevato dai critici è  che nessuno degli Autori presenti nella Antologia può esser considerato un epigono del minimalismo italiano così come si è configurato negli ultimi decenni del Novecento. In tale accezione gli stilemi del minimalismo sono stati assunti e fusi insieme ad esperienze stilistiche e culturali le più diverse. Sia Linguaglossa che Letizia Leone hanno sottolineato gli sforzi degli Autori di procedere verso un diverso modo di convocare le cose e gli oggetti in poesia, insomma, di chiamare le cose col proprio nome anche se in poesia non è poi così scontato che i risultati estetici seguano meccanicisticamente alle premesse, il nodo centrale è che le parole vanno messe dentro una qualche tradizione linguistica e stilistica, hanno vita soltanto in una tradizione ma laddove questa manca o accusa un periodo di «latenza», anche la poesia che si tenterà di fare accuserà il colpo; ma se la poesia diventa consapevole di questo nesso storico-estetico, allora la poesia del Sud potrà assumere in tale orizzonte culturale un ruolo significativo e propulsivo.

Letizia Leone ha infine definito interessante e valido il discorso sul rapporto poesia filosofia riportato nell’introduzione al volume in questione, ed ha accennato alla connessione interna tra i due poli. In tal senso Linguaglossa, ha detto la Leone, conferma la sua vocazione militante, una sorta di rabdomante alla ricerca delle falde poetiche (del Sud).
La Leone ha poi accennato alla lucidità ermeneutica e di diagnosi indispensabile per mettersi sulle tracce di quel sentiero della Linea meridionale di poesia individuata negli anni Cinquanta da Contini, Quasimodo, Gatto… da una terra appenninica da cui si va in esilio, una terra di emigrati e sradicati, da Scotellaro a Calogero.
Quasimodo auspicava una Carta poetica del sud nel 1953, cosa interessante per testare la distanza da una situazione odierna che vede autori meridionali del Novecento come Bufalino Sciascia Ortese Serao spesso dimenticati dai programmi scolastici, con danni inestimabili verso un ingente patrimonio spirituale e artistico del nostro paese.
L’articolazione  geodetica e geopoetica,  sia la latitudine che la longitudine, “colloca” il linguaggio poetico (Brodskij) nell’ambito della storia e contribuisce a cambiare la Lingua e il linguaggio poetico.
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo.

Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica.
Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito  parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che  Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica. Così, la figura del poeta è ragguagliabile a quella di un esiliato, il poeta è un de-territorializzato, de-istituisce più che istituire qualcosa, s-fonda più che fondare quella cosa che chiamiamo la Lingua poetica; gli Autori accomunati nell’Antologia sembrano voler quantomeno invertire questa tendenza, vogliono recuperare l’esercizio del pensiero, sentono di abitare un senso della storia dove la parola poetica è dolore della mancanza della parola; a tal proposito la Leone ricorda Quasimodo il quale ricordava che la nascita di un poeta è sempre un atto di disordine.
Al termine della presentazione critica è seguito il reading degli Autori presenti in sala: Gino Rago, Daniele Santoro, Silvana Palazzo,  Marisa Papa Ruggiero, Michele Arcangelo Firinu, Marco Onofrio, Raffaello Utzeri, Giulia Perroni.

A.F.

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile Gino Rago

Fuis 16 aprile Gino Rago

fuis 16 aprile  Giulia Perroni

fuis 16 aprile Giulia Perroni

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SEI POESIE di Marisa Papa Ruggiero   SUL TEMA DELL’UTOPIA   O DEL NON-LUOGO con un Appunto dell’autrice

 (Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

utopia.ipgL’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

L’utopia è nel linguaggio, nel suo modo di farsi visione… Pensare un luogo che renda visibile ciò che la realtà non può pronunciare, è una delle utopie della poesia… ma è anche il luogo, l’unico, in cui l’una e l’altra, (utopia e poesia)coesistono, grazie alla tensione estrema del linguaggio.

Tocca solo alla poesia far risuonare, far vivere per un istante, l’insostenibilità di un luogo nella realtà concreta della parola. E’ tutta questione, credo, di attitudine alla percezione e ai suoi spazi. E allora può succedere, che, mettiamo, un’idea solo immaginata, (una farfalla in amore) si tramuti in amorosa presenza…Non vuol essere “raccontata” l’utopia, vuol trovare da sé lo spazio in cui vivere.

Alla visione appassiona poco rilasciare resoconti su ciò che vede, a me sembra che appassioni invece “lo sguardo” che ha sperimentato quelle “proiezioni dinamiche” guizzanti come su carta da musica. (utopia, utopia…) E’ questa, la poesia che mi ha nutrita letterariamente fino a oggi, e tu sai che è anche la più difficile. Non ho mai fatto della poesia una storia da raccontare, né avvolgerla a spirale attorno a nessuna colonna traiana, per me la poesia è l’utopia stessa. Qual è il senso? Qualcuno si chiede: finché c’è ancora qualcuno che si ostina a suonare il suo violino verde, o azzurro, o giallo che sia, a dipingerlo nell’aria e a volerlo comunicare agli altri con parole vere, inedite, anzi uniche, un senso c’è.

italia che taceForme del divenire

     Si tratta di riconoscere il passaggio a cielo aperto di un grumo di energia trasmutante che diciamo parola. Di un’ipotesi di parola che si sporga ad essere ciò che saprà divenire, che dica di sé essendo qualcos’ altro o altrove. Un “altrove”  che non si configuri come non-luogo siderale e disincarnato, ma si riconosca come particella irrequieta del reale stesso traslato in visione.

     Si tratta di andare a cercare ciò che accade fra i segni, individuare le orme vive in fuga nella macchia: sfidarle a pronunciarsi, sfidarle a ricordare.

     Tutto è già qui, qui soltanto, e tutto ci riguarda. Non vale tentare con chiavi improprie, né forzare la porta per entrare in questa stanza. Occorrerebbe un ritmo, una cadenza che si allunghi in un altro sguardo, e in quello incontrarsi. Non a caso è lo sguardo la “chiave” che varcherà l’interno: lo sguardo è l’interno stesso. Ed è lì, adesso: sotto la pelle e  i legamenti della “preda” in fuga: proprio dove si annida il principio stesso che dà forma al movimento. Dice: è sempre una sostanza interna all’apparenza che decide. Dice anche: proviene da impasti di combustioni e attriti in cammino verso necessarie fasi di decantazione, di distanziamento di sguardo. Lo stesso sguardo che mette le parole e i pesi, mette la punta fredda, ghiacciante in vena. Preferirà scansare l’agguato di una ulteriore conferma del già noto, per digitare invece, il tasto che manca costringendolo a interdire, per un istante, il silenzio che sfigura interrogazioni e attese con una scossa di presenza.

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 E non è raro che uno scatto percettivo prenda un suo passo inusuale nel cogliere al passaggio dei segni il seme alchemico dell’anomalia. Può accadere che la cosa nominata si discosti da un ordine per raggiungerne uno diverso: quello per lei più aderente. Adeguando ad esso nessi e significati senza spiegazione. Sarà, allora, un paesaggio di forme sensibili scandito da un pulsare temporale che non si trova in nessun quadrante. Sarà esperire l’accadere imprevedibile di figure mentali provenienti da un luogo altro della conoscenza, rastremate da un filtraggio linguistico che mostri le sole articolazioni di un corpo che si è dissolto altrove.

  O viceversa, che sia il “disperso” ad entrare da sé nel luogo che lo evoca. Che  ne contamini  i passaggi con un’impronta informale dentro un altro battito… e allora, seguirne le tracce, sperimentarne “l’insostenibile visibilità”. Sarà essa a conoscere quel di più di parola che il linguaggio non contiene, o quel nulla che non si può pronunciare perché fatto di altra sostanza… Ma infine: di cosa mai la poesia dovrebbe rassicurarci? Non è forse, lei stessa, dis-senso?

 (Marisa Papa Ruggiero)

Eidetica

Eidetica

Marisa Papa Ruggiero, studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli. (Corsi post diploma di Graphic Design, di Arti Applicate, Corso di Pittura, Accademia Belle Arti e diploma di laurea. A Napoli, dove da anni vive e opera, ha svolto attività didattica e artistica. E’ intensamente attiva sia sul fronte della scrittura creativa, con particolare riguardo alla poesia, sia su quello della verbo-visualità, con partecipazione a mostre e a raccolte antologiche. Dal 1991 decorrono le sue pubblicazioni di poesia in volume con: Terra emersa, Napoli, collana L’assedio della poesia; Limite interdetto, Salerno-Roma, ed. Ripostes, 1993; Origine inversa, con nota critica di M. Bettarini, Napoli, Alfredo Guida Editore, 1995; Campo giroscopico, con prefazione di Michele Sovente, Quarto – Napoli, ed. Riccardi, 1998; Persephonia, con prefazione di Mario Lunetta, Lecce,  Pietro Manni Editore, 2001; Oblique ubiquità, in Locus solus, Ed. Riccardi 2003; Passaggi di confine, con prefazione di M. Fresa, Salerno, ed. L’arca felice, 20011;  Di volo e di lava, prefazione di Giancarlo Pontiggia – Alessandria,  Puntoacapo editrice, 2013. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde – 2008, e alcuni libri d’artista. Suoi testi poetici sono stati rappresentati a Napoli dal gruppo di cultura teatrale L’Ascolto. E’ presente con brevi saggi critici, con testi poetici e in prosa in riviste italiane ed estere, in siti web e in blog letterari dedicati alla poesia, oltre che in raccolte antologiche. Ha partecipato come redattrice alla fondazione di alcune riviste napoletane di ricerca letteraria; attualmente è redattrice della rivista di poesia Levania.

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

Eidetica

Fosfeni e zolfi in tenuta adesiva
a sbalzo nella mente

La coppa colma è cristallo esploso
schizzato via dal piano
ai quattro cardini del mondo

In sospensione aerea
la mezza sfera rosso sangue
intatta

Fissato in un incanto il senso
inestinguibile del vino
che offro alla tua sete

in proiezione aurea all’ultima espressione

.
Scarto dispari

Non sapienza né gioco
ma scaglie d’occhi al cesio
a taglio di secondo
in ronzio d’impulsi in agguato
su microruote dentate
nel cuore del congegno
che a sorpresa s’impunta

in uno scarto dispari di giro e inverte

il grado di conduzione
nel ventricolo del tempo
su l’acuto di una nota
fiondata in aria
che zampilla
ed è membrana fluida il parco
a frange scontornate
sporgendosi di punta
appena sotto il respiro
sul cartone telato del fondale
su l’albero
che stira la mia ombra
e la piazza notturna si rovescia
in punta di grafite
ridisegna la cifra persa
nel marmo della vasca
dove cadono foglie
su palpebre chiuse vedendo
qui non altrove adesso
l’acqua farsi sostanza minerale

le statue a spasso per le strade
impietriti i passanti
marisa papa tra ombra e luce

 

 

 

 

 

 

 

Slittamenti

A gradi flessibili cresce
intrigante
da quinte mentali al sottofondo
dei tasti ciecamente svolando

rinata spoglia di bruco
entra nel nome
all’intera pronuncia che prende
la forma del volo
ma è solo lucente germoglio

del nulla idea inquieta
che slitta sul verso
e svoltola in danza
tra grinze di sghembo sul verde
appena brinato
e muta impulsi in scaglie
telluriche in fitte d’alterazione
digitando un tremore
in un rettangolo di campo dove

il desiderio veste
una forma
tra il tasto e le righe
radente in dissesto lampeggia
alatinta in amore
sfiatata di viola e s’invola
già oltre lo scatto alla
muta finale

tra fughe assediate da spasmi
da frulli sfibrati vibranti
sbavando nella stampante
in tutti i suoi duplicati

l’ala sbigottita.

Satellite glance

In punta di freccia
sparata dove
in quale abisso o distanza
squarciato il tempo

s’aprono i tasti
a ventaglio sferico
su plaghe ondose in volo
sul foglio piatto
del monitor

a spirali elettriche per l’ampia
crosta rugosa
che dilaga e sferza
maree informali
in visione esplosa
fra crateri in corsa
planando

a giro d’archi
ad ali spalancate
nel fermo immagine
che vertiginoso schizza
nel fosforo
dell’occhio

ed ecco il borgo
a spilli luce
il passo rallentato
il campo
di calcio dove
tutto teso ti scruti
fin dentro
il futuro occhio
che ti guarda

e lanci in rete
più in alto più distante
il tuo pallone

Marisa Papa 5

 

 

 

 

 

 

 

Scena vermiglia

Febbrili impasti pulsati dentro
come timbri di torcia
ad ogni passo
in questo dirsi di sillabe affamate
in ogni fibra vermiglia
in lotta con i blu
a lampo o laser sul corpo che disegna

una trincea di anni
murati vivi
che soffia e bussa da tutti

i sottosuoli di nascita e di lotta
e tocca
radici rosse
spezzati rami sul cuore
a palme nude accende
un fuoco sulla neve

e riconosce i nomi sfilando
un nervo vivo esploso
nel colore
che germoglia

sui nostri nudi emersi
dalle maree del sogno

come un arpeggio o uno
squarcio sottopelle
che dilaga e arde
a fiaccole sonore
in alveoli di sangue
sul respiro a secco franando

a schegge d’echi
a lame di carminio
in un volger di ciglia su
l’intera scena

e la scena è dipinta.

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scultore e la statua

Qui dentro è il buio folle
qui urla inesplosa la mia forma!
Misure chiuse regolano i confini
dove io aderisco ma tu
hai libero il passo il gesto, mordi
ai fianchi la mia nudità di pietra
e incontri una resistenza da camicia di forza
che non puoi strapparmi di dosso:
tu sai che niente
resiste al suo nome
se il suo nome è pietra

Ma tra le dita ti fioriscono uncini!
Tu sai che pulsa tra valve chiuse il seme
appena sotto lo sterno lavico…
ti osserva la mia esangue fissità
dallo spioncino che mi scavi di fianco:
mani scostano il limite, premono il punto
più interno della forma, fanno spazio al vuoto…
Nel mio scatto da fermo osservo smottamenti
come suono compresso, detriti di scavo
lasciati dentro, cieche voragini, lì apprendo
i miei confini nell’urto col silenzio
mentre plasmi con dita esatte germogli e bulbi,
spore luciferine da scagliare nella mia
ferita giocandoci dentro
e questa famelica erezione della mente
che impreca e ammutolisce!

Vuole carezze integrali questa forma
che non ricordavo di avere, questa pietra
grigia vulcanica generata da esplosioni e bufere
per le tue mani d’uomo!
e mi scrivi
un libro lentissimo
un diario di bordo
dove scarichi una sinfonia feroce
che mi sveglia dal coma, tu che entri
come un satiro tra le fronde e
in ogni fessura per seppellirti
nella mia carne o dissolverti, tu da lì ascoltami:
è perdita continua questa forma
che ti fa esistere, da cui muto mi parli
dove ti stringi alla tua paura
e graffi con le unghie fino all’alba!
Tu lì sai di trovarmi, la tua furia capovolgi
nella mia pietà, hai libero il gesto
il passo, ma a me chiedi il sangue!
Sento sotto lo straccio a notte
il tuo cieco ansimare che non sfiamma tra le coltri,
lì nel fondo è un fragore che uncina
il respiro alla pietra con fredde scintille e sonagli
come il battere sordo del ferro in cerca di forma:
io ti sono matrice colma e ti sono
la morsa che perentoria serra la luce
o fors’anche la freccia storta uscita di rotta
da cui muto mi parli a coltellate!
Ogni tuo colpo di timone è una mina esplosa
in questa boscaglia di schegge che sogguarda il vulcano!
ogni giorno esco un poco da me,
il nuovo giorno lo plasmo alla creta viva
del tuo polso d’uomo che insonne sconta il contagio
di muscoli e nervi allo scoperto
e inietta aria e fiato nel mio corpo arboreo
che lentamente
lentamente
senza saperlo
fiorisce…

Eccomi appena giunta, guardami:
qualcosa sai ha fatto contatto, ha urtato
i tuoi capillari accesi, la tua fame nascosta…
ho terminazioni elettriche scolpite
sotto pelle in arpeggio e singhiozzo,
e rughe e spore incistate
alla tua malattia
alla tua follia pietrificata!

(Napoli, giugno 2014)

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  POESIE SCELTE di ENIS BATUR  a cura di Marisa Papa Ruggiero Traduzione di Işıl Saatçioğlu

Istanbul

Istanbul

 Enis Batur, (Esckisehir, in Anatolia, 1952)  è considerato il maggior poeta turco nell’attuale panorama letterario medio-orientale. Ha studiato a Istanbul, ad Ankara, a Parigi. Ha ricevuto, fin dagli anni trascorsi al Liceo francese di Saint – Joseph di Istanbul, una educazione improntata sulla cultura europea; e dal 1970 si stabilisce a Parigi dove si laurea in Lettere nel 1974 soggiornandovi  a lungo. Ha soggiornato, negli anni successivi, anche a Napoli, Roma, Ankara, Esckisehir.  A Roma è stato invitato, insieme a ad altri autori italiani e stranieri da Maria Luisa Spaziani a far parte della “Cattedra di Poesia” da lei fondata. Dal 1999 al 2003 ha insegnato alla Université Francophone de Galatasaray a Istanbul.

Animatore culturale, scrittore di saggi, di cinema, di musica, dà vita ad alcune riviste di Arte e di Letteratura e ben presto  assume la direzione della prestigiosa rivista Sanat Dunyamiz. Diviene, tra l’altro, direttore editoriale della importante casa editrice turca Remzi Kitabevi a Istanbul. Dal 1992 al 2004 ha diretto la Yapi Kredi, sempre a Istanbul, e ha curato la pubblicazione di Proust, Sartre, Celine, Derrida, Focault, Barthes.

Ampia la sua produzione poetica, narrativa, saggistica, il cui successo di critica e di pubblico è pieno e immediato nonostante la sua apertura verso la cultura occidentale. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue: italiano, persiano, arabo, inglese, tedesco, francese e rumeno. La traduzione in lingua italiana della maggior parte dei suoi lavori è stata curata da Işıl Saatçioğlu, studiosa di letteratura e valente saggista. Tra i suoi critici: Dogan Hizlan, Melih Cevdet Anday.

Istanbul

Istanbul

La sua opera, in lingua turca, contiene un centinaio di titoli, per la maggior parte testi di poesia. Eros ve Hgades e Una solitudine medievale risalgono al 1973; seguono: Libro intermedio, Vangelo secondo Satana, 1979; Serbatoio (Sarnic, 1985); Lucerna (1981); Divan grigio (poema ottomano, 1990) Prove di coma; Cosa fatata (Perisey): una raccolta di liriche composte dal 1985 al 1992, premiata dal prestigioso Sureye Odulu e recensito da Hizlan. Seguono: Scritti e sigilli, (Yazilar ve Tugralar) Fondazione Piazzolla, Roma, 1992 che raccoglie la sua opera poetica dal 1973 al 1987; il poema: Le sarcophage des pleureuses, pubblicato con la casa editrice francese Fata Morgana, (2000); Imago mundi a cura di Işıl Saatçioğlu e recensito da Maio Luzi, edito da Garzanti, Milano, 1994. Ha inoltre pubblicato i poemetti: Talismano e tragedia; Route serpentine (Artes Sud); Penceler (Artigli). In prosa: Seme di cocomero; i romanzi: La pomme e Conoscenza amaro (Artes Sud, 2004); Diario di Saint Nazaire (Meet 2001). Tra i saggi: Mio labirinto-biblioteca (Blu Rotondo, 2006); Questa matita è un camaleonte, 1988; Poesia e ideologia: uno studio sulle letterature europee, (1979).

Enis Batur è il poeta turco vivente che ha maggiormente contribuito a recare una innovativa impronta occidentalizzante alla poesia turca contemporanea, imprimendo un decisivo “sigillo d’identità” alle nuove generazioni del suo paese; un paese costituito, come è noto, da molteplici forze eterogenee data la compresenza di diverse etnie linguistiche, ideologiche, religiose talora in forte contrapposizione tra loro: da quelle liberali e moderatamente progressiste aperte all’Occidente europeo, a quelle ancorate a resistenze integraliste.

L’intensa attività letteraria di Enis Batur introduce nuove tonalità foniche ed espressive  riuscendo a conciliare senza forzature modernità e mito, suggestioni e risonanze del leggendario mondo medio-orientale delle origini con le più avanzate ricerche formali sul linguaggio: l’introduzione di sapienti filtri linguistici nella struttura  frastica, la scansione ritmica del verso, la centralità, tutta occidentale dell’io, la sua coscienza esistenziale e simbolica che da Dante va perpetuandosi fino a Pound e oltre.

enis batur 5Le scelte artistiche di Batur fin dagli inizi degli anni Ottanta appaiono, dunque, ben delineate sulla base di una ricerca sperimentale sulla materia linguistica con l’introduzione di dissonanze  espressive e foniche, di  “cortocircuiti” interni al gioco verbale al fine di piegarne la struttura oltre il referente specifico, senza tuttavia violarne la peculiarità semantica originaria. Spazialità, simbolismo, colore, sono i cardini di questa scrittura che visualizza la complessità di ruoli archetipici dell’ “intellettuale-vate” e del “monaco-errante” sintetizzati nelle espressioni: “mesih-aydin” e “kasis-sair” che traspaiono nella tensione frastica del testo.

Il poeta, secondo la visione baturiana, non può non avvertire la responsabilità di arricchire la poesia dell’apporto vitale di tutti i suoi rami, di farne fluire la linfa nel grande “tronco-serbatoio” del corpus poetico, ponendo in rilievo la simbologia del doppio  attraverso l’immagine ricorrente del “grande uccello” (che abbraccia nel volo i due orizzonti che spaziano da Levante a Ponente) nel quale il poeta, alla ricerca costante di un equilibrio attraverso la poesia, s’identifica.

Batur è il poeta dell’io sdoppiato, dei tanti io disseminati in innumerevoli altri come tanti se stesso fino ad esaurire quasi se stesso nello scambio: (…) Un continuo viaggio in cui vado fuori di me, ovvero un viaggio verso il mio vero io. Un viaggio-processo in cui egli vive problematicamente fino in fondo la propria condizione metamorfica. Nel Sarcofago delle donne che piangono, sembra approdare a un finale congiungimento con l’altro da sé nell’unità dell’io.

(Marisa Papa Ruggiero)

Istanbul di notte

Istanbul di notte

da Serbatoio

.
Papiro, inchiostro, piuma d’oca.
Dalla mia radice sorge un boato verso la vetta
verso il nucleo di un evo scuro,
apro dinanzi a me un atlante: di scala infinita,
che copre la terra, i cieli e oltre i cieli,
un atlante per monte e vallata, mar interno, alto mare, mar morto,
un atlante per il mio volto derviscio vagante per monti e valli,
per la mia voce di vate, il mio sguardo di monaco errante.
Flaneur, wanderer, santo vagabondo
Immerso in invincibili stupori: dov’è il mio nido,
dov’è il muto monumento di deserto eretto da me
al signore-padrone che ho ucciso, dove sono i bambini
che di notte partorisco senza fine: d’improvviso calo su di me
come un incubo, come fossi un acquazzone
non invocato:
seppur trabocco e faccio traboccare
trascorro dappertutto.

.
*

Mio sosia, mio simile, mio specchio: crolla
l’era e nel vento, che turbina le pagine
di tutti i calendari verso il vuoto, si mescolano i giorni e le notti.
Si fermano gli orologi
e non riusciamo più a fissare
sulle facce contrastanti delle lancette
quel sottile equilibrio.
E una vite non combacia ormai
nel giro che la spana, un verbo
mi si aggira sulla punta della lingua e
un imponente uccello,
veloce, muto e acuto
dispone al volo le ali dentro me,
e dal limitare di un volo senza ritorno,
guarda in lontananza, con pena e un po’ d’orgoglio,
l’infinita aritmetica
degli orizzonti che seguono all’orizzonte,
e come saettando da un arco
senza aprire le ali
si allontana dalla gravità,
con l’invisibile forza della sua sorgente invisibile.

enis batur

enis batur

 

 

 

 

 

 

 

 

Imago mundi

Ecco, leggo sul mio corpo le impronte
pian piano: il tatuaggio irato sulla spalla sinistra
è del secolo in cui erravo in una nave genovese,
mercante ambulante. Più giù, sulla coscia
l’ombra del pugnale. Le macchie che talvolta trascorrono
sul mio indecifrabile viso sono ricordo
di una malaria indiana. I miei occhi?
I miei occhi sono senza luce, sono senza storia:
pietrificati a Pompei dallo sgomento, cavati a Ninive
da una statua di gatto in oro massiccio,
forse caduti da un affresco,
sono due valori vani,
volati via forse con le loro espressioni complesse
da un’icona il cui volto
il tempo in fretta rode.

enis batur

enis batur

da Fumo

Si sono aggirate dentro i miei sogni d’argento
di notte in notte
le donne tartare dalle grandi mammelle
e un cavallo schiuma,
ha battuto le grondaie la pioggia,
sui tetti di lamiera
sulla scaletta di un accordo
si è arrampicato su e giù
il pianoforte senza sosta,
era settembre
oppure fra settembre e ottobre
un mese in cui nessuno ha conosciuto nessuno?
fumo di sigaretta in una stanza e silenzio,
ci eravamo riuniti Vladimir, Sergei e io,
quanto era privo di senso suicidarsi,
non suicidarsi.
Ho girato dentro un sonno d’argento
dietro alle selvagge cavalle bianche,
sono passato velocemente davanti alle mie fasce
e alla mia pietra,
ho visto: in una stanza incendiati tutti
si erano riuniti
il Tempo che avevo trafitto, il fumo di sigaretta,
il proiettile uscito dalla canna
– mi sono svegliato,
mentre stavo per fermare: due treni in me scontrati.

.
(traduzione di Işıl Saatçioğlu, in Scritti e Sigilli
Vladimir e Sergej sono i nomi, rispettivamente, dei poeti Maiakovskij e Esenin).

*

Guardava i gabbiani di continuo.
Non capiva: perché nel vuoto
innalzandosi uno, uno discendendo
trascorrevano il loro tempo
alla ricerca di un equilibrio
che di nuovo si sarebbe spezzato.
Un suo amico pensava alle cose da fare
credeva a ciò che pensavano
di nuovo pensava “forse di continuo
devono mettere alla prova le ali”
aveva detto, e di nuovo cercava
alla domanda che lui stesso aveva posto
tutte le repliche adatte: pensare alle cose da fare
senza dar retta ai loro pensieri
era rivoltarle come un guanto.
Anche i gabbiani facevano così, d’altronde:
s’innalzava uno, planava un altro,
cercavano per un precario equilibrio il punto d’oro.

.
[la serie: Pençeler (Artigli), raccoglie 25 poesie]

enis batur

enis batur

Sul Finire dell’Anno degli Aztechi
(…)
Io sono andato alla fine del buio.
Lì ho gridato quando erano mute le finestre
e le porte chiuse a chiavistello:
è ritornata l’eco e mi ha colpito
sul volto: se sono affondato, sedimento, nel mio fondo
non mi agiti più nessuno.

La silloge Perisey raccoglie liriche costruite con sensibilità scenica come in una ideale stanza, ritrae momenti di vita colti nell’immediatezza di esperienze relazionali.

.
da Fugue, IV scena

(…)

“L’avrei dovuta portare nelle mie città”
aveva detto l’uomo. “Nelle mie vie,
nei miei vicoli ciechi, nelle case in cui
ho traslocato senza fine, nessuna delle quali ho dimenticato”.

.
da Facce, V

Non vergognatevi del male c’è in voi, io
amo il fuoco che vi si spande sulle guance,
amo io il male e l’intimo che lievita su
dal vostro collo. Lo si potesse svelare,
se solo poteste stracciarvi la camicia
da cima a fondo. Conterei ad una ad una
le vostre ciglia biondissime mentre cola
e risale il petto, una mano appassitami
nel fuoco, l’altra sui vostri orecchi:
bionda peluria sottile, mammella,
cascata.

da Facce, VI

così lucente, il sole d’estate. I pori della pelle opaca
aperti alle vie d’acqua salata, brillano i suoi occhi
se toglie gli occhiali: uno marrone, l’altro verde:
questi capelli dalla radice grigia, quest’inizio
di rughe e da una mappa di fine indefinita: correndo
di espressione in espressione appaiono e scompaiono
negli Specchi Magici dolore, nostalgia, tocchi d’ape
e cotone. È un pesante vocabolario il vostro viso,
sapessi leggerlo.

 

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

 Marisa Papa Ruggiero studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli. (Corsi post diploma di Graphic Design, di Arti Applicate, Corso di Pittura, Accademia Belle Arti e diploma di laurea. A Napoli, dove da anni vive e opera, ha svolto attività didattica e artistica. E’ intensamente attiva sia sul fronte della scrittura creativa, con particolare riguardo alla poesia, sia su quello della verbo-visualità, con partecipazione a mostre e a raccolte antologiche.

Dal 1991 decorrono le sue pubblicazioni di poesia in volume con: Terra emersa, Napoli, collana L’assedio della poesia; Limite interdetto, Salerno-Roma, ed. Ripostes, 1993; Origine inversa, con nota critica di M. Bettarini, Napoli, Alfredo Guida Editore, 1995; Campo giroscopico, con prefazione di Michele Sovente, Quarto – Napoli, ed. Riccardi, 1998; Persephonia, con prefazione di Mario Lunetta, Lecce,  Pietro Manni Editore, 2001; Oblique ubiquità, in Locus solus, Ed. Riccardi 2003; Passaggi di confine, con prefazione di M. Fresa, Salerno, ed. L’arca felice, 20011;  Di volo e di lava, prefazione di Giancarlo Pontiggia – Alessandria,  Puntoacapo editrice, 2013. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde – 2008, e alcuni libri d’artista. Suoi testi poetici sono stati rappresentati a Napoli dal gruppo di cultura teatrale L’Ascolto. E’ presente con brevi saggi critici, con testi poetici e in prosa in riviste italiane ed estere, in siti web e in blog letterari dedicati alla poesia, oltre che in raccolte antologiche. Ha partecipato come redattrice alla fondazione di alcune riviste napoletane di ricerca letteraria; attualmente è redattrice della rivista di poesia: Levania.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ (Parte V) Steven Grieco, Marisa Papa Ruggiero, Letizia Leone, Silvio Aman, Silvana Baroni, Giuseppe Panetta

Ulysses and the Sirens, mosaic, 3rd century AD Roman from Dougga/Thugga, Tunisia   Photo Credit: [ The Art Archive / Bardo Museum Tunis

Ulysses and the Sirens, mosaic, 3rd century AD Roman from Dougga/Thugga, Tunisia
Photo Credit: [ The Art Archive / Bardo Museum Tunis

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

 

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

 

Steven Grieco

Etnomusicologia

1 Euridice

Talvolta diciamo essenziale
conservare le musiche dei nostri avi:
patrimonio che per forza di cose
tramonta, un po’ alla volta.

Musiche che già adesso ci sembrano
l’inutile gracchiare da una bocca cariata,
mentre scendono senza appello
negli smisurati archivi dell’oblio umano.
Perché il Tempo, nel suo torcersi lento
e massacrante, ne deforma le sonorità,
oscura il senso,
porta a compimento nuovi misteri.

(E quelle persone che piangono
sull’inesorabile invecchiare del mondo.)

Orfeo Giorgio De Chirico

Orfeo Giorgio De Chirico

 

2 Orfeo

Giunto fin qui dal suo remoto villaggio
quel vecchio
aveva anche lui, ti sembrava,
smarrito i motivi. E tu,
scegliendo da mille musiche simili
ma mai uguali, ti sforzavi
con tutto te stesso di ricrearle.

Sempre invano, però.
Lui poteva solo indicarti la potenza
che dal gioco di armonie
balza fuori inudita.

Marisa Papa Ruggiero 1
Marisa Papa Ruggiero

Il viaggio

Ero prima di me e mi cercavo
Fulgente di stelle la notte infinita lasciata nel cosmo
Memore un lume sto alla costa ghiaiosa come
il peso al suo corpo
a lampi a fiocchi di neve, l’ora gira la curva
dentro il mio sasso, in apnea glaciale
– famelico, cieco, mi chiamo –
risalgo l’enorme distanza il fiume gelato
al travaglio del seme,
appena germoglio, pulsante di pena
risalgo pinnacoli d’ombre
tra spoglie pareti di stanze sbarrate scontando
la dismisura del bianco in lento cadere,
bendato un pensiero
dalla tempia si stacca, il viaggio
abissale scavo sotto le ossa

E mi prendo per mano, una spina
di luce dove l’unghia s’incarna prelevo a una sete,
un feroce richiamo, scalciando alla sabbia,
che odo da dentro, il taglio
che odo di forma sapiente
nel passo del giorno, sapienza del raggio
segnare i confini sulla creta del corpo,
– o dell’asta solare come bisturi l’ombra –
crudissimo un nervo di colpo sguinzaglia
una fame chiodata
e ascolto

Marisa Papa 5

la molecola ambrata cantare nel fondo
la forza dei nomi tremando sui volti
che infine saremo
nel bosco degli echi, noi nudi
alla pioggia alla brezza salata, sulla roccia riflessi
noi siamo più grandi
nell’attimo errante, sospeso
infinito

ed entro
nel fresco sentiero di erbe,
distante il raduno dei corni, dei cembali accesi,
appena sgusciando alla stretta del cappio,
il viso affondato nell’umida terra che prega
e ti guardo
ti guardo, bambina, la corsa spezzata
al bivio di sassi,
sospesa a un pensiero, le orbite fisse

bambina invetriata nei ghiacci
che segui l ‘Ariete lentamente salire e l’azzurra
Bilancia, nella gola mi versi
il presagio e la spina
e mi tendi le mani, mi sleghi
dal tasto incantato

marisa papa tra ombra e luce

la lastra di ghiaccio colpisci da dentro

ed esplode nel lampo lo scroscio
squillante del sangue
lo scoppio d’acquario
che schizza nell’urlo nel vortice cupo
che mescola tutto
nel gorgo di sillabe e pollini,
di uccelli e di pesci sciamanti, di ondose
falene affamate di larve inciampando
il ritorno, l’inizio, il ritorno entro un unico istante
eretto nel nome,
un unico istante istoriato, ferito,
di fame fiorito
trattenendo il respiro

Letizia Leone diwali

 

Letizia Leone

Luce secca che screpola su Roma
mare giallo di città
-anche questo Tirreno-
dove nessuna vela nessun approdo
riporta al lido Lavinio.

Una strada dritta o
confine d’acqua per allontanarsi
alla porta della metropoli:
campi d’orzo
il buio, sazio, è caduto
nel corpo del chicco.

Il disegno dell’ombra
copre i cilindri dell’urbe
i sassi latini dell’acquedotto.

Da qui una linea arancione vapora
sulla nera città.

giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm

giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm

Argostoli

Migrazione negli strati inferiori
dove il passo in discesa tenta la pietra
via verticale a basse vastità
di oscurità feconda ai territori.

Tu segui il tracciato dell’isoipsa
individua il punto, la temperatura
entra nelle strade così
in una solitudine di cielo greco

stessa oscura radice che confonde
con la luce gelata dell’azzurro.
Argostoli. Una macelleria con mezzi corpi scuoiati, appesi.

E’ l’isola dei pini e cimiteri
aroma di cenere, chiodi obliqui
di arbusti su radure.
Slealtà: la colata chiara del mare

illumina le geometrie dei marmi
fino alla notte degli unisoni
umani: nero fiato ionico più eco
inascoltato. Perdere il cammino.

(Da Pochi centimetri di luce, Roma,2000)

Silvio Aman

Silvio Aman

Silvio Aman

Analogie

Chissà per che Alisei
o da che forra ignora,
se dall’esterno o per le vie del simili…
Lo devi a un tocco in dolce risonanza
ai tuoi pensieri armonici
o ai fiori svolazzanti delle acacie?
Perché l’Idea, nel gioco,
è donna sbarazzina
e giunge spesso travestita:
tu vedi allora il maggiociondolo
o in mezzo al verde della sera
il luccichio del mare.

Esile giovane
dall’andatura alata
tu scegli spesso il giro breve e chiuso
di questa via animata,
le immagini elusive a primavera
della città che agogni
(appaiono velieri, gli alberi,
e un gran corteo la sera)
dove nessuno vede…
chi vuoi che scopra il senso
della tua strana idea?
Non sanno questo i più.

Ti scorgo mentre scivoli leggero
dalle oscuranti immagini
a un’imprevista luce
e scrivo: Col suo fare un po’ svagato
ha certo l’aria giusta per le vele…
la sigaretta accesa,
il ciuffo di una notte scompigliata
e il volto in cui è riflessa
una lontana gioia.
È come chi sciorini una bandiera
dal grande sole impresso
su una distesa opaca.

 

statua di giulio-cesare

statua di giulio-cesare

Nike

Non so perché,
se sia per questa luce obliqua
o per gli specchi argentei…
Guardando il quadro del veliero
che non scorgevo prima
ormai perduto in fondo all’abitudine,
quello che il nonno prese un giorno a Londra,
è il sogno a far la parte buona:
andrò con lui, il nocchiero,
e a Delfi gusteremo sopra il vello
i nostri giorni d’oro –
Mi porterà lontano,

oltre le felci oscure,
oltre le spore infette.

O è forse perché l’aria è nuova
dopo una pioggia estiva
e ha questo strano odore d’erba e angurie?
In quanto a lei, la bionda che ti sfugge
e forse ride su nell’Esterel,
hai messo troppe foglie ai rami
della sua scarsa fede,
e tuttavia l’approvi,
guardi il veliero in fianco ai due ritratti
(i tuoi bei nonni giovani)
e all’improvviso esclami: È Nike,
donna del mare a prua.

Silvana Baroni

Silvana Baroni

 

 

 

 

 

 

 

 

Silvana Baroni

Giù dal cielo

Giù per le rapide
gli parve il volo
un frullìo di grilli a costeggiare
l’incauto volitivo trapasso
a scapole divelte
tra angeli superbi
e ossa d’amorini.
Uno svolazzo immortale
via dall’eccesso di zelo
dall’incantevole sfarzo
di prodigiose impennate.
L’uomo cambiò viaggio
si scrostò dal mestiere d’annodarsi
e in applauso di membra si librò
giù dal cielo del settimo piano
per rannicchiarsi al buio
nel permanere della terra.

Giuseppe Panetta

Giuseppe Panetta

Giuseppe Panetta

Un viaggio

Parto per questo viaggio
con la Musa low cost volo
destinazione l’immaginazione
ferma nell’applicazione:
dove siamo? Nel trittico
del cane, Io, Es e Se
nell’alternativo concept
della scoperta fantastica
tra pianeti nani
nella perduta via degli anelli planetari
nel viaticum della storia allucinata
una toccata e fuga fugace
un pacchetto, una combinazione
sul planisfero di misura in misura
un raid in moto su Marte
una foto condivisa su Android
nei villaggi globali di misere capanne
in qualche campo di guerra
d’ogive e di speranza
in un resort di lusso
con l’alluce sul capezzolo
di una qualsivoglia Venere
o a stritolar le ossa di bimbi-bambù.
Il viaggio nell’aldilà, in ogni cosa che finisce
e inizia nel mar morto come un profugo.

.
Canio

Con il suv di rappresentanza
traccio solchi sulle piste di neve.
La democrazia la tiro su dal naso
e la realizzo in un vernissage.
Gioco in borsa e svuoto le borse
di tutti i portaborse affaristi
che con me rimestano nel torbido.
Il mio rolex segna un tempo
che non è il tempo del mondo
e la solidarietà la porto in braccio
in una camera d’albergo.
È bionda.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI Anna Ventura, Antonio Sagredo, Giuliana Lucchini, Flavio Almerighi, Giuseppe Vetromile, Silvio Aman, Sandro Angelucci, Marisa Papa Ruggiero, Adam Vaccaro, 

 

musica rinascimento

Anna Ventura

Anna Ventura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anna Ventura

Fitzcarraldo

Quando penso alla musica,
mi viene in mente quel bellissimo film,
Fitzcarraldo,
dove un uomo folle e affascinante
trascina una nave nella giungla
per lì ascoltare
la voce di Caruso.
Questo sì- ho pensato-
Vuol dire amare la musica!
O era la musica,
stanca di teatri e salotti,
che spingeva l’uomo e la barca,
l’altare e il suo sacerdote?

 

musica 

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

Antonio Sagredo

Angeli neri hanno spento i candelabri,
il sole è impazzito per troppa luce:
è che la gioia ha trattenuto il canto
coi passi di una danza mai più moresca.

Ma non è l’angelo il sigillo di una spada
o lo scettro del fiore nel fondo della coppa:
è che il cuore ha troppo battuto la canzone
e invano la parola detta un nuovo dramma.

E quando il suono colpirà la tempia
vedrete la fornace negli occhi spaventati,
lo squillo sfonderà il corpo innamorato,
la mano, Filli, non fermerà il sangue!

Brno 2-3 agosto 1983

*

Giocherai la sorte nella fiamma, angelo,
nero balocco o marionetta,
che dai fili non azzarda un suo respiro,
ma condanna il moto ad uno specchio eterno.

Anche le lacrime hanno un’ombra da impiccare!

Brno 5-8 agosto 1983

*

Nella cripta i cappuccini
ignorano gli orologi atomici.

Neri e immortali
costano soltanto una corona.

La santa e il cavaliere
sono molto ospitali:
formano una strana croce
dopo ogni lunedì.

Più in là, nel refettorio,
cantando i monaci mangiano le offerte –
una nuova legge li offende,
poveretti, non han di che parlare!

Brno, 9 agosto 1983

*

Che martedì!
Spade intrecciate e mute
Sono la mia corona!

Il tempo sigilla come uno sciacallo
Le leggi di una donna – rigida nell’ambra!

Lacrime crollano come ghigni neri,
cesellati sono i contorni della pietra!

Brno, 10 agosto 1983

 

 

giuliana lucchini con la chitarra

giuliana lucchini con la chitarra

Giuliana Lucchini
LC Poesia, 2012

donde hay musica, Señora,
no puede haber cosa mala

(Miguel De Cervantes)

(omaggio agli strumenti musicali)

Altero
fra le sue braccia
immenso gli spinge
il fiato, gli forza le dita –

e salta e sbuffa, respiro alle corde,
e ride e morde,
corrente elettrica –

lo piega ad arco
e suda e si spoglia, brunito
corre, sospira grida

scivola si rialza – alla rocca si fuga
delle sue mani, creaturale riflette
la mente in danza intorno al suo dio

(o mano che formi la voce
che sali e respiri la luce, ti posi, porti
ostia, eucarestia)

così piange e canta
inno dei cieli
il corpo d’amore

per ascoltarlo devo
inerpicarmi su fino ai bastioni
fino ai merli

la tastiera turrita
dalla porta più bassa
del castello

 contrabbasso

contrabbasso

 

 

 

 

 

(contrabbasso)

 

Mio legno di betulla e di ambrosia
cullami, con tutti i colori che in te
vibrano confortami, rallegrami
mentre t’abbraccio e ti ascolto

tu che sai smuovere le montagne
e fai rivivere eriche di brughiera
in turbolenze d’Ellis * sopra il mio capo
con il tuo canto, voce di campana,

o con la mano negra il duolo
di Summertime. Intorno a te allacciata,
salsa e mango
in giro vorticoso destami

e l’avvoltoio
di pietra e d’oro, dal copricapo
del Faraone

* Ellis Bell (= Emily Brontë, ‘Wuthering Heights’)

 

E .. toccami toccami preghiera, oh Crux,
improvvìsati perno, batti, metronomo,
le dita morbide sopra la pelle del pensiero,
ogni battito un tremito,
entrami ritmo, irripetibile vocale,

goccia a goccia scioglimi
il labbro e tenue aprimi
il canto liquido,
tu l’infrangibile, per un mio sorso
dentro il tuo bicchiere

Giuliana Lucchini violoncellista

(violoncello)

Si viveva in armonia di strumenti,
su nella camera vicina al sole, d’angolo lasciata chiusa
su tre finestre di pietra. Un’arpa,
di cornice d’oro, un fortepiano per dita bambine,
una grande specchiera ballerina. E la chitarra
sul tetto

A conca il letto, di piazza tesa

Di tutti gli angeli musicanti
di legno decorato
che versano suoni dal paradiso dei vasi
stretti all’arca arenaria sulla parete,
la tramontana in treno intorno alle tube,
sia sole o pioggia o vento al davanzale,

sempre sentivamo alto
uno strumento solo

la voce
umana

 

Stradivari 1681

Stradivari 1681

 

flavio almerighi

flavio almerighi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Flavio Almerighi

Stradivari faceva violini

Stradivari faceva violini,
Vannucchi la rivoluzione
col fazzoletto rosso
senza sfumature al collo:

è noto come il legno cresciuto
nei boschi della glaciazione
disperda melodie più dolci,
la musica non si imprigiona

l’altro invece va via romantico
insieme alla rivolta,
e alla parlata onesta
dell’operaio col padrone.

Entrambi lasciati indietro
da storia e geografia,
essere provvisori è una cifra
esosa da pagare,

ma oggi abbelliscono stanze
le stesse,
dove soltanto la musica
esplode

canzonette

Ogni brano vive
dei propri dialetti in posa
come prima di partire,
chi ha mani grosse
non restituisce carezze
alle poche nubi
lasciate perdere
dall’ultima perturbazione

migra senza complimenti,
e passo passo la terra
deglutisce l’ultima tempesta

intanto grate, le foglie
comprimono i nervi
dandosi del tu,
l’umano vergognoso
riporta in soffitta i dischi
di canzonette rinnegate
dopo la maturità,

fessura duro gli occhi
sugli angoli della bocca,
accende la radio. Continua a leggere

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POESIE INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Antonella Zagaroli, Marisa Papa Ruggiero, Maria Pia Quintavalla, Adam Vaccaro, Meeten Nasr, Lucia Gaddo

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

 

duchamp bicycle wheel

duchamp bicycle wheel

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

da Trasparenze in vista di forma
(poesie su foto)

Ti dici arrabbiato cartone inanimato

ti senti in gabbia?

Agli incauti spettatori
la lastra gialla mostra cosa pensi

ti diverti con lo scherno
ma non starai lì a lungo a beffare
hai gli occhi ampliati dall’orrore

Divino accusatore
presto qualcuno ti coprirà
nella biacca
fino al buio delle pupille.

30 maggio 2011 (foto Uno sguardo)

*

Paesaggio d’ombre illuminate
spiraglio d’ inconcludente materia
l’ occhio cerca un nome
anche nella polvere
anche in un angolo appartato

1 luglio 2011 (foto Tre sedie)

*

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

 Marisa Papa Ruggiero

A Paxos

Il grido secco di un corvo
su rupi calve di fronde
zittisce gli uccelli
rompe la simmetria del cancello
appena schiuso

Paxos riflesso nell’occhio del corvo
strapiomba nel mio occhio

Voli plumbei di nubi corrono a Paxos
Il fragore in acqua di un sasso
La foresta di querce esce dal quadro
Intere genealogie alfabetiche
aderiscono al crollo e tacciono
Laggiù fra i sassi
la nudità di un’orma dice
la calibratura esatta del mio corpo
attraverso lo spazio vuoto che la cinge

Io non giungo né mi allontano
acque vanno nella direzione opposta
più al largo di noi
dove mai torneremo

A Paxon il mio idillio in punta di piedi con la morte

Non mi adesca di queste acque il virus
che sbianca il viso il corpo
di chi la lingua ha mozzata
ma ne allatta l’assenza la concima
Del nuovo regno riconosco le piste
le ombrose spore tra nervo e nervo
le mucillagini remote
Papille di resina fiutano antichi Sali
sottolingua e le cortecce fibrose e i succhi
sulfurei
negli antri della carne

Invio segnali da questa pagina strappata
fumo nero da comignoli divelti
in lotta sulla mia pelle
le mie dita su tavolette di cera sanno
i codici rizomatici
esposti al flash al raggio

Scavo dentro le ossa la mia fatica
di minatore per ogni segnalibro
di germi vivi
tacendo tutto gridando
la sveglia senza lancette sul cuscino
l’ininterrotto crimine

A Paxos mi corre incontro mi acceca la parola mai stata

Ha strida gelate il corvo vola in cerchio
Il concentrico volo dentro il nulla
il corvo ha nell’occhio il soffio
ribollente e il sangue di tenebra
che lampeggia a distanza tra i tronchi

L’altra faccia che mai si mostra dorme di fianco
dice l’ombra che non ha suono
nella lingua dei vivi
dice l’erranza di tutte le parole
che mi hanno bucato palato e lingua
la mia zattera sempre più al largo
che scende il fiume
il sasso in ogni tasca
l’approdo mai stato

Paxos sogna se stesso nel quadro
in qualche piega storta della galassia
che adesso è fumo
Il gabbiano è quietamente sazio
Nessun albero da nessun suicidio è scosso
Il guardiano dello scoglio
reclina il capo sull’ala

30 maggio 2014

 

Maria Pia Quintavalla

Maria Pia Quintavalla

 

 

 

 

 

 

 

Maria Pia Quintavalla

Natura morta

Un cavallo legato
ad una grande fiamma che brucia

un annegamento dolce in un fiume
che rapidamente

una strada stretta di pioggia
che appoggia
tra due campi uno verde
l’altro marrone.

 

adam vaccaro

adam vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

 

Adam Vaccaro

Nature morte

Osso era un signore duro e fragile che riteneva di
essere il perno portante di ogni massa, somma
quasi di una forma di dio. Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento

*

Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa
propria incontrò finalmente un vento così forte
che lo inebriò al punto di fargli perdere misura
senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel
delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive
del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto

*

Il Sapore di quel pomodoro in campo aperto e
suo padre che diceva un po’ di sale da esperto
le rimarranno dentro gioia di un rubino rubato
in un sogno di libertà mai più ritrovato dentro
questa città in cui cammina gobba muro muro

pronta a fare balzi appena fila odore di potere
a fare versi e dire assaporando il suo sfintere
persino in nome delle donne pur di salire
scalini pronta a offrire fessure seno e gonne
facendo misture di fiele e miele Continua a leggere

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Marisa Papa Ruggiero  POESIE SCELTE “Di volo e di lava” (2013) Con una nota di poetica dell’autrice

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero copertina di voloda Marisa Papa Ruggiero   Di volo e di lava  puntoacapo (2013) pp. 90 € 10

Marisa Papa Ruggiero vive a Napoli dove ha svolto attività didattica e artistica. È attiva sia sul fronte della poesia, sia su quello della verbo-visualità, con partecipazione a mostre e a raccolte antologiche. Dal 1991 decorrono le sue pubblicazioni di poesia in volume con: Terra emersa, Napoli, collana L’assedio della poesia; Limite interdetto, Salerno-Roma, Ripostes,1993; Origine inversa, Napoli, Alfredo Guida, 1995; Campo giroscopico, con prefazione di Michele Sovente, Quarto– Napoli, Riccardi, 1998; Persephonia, con nota critica di Mario Lunetta, Lecce,  Pietro Manni, 2001; Oblique ubiquità, in Locus solus, Riccardi 2003; Passaggi di confine, con prefazione di M. Fresa, Salerno, L’arca felice, 20011;  Di volo e di lava, prefazione di G. Pontiggia – Alessandria,  Puntoacapo, 2013. Tra i lavori in prosa : Le verità bugiarde, e alcuni libri d’artista.   E’ presente, con testi poetici e critici in riviste italiane ed estere, in blog letterari, in raccolte antologiche (ultima è: alter ego. poeti al Mann – ed. arte,m). Ha partecipato come redattrice alla fondazione di alcune riviste napoletane di ricerca letteraria: Oltranza, edita da Guida e Risvolti edita da Riccardi. Per quest’ultima ha curato nei primi dieci numeri la sezione Interviste dedicata a noti artisti visivi e a poeti dell’area sperimentale. Attualmente è redattrice della rivista di poesia: Levania.  Recapiti dell’autrice:Via E. Suarez, 21 – 80129 Napoli.   E mail: marisapaparuggiero@libero.it

 *

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

giorgio de chirico interno metafisico con nudo

giorgio de chirico interno metafisico con nudo

«Dico subito che la scrittura poetica per me è un’arte molto visiva. Il modo con cui sento di comunicare le immagini, voglio dire la organizzazione figurale sulla pagina, diventa prioritario rispetto alla informazione comunicativa; ho sempre amato l’arte del calibrare il gioco degli spazi seguendo una necessità insediatasi chissà quando nella mia struttura; da qui, la scansione: segm. verb. – respiro; ed anche: linea frastica – unità verbale – sospensione; e ancora: ripresa distanziata di un nuovo segm. verb. strutturato secondo una ragione intrinsecamente tonale (temporale) e non narrativa, e così via. Il bisogno di ottenere senso stipato all’eccesso con mezzi misuratissimi, (da non intendersi necessariamente povertà di mezzi espressivi), un po’ come avviene sul tavolo di un architetto, (se penso per es. a mio figlio), ma io ragiono così: se nel caso di un progetto architettonico sono in gioco i soldi degli altri, che comunque non vanno sprecati;  qui (in poesia) entrano in ballo tra l’altro, il tempo degli altri, la pazienza, la noia degli altri, mai raccomandati, tutte cose di cui non siamo proprietari. Questo per dire che se è difficile che uno possa cambiare fondamentalmente una impostazione di pensiero (la scrittura poetica è la risultanza di una catena di stati mentali, di sperimentazioni, di ricerca ostinata nel corso di un processo lento, non disponibile a concedere spazio a improvvisazioni, a manierismi, a ghirigori e ricalchi di ritorno sulla pagina, ecc.) è sicuramente disponibile a  ibridarne la “purezza” in senso di maggiore ampiezza, di maggiore “plasticità”… e in questa prospettiva mi trovo con il tuo invito a rendere più espansa, più “corposa” la mia scrittura.

invito Firenze Ma non credo che accoglierei mai una poesia confessionale, come non credo che la poesia debba raccontare. Se si va sul notiziario, si rischia l’ingorgo, io sono del parere che si dovrebbe smetterla di ritenere che la poesia si fa coi mattoni, tu che dici? Bastano gocce, perle, mi piacerebbe se si facessero solo piccole cose rare, di quelle che se lette non si dimenticano. Forse l’arte non sta nel largheggiare, ma nel contenere… é bella la tua definizione: “le parole come tessere dinamiche” per dire i magnetismi, l’energia compressa in grado di trasmettere senso… E il contenuto? mi si potrebbe obiettare. direi che ne è compreso, quando succede che una poesia funziona è proprio perché quella “nota” è riuscita a far vibrare il suo interno significato…».

(Marisa Papa Ruggiero, risposta a Giorgio Linguaglossa) I versi in corsivo sono citazioni delle seguenti poetesse (a cui il poemetto è ispirato): per la prima: Antonia Pozzi, per la quarta: Marina Cvetaeva, per l’ultima: Amelia Rosselli (n.d.a)

marisa papa ruggiero passaggidiconfine 

 

 

 

 

 

 

 

Se riproduco distonie e scissioni
sento mie le tue voci

dove ti vedo apparire mi disperdo

io conosco più cose di noi due
conosco il virus che la piaga
ha contagiato
il fiume che ha lambito

Offrirò alla tua pelle olio di bacche
e grani da cingere la gola
la cineraria regina che lenisce
e lavande di rupe
fino all’ultima viola sradicata

sarà verde stasera la tua veste  

*

L’occhio è una lente
anarchica
centuplica l’attrito
lo deraglia
Famelica ogni fibra
si rivolta in luce
non regge gl’infrarossi
Doppierà congegni
ad orologeria celeste
in ogni fatica d’orme in ogni
fiato o timbro che attraversa
gl’interi stadi del ritorno
e ne rivolta i segni
l’ordine compiuto
e tutto passa
nel tronco cavo
il papavero della notte
che s’infuoca
la ciarliera gazza
custode del suo grido
e la sontuosa rosa
ultima di luglio
che sulla neve danza

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

 

*
Da un tempo non ancora giunto
ti congedi
e slacci doglie e divieti
corda tesa nell’aria
tu danzante in suoni
in ogni rigo o specchio
che ti pensa
tu scivolata a lato
tu
mai cercata
Ti congedi e ritorni
ad ali sciolte
all’inversione del crudo seme
alla declinazione esatta
che rende infinitamente aperta
quest’assenza
questa
taciuta assenza
che non ha misura
*

Questa spina di mirto
      ha inondato il giardino
      Il mirto che è nero
                             superbamente nero  
è l’esatta declinazione di un peso
atterrato nel mio occhio
si esercita a raggiungere la propria idea
ha intanto compiuto un mezzo giro
sul suo asse
ha invertito la prospettiva le finte grandezze
corretto la sproporzione la distanza
questa spina nerissima ha isolato
se stessa in campo chiaro
per vedersi da sola
se io la penso la guardo
Posso allungarla sul piano
o proiettarla in un punto
o tenerla in ostaggio in un libro
accanto a sferette a lancette fatte sassi

 

delitto tra i libri

delitto tra i libri

 

 

 

 

 

 

Se dici instabile
il tuo centro ti saprò
costante
in questa oscillazione
di estri sottolingua
Di te so il peso
i punti di sutura sulla guancia
l’aritmia nascosta
di globi e globuli a rilancio
in corsia preferenziale

Se t’improvvisi in tregua
per incanto
trattengo la schermata
e mi ci specchio
*
E spingere
qui a metà viale
il buio con le mani
alle gole chiuse di ibischi
e smarrire il cerchietto d’oro
tra smilzi steli senza nome
come ceri spenti
ingoiando il fiato
agli occhi dell’autunno
che a rovesci tra poco
farà più grigia
la roccia raschiata viva
nella camicia nuova
di ferro a rete

giorgio de chirico, ulisse

giorgio de chirico, ulisse

 

 

 

 

 

 

 

 

Tu passi il viale
verso la cieca curva
una corrente d’ali ha gonfiato le aiuole
ha cambiato il nome alle
scale di sicurezza
ha rivoltato il sentiero
l’inclinazione orientale
di quest’arsenale fossile in disuso
(e l’ogliastro vecchissimo scheggiato trema
all’origine della lesione)
tu
che svolti la curva
e mi lasci la scia
di cifre algebriche e frane
sulla roccia lunare
e lieve inverti
la metrica del volo Continua a leggere

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“LA GRANDE BELLEZZA” DI ROMA – Marisa Papa Ruggiero UNA POESIA “Io, il Gladiatore” – Inedito

roma il gladiatore

roma soldati romaniroma Il-GladiatoreMarisa Papa Ruggiero è nata a Roma nel 1943, ma vive a Napoli, dove ha insegnato per un trentennio nei Licei. La sua attività creativa (poesia lineare-visuale, prosa e critica) è documentata in diverse pubblicazioni antologiche e in riviste quali: «L’area di Broca», «Offerta Speciale», «Oltranza», «Lettera Internazionale», «Novilunio», «Risvolti», «AD HOC», «Paradossi Visuali», «Accenti Mundus». In «Poesia» è apparsa nella rubrica a cura di Mariella Bettarini: «Donne e poesia». Tre sue raccolte poetiche: Terra emersa (1991); Limite interdetto (1993); Origine inversa (1995, Premio Minturno); Campo giroscopico (1998); Persephonia (2001, presentato più volte come evento teatrale); Oblique ubiquità (in Locus solus –2003); Energie di campo (in Al di là del labirinto, 2010); Paesaggi di confine (L’Arca felice, 2012); Di volo e di lava (puntoacapo, 2013). Tra i libri d’artista: Il passaggio dei segni (2003); tra le opere in prosa: Le verità bugiarde (2008). È stata redattrice delle riviste: «Oltranza» e «Risvolti». Ha collaborato come redattrice alla fondazione della rivista di letteratura «Levania».

marisa papa ruggiero 1
Io, il Gladiatore

Le stelle a quest’ora hanno inondato l’arena
ma da dietro le sbarre vedo la notte cadere
dentro il mio corpo
il nuovo giorno tra poco
spingerà il suo passo dagli orti lontani
e incendierà i profili dei templi…
io, il lottatore più amato, l’atteso
da tutte le folle, io il trofeo designato
per festeggiare il Proconsole,
a me è dato il privilegio supremo:
sarà la belva più fiera e possente
la svolta finale del mio fato
in questa scheggia del tempo,
in questa piccola piega dell’universo
che fu il faro eterno del mondo…

Ma qui su questa terra fradicia di stragi
che esala tanfo di morte
corvi e sciacalli inferociti fiutano
la miseria lurida del sangue
il contagio eretico in ogni cellula,

a me è dato conoscerlo
io lo conosco
quell’urlo vivo imploso nella cenere,

io lo conosco nella carne

cos’è lo strazio che smembra e squarta
cos’è la morte,
tu inginocchiati
dal tuo colle olimpico
se puoi inginocchiati,
a te racconto cos’è la grandezza di un uomo
e lo racconto a te che oscenamente ti allunghi
sulle gradinate di questo stadio circolare,
a te bestia immonda che dal mio
sangue ti nutri e ti riproduci

Dove sono i Lari miei tutelari,
le tentatrici ninfe, gli erborari sacri?
Io su questo giaciglio sento
il gelo dell’abbandono in ogni osso
come un lungo grido sott’acqua
che nessuno sente,
la cetra della mia donna è da tempo muta:
quel giorno lei, la cantatrice, sulla mia sorte
ne strappò le corde e si recise la gola
ma ancora morde alle tempie
il suo canto tra le sbarre
come lapilli infuocati!

Fuori di qui altra strage si appresta,
l’eccitazione lascivamente striscia dai vicoli
e sale oscura dalle fondamenta;
si dà olio ai carri da guerra
si affilano le onorate armi,
guerrieri baciano le spose, non sanno
che il mostro viene da dentro,
romperà selvaggio gli argini ed è
cieco furore e caos

Io domani
oltrepasserò l’intero stadio della carne,
sì, le stelle hanno già inondato l’arena,
servirò d’immagine al coraggio
di molti e sarò in una sola volta
tutti i miei rami spezzati e
rinati, ogni albero
nato da me e
ogni mia morte
io sono il seme che lotta divenendo
orma e memoria, divenendo fiato e furore Continua a leggere

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LA GRANDE BELLEZZA DI ROMA – SUL TEMA DI ZBIGNIEW HERBERT: IL RITORNO DEL PROCONSOLE. Zbigniev Herbert, Giorgio Linguaglossa, Sandra Evangelisti, Francesco Tarantino

Il Mangiaparole rivista n. 1 

Zbigniew Herbert

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

(traduzione di Paolo Statuti)

Roma_legionari in marciaGiorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Il generale Germanico scrive al suo comandante di Coorte Giulio Decimo

…mio amato Giulio Decimo, tu dici
che «non son sicuro di voler tornare
ma tornerò alla corte di Cesare,
domani o anche dopodomani».

Cosa vuoi che ti dica?, un tempo
sei stato un valoroso soldato,
il tuo generale era fiero di te,
vessillifero della centuria, ti ho visto in
cento battaglie sempre davanti ai manipoli,
forse sei stato inviso agli dèi ctonii
se mille frecce non ti hanno colpito
e cento spade si sono spezzate sul tuo scudo…

Tu mi dici che adesso pianti gli alberi
di ulivo sui declivi dei colli di Miromagnum
e insegni ai bambini le poesie di Ennio
e dei neoteroi di Roma, e che sei
contento così, che il tuo animo
ha trovato la quiete che cercavi…
Lascia che io ti dica come tutto ciò è fallace amico mio

Cesare si pasce della nostra quiete,
lui è munifico e beffardo, sordido
e astuto, distribuisce frumento
alla plebe, sesterzi ai fedeli pretoriani
e spettacoli con i tori, i leoni e con curiosi
cavalli dal lungo collo che vengono dall’Africa,
le arene sono rosse per il sangue
dei gladiatori, i prezzi della Suburra
sono alla portata di tutte le tasche
e il regime è democratico, temperato;
ci danno ad intendere che il Principato
sia lo sbocco naturale del peripato…
Cinquanta inverni ci pesano sul volto
attraversato da spighe di grano maturo.

Ti chiedo: per quanto tempo ancora dovremo
Roma1 tollerare questo Cesare di argilla?
Per quanto tempo ancora dovremo fingere
assenso alle sue magagne e inneggiarlo
con iperboli sottili e lambiccate?
Per quanto tempo, Giulio Decimo?
Già, dicono le folle che Cesare è magnanimo,
che alla corte di Cesare c’è posto,
che c’è sempre un posto al sole
per chi accetta di stare all’ombra.
«Appunto – dico io – per chi accetta di stare all’ombra». Continua a leggere

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ANTOLOGIA III PER IL PARNASO – Francesca Diano, Antonio Sagredo, Alberto Figliolia, Maria Grazia Insinga, Francesca Tuscano, Ivan Pozzoni, Antonio Coppola, Marisa Papa Ruggiero, Francesco Tarantino

Parnaso-Apollo-Venere-Mercurio-e-le-Muse-di-Andrea-Mantegna

Francesca Diano

Congedi.FOTO FRANCESCA 2
Viatico in undici stazioni

I
L’ESCLUSA

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me. Continua a leggere

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