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Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Post-meridionalismo Il 16 aprile, a Roma la presentazione della Antologia “Il rumore delle parole.  Poeti del Sud” (EdiLet, 2015) interventi di Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa

Antologia Il rumore delle parole (2)La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa.

Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone. Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili. Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica». Il critico ha proseguito accennando alla attuale «stagnazione del panorama editoriale»  per via delle cointeressenze che attraversano il mondo dell’editoria le cui coordinate editoriali sono dettate dagli Uffici stampa. Cesare Pavese o Vittorio Sereni si muovevano in un diverso assetto editoriale e culturale, non avrebbero mai accettato una situazione come quella odierna. I criteri di selezione dell’Antologia sono stati altri, si sono individuati gli autori in base a  criteri meramente estetici.
Sia Letizia Leone che Giorgio Linguaglossa hanno poi inquadrato la poesia del Sud, come anche quella del Nord nell’ambito della crisi dell’ontologia che è avvenuta nel tardo Novecento.

Altra categoria entrata in crisi, a detta dei presentatori, è la categoria del «nuovo». La poesia è piuttosto da considerarsi come un evento (Ereignis) che capita nel tempo e nello spazio e che si situa nell’intersezione tra due coordinate, che abita un preciso punto dello spazio, del tempo e della storia; una volta avvenuto, l’evento cambia la dimensione, si aprono nuove e inedite prospettive. I critici si sono soffermati su un punto in particolare che contraddistingue la poesia del nostro tempo: gli autori dell’Antologia non si pongono più come seguaci di una ideologia, di un canone, di un modo di scrittura ma aderiscono ad una visione centrifuga e periferica assieme, assumono punti di vista assai distanti gli uni dagli altri e stili di scrittura assai differenti.
Altro elemento invariante rilevato dai critici è  che nessuno degli Autori presenti nella Antologia può esser considerato un epigono del minimalismo italiano così come si è configurato negli ultimi decenni del Novecento. In tale accezione gli stilemi del minimalismo sono stati assunti e fusi insieme ad esperienze stilistiche e culturali le più diverse. Sia Linguaglossa che Letizia Leone hanno sottolineato gli sforzi degli Autori di procedere verso un diverso modo di convocare le cose e gli oggetti in poesia, insomma, di chiamare le cose col proprio nome anche se in poesia non è poi così scontato che i risultati estetici seguano meccanicisticamente alle premesse, il nodo centrale è che le parole vanno messe dentro una qualche tradizione linguistica e stilistica, hanno vita soltanto in una tradizione ma laddove questa manca o accusa un periodo di «latenza», anche la poesia che si tenterà di fare accuserà il colpo; ma se la poesia diventa consapevole di questo nesso storico-estetico, allora la poesia del Sud potrà assumere in tale orizzonte culturale un ruolo significativo e propulsivo.

Letizia Leone ha infine definito interessante e valido il discorso sul rapporto poesia filosofia riportato nell’introduzione al volume in questione, ed ha accennato alla connessione interna tra i due poli. In tal senso Linguaglossa, ha detto la Leone, conferma la sua vocazione militante, una sorta di rabdomante alla ricerca delle falde poetiche (del Sud).
La Leone ha poi accennato alla lucidità ermeneutica e di diagnosi indispensabile per mettersi sulle tracce di quel sentiero della Linea meridionale di poesia individuata negli anni Cinquanta da Contini, Quasimodo, Gatto… da una terra appenninica da cui si va in esilio, una terra di emigrati e sradicati, da Scotellaro a Calogero.
Quasimodo auspicava una Carta poetica del sud nel 1953, cosa interessante per testare la distanza da una situazione odierna che vede autori meridionali del Novecento come Bufalino Sciascia Ortese Serao spesso dimenticati dai programmi scolastici, con danni inestimabili verso un ingente patrimonio spirituale e artistico del nostro paese.
L’articolazione  geodetica e geopoetica,  sia la latitudine che la longitudine, “colloca” il linguaggio poetico (Brodskij) nell’ambito della storia e contribuisce a cambiare la Lingua e il linguaggio poetico.
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo.

Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica.
Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito  parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che  Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica. Così, la figura del poeta è ragguagliabile a quella di un esiliato, il poeta è un de-territorializzato, de-istituisce più che istituire qualcosa, s-fonda più che fondare quella cosa che chiamiamo la Lingua poetica; gli Autori accomunati nell’Antologia sembrano voler quantomeno invertire questa tendenza, vogliono recuperare l’esercizio del pensiero, sentono di abitare un senso della storia dove la parola poetica è dolore della mancanza della parola; a tal proposito la Leone ricorda Quasimodo il quale ricordava che la nascita di un poeta è sempre un atto di disordine.
Al termine della presentazione critica è seguito il reading degli Autori presenti in sala: Gino Rago, Daniele Santoro, Silvana Palazzo,  Marisa Papa Ruggiero, Michele Arcangelo Firinu, Marco Onofrio, Raffaello Utzeri, Giulia Perroni.

A.F.

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile Gino Rago

Fuis 16 aprile Gino Rago

fuis 16 aprile  Giulia Perroni

fuis 16 aprile Giulia Perroni

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ANTOLOGIA DI POESIA (Estratto III) “Il rumore delle parole Poeti del Sud” (2015) Giuseppina Di Leo, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Eugenio Lucrezi, Abele Longo, Marco Onofrio a cura di Giorgio Linguaglossa

Antologia Il rumore delle parole (2)Estratto (III) da ANTOLOGIA DI POESIA “Il rumore delle parole. Poeti del Sud” Giuseppina Di Leo, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Eugenio Lucrezi, Abele Longo, Marco Onofrio a cura di Giorgio Linguaglossa Roma, EdiLet, 2015 pp. 280 € 18 

 

giuseppina di leo

giuseppina di leo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

A nonno Leonardo

Su materassi di paglia dormivo da bambina
accanto la voce amata. Su due piedi possibili
il tempo sosta in attesa fino all’ultimo,
un piolo per volta, fino alla lunga stanza;
il pavimento in cemento lo scorgevi infine,
proscenio della camera dalle due finestre.
E sulla scena, l’odore delle pesche sotto il letto.

*

[Le quattro pietre]

Le quattro pietre ancorate al mare sembrano sorelle,
quattro dita in tutto afferrano il mare. Così, se tu temi
la luce vorrebbe dire dover lasciare l’uscio chiuso per
troppo ancora. Rimanda la paura. A dopo. E intanto
siediti. Resta. Con un gesto del piede allontana dunque
il pensiero dalla fronte, troppi angoli mostra il prisma,
troppi colori conta l’arcobaleno, nel sole i raggi,
tanti quanti i visi. Lontano dagli sguardi serba il seme
per piantarlo all’uso del lunario, e di quel che resta
a me basterà l’odore delle cotogne e della paglia.

*

L’uomo onda

All’inizio fu il silenzio e la terra era feconda
foreste lussureggianti racchiudevano suoni di vento
e nel mare era nascosta la voce profonda di un amore
sarebbe arrivato sulla riva nelle vesti di uomo scolpito
dal flusso delle onde, sarebbe salito sulla parte alta
e avrebbe poi urlato al silenzio il suo segreto.

«Dalle tasche del mare altri suoni arriveranno», disse al giovane fiore
e così parlando pensò lo avrebbe colto nel sonno di un’estasi.
«Si giunge lontano stando fermi», gli rispose allora il fiore
«nessuno tra noi due sa chi per primo cederà il suo stelo
al vento». Non si sa se fu lo stato di paura, irrazionale quanto basta
foriero e preannuncio di ogni altro eco terrifico a portarlo via
ma a quel dire colpì dapprima la terra sollevandola
con le mani aperte rivoltò più volte la zolla, afferrò poi
il bastone potente del comando e percosse con quello
stelo a stelo ogni singolo filo d’erba; ogni singolo gambo
si abbassò diventando tutt’uno con la terra
afferrò nuovamente con due mani la spada
l’elsa della forza lo istigò a tracciare scavi profondi nelle viscere
la terra rimasticava le sue radici d’oro e la farfalla si tramontò
in bruco e il bruco in terra, mentre l’uomo continuava a far
marcire nel sonno il silenzio prezioso di un tempo. La parola attesa
si trasformò in bestemmia, la bestemmia in rancore
fino a quando il fiore del silenzio si aperse in rosa di sangue
con due ali sui fianchi scese nell’imbuto del tempo
fino a che insieme al tempo non si squarciò il dolore.

 

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Michele Arcangelo Firinu

a mia figlia Eleonora

Come usignolo, che becchetta il globo,
va razzolando chiccoli di grano,
così i miei occhi tremano inesausti
su troppi temi e testi
e mi avveleno delle carte sparse
e plastiche e fosfeni;
il mondo è troppo ricco e misero
ma io vorrei licheni
sulle palpebre, che ormai si fanno pietra
e io statua di sale,
granito
nel deserto
*
Più che le umane amai
le chiacchiere dei venti
che ridono dei templi sgretolando,
coi trapani dei grilli,
nelle statue i sorrisi, labbri e nasi.
E i muschi si sommano ai licheni tra le scaglie
di pinne bicaudate.
Mirabile monstrum!
Si va su ali di sirena,
tra castagni e querci.
Dorme un dono di bimba
e partorisce un sogno:
due leoni di pietra
che van cantando me, che son
Passato
Padre mio

 

(In memoria)

Avevo non so più quale
ragione di poesia,
padre mio, ora non so più quale,
se i pensieri s’inseguono nel tempo:
bucano il tempo, i tempi,
e una strana ragione
corre a riordinare
fili interrotti di pensieri:
incompiuto ordito della trama
del tempo già intessuto, ed ora liso,
trasognato e sognato:
i miei fili confusi
annodati a inglobare altri tempi:
i tuoi come miei, come gli altri
degli altri: come i tempi di tutti:
come tutti i tempi dei tempi rovesciati
nella ristretta lana del mio lacerto di tempo:
come una poesia che rifila gli enigmi:
le infinite trame dei tempi
nel buco della trama
in cui mi perdo: tremando
alla tua morte:
alla mia morte:
come a un buio
che fa ammenda di stelle.

maria grazia insinga

maria grazia insinga

Maria Grazia Insinga

[Nascita]

Nulla di poetico da segnalare:
sempre dall’inizio nella rimessa del mondo nel mondo
da un armadio appeso schiantano vestiti
e sospesa la camera in un lampo si iberna.
Cibarti – cibarmi – di me l’unico fuoco.

*

Tra le costole scorre via il nome.
Ne convengo: è morto. Sta un passo oltre.
Prima che io arrivi. Prima di voler andar via.
Asincronica affinità con la morte il mio povero nome!
E tu, per suo nome affondi la lingua. Tengo serrati
i denti sul rigoglio bachiano. Poi, disinfetto.
Disinfetto questa purezza così tecnicamente dolce
questa purezza antropizzata, per semplificare il male.
Metterlo alla porta. Ma è un incendio.

*

Al risveglio eravamo mostri in cima al mondo
affinché da lì fossimo scagliati come pietre
– avvolgi il sasso nella carta cesserà di battere
dappertutto assorella forbici a carta e carne
s’impallidirà bellezza – e al risveglio eravamo morti e non
è bastato lanciare quattro modanature
imperite sul marmo rosso imprestato ai dirupi a
fianco delle cave raccogliendo il quinto sasso non
recuperavo in aria gli altri piccoli marmi di
perfezione lingua di balena senza linguaggio da
consumare e non credo più o meno di quanto io non
creda rido di me e non riesco a credere come
io abbia potuto credere più o meno di quanto
io non avrei mai dovuto credere
hai dimenticato Orcaferone morte
immortale che il sasso batte dappertutto e io
sono un mare di giardini d’aranciare.

abele longo

abele longo

Abele Longo

Terra di nessuno

Non ricordo chi per primo
parlò di quel pezzo di terra
pietraia non lontana dalla cappella

Forse era della Chiesa
ma non lo chiedemmo al prete
o di qualcuno andato in Svizzera
e mai più tornato

Ci lasciammo una lavatrice arrugginita
seguirono altri elettrodomestici
materassi sventrati
pile di rifiuti che vedevamo
portando in spalla il santo alla cappella

Se nei meriggi d’estate
succedeva di passare
non potevamo non notare
come le cicale frinissero
quasi a coprire il silenzio
di quella terra di nessuno

.
Mappe

In una terra senza corsi d’acqua
m’inventai un ruscello dietro casa

Vennero in missione punitiva
raccontare balle non stava bene
ma se ne stettero ad ascoltarmi
e fumammo le nazionali

Parliamo ora di equilibrio
ma l’ascolto è gutturale
ha bisogno del vivavoce
ogni gioia si accomoda come
la tristezza all’odore della pioggia

Fermi tra un treno e l’altro
propositi e pensieri
a perderci è la vista
lo spazio oltre lo schermo

Molto meglio il libro delle letture
piccoli neri persi nella giungla

Il sussidiario dice
che ci inghiottirà il mare
e man mano che la cartina scende
spariscono i nostri nomi

eugenio lucrezi con la moglie paola nasti

eugenio lucrezi con la moglie paola nasti

 Eugenio Lucrezi

Guardare da lontano chi è vicino, guardare da vicino chi è lontano
Festa di compleanno

a Francesco Maria

.
Stordente come tutto ciò che torna
per volte numerose e persuase
nel punto dell’arrivo, alla partenza,
abile come so che siamo,
che sono e che sei,
all’esercizio della morte, del solo
abito che ci sta bene, arriva l’anteprima
che ride e che ci abbraccia, senza posa.
Ho fatto festa solo, da lontano,
tenendo tutti gli attimi per mano,
tutti i respiri tirati con le briglie,
ed il rumore che si tuffava cieco, beato,
nel buio del ristoro, in fondo a tutto.
O vita, vita, sonora eco e ricanto,
appena lascio il buio sento chiara
la voce cristallina dell’altro me
che mi segue e mi chiama, infante
del trabocco, ingenuo canto.
Tra il basso e l’alto, misuratore di spazi,
tu tutti li riempi, nato da poco,
esperto e trapassato, occupato da voci,
appena nato.

Fratelli

a Bernardo Kelz

.
La fratellanza aggiunge alla rinfusa,
se fosti tolto fu per dare terra
a una nuova radice, non fa niente
se la voce che parla dice forte
di stare al posto tuo. Qui, riparato
da te, il vento mi travolge. Abilitato
dal debito degli anni, prendo tempo,
convoco folle nuove al tuo cospetto.
Ma dare non è un dono, è la ventura
di chi nell’ecatombe chiude gli occhi.
Il tempo che mi prendo non mi è dato
da te, solo sfiorato nell’oscuro
dei sangui e delle lacrime. Nessuno
volle unirci nell’abbraccio. Ciascuno
per l’altro inconosciuto. Poco meno
di Dio, praticamente.

Marco Onofrio e Aldo Onorati

Marco Onofrio e Aldo Onorati sullo sfondo

 Marco Onofrio

Anatomia

È vuoto, il corpo del pianeta
in fondo al cosmo. Pare
l’anatomia dell’argine, la forma
invisibile e presente
da esplorare
nel rovescio nostro: ci tiene
e contiene, dal caderci dentro
come l’aria che aderisce
a quel che siamo.

Il respiro abita, materia
dove la luce crepa di salute
ma ci inocula una rara
malattia.

Lievita la terra come il pane
che mastico sapendo ogni boccone
mentre arranco sulle rapide
a sghimbescio: appeso
ai fili del silenzio, il cielo
diverso ogni volta che lo guardo
mi apre un grande buco
sotto i piedi. E inutilmente
corro, sono stanco.

Sera di giugno

Eccomi, sono arrivato. Tremo
di gioia fino ai bordi dell’estate
ancora nuovamente innamorato
dinanzi a una bellezza così pura.

Oh estasi, infinità sognante!
Profonda limpidezza della vita.

Scie d’azzurro viola nel gran blu
scavano gallerie nel sole:
isole, sulle foglie larghe
della tua magnolia.

Ondeggia – crisoberillo – il manto
luminoso della sera.
La ragazza si prepara per
il ballo. Annoda il tappeto del tempo:
ora dopo ora si fa storia.
Tra poco sarà notte.

C’è del pulviscolo che rotea lento
dentro i raggi obliqui:
vaga per l’aria tenera
giallo d’opale e amaranto
l’oro misterioso verderame
il dolce incanto…
e il cielo, gonfio, s’introna
con gli uccelli a frotte:
cupa spelonca purpurea
lucido reame
spento dal suo ultimo bagliore…

Ecco, i colori lasciano le cose.
Un altro giorno muore.

La stella dell’alieno

«Se potessi andare lassù
su quella stella!»
mi dici trasognando in un sospiro.
Come fosse un luogo più degno,
più bello o straordinario
del gabinetto rotto di casa tua
e non fosse già un miracolo
che esistiamo, che pensiamo
e possiamo parlarne.
Anche qui, quaggiù, è universo:
nel posto che ti sembra più banale
nel giorno più imperfetto del dolore.
È questa la stella, su cui l’alieno
vedendola brillare da lontano
sogna di arrivare!

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POESIE SCELTE di Michele Arcangelo Firinu Chris Steven, l’ambasciatore ucciso, Mark e Eddy, gemelli, Volano Angeli, Ave Maria, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

 Michele Arcangelo Firinu è sardo di Santulussurgiu, nato nel 1945, e vive a Roma. Ha insegnato Lettere nella Scuola Media fino alla pensione. Nel 1974 ha collaborato con Bruno Corà alla realizzazione della Mostra d’arte Contemporanea a Roma. Negli anni ’80, a Milano, è stato redattore del periodico letterario il bagordo. Negli stessi anni, con il gruppo Orfeo80, è stato tra i promotori di alcuni tra i primi laboratori di scrittura creativa in Italia. Come titolare della Oximoria (piccola casa editrice, estinta con il bagordo, che editava) ha curato due piccole collane di narrativa e poesia, tra le quali la collanina Taschino e ha collaborato all’uscita del catalogo antologico di poeti Centodue (’86). Ha prefato e ha curato l’editing di alcuni libri di narrativa della editrice Polistampa Pagliai di Firenze. Nella seconda metà degli anni ’90 ha presieduto a Roma l’associazione culturale CEPAA – Teatro del Centro. Ha organizzato e curato svariate attività culturali, convegni, mostre d’arte, concerti di musica classica ed operistica, rassegne teatrali, corsi di università popolare, conferenze, rassegne e letture pubbliche di letteratura. Nel 2008 a Santulussurgiu ha diretto A libro aperto, uno degli 8 festival letterari della Sardegna. Ha pubblicato poesie su il bagordo, l’Avanti, Poiesis, il giornale nazionale COBAS dei Comitati di base della scuola e divulgato mediante letture in circoli, radio e su Internet. Un unico suo librino è dato alle stampe: Luminescenze, con sette disegni di Luigi Dragoni, il 174 della Collana dei Numeri, Editrice Signum d’arte diretta dal pittore Claudio Granaroli – michelearcangelo.firinu@fastwebnet.it

Chris Steven l'ambasciatore americano assassinato

Chris Steven l’ambasciatore americano assassinato

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

C’è una oggettività tutta brechtiana nel modo di porsi davanti agli eventi della cronaca da parte di Michele Arcangelo Firinu, il distacco e, insieme, la partecipazione ad eventi dolorosi e assurdi che capitano agli esseri umani delle classi subalterne. Firinu ha il merito di restare ai fatti, ritiene che una delle consegne a cui deve restare fedele il poeta sia quello di aderenza ai fatti e di doverli soltanto commentare con una poesia che sta a mezzo tra la filastrocca e lo strofeggiare finto assorto dei poeti laureati. Ma c’è anche il sarcasmo del poeta che prende ad oggetto delle sue poesie d’amore proprio i disperati operai morti nel cantiere, o i due gemelli che hanno chiesto l’eutanasia, o una prostituta di nome Maria. Le poesie d’amore di Firinu sono anche e soprattutto poesie di sarcasmo contro l’ipocrisia della pubblica opinione e della stampa che, com’è noto, dopo i fatti truculenti di cronaca passano con disinvoltura al commento di altri fatti rosa. È un modo, questo di Firinu, per mettere sotto i riflettori della poesia eventi che altri poeti più politicamente corretti si guardano bene dal trattare, preferendo tematiche più rispondenti a ciò che la pubblica opinio ritiene debbano essere gli argomenti statutari della poesia.
Una particolare nota di merito va fatta al trattamento del metro libero di Firinu, sempre accortamente studiato e variato secondo gli strumenti della reiterazione, dell’anafora e della anadiplosi con una particolare interpretazione della variatio di strumenti metrici molto diversi.
Una poesia che vuole in apparenza presentarsi come accompagnamento ai fatti si dimostra invece essere uno strumento di straniamento e di smascheramento dell’ipocrisia generale della società nella quale viviamo.

Poesie di Michele Arcangelo Firinu

Chris Steven, l’ambasciatore ucciso1

Muore ben pettinato l’ambasciatore,
eppure muore
e pare, nell’impietosa foto
che lo esibisce al mondo, un ecce homo,
un cristo povero deposto
dalla vita e dal suo posto,
che gli fu onore e gloria
e ora croce
di supplizio e di guerra,
come l’onorificenza postuma,
che appenderà la vedova
in salotto,
sotto il ritratto lustro,
e che dirà feroce
che a se medesimo l’ambasciatore
portò pena,
dopo che ai suoi nemici,
nell’imperiale guerra.

(Roma, 12 settembre 2012)

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Mark e Eddy, gemelli*

Nel pancione-aerostato di Mary
con amore Romy depose il seme,
affinché nelle azzurre acque della sposa
si cullasse la sua progenie.

Nella voliera liquida
staccata dalla terra,
come in una campana vitrea, silente,
due esserini monozigoti maturarono
e galleggiavano,
stretti stretti tra loro,
nel calore dell’amnios.

Nati, crebbero interpretarono
il film della loro esistenza
senza colonna sonora alcuna,
l’uno rivolto all’altro
a grammaticarsi sguardi,
i sogni ben ficcati nelle palpebre
e letti a specchio da iride a iride.

Scorre la polvere dei giorni
e riempie le clessidre sorde.
I due calzolai siedono al desco, ridono,
piantano chiodi su tacchi e suole
senza rumore.

Colma la polvere le ampolle:
quarantacinque anni nelle clessidre sorde.

Ma ora muore anche la luce
nelle pupille dei due fratelli.

Nelle loro silenti campane di vetro
non tollerano che il glaucoma
gli cali la mannaia del buio. Rattrappirsi
annichiliti, ognuno dei due in un singolo bozzolo,
come monadi senza finestre,
non sarebbe più vita.

Indossano per l’ultima foto, dopo il caffè,
un sorriso tenue, dolce, sbiadito,
dentro le tute e le scarpe nuove.
Il fratello Dirk, il papà e la mamma
li stritolano mentre li abbracciano,
serrano i denti, che non sfuggano lacrime.
Mark e Eddy Verbessen, gemelli, salutano:
“Ci vediamo in cielo”
e si coricano vicini,
come due bambini buoni
in una poesia pascoliana,
tenendosi stretti la mano.

Per due anni hanno implorato le cliniche
che non li lasciassero soli a cercar la finestra,
lo sparo, lo sfracello da un ponte.

Rispetta il loro volere
il dottor Distlemans Wim, pietoso.
Al Bruxelles University Hospital Jette Campus,
il quattordici dicembre duemiladodici,
fa scorrere nelle loro vene l’eterno riposo.

Erano in tale sintonia, i due gemelli,
che con la morte si son voluti siamesi.

(Roma, 24.02 – 5.03.2013)

Pittura Stefano Di Stasio 10

Stefano Di Stasio

Volano Angeli

Ai caduti sul lavoro, moltitudine;
All’Osservatorio di Bologna sulle morti sul lavoro in Italia, morti bianche, infortuni mortali sul lavoro, che di tale moltitudine tiene conto e memoria.

Come volano gli angeli
che volano,
che volano dai tetti,
che volano e non hanno ali,
che sfidano i marciapiedi incatramati.

Come volano gli angeli
quando li sprecano, non li proteggono;
come volano gli angeli dai palchetti
e non hanno ali,
non hanno freni si sfracellano
nei cortili dei cantieri desolati.

Come volano gli angeli
nei cieli delle fiamme torinesi:
l’ala di fuoco, la mano di dio
li ghermisce,
li solleva,
li sbatacchia,
li sublima
nell’ordalia della linea cinque
degli altiforni della ThyssenKrupp.1

Come non volano gli angeli,
come non volano:
s’addormono dentro la Saras,
s’infetano dentro quell’amnios,
dentro quell’utero metallo-chimico,
nella bestemmia di desolforazione
al Mildhydrocracking 1;
come non volano quando s’accasciano,
sono tre e restano gli orfani: tre
in un amen.2

Oh, come volano, saettano gli angeli,
in un tempo molle che gli s’affloscia
sopra la testa dentro lo schianto
del capannone; com’è volato
nella buriana quell’angelo sfranto
a Tortolì.3

Come volano gli angeli che volano
dentro le tute,
che gli s’inzuppano del loro sangue;
sono alle macchine, sono alle isole,
quando s’impigliano alle catene
e gli ingranaggi coi loro sorrisi
di acciai dentati
bene li masticano,
bene li mangiano,
bene li sputano,
bene li vomitano.

Volano pezzi, falangi
di angeli; volano mani,
decollano gambe,
saettano braccia:
quanto sarebbe vasto
il campo non-santo
delle tombe degli arti?
Sprizza il sangue degli angeli bastardi,
annaffia campi e hangar, nutre
pance di macchine ebbre.

Come volano gli angeli migratori:
mettono ali ai loro pensieri
sciolgono vele ai desideri;
per un pane sfidano il mare;
angeli belli, angeli neri,
nessuno li vuole coi loro fuscelli;
volano dentro l’azzurra voliera,
non trovano pane, bevono sale,
saziano pesci, saziano squali
in quella liquida profondità.

Oh, come volano gli angeli delle riserve
che non lavorano,
che non li vogliono,
che non li pagano,
che non consumano,
che non dimorano,
che non si lavano,
che mal si vestono,
che molto tanfano;
nei marciapiedi dormono,
nei marciapiedi siedono,
nei marciapiedi questuano,
nelle panchine ubriacano,
e negli inverni ghiacciano,
di quando in quando bruciano
e nelle fiamme crepitano
e nelle fiamme strepitano
e nelle fiamme crepano
e negli inferni involano.

Com’è silente nel gelo il volo
degli angioletti di carbone e cenere:4
bruciavano stracci imbevuti nell’alcol
nella baracca, per riscaldarsi.
Volano nell’ombra del cupolone
nel cielo arrossato dalla nostra vergogna,
in questa gogna grassa, la Roma empia,
che ha eletto l’oro come cuore di dio.

Com’è volato l’angelo Ion5
messo al servizio di un bel rottweiler,
Mema il romeno, placido e docile,
metteva il cane alla catena;
ma un giorno quel cane si è rivoltato
e ha messo l’uomo alla catena;
come volava la testa di Ion:
correva il cane figlio d’un cane,
giocava nel prato e beveva quel sangue.
Non vide il Natale mentre volava
la testa spiccata dell’angelo Ion.

Oh, come volano gli angeli
che nei tralicci salgono,
che ci lavorano,
che vi si folgorano,
che vi si bruciano,
che vi si cuociono,
che poi li calano,
che poi li interrano,
che poi gli mancano,
che li ripiangono nei Ferragosti,
dentro gli odori dei loro arrosti.6

Come volteggiano,
quanti ne volano
e non manca giorno,
in ogni refolo,
in ogni angolo,
in ogni spasimo,
anno per anno, in ogni mondo:
come in battaglia in una tonnara,
come in mattanza a Little Bighorn7!

Volarono angeli di argenti, ori,
zinco, silicio, quarzo, azzurrite;
volarono angeli a Monteponi
a Trubba Niedda, Perda Majori,
al Salto di Quirra di Gerrei,
a Monte Pisano8 e un battaglione
nelle budelle di carbone;
erano tanti a Marcinelle9:
ci fu un boato, li tirarono su,
avevano ali di grisù.

Oh come volano,
volano gli angeli,
e come folano,
come s’affollano
dentro i silenzi,
dentro l’oblio,
privi di un angelo,
privi di un dio.

(Roma, 28.12.10 – 16.03.20) Continua a leggere

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UNA POESIA INEDITA di Michele Arcangelo Firinu “L’isola che non c’è” SUL TEMA POESIE SULL’ISOLA DELL’UTOPIA O IL NON-LUOGO con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu è sardo di Santulussurgiu, nato nel 1945, e vive a Roma. Ha insegnato Lettere nella Scuola Media fino alla pensione. Nel 1974 ha collaborato con Bruno Corà alla realizzazione della gigantesca Mostra d’arte Contemporanea a Roma. Negli anni ’80, a Milano, è stato redattore del periodico letterario il bagordo. Negli stessi anni, con il gruppo Orfeo80, è stato tra i promotori di alcuni tra i primi laboratori di scrittura creativa in Italia. Come titolare della Oximoria (piccola casa editrice, estinta con il bagordo, che editava) ha curato due piccole collane di narrativa e poesia, tra le quali la collanina Taschino e ha collaborato all’uscita del catalogo antologico di poeti Centodue (’86). Ha prefato e ha curato l’editing di alcuni libri di narrativa della editrice Polistampa Pagliai di Firenze. Nella seconda metà degli anni ’90 ha presieduto a Roma l’associazione culturale CEPAA – Teatro del Centro. Ha organizzato e curato svariate attività culturali, convegni, mostre d’arte, concerti di musica classica ed operistica, rassegne teatrali, corsi di università popolare, conferenze, rassegne e letture pubbliche di letteratura. Nel 2008 a Santulussurgiu ha diretto A libro aperto, uno degli 8 festival letterari della Sardegna.

Ha pubblicato poesie su il bagordo, l’Avanti, Poiesis, il giornale nazionale COBAS dei Comitati di base della scuola e divulgato mediante letture in circoli, radio e su Internet. Un unico suo librino è dato alle stampe: Luminescenze, con sette disegni di Luigi Dragoni, il 174 della Collana dei Numeri, Editrice Signum d’arte diretta dal pittore Claudio Granaroli, michelearcangelo.firinu@fastwebnet.it

michele pierpaoli untitled

michele pierpaoli untitled

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Heidegger con la sua riflessione sull’«oblio dell’essere» ha avuto una influenza non positiva sulla poesia italiana del Novecento, ben pochi tra i poeti hanno letto le pagine di Essere e tempo. Il problema è un altro: la dismetria e la distassia che il Novecento ha lasciato in eredità alla poesia italiana: la positivizzazione, la sproblematizzazione dei linguaggi poetici novecenteschi, che sono sortiti fuori come funghi, come ingessati, febbricitanti, privatizzati, ionizzati da un massiccio bambardamento di talqualismo e di chatpoetry. Ci sono per fortuna numerose eccezioni: il grande vecchio Alfredo De Palchi, e poi Roberto Bertoldo, Luigi Manzi, Anna Ventura, Annamaria De Pietro e tanti altri che non posso nominare.

 C’è una «domanda fondamentale» che muove la poesia. È la domanda che interroga la Crisi. Che cos’è la Crisi? (vedi il mio commento alla poesia di Mauro Ferrari); direi che è la modalità con cui si manifesta dinanzi a noi la difficoltà di porre la «domanda fondamentale», quella domanda che consente di aprire il campo di indagine mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni. La poesia contemporanea è «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo», una superficie piatta, unidimensionale dove tutte le scritture poetiche si assomigliano, sono interscambiabili, non delimitano un «oggetto», sono orfane, prive di «tradizione», non hanno nulla dietro di sé e, davanti, si estende la pista di pattinaggio dell’«ignoto», sono delle zattere che vanno alla deriva delle correnti del mare dell’«ignoto», senza un progetto, una idea di poetica, una idea dell’oggetto da rappresentare.

 Nel mio ultimo libro di critica (Dopo il Novecento) ho chiamato questa situazione della poesia contemporanea italiana «La partenza degli argonauti» riferendomi alla mitica partenza degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. Leggendo la poesia contemporanea ho sempre la sensazione  di una partenza di massa verso il traguardo del successo e della visibilità. In questa analisi della poesia contemporanea ho sempre avuto la netta sensazione della scomparsa della «domanda fondamentale»: perché si scrive poesia, e per chi?; in assenza di questa domanda preliminare oggi si scrive poesia in base ad una pulsione corporale, ad un bisogno personale, ad un calcolo di visibilità, certo psicologicamente comprensibile, ma che non può dar luogo che a risultati irrilevanti. Spesso si ciarla di dimensione etica dell’estetica proprio da parte di chi insegue lo stesso obiettivo perseguito dalla razionalità del mercato e dell’etica monetaria: il successo e la visibilità. Si scrivono i libri di poesia come si scrivono i romanzi: si tende al successo, se non delle vendite almeno a quello della vetrina della visibilità.

Sì, la «domanda fondamentale» può anche scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli se qualcuno non la ripesca dal mare dell’oblio: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse?, e la poesia non è un prodotto delle Muse?; la poesia ha, secondo me, il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport o spot televisivo. Credo che questo inedito risalente agli anni Novanta di Michele Firinu risponda al quesito: è la cronistoria del suo rapporto con i figli e la vita nel linguaggio onirico della poesia.

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

L’isola che non c’è

Da queste altezze, su cui smeriglia il vento
e plana, tra le centauree horride, il grifone,
contemplo due pizzichi di sabbia,
ora nei piccoli pugni delle figlie,
che li disperdono
dove garrisce l’onda – frammezzo:
impalpabili ceneri della mia pira –
“Ecco – mi dico – saran duecento grani…
mille… duemila, ancora,
barbari gli anni della transizione…
e poi, felicemente:
l’uomo che si riverbera nel sole”.

Per voi, uomini di marzapane,
giunti al futuro come su una torta,
la barca dell’amore prende il vento,
carica di cornucopie,
pesca perle nel sole, e ride, gioca,
quando s’accuccia all’opra nella chiostra
dei chiari scogli,
avori e sogni
negli smeraldi mari
del quotidiano.

Morremo, ma senza mai tradire i nostri sogni,
fino ad un’ora nostra, azzurra, confidando
negli atomi che rimpastano elementi
ed energie fulgenti nelle luci
acquerellanti i varchi
delle altrui aurore.

Morremo, ma in vela verso il vostro
porto lontano,
inarresi agli squali ed ai violenti
Eoli corsari,
aguzzando i progetti ed i ricami
di faticose rotte,
come il vento che aggiusta
le barchane di sabbia
e aguglia nuove piste sui deserti.
Questo vi lasceremo, figli:
mappe, tesori
dei nostri sbagli.

Cerco di immaginarti,
e ti comparo,
uomo completo, fior di meraviglia,
con quel poco
di buono, in noi, che ti somiglia.
Ma ahi com’è lontana
cotesta spiaggia,
la tua città-campagna,
questo fraterno crogiolo variegato
di essenze, di pacati bisogni, e così pingue
di solerti adesioni all’allegrezza
del panificare.
Miserere di noi
che nei caini giorni, nelle città arruffate,
frusciavam tra gli orrori
a procacciarlo,
a prezzo delle gibbose vite,
il mal diviso, il male
accaparrato, e invelenito pane.

E cosa ne farai dei mondi
spirituali, libera luna,
quando infiocchetterai di raggi la verzura
che ne contorna e infiora le future
volumetrie civili, orgoniche:
e saran prismi, bomboniere invetriate
in cui la luce, liquida,
va sfaccettando
rapsodie per gli iridi, e tepori
sulle fraturnie.
E non avran più nulla che li spauri
se non qualch’eco, forse, attutita,
dalle nostre macerie,
questo raspare e guaiolare,
sommesso, dei nostri versi
nel nostro fango rabbuiato, con insistenza,
verso una fessura, verso una luce,
e fin oltre
l’ultimo rantolo.

Voi che rappezzerete strappi, nostri
su cieli ragguardevoli
e non avran buriane d’immaginari
e spaventevoli riciclature, mostri
dai ventri oscuri delle caverne
che ci covarono; e fummo
granaglie sbriciolate e sparse a inesistenze
che mai ci intesero, come non intendemmo
i fini, aurei, che c’intonavano
mantra in MS-DOS
e, da elevate antenne, BIP,
textures di nihil
sugli svociati echi ribattenti
a nitriti di nihil. Qui disperati,
e allegri, di pena in pena
rampicavamo al nuovo
lontanare di albeggio. E ritti,
sul crinale dei secoli,
una corale tremula intonammo,
a ciglio asciutto, e aperto,
sull’horror vacui.

(inedito, 1990)

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ANTOLOGIA DI POESIA CONTEMPORANEA (VII) – Anna Ventura, Alfredo De Palchi, Michele Arcangelo Firinu, Umberto Piersanti, Lucia Gaddo Zanovello, Franco Dionesalvi, Sandra Evangelisti, Eugenio Lucrezi, Maurizio Soldini, Chiara Moimas

Parnaso1

Anna Ventura

 

Anna Ventura

Le case popolari

Qui ci sono ancora
le case popolari. La porta/ingresso
ha le persiane
di metallo dorato, immette
in un interno scuro,
schermato da una tenda. Da lì
viene la voce del televisore.
La proprietaria
è talvolta una vecchia decrepita, che forse
non ha più di settant’anni. Siede fuori
sopra una sedia bassa,
in mezzo ai vasi dei gerani. Saluta
chi passa ,con lo sguardo
rispettoso e acuto. Il figlio ultracinquantenne,
entra ed esce dalla portafinestra,
lo segue il cane lupo. La polvere
della strada copre i gerani,copre
le ampie sottane della vecchia,
copre la ciotola dove beve il cane. La sorte
ce la mette tutta,
per uccidere la povera gente. Ma loro
resistono. E non piangono mai.

alfredo de palchi

alfredo de palchi

 

 

 

 

 

 

 

Alfredo de Palchi

(2008 alla vigilia della mia operazione al cuore)

Il lavoro nobilita la belva alla vita
trascorsa a grattare il salario della paura
in una giungla di lapidi

si legge, qui giace dio il mediocre costruttore
e qui Cleopatra con una serpe in mano––giglio
offerto a Marcantonio

più in là giace un raccolto di ossi
attribuito al farabutto amico François
accanto a quello di Francesco impazzito di Cristo
e della sua Chiara che per boschi giunse a Todi
da Jacopone, il più folle

e laggiù sotto quel rettangolo di letame
l’altro mio amico Arthur
giace con un abbraccio di zanne invendute

amata amica figlia madre sorella
prontamente perfetta per il mio arrivo
allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.

.
Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Stari Most – Vecchio ponte
a Franca

I muri delle città sono fatti di carne:
ridono e gemono.
E tu li senti, tutti i ponti del mondo, gemere ululare
perché il più dolce, il più acuto tra i loro fratelli
è stato abbattuto dai sicari.
I fiumi, che si sono formati
per le lacrime di tutte le guerre
sciolgono le loro trecce di prefiche
sui mari neri.
Voglio una musica dolce, sorda e cieca.
Voglio questa carezza sui lungofiumi
di Parigi e di Roma che hanno la pelle d’oca.
Ecco, la luna offre una benda
e avvolge l’arto fantasma di Mostar.
Lì si levava un riso di fanciulli
come se grandinassero chicchi d’argento.
Ai tuffi degli angeli laceri e felici
gli dei gettavano marenghi d’oro.
Ricordi? La tua snella vita si librava,
aureo amore, verso l’oracolo
dei miei futuri giorni.
La stanza delle molli alcove è ancora lì,
madida di desiderio.
Il tuo chiaro viso si abbandona,
raso su raso,
sulla profusione rossa.
Tappeti e cuscini, tappeti e cuscini
e il mio deglutire ilare, a voce roca,
stanno ancora lì e quei tempi quasi
mi si strusciano addosso,
mi sbavano umidori lascivi sulla guancia.
La bionda vetrata si spalanca
su crosci di fiume e di sole
e il ponte di Mostar
è lì, intatto, d’oro:
vi danzano cherubini tra le note
dell’Elisir d’amore.

.
Umberto Piersanti

Umberto Piersanti

*Diario di bordo

presso la foglia fradicia
del tiglio e dentro l’erbe
fatte quasi bianche,
nel suo rosa sempre più pallido
e tenace, un cespo di ciclamini
si rinserra, fragili i gambi
e curvi, inzuppati d’acque,
ma fino a quando arde
dentro la bruma spessa,
la nebbia nera,
quel rosa che settembre
accese con un suo vento
morbido e celeste?

no, la brina non lo stronca
e non lo schianta il vento,
forse l’eterno è nel pallido
colore che mai si spegne
e alla terra eterna
s’annoda e confonde,
ma dicembre viene
e nel gelo lo spezza

c’era lì nell’orto
un lungo ramo
con i passeri in fila
bianchi di neve,
solo il rosso dei cachi
un po’ trapela
tenace, nel chiarore,
che l’avvolge

e non sei mai solo
come quando dalla finestra
d’un albergo nuovo
dentro ogni macchina che passa,
infinite, coi fari,
tra la pioggia,
i volti dei viandanti
tu intravedi

annota nel diario a bordo
vicende e cose,
minute o immense
questo conta poco,
e le stanche domande
non segnare,
perché un vecchio
corre lungo il mare
e tra le tamerici ingiallite
o spoglie, una sola
è rimasta verde?

appunti, solo appunti
sparsi, il veliero continua
l’incerta rotta

cerca le sue Galapagos,
ogni moto e caduta
lì forse ha un senso,
sale una bruma immensa
spegne astri e quadranti,
la rotta che s’è persa
(dicembre 2009)
*cerca le sue Galapagos: in queste isole Darwin cercava la conferma alla sua teoria sulle origini e lo sviluppo della vita

 

 

 

 

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

Distacco

Improvvisa respira la morte
ogni interrotta gioia è intorno,
in un lampo senza tuono
diviene fatale l’attimo perduto
il timore non scordato dell’agguato
e tutto il sangue della vita
assorbe avida la terra.

Ma una mano
una mano ancora lascia,
che io possa tornare alla carezza
che non ho data
al gesto ovvio e noto
posato per dopo.
Ho i piatti da lavare
là grida in cucina
quel ‘poi farò’ che più non ho.

Sono nella letizia del sì,
nel sole che infinito mi ha preso
ma per i miei
tornare sarà l’inferno del pianto.

Lasciami delle dita un tocco appena
mi basta
a correggere piano la stanza,
a saggiare la fronte
a far passare un bacio alle labbra.

Certo chi resta presto troverà
sopravvivenza
poi il corso di ciascuno
prenderà la svolta necessaria
per una meta alla mia disgiunta
ma ora
è fuoco di sale che consuma
la ferita
di chi mi brucia accanto,
per questa mia inerte, recisa giovinezza
senza avviso
e senza scampo.

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Franco Dionesalvi

Le coperte

Cos’è che cerco sotto le coperte
e mi s’ingola grazie a quel tepore
forse lo sfarfallio
di quando zia chiudeva le persiane
così la notte rimaneva fuori.
O la stufa, o l’odore della cena
o invece le parole
ma in quelle soprattutto era la nenia
o il battito dei suoni lo stridore
forse quel ricettarsi mi soffiava
la casa in cui non posso più tornare.
Sandra Evangelisti

Sandra Evangelisti

L’amore è imperfetto

L’amore è imperfetto,
nasce da creature imperfette
e si alimenta di moti imperfetti.
Ha fame di odori e di sensazioni
naturali nella loro espressione.
Non ha bisogno di censori e di filosofi,
rifugge dalla matematica degli elementi.
L’amore è semplice
come un bambino che si attacca al seno della madre.
Non ama definizioni e non si fa definire.
C’è o non c’è,
è figlio, forse, di antiche divinità pagane.
Non ha legami con la giustizia e con la morale,
e chi lo asserve a regole fittizie
e gli infligge la prigionia
di categorie della retorica
contribuisce in modo insopportabile
alla tristezza del mondo a venire.
Perciò l’amore si vive e basta.
Dico questo perché l’ho incontrato
sul ciglio della strada
vestito da éfebo con occhi verdi.
eugenio lucrezi e paola nasti 13 nov 2011

Eugenio Lucrezi

Il paradiso di cui parli, vuoi …
a Paola Nasti

Il paradiso di cui parli, vuoi,
senza che veda il vento lanciasassi
di ghiaccio, punteruoli che trapassano
angeli inconsistenti che trattengono
bave di carne, se la neve sfrangia
bandiere di nazione paradiso.

Desolazione di cui parli, vuoi,
in questa notte di buio abbagliante.

Inizia la visione dove cessa,
per eccesso ipotermico di luce,
la febbre figurale del racconto.

Non sai che farne, sconfino dello sguardo.

Sai che non puoi tentare una ventura
con animo di volpe che leggera
lascia sul manto passi inapparenti.

Fuggono ad una ad una, le figure,
anche quelle viziate dalla luce
in una posa illogica, di affanno.

Anima su due zampe che saltella,
t’inoltri, bianca lepre senza manto,
sulle coltri sottili.
In fondo, dove
non c’è niente da fingere, ti aspetta,
mite, la dedizione ad una carne
di quelle che non mangi per rifiuto
di chi non ti appartiene, e che non vuoi.
Maurizio Soldini

Maurizio Soldini

Origami di un volo

Aspettare nel solco della piana
tracciato dall’aratro trascinato
nella zolla che si desta supina,

implume come un passero,
venuto da origami e dalle mani,
che ha smesso di planare nel vento.

Subire le passioni dall’esterno
come da grandine, che piove dall’alto
e brucia e colpisce senza bagnare,

la pelle sciupata dal passaggio di nuvole
a scivolare in antefatti di futuro
a gradire la permanenza nell’assenza.

Senza fretta comprendere nel volo
quanto i secondi scendano nel baratro
dell’insolvenza dei significati,

riavvolgere allora bobine di pensieri
a dispianare voli, salti e svolte,
che giungono così al senso della vita.

Roma, 22 febbraio 2014

 

chiara moimas a Parigi

chiara moimas a Parigi

Chiara Moimas

È QUESTO CHE SI NARRA

Da solo non era felice.
Stanco di aggirarsi
nella perfezione
di valli e di radure.
Inutilmente immortale.

Una scheggia
fu tratta
dal costato possente.
E’ questo che si narra.

Quando lenta
le palpebre schiuse
ogni luce oscurò.
Pallida emerse la luna
balenarono fatue le stelle.
La sua voce echeggiò
negli anfratti
e ruggì nelle gole.
Il piacere sopito
nelle spire si disfece.
Lei con i morbidi artigli
più del ghepardo flessuosa
lo trasse in inganno.
La mela che colse
dentro
aveva il turbinio
che sovverte
l’ordine delle cose.
Precipitarono
angeliche legioni
nei crateri roventi.
Un alito nuovo soffiò
a lacerare le fronde
a scavare nel volto.
Impietoso.
Un pensiero distorto
divelse i cancelli
turbato
del suo essere ignudo.

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