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A proposito dell’haiku di Steven Grieco Rathgeb

 

Haiku giappone hiroshige-foglie-di-avero-a-mama1

hiroshige, foglie di acero

I.

L’haiku è quanto di più sottile e avveniristico possa esistere in poesia. Scritto male, si avventa sul lettore con la sua banalità inaudita; un haiku autentico rende la realtà sottile al di là delle parole di cui è fatto; con la sua economia, esprime in un attimo fuggente ciò che tutta l’arte, forse dalle prime pitture nelle caverne di Lascaux (ricordiamo che la scrittura non è altro che una forma di pittura), cerca di esprimere: come è che l’uomo si trovi a vivere il sogno di sé e del suo mondo, senza mai poterlo pienamente afferrare.

Inoltre, dal punto di vista formale, per scriverne uno non è necessario seguire alla lettera le regole ereditate dalla tradizione: l’haiku dà una libertà sconfinata al poeta innovatore, ponendogli una condizione: che sappia ricollegarsi alla sua essenza, che è tanto riconoscibile quanto difficile da evocare in parole.

Tuttavia, prima di iniziare, sento la necessità di accennare brevemente a quelle letture di haiku di vari autori cui sono stato presente più volte negli anni: la recitazione di interminabili composizioni lette a velocità, come le somme di una fattura, senza alcun pensiero per il pubblico che ascolta e nemmeno per l’eventuale merito di alcuni dei componimenti stessi.

Ho un altro ricordo di lettura di haiku: quella volta a metà degli anni ’90 quando la BBC Radio – che io, esiliato linguistico e culturale in Italia, ascoltavo giornalmente – mandò in onda un programma sul poeta Bashō. Quest’uomo, il quale visse una piccola e quasi invisibile vita nella “arretrata” società giapponese del Seicento, nel corso degli anni trasformò l’haiku da composizione giocosa, goliardica, simile al limerick, in quella che è la prima forma di poesia moderna – e oggi più che mai in grado di veicolare la nostra sensibilità di uomini dell’Antropocene.

Il programma era un interessantissimo compendio di notizie biografiche e commenti critici, alternati alla recitazione. Per quest’ultima si era scelto un formato del tutto adatto alla brevità estrema dell’haiku: lettura di un singolo componimento in lingua originale, subito seguito dalla versione inglese: il tutto della durata di pochi secondi. Silenzio: un altro haiku con traduzione, altro silenzio; un terzo. Poi si tornava al commento critico-biografico. E via dicendo. L’attenzione era totale. In questo modo l’ascoltatore afferrava qualcosa del senso del suono e dell’atmosfera originale, cui poteva, quasi sul momento, dare intelligenza in lingua inglese: afferrava anche la repentinità dell’haiku, e della sua ricaduta spesso lentissima, che si estende nel tempo, perfino negli anni.

Haiku colori caldi

Inazuma ya yami no kata yuku goi no koe

Inazuma ya yami no kata yuku goi no koe

il guizzo di un fulmine

attraverso l’oscurità

grido dell’airone notturno

suzushisa ya hono mikazuki no Haguroyama

questa frescura –

vaga falce di luna

sopra al Monte Hirago

La recitazione era una collaborazione fra il lettore giapponese dei testi originali e l’eccellente traduttore (e lettore) inglese, di cui non ricordo il nome (e adesso che vivo su una lontana isola greca non posso nemmeno fare le ricerche necessarie). Pur non letterato, il lettore giapponese era profondo conoscitore di Bashō, e lo venerava come maestro. Leggeva dalla pancia: le parole uscivano come ruggito, rauca parola d’amore, grido di disperazione, stupore – senza mai l’odore di una retorica teatralità. E pensare che quest’uomo non era né poeta, né scrittore, né critico: era un uomo d’affari!

II.

Cerchiamo di capire come l’haiku “classico”, quello coltivato dai poeti giapponesi del 17°-19° secolo, sia molto diverso da quello di “Faro lontano”, e come si possa pertanto rilevare una sostanziale affinità – se non in certe regole base che ne governano la scrittura, e nemmeno come vedremo nella dinamica, sicuramente nel grado di rarefazione e tipica forza suggestiva.

Per fare ciò prendo ad esempio uno dei pezzi più celebri: sebbene mille volte riproposto, penso che quanto segue aiuterà tutti a rileggere questo e altri haiku in modo più completo e immaginativo. Shikō ci riferisce come fu composto:

Quella primavera Maestro Bashō stava nella sua capanna in riva al fiume, a nord di Edo. Attraverso il quieto picchiettare di pioggia arrivava il tubare profondo delle tortore. Il vento era mite, e i fiori [i.e., sugli alberi] indugiavano. Alla fine del terzo mese, spesso lui sentiva il suono di una rana che saltava nell’acqua. Infine un sentimento indescrivibile galleggiò nella sua mente e si plasmò in due frasi:

kawazu  tobikomu | è saltata una rana   mizu no oto | il suono di acqua

Kikaku, che stava accanto a lui, fu tanto audace da suggerire come frase d’inizio le parole ‘le rose montane’, ma il Maestro scelse ‘furuike (ya) il vecchio stagno’. Se mi è lecito offrire un parere, penso che sebbene ‘le rose montane’ suoni poetico e incantevole, ‘il vecchio stagno’ possiede semplicità e sostanza.

L’haiku di cui si parla è:

furuike ya kawazu tobikomu mizu no oto

il vecchio stagno –

è saltata una rana

e il suono d’acqua

(In Makoto Ueda, Bashō and His Interpreters, Stanford University Press, 1992.) Continua a leggere

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VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – ECCO DUE WAKA GIAPPONESI, DIBATTITO AVVENUTO IL 10 NOVEMBRE 2014 su L’OMBRA DELLE PAROLE tra Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco Rathgeb Lucio Mayoor Tosi e Giuseppe Panetta, alias, Talia

Gif I must break you

giorgio linguaglossa

10 novembre 2014 alle 8:21

Ecco due waka giapponesi:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/11/10/poesia-giapponese-waka-chong-chisang-e-il-rigogolo-giallo-a-cura-di-steven-grieco-un-waka-di-ki-no-tomonori-e-fujiwara-no-sadaie/comment-page-1/#comment-3382

Oritsureba
sode koso nioe
ume no hana
ari to ya koko ni
uguisu no naku

Ho appena colto un ramo;
così le mie maniche profumano
del fiore di susino
ma ecco che, forse da questa fragranza
ingannato, canta l’usignolo.

[Anonimo, Kokinshū I-32. Susino giapponese (ume)]

*
Hototogisu
haku o no ue no
unohana no
uki koto are ya
kimi ga kimasanu

Canta un cuculo
sulla vetta di una montagna,
ove sboccia mesto il fiore di deutzia.
Provi, forse, rancore verso di me,
amor mio che non ti degni di visitarmi?

[Owarida no ason hiromimi, Man’yōshū VIII-1501. Deutsia scabra (unohana)]

Il testamento spirituale e stilistico che la poesia giapponese waka e choka ci lascia è di grande importanza anche per la poesia che si fa oggi; innanzitutto, direi, riabilitare l’immagine, ripristinare le figure di uccelli, di alberi, nominare le montagne, i fiori… lasciare da parte il consunto e corrivo “io” che tanto abbonda nella poesia del minimalismo. L’«io», rapportato alla vastità dell’universo, non ha alcuna importanza, e inoltre è muto, non può parlare di altro che dei suol mal di schiena e del suo mal di denti (che mi affliggono da un po’). Ma tutto ciò è realmente importante in poesia? È veramente indispensabile?

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2014 alle 10:04 

VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/11/10/poesia-giapponese-waka-chong-chisang-e-il-rigogolo-giallo-a-cura-di-steven-grieco-un-waka-di-ki-no-tomonori-e-fujiwara-no-sadaie/comment-page-1/#comment-3402 

Vorrei riprendere da quanto dice Carlo Sini in una recente intervista sul problema dei segni e delle immagini:

“Si può ipotizzare che diecimila anni fa sulla terra esistesse una sorta di «linguaggio universale», che i nostri antenati utilizzassero «un sistema di espressione comune, fatto della convergenza di gesto, suono, visione, esercitati e vissuti come un atto globale». La differenziazione culturale, la torre di Babele nella quale viviamo sarebbe un’acquisizione successiva.
Analogamente, la sintassi dell’arte preistorica potrebbe aver generato la nostra attuale forma di scrittura. «La configurazione delle nostre lettere alfabetiche non è affatto arbitraria o convenzionale. Ogni lettera è invece un disegno decaduto o stilizzato la cui origine va rintracciata proprio nelle figure e nei segni del paleolitico e del neolitico».

Rispetto al passato, dunque, c’è qualcosa che abbiamo perduto. L’unità di scrittura, figura e azione. Le parole si sono separate dalla loro figura, si sono «s-figurate», diventando astratte e autonome. La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.

Le dinamiche percettive sono complesse e intrecciate; per scoprire cosa significa davvero «sentire», dovremmo considerare la possibilità di «ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie». L’esperienza non è mai univoca. Anche del lattante di poche settimane o di pochi mesi, non si può dire che sia una «tabula rasa», un «foglio bianco» unidimensionale, puramente ricettivo: egli «è già un mondo complesso di emozioni, di immaginazioni e di pensieri, ancorché non verbali». Secondo gli studi di Daniel Stern sulla prima infanzia e sullo sviluppo psichico infantile, la formazione del Sé emerge molto prima dell’avvento del linguaggio. Da sempre siamo circondati dai segni e, grazie ai segni, impariamo a comunicare”.

Negli haiku come nei waka c’è ancora il ricordo di quella antica «unità di scrittura, figura e azione» che è andata smarrita. Ora, io ritengo che sia difficile assai per un occidentale del XXI secolo ripristinare artificialmente una scrittura che ripristini quella antichissima unità, ma ritengo invece assai possibile scrivere poesia moderna tenendo presente che la poesia non può essere disgiunta da quella complessa unità di «figura e azione», cioè di immagine e di personaggi “in azione”, perché l’azione è assolutamente necessaria non soltanto nel romanzo (come abbiamo visto nel post odierno dedicato a Milan Kundera), ma anche in poesia (ovviamente in forma diversa). Una «figura» è sempre «azione» (attiva o passiva), e una «azione» è sempre anche «figura». Questa dinamicità è interna sia alla «figura» che alla «azione».

Ho l’impressione (anzi la convinzione) che la poesia italiana si sia allontanata o abbia dimenticato questo assioma e che oggi si scriva poesia copiando la linearità (temporale) della prosa senza tenere conto del problema del dinamismo spazio-temporale di ogni «figura» in movimento.

    • steven-grieco-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-15-dic-2016Steven Grieco Rathgeb

11 novembre 2014 alle 14:21 Modifica

Wow! Bellissimo intervento, dettato da una profonda ispirazione a livello critico. “L’unità di scrittura, figura, azione”. Fa bene al cuore sentire cose così. È anche la gioia di capire che molte nostre strade procedono in parallelo.

La fluidità della scrittura, la consapevolezza che non possiamo fermarne il flusso, soltanto afferrarne l’attimo… È quello che si chiama satya in Sanscrito: ciò che è vero, folgorante, in questo preciso attimo, forse non lo sarà ‘attimo dopo. Le foglie sull’albero, quanti milioni di riflessi di luce esprimono in un istante di tempo?

“La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.”

Queste sono parole di alta ispirazione. Sì, dobbiamo capire dove è quel fulcro di significato che abbiamo perso.

Consiglio a tutti di leggere questo commento, e di meditarlo profondamente, perché a me sembra contenere tutte le indicazioni, tutti i suggerimenti essenziali, necessari per riscoprire il vero valore della poesia, e del significato essa può avere nella nostra vita.

Andiamo avanti, anche insieme, per questa strada che ci rivelerà le cose che già si sapevano nel Paleolitico! (basta vedere le pitture rupestri per capire questa semplice verità). E troviamo il modo in cui tutto ciò è vero oggi, nella nostra complessa realtà post-moderna.

Grazie, Giorgio

  1. Opere di Lucio Mayoor Tosi
  2. Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2014 alle 11:39 Modifica

Si potrebbe dire che maggiore è il numero delle sillabe e minore si fa la distanza tra poesia giapponese e poesia occidentale. È una domanda.

Ad esempio, e traggo a caso da Montale, da la poesia «I limoni»:

le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Invece, per quanto attiene agli Haiku, il discorso secondo me è diverso; e fa bene Linguaglossa a dire dell’azione, perché si tratta di un principio basilare della cultura Zen. Possiamo aver letto anche mille haiku, e magari, se non siamo degli specialisti come Steven Grieco Rathgeb, anche quel che ha scritto Alan Watts sullo Zen, ma se non abbiamo esperienza di Koan (o di arti marziali, o dell’arte Ikebana) difficilmente riusciremo ad andare oltre il solo piacere estetico di scriverne. Zen è una sofisticata arte della trasformazione mentale, richiede molta pratica… e poche parole.

    • Steven Grieco Rathgeb

11 novembre 2014 alle 16:47 Modifica

Sì, ha ragione Lucio Mayoor Tosi. La giovane giapponese in kimono rosa, che compose un ikebana in una stanza del museo orientale Rietberg di Zurigo anni fa, nel 1986, mi fece capire come avrei voluto da allora in poi scrivere una poesia: lasciando che l’energia si sprigionasse dall’interno della poesia, non conferendogliela dall’esterno. È diventato il lavoro di una vita!!
Fra le sue fragilissime mani sembrava che i tre ramoscelli fioriti non dovessero mai entrare in dialogo, continuamente ricadevano giù. Poi d’un tratto il miracolo era compiuto, già si allontanava da noi indietreggiando nel tempo: ma adesso i ramoscelli stavano lì, in piedi, labili e un po’ storti: in un gruppo di tre, ma anche ciascuno per sé: come se fossero arrivati per caso, come se fossero tre anatre iridescenti che un colpo di vento costringe ad atterrare su un fiume, e tu passando di lì, a un tratto – le scorgi sull’acqua.

  1. cinese DipintoDiCapodanno1giorgio linguaglossa

11 novembre 2014 alle 16:51 

VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

Caro Steven Grieco mi rendo conto che parlare di queste cose in Italia sia una aberrazione, come parlare in inglese a dei bororo, ma certe cose dobbiamo dirle. Cito ancora da Carlo Sini:

“Nelle lingue occidentali si è invece imposta la mentalità classificatoria della grammatica (modellata sul nostro alfabeto e sulla nostra conseguente logica e metafisica), con la tendenza a sostanzializzare l’azione e le figure del soggetto e predicato. Vige qui la prevalenza assoluta della frase assertoria o apofantica costruita con la copula “è”, forma peraltro ancora molto rara in Omero. Nella primitiva frase cinese l’agente e l’oggetto sono nomi solo in quanto limitano un’unità d’azione, Nell’ideogramma “contadino pesta riso”, contadino e riso sono i termini che definiscono l’azione del pestare (che a sua volta può significare “uomo”); fuori da questa funzione, contadino e riso sono verbi a loro volta. “Contadino” appare allora come “Colui che coltiva il riso”. “Riso” uguale a un determinato crescere della pianta nell’acqua. Altro esempio: “La tazza brilla” (traduciamo noi). Qui il brillare è reso da un ideogramma che unisce il segno del sole con quello della luna. La scrittura effettiva è da intendersi letteralmente così: “tazza sole-luna”. La potremmo tradurre “il luccichio della tazza”, oppure “la tazza brilla” o ancora “la tazza è lucente”. Come si vede, l’ideogramma “sole-luna” (ming o mei) svolge contemporaneamente e indifferentemente la funzione di un aggettivo (lucente), di un verbo (brilla), di un sostantivo (il luccichio)”.

Vorrei riepilogare così il pensiero di Sini: “dimmi come metti l’aggettivo e ti dirò chi sei”. Voglio dire che dal modo in cui uso quel “brilla”, ne deriva una certa idea di poesia. Fatto sta che c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo).
Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale».

11 novembre 2014 alle 22:02 

Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).

Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.

Quello più intrigante? Quest’altro:

Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.

Giuseppe Talia

12 novembre 2014 alle 20:17

Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

 Lucio Mayoor Tosi

13 novembre 2014 alle 15:01 

Nei film Hollywoodiani assistiamo a incontri interminabili di scherma e karate, in realtà, come avviene anche da noi in queste discipline sportive, la stoccata e l’atterramento durano pochi secondi. La stessa cosa accade nelle brevissime poesie giapponesi, che sembrano scritte in gara con l’attimo vitale e l’azione che l’accompagna. Bisogna tenete presente che il pensiero si svolge nel tempo, tra passato e futuro, ma non può vivere nell’istante. Di fatto tutti i pensieri sono sogni ( maya, illusione), non così la scrittura mentre accade. Si crea per tanto uno stretto rapporto tra scrittura e accadimento, in modo che possa accadere il Satori (risveglio). Chiunque può farne l’esperienza, anche chi scrive graziosi haiku contando le sillabe.

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Giorgio Linguaglossa

“Lo studio delle lingue – ha notato Thom in una relazione tenuta a un importante convegno internazionale su ‘le frontiere del tempo’ organizzato nell’aprile 1980 da Ruggiero Romano – mostra che in quasi ogni lingua – se non in tutte – esiste una classe di parole indispensabili alla costituzione di una frase semanticamente autonoma, quella che nelle nostre lingue indoeuropee si designa con il VERBO. Il verbo ha con la localizzazione temporale una affinità evidente, che spesso si manifesta attraverso una morfologia esplicita (i tempi del verbo); non si può dire altrettanto dello spazio, che sembra avere il solo ruolo – molto implicito – di differenziare gli attanti che intervengono nella sintassi di una frase”. Per questa via Thom ritiene di poter venire alla conclusione che “il tempo abbia una profondità ontologica superiore a quella dello spazio”.
Un opposto scenario ci viene prospettato da quei glottologi che si sono soffermati sugli aspetti linguistici della modellizzazione del tempo. Essi non si limitano a constatare che il principale ostacolo nel cogliere l’enigma della dimensione temporale sta nel fatto che i “percetti” che la compongono “possono essere confrontati fra loro solo memorialmente”: e che pertanto a essere comparate sono “le esperienze portate dal tempo, non la dimensione che lo porta”. Ma ritengono addirittura di poterne concludere che il solo modello “percepibile nella sua interezza”, a cui ricondurre l’ “insieme dei riferimenti temporali”, sarebbe, per l’appunto, “lo spazio” (Giorgio R. Cardona)».2]

1] https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/13/claudio-borghi-il-tempo-generato-dagli-orologi-lipotesi-di-un-tempo-interno-termodinamico-tempo-e-irreversibilita-il-concetto-di-durata-in-newton-ed-einstein-dilatazione-del-t/

2] Marramao Giacomo, Minima temporalia luca sossella editore, 2005 p. 15

 

 

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IL CILIEGIO FIORITO NEI WAKA DELL’ANTOLOGIA  KOKINSHU a cura di Steven Grieco (Prima traduzione in italiano di 27 Waka)

Sakurabana

Sakurabana ciliegi in fiore in una via di Tokio

  1. Ôtomo no Koronushi – Kokinshû 88

harusame no furu wa namida ka sakurabana chiru wo oshimanu hito shi nakereba

Soggetto sconosciuto:

le piogge primaverili che cadono sono lacrime, forse?

volteggiando i fiori di ciliegio scompaiono

e non c’è uomo che non li rimpiangerà

Il ciliegio è l’albero nazionale del Giappone, nonché essenza spontanea nelle sue isole. Dalla più antica raccolta di poesie, la Man’yoshu (7°-9° sec.), fino ai giorni nostri, il ciliegio ha esercitato un fascino profondo sulla psiche del popolo giapponese.

Assistere alla sua fioritura è una esperienza unica. Gli alberi sono di solito molto vecchi e di grandi dimensioni: i fiori sembrano cadere dall’alto come neve dal cielo invernale: l’uomo che lo guarda si rende conto di percepire sempre e soltanto una parte di questo avvenimento, che è troppo vasto perché egli possa coglierlo nella sua totalità.

Ancora oggi ogni giapponese, al cospetto del ciliegio in fiore, ritrova un senso di solidarietà con i suoi concittadini, riconoscendo in quest’albero il simbolo di un popolo unito sotto la guida dell’imperatore.

Si dice che in antico, davanti all’ingresso principale del palazzo imperiale a Nara crescevano un mandarino e un susino. Nell’8° secolo un incendio distrusse il palazzo, che fu ricostruito nello stesso luogo. Furono ripiantati gli alberi davanti all’ingresso, il mandarino fu sostituito da un ciliegio sostituisce.

La Kokinshû, “Raccolta di poesie moderne e antiche”, la prima antologia imperiale di poesia, fu compilata all’inizio del 10° secolo. In essa troviamo un gruppo di poesie dedicato al fiore di ciliegio. Altrove nell’antologia troviamo waka appartenenti a questo stesso genere, talvolta riuniti insieme, talaltra in ordine sparso.

Il termine sakura, “albero di ciliegio”, ha la sua radice in saku, “fiorire”. Già nella lingua giapponese troviamo una indicazione che il fiore di ciliegio è il fiore per eccellenza. hana, termine generico per “fiore”, automaticamente evoca il fiore di ciliegio, salvo indicazione diversa nel testo.

La lingua giapponese inoltre distingue chiru, “cadere o disperdersi di fiori”, da furu, “cadere di neve o pioggia”. chiru è termine intimamente connesso a sakura. Entrambi evocano l’impermanenza della vita.

Sakurabana a Tokyo

Sakurabana a Tokyo

Ki no Tsurayuki (872-945), fu uno dei massimi poeti dell’epoca Heian, nonché curatore in capo della antologia Kokin. Uno studio attento dei waka sul ciliegio fiorito presenti in essa, sembra indicare  che Tsurayuki e i poeti suoi contemporanei avessero seguito alcune precise “regole” nel trattare questo tema in poesia. Ne consegue che l’immagine del ciliegio fiorito, sia nella Kokinshû che nelle raccolte private di Tsurayuki, abbia una certa felice coerenza e uniformità.

In breve:

Il ciliegio in fiore si contempla preferibilmente nella piena luce del giorno. L’albero e il terreno alla base del suo tronco (tokoro) sono immersi in chiarissima, trasognata ombra (kage). Un numero incontabile di fiori scende in una volta, entro questo spazio inviolato che sembra esistere altrove dal mondo. L’albero stesso è legato indissolubilmente e per sempre al posto ove affonda le radici. Nel momento più intenso della fioritura, il vento è assente: tutto è fermo, l’attenzione dello spettatore interamente concentrata su questo avvenimento.

Più di due terzi delle composizioni sul ciliegio fiorito presenti nella Kokinshû descrivono solo questo spettacolo. Sono in quel caso anche rari riferimenti espliciti al profumo dei fiori.

  1. Ki no Tomonori – Kokinshû 84

hisa kata no hikari nodokeki haru no hi ni shizu gokoro naku hana no chiru ran

Cantato alla vista dei fiori che cadono:

in questo giorno traslucido di primavera

ah, scendono i fiori

con l’anima sempre in tumulto

  1. Ariwara no Narihira – Kokinshû 53

Yo no naka ni   taete sakura no   nakari seba   haru no kokoro wa   nodo kekara mashi

Vide i fiori di ciliegio al palazzo Nagisa e cantò:

non fosse il ciliegio mai presente in questo mondo

quanto spensierato sarebbe l’animo di primavera

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Raccolta privata

okifushite oshimu kai naku utsutsu ni mo yume ni mo hana no chiru wo ikan sen

Uno di sei componimenti:

che io stia in piedi o coricato, in sogno o nella realtà—

come posso fare perché smettano, i fiori che scendono dappertutto

Sakurabana

Sakurabana

  1. Anonimo – Kokinshû 72

kono sato ni tabine si nu beshi sakura bana chiri no magai ni ieji wasurete

Soggetto sconosciuto:

in questo villaggio dovrò passar la notte – tra i fiori di ciliegio

volteggiando profusi, ho smarrito la via di casa

(Non possiamo escludere in questo waka che la “confusione” nasca dall’amore per una donna.)

Il poeta Heian si identifica con il ciliegio fiorito fino a perdervisi. Se è così, allora i fiori che scendono non possono non simboleggiare l’anima dell’uomo, incostante, pronta a smarrirsi per un nonnulla: il loro incessante svariare, e il senso di inquietudine che questo provoca in lui, sono specchio l’uno dell’altro.

  1. Ki no Tsurayuki – Antologia privata

sakurabana chiri ni chiru to mo miru hito no koromo nuru beki yuki nara naku ni

Uno di 21 waka su un pannello dipinto nel palazzo del defunto imperatore abdicatario Teiji:

i fiori di ciliegio scendono e scendono

ma all’uomo che se ne incanta non possono

diventar neve, né bagnargli la veste

  1. Principe Koretaka – Kokinshû 74

sakurabana chiraba chirinamu chirazu tote furusato hito mo kite mimo nakuni

Cantò questa composizione e la inviò al Prete Henjô:

scendete se dovete scendere, fiori di ciliegio:

se anche non scendeste, il mio amico d’un tempo

non verrebbe più ad ammirarvi

La fioritura del ciliegio toglie allo spettatore ogni senso temporale e di orientamento fisico. Egli si chiede soprattutto come i petali cadono. La domanda “da dove? verso dove?” viene chiesta di rado: se una risposta c’è, questa viene non dall’albero, ma dal vento o dalla primavera, che spesso sembrano esseri senzienti. La sensazione di sovrabbondanza è qui un fattore chiave.

Come l’uomo ignora il suo destino, così anche l’albero e i suoi fiori ignorano il proprio. Nella antologia Kokin non troviamo esempi di waka che descrivono la caduta di uno, o pochi petali sparsi. Fosse così, ciascun petalo acquisterebbe individualità e direzione, avrebbe dunque anche finalità temporale, ed è questo che i poeti della Kokinshû in genere vollero evitare.

Il primo dei due autori di questo lavoro ricorda bene come, da ragazzo, tornando a casa da scuola in aprile (il mese in cui i ciliegi fioriscono in Giappone) gli capitava di trovare un petalo di fiore sulla tesa del berretto, e forse qualche altro sulla cartella. È un fatto curioso che tale esperienza, vissuta e rivissuta da tutti i giapponesi ieri come oggi, non sia stata descritta in un waka Heian.

Il poeta-spettatore dunque non si rende conto di quando la fioritura è iniziata, né quando finirà; da dove provengano i petali, né dove andranno: il suo sguardo umano è fisso su questo succedere, gli occhi immobili in una contemplazione estatica che annulla il suo “io”, così come i petali non sono singoli, bensì collettività.

Da qui anche le similitudini, “neve” e “nuvola”.

People look at cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo's cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan's weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. TOPSHOTS AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

People look at cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo’s cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan’s weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. TOPSHOTS AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

  1. Ki no Tomonori – Kokinshû 57

iro mo ka mo onaji mukashi ni  sakura me do toshi furu hito zo aratamari keru

Sotto l’albero, piangendo la sua vecchiaia, cantò:

immutabili lo splendore e il profumo

del ciliegio fiorito – così,

eternamente, l’uomo invecchia

  1. Monaco Souku – Kokinshû 75

sakura  chiru hana no tokoro wa haru nagara yuki zo furi tsutsu kie gate ni suru

Cantato a Urin-in, mentre cade il fiore di ciliegio:

in questo luogo, dove svariano i fiori di ciliegio, è come

una neve di primavera che cade fitta e non si scioglie mai

  1. Sugano no Takayo – Kokinshû 81

eda yori mo ada no chirinishi hana nareba ochite mo mizu no awa to koso nare

Cantato nel palazzo del Principe ereditario, vedendo i fiori di ciliegio cadere in un canale e sparire:

effimeri fiori, che dal ramo scendono lievi

e sull’acqua fluttuando come schiuma svaniscono

  1. Ki no Tsurayuki – Private Waka Anthology

chiri gata no hana miru tokiwa fuyu naranu / waga koromode ni yuki zo furi keru

mentre osservo i petali scendere, in questa stagione,

quando la mia veste non è di stoffa invernale,

mi meraviglio, di questa neve che cade

Ducks swim on the river under cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo's cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan's weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

Ducks swim on the river under cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo’s cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan’s weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

Già nei waka di epoca più antica, il poeta viveva lo sfiorire del ciliegio con un senso di rammarico e rimpianto:

  1. Ya Kamochi – Man’yoshû 4419

tatsuta yama mitsutsu koekoshi sakurabana / chirika suginamu ware kaeru to ni

Guardando in soliitudine i fiori di ciliegio sul monte Tatsuta, con tristezza cantò questo waka:

i ciliegi di Tatsutayama che ammirai lassù in pieno fiore –

saranno sfioriti e spogli prima ch’io potrò tornarvi?

Così anche per la lontananza fisica da quello spettacolo, che allora ha tendenza a trasformarsi in quadro immaginato o sognato.

  1. Ki no Aritomo – Kokinshû 66

sakura iro ni koromo wa fukaku somete kimu hana no chiri namu nochi no katami ni

Soggetto non conosciuto:

tingerò la mia veste del colore intenso dei fiori di ciliegio,

perché io li ricordi dopo che saranno caduti e dispersi

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Raccolta privata

utsutsu niwa sara ni mo iwaji sakura bana yume nimo chiru to mie ba uka ran

Una di 6 composizioni:

quanto alla realtà, di più non posso dire: ma i petali cadono

anche in sogno, allora perché questa malinconia?

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 117

yadori shite haru no yamabe ni netaru yo wa yume no uchi ni mo hana zo chirikeru

Cantato durante un pellegrinaggio ad un tempio montano:

in primavera, soggiornando ai piedi d’un monte

dormii la notte, e nel mio profondo sognare

i fiori scendevano senza posa

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Ki no Tsurayuki allude nel titolo a un viaggio che egli fece a un tempio buddista vicino alla Capitale per compiere esercizi spirituali. Si dice che egli compose questo waka perché gli fu negata la visione del Buddha. Il waka si trova nella Sezione “Primavera” della Kokinshû, dedicato a composizioni su diversi tipi di fiori, e non contiene un riferimento specifico al fiore di ciliegio: ciò malgrado, vi scorgiamo un aspetto caratteristico di quei waka: “l’eco visiva”, ossia il riverbero psichico che il ciliegio fiorito provoca nello spettatore, e che si prolunga ben oltre l’evento reale – un po’ come, dopo lunghe ore di guida, rivedere la strada durante il sonno notturno.

Abbiamo visto che nella fase iniziale della fioritura, il vento è del tutto assente. Esso si mette in gioco non appena l’albero inizia a sfiorire: diventa anzi l’agente di questo cambiamento, affrettando con la sua giocosa irruzione questo processo irreversibile:

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Kokinshû 86

yuki to nomi furu dani aru wo sakura bana ikani chire kato kaze no fuku ramu

Questo cantò, guardando cadere i fiori di ciliegio:

impeccabili, come neve scendono, i fiori di ciliegio –

perché allora soffia il vento: per vedere come si disperdono?

  1. Ki no Tsurayuki – Raccolta privata

kaze fukeba kata mo sadamezu chiru hana wo izu kata e yuku haru tokawa mimu

In marzo-aprile cadono i fiori:

contemplando nel soffio gli aerei petali scender smemorati,

mi chiedo – la primavera, dove è andata?

  1. Monaco Sosei – Kokinshû 76

hana chirasu kaze no yadori wa dareka shiru ware ni oshieyo yukite urami mu

Cantato mentre guardava i ciliegi montani in fiore:

chi sa dove sta il vento che disperde i fiori di ciliegio –

venissi a saperlo andrei da lui a lagnarmene

Blossoming Cherry trees Kyoto

Blossoming Cherry trees Kyoto

E’ palpabile la somiglianza del waka n. 13 con questo:

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 87

yama takami mi tsutsu waga koshi sakura bana kaze wa kokoro ni makasu bera nari

Dopo esser salito sul monte Hiei, tornando a casa:

già lontano dall’alto monte dei ciliegi, ancora vedo

come il vento giocava con quei turbini fioriti

In questo componimento, dopo aver superato il luogo dei ciliegi selvatici, il poeta-uomo può solo serbare il ricordo di quella fioritura, desiderarla così intensamente finché non ritorna a lui come pura immagine mentale. Così anche:

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 89

sakura bana chiri nuru kaze no nagori ni ha mizu naki sora ni nami zo tachi keru

Componimento inserito nel concorso di poesia Teiji-in:

ah, fiori di ciliegio, caduti al vento – un mero alito ricorda

le vostre onde, il loro turbinio al cielo senz’acqua

In questa celebratissima composizione, Tsurayuki raggiunge forse il più alto grado espressivo del waka sul ciliegio fiorito. Sakura bana chiri nuru, “il ciliegio è sfiorito”, contiene un’eco, un vibrare del tempo appena trascorso: alla contemplazione dell’albero sfiorito segue il ricordo della sua fioritura, che a sua volta sprigiona una fioritura virtuale molto forte. Come vediamo qui e nelle composizioni affini, l’immagine della fioritura tende a trasferirsi in una dimensione virtuale, immaginata, dovuta al desiderio ardente del poeta di averla sempre davanti agli occhi.

  1. Dama Ise (877-942) – Shuishû 49

chiru chirazu kikamahoshiki wo furusato no hana mite kaeru hito mo awanan

Su un pannello pieghevole di Sai-in si vede una persona camminare in montagna:

cadono, non cadono… chiederei a colui che l’ha visti,

e ora torna dalla mia remota patria dei fiori

  1. Monaco Jien (1155-1225) – Shinkokinshû

chiru chirazu hito mo tazune nu furusato no tsuyu keki hana ni haru kaze zo fuku

cadono, non cadono… che gliene importa

a colui che non è mai stato al mio antico paese

dove un alito primaverile spira tra umidi petali

Abbiamo citato questo waka del tardo periodo Heian, perché esprime in forma matura un sentire che già serpeggiava qua e là per la Kokinshû: il mondo in esso evocato si può visitare solo con lo spirito che si avventura fuori dal corpo. Nell’immaginario giapponese, il momento in cui il fiore viene guardato, esso comincia ad appassire: lo sguardo dell’uomo lo porta nel tempo degli uomini, che ha un termine. Qui i fiori rimangono inviolati da ogni sguardo, così possono fiorire in eterno. Tsurayuki aveva già previsto questa visione, che verrà spesso impiegata nella Shinkokinshû, l’ultima grande antologia del periodo Heian.

Si è detto che i giapponesi, a differenza dei cinesi, non ebbero mai la visione dell’eternità. Alcuni dei waka presentati qui forse contraddicono questo luogo comune.

L’immagine idealizzata del ciliegio fiorito nel waka Heian, è totalità legata al topos, immagine racchiusa entro la sua cornice, un po’ come la palla di vetro che nevica quando agitata. I poeti della Kokinshû evitarono in genere anche di descrivere l’atto di staccare un ramo fiorito dal ciliegio, gesto tipico per tutti gli altri alberi e arbusti fioriti, in particolare per il susino. Perché ne avrebbero mutilato l’interezza? Il desiderio sicuramente c’era:

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

  1. Anonimo – Kokinshû 358

yama takami kumoi ni miyuru sakura bana kokoro no yukite oranu hi zo naki

Composto su pannelli pieghevoli delle 4 stagioni, per il 40° compleanno del Generale Sadakuni Fujiwara:

sulle alte montagne, come fra le nuvole fioriscono i ciliegi

non passa giorno che il cuore non salga lassù a coglierne un ramo

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 58

nare shi kamo tomete ori tsuru harugasumi tachi kakusu ram yama no sakura wo

Cantato su un ramo di ciliegio fiorito:

chi trovò questo ramo e lo staccò sui monti lassù,

dove la foschia di primavera nasconde i ciliegi in pieno fiore?

Duska Vhrovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Nunzia Pasturi Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Duska Vhrovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Rita Mellace Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Ise, poetessa notoriamente iconoclasta, poté però, a quanto pare, permettersi di spostare la “cornice” del ciliegio a suo piacimento, o almeno di formulare ben due volte questo desiderio in poesia:

  1. Dama Ise – Antologia privata

kaki goshi ni miredo mo akazu sakurabana ne nagara kaze no fukimo kosanamu

Guardando il ciliegio in fiore del suo vicino, gli fece recapitare questa missiva:

non sazia ancora di mirare il fiorito ciliegio di là dalla siepe

come vorrei che un vento me lo soffiasse qui con tutte le radici!

  1. Dama Ise – Antologia privata

kaki goshi ni chirikuru sakura wo miru yoriwa negome ni kaze no fuki mo kosa namu

dalla siepe mi giungono volteggiando quei fiori mirabili –

meglio una raffica che sradichi il ciliegio e me lo porti tutto intero!

Tsurayuki e i poeti della Kokinshû innalzarono il waka del ciliegio fiorito all’apice della perfezione formale ed estetica.

  1. Ki no Tsurayuki – Shinkokinshû

hana no ka ni koromo wa fukaku nari ni keri ko no shita kage no kaze no ma ni ma ni

dei fiori odorosi è più profonda la mia veste

sotto l’ombra chiarissima di quest’albero,

quando il vento è un alito, un alito appena

Nota

il presente testo è stato pubblicato in inglese nel 2006 presso “Open space” in India

 Questo scritto è frutto di una collaborazione, e come tutti i lavori fatti in tandem, anche della fusione di due menti. Il primo dei due autori, che non desidera essere nominato, ha contribuito con la sua geniale visione del waka Heian e le sue approfondite, decennali ricerche in materia. Il secondo, Steven Grieco, ha curato il respiro, gli orizzonti e la stesura di quest’opera, nonché le traduzioni dei singoli waka.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.

protokavi@gmail.com

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POESIA GIAPPONESE WAKA- di Chŏng Chisang E IL RIGOGOLO GIALLO a cura di Steven Grieco-Rathgeb, con un Waka di Ki no Tomonori e Fujiwara no Sadaie

waka 6.

Nel 1999 conobbi un professore giapponese, che mi invitò a collaborare con lui su un progetto che accarezzava da anni: tradurre in inglese e italiano un significativo numero di waka del periodo classico Heian (9°-13° sec.), con relativo commento critico. Nel mondo letterario anglo-sassone, progetti di questo tipo vengono spesso fatti a quattro mani: dei due collaboratori uno – l’esperto in materia storico-filologica e interpretativa – illumina il componimento nel contesto originale, il secondo è il poeta e traduttore, che li porta, come uccelli migratori, a destinazione nella lingua di arrivo.

Lo studioso di Tokyo si interessava anche di poesia cinese classica, e a questo riguardo mi parlò di un poeta coreano, Chŏng Chisang (?-1135), vissuto durante la dinastia Koryo, periodo in cui tra i letterati di quel paese si coltivava lo stile cinese dei poeti Tang.

Di Chŏng Chisang si sa soltanto che era discendente di una famiglia dell’aristocrazia Koryo, funzionario e poeta a corte. Partecipò ad una rivolta contro il re che fu soffocata nel sangue dal generale-poeta Kim Pusik, suo principale rivale a corte e in poesia. I capi ribelli, compreso Chŏng, furono giustiziati. La damnatio memoriae del poeta che seguì spiega la scarsità di notizie biografiche su di lui. Un volume originale di sue poesie, sopravvissuto fino ai nostri tempi ma divenuto introvabile dopo la fine della Guerra Coreana (1953-56), giacerebbe ancora oggi dimenticato in qualche inaccessibile archivio a Pyongyang.

 waka 8L’amico studioso mi fece una traduzione carattere per carattere di alcune poesie delle pochissime ancora esistenti di Chŏng: composizioni quasi fotografiche, velocissime e dai colori accesi, che veicolano un costante monologo del poeta sulle vicende legate alla sua vita personale e a corte. Le studiammo a lungo; di alcune lui stesso non riusciva a cogliere certi significati e allusioni. A tratti però l’ombra del grande poeta comparve davanti a noi.

Provai, con le indicazioni fornitemi, a tradurne qualcuna, in particolare Dalla villa di Changweong, uno dei lü shih di Chŏng Chisang più notevoli, dal tono malinconico e fortemente allusivo. Nella forma primitiva, molto abbozzata, la traduzione suona:

monti, due portoni alti, un cuscino le rive del fiume
la notte intera, trasparente, non un granello di polvere
vento invia la vela dell’ospite, nuvole pecorelle pecorelle
la rugiada si condensa tegole del Palazzo gemma squame squame
dietro i verdi salici si chiudono le porte di otto-nove case
alla luna chiarissima alzano le cortine due-tre persone
oltre la foschia, il Monte Pong Nae forse si avvicina –
in sogno il fiorito usignolo gorgheggia la sua gioventù

waka 7

.

Rimanevano punti irrisolti; soprattutto non mi convinceva la comparsa dell’usignolo nell’ultimo verso.
Passò del tempo. Una mattina ero seduto nel minuscolo soggiorno di casa, sopra i tetti di Firenze. Era maggio, fuori il cielo era sereno, limpido, il silenzio profondo. Dalla finestra alle mie spalle, così azzurra, entrò furtivamente un ricordo che risaliva a venticinque anni prima: io seduto nel mio orto toscano  mentre ascolto il canto mattutino di un uccello. Avviluppato dall’aria già calda, quel richiamo prendeva forma, si librava sopra il boschetto vicino – un gorgheggio a piena gola, quasi ubriaco…

Ma sì! Era l’uccello di allora, il rigogolo giallo… ecco cosa mi suggeriva il lü shih di Chŏng Chisang! Possibile? In fretta e furia scrissi una mail a Tokyo, chiedendo all’amico se esistessero usignoli nell’Estremo Oriente. Disse di no; che il nome dell’uccello nella poesia di Chŏng corrisponde al giapponese uguisu. Gli chiesi di appurare se l’uccello in questione non fosse per caso il rigogolo. In un lampo arrivò la risposta, entusiasta: sì, era proprio lui: l’oriolus chinensis, il rigogolo giallo orientale, schivo e solitario come il cugino europeo.

waka 3Il buio che avvolgeva l’ultimo verso della poesia impallidì, “l’ usignolo” si trasformò in rigogolo giallo, la notte diventò un mattino azzurro!

E’ un fatto che più volte nelle traduzioni occidentali di poesia dell’Estremo Oriente (specie quella giapponese) si siano felicemente confusi i due uccelli: a tutto scapito di poeti che erano (e sono) in sintonia con ogni vibrazione della natura, ogni sua atmosfera, ogni minimo scarto cromatico (così come lo è Messiaen, nel suo pezzo per pianoforte Le Loriot).

Il rigogolo mi riaccese l’immaginazione, incoraggiandomi a pensare che era possibile rendere in traduzione l’autentico spirito dell’originale. Continuai a lavorarci sopra, cercando di tirare fuori tutta la bellezza che vi sentivo, poi ancora dovetti mettere da parte la bozza per lavori urgenti.

Qualche anno più tardi persi le tracce dell’amico di Tokyo e la traduzione della poesia di Chŏng, bisognosa di ulteriori verifiche, rimase sepolta sotto le mie carte.

waka 9Passò qualche anno ancora. Nel settembre 2012, setacciando la Rete per notizie sul nostro poeta (ormai invano, pensavo), mi sono imbattuto nel Dr. Gregory Evon, esperto di letteratura sino-coreana e autore di una monografia dal titolo Tracking a Ghost: Chong Chisang and a Forgotten Style of Sino-Korean Poetry.[1] Gli ho chiesto una collaborazione. La risposta è stata immediata:

Caro Steven,

grazie della mail. Ho velocemente controllato la sua bellissima versione della poesia di Chŏng Chisang e trovo due questioni da chiarire. La prima, nel verso 7, riguarda il monte degli Immortali, il Penglai dei cinesi. Sarebbe forse meglio utilizzare qui il nome coreano, Monte Pong Nae (蓬莱山). Lo stesso verso lei lo fa affermativo: “dalla distanza remota, il Monte Pong Nae sembra avvicinarsi”, quando invece sarebbe meglio l’interrogativo: “dove esiste?” E’ proprio questo senso di “incertezza” che si collega all’uccello che sogna, o all’uccello che appare in sogno.

Dr. Gregory N. Evon,

Asian Studies Program Convenor, Korean Studies & Japanese Studies, School of International Studies, The University of New South Wales, UNSW, Sydney, NSW, 2052

Australia

Dopo altre lettere su questioni tecniche, gli chiesi se avrei potuto citarlo in un pezzo che avevo in animo di scrivere su questa curiosa nonché annosa vicenda. La sua risposta fu entusiasta: “…Sentiti assolutamente libero di usare i miei suggerimenti, e di citarmi. Anzi, ti ringrazio!…”

                                     Dalla villa di Cheongwong

I portoni della Cittadella sopra le morbide sponde del fiume
in lontananza una notte chiara, non un granello di polvere
il vento spinge la vela dell’Ospite verso le mille nuvole sfilacciate
le tegole sul Palazzo stillano rugiada, miriade di squame lucenti
dietro i verdi salici hanno chiuso le porte di quasi tutte le case
solo qua e là qualcuno solleva le cortine alla luna che risplende
nella distanza remota, il Monte degli Immortali – dove esiste?
in sogno lo splendido rigogolo canta la sua primavera azzurra

waka 5.

La poesia andrebbe letta lentamente, per evitare l’effetto “collana di pietre brillanti”. Secondo l’estetica cinese, l’immagine interiore si fonde sottilmente con il paesaggio che il poeta evoca per meditare sulle vicende politiche, il successo mondano, la vita intima.

Il tratto verticale, scuro, dell’inizio contrasta con la luminosa orizzontalità femminile del fiume. La notte così chiara nel 2° verso potrebbe alludere a un dissidio interiore che il poeta ha superato. 3°: nella poesia Tang, il fiume e le nuvole spesso alludono a un errare o all’esilio. 4° verso: statico, contrasta con il precedente, fluido. Il palazzo reale consisteva di padiglioni grandi e piccoli, collegati da corridoi esterni protetti da tettoia (le tegole lucenti: i membri della corte?). 6°: i poeti Tang usavano la luna, simbolo di “verità”, anche per indicare il ricongiungimento dopo lunga separazione. 7°: la Montagna degli Immortali, dove si recarono anche Li Po e Po Chü I. Dopo la notte così chiara, qui regnano incertezza, opacità, speranza (che tutti sentiamo nel momento che precede l’alba). 8°: i toni notturni cedono all’oro e all’azzurro, simboli di atemporalità.[2]

(Steven Grieco)

[1] Alla ricerca di un fantasma: Chŏng Chisang e uno stile dimenticato di poesia sino-coreana.

[2] Per una maggiore comprensione della tecnica della forma poetica cinese lü-shih, si veda François Cheng, L’écriture poétique chinoise, Editions du Seuil, 1977.

waka 2

 

Miwataseba
hana mo momiji mo
nakari keri
ura no tomaya no
aki no yugure.

Fin dove arriva lo sguardo
non fiori né foglie rosse d’acero:
solo una capanna dal tetto di giunchi
vicino all’insenatura
nel crepuscolo autunnale.

Fujiwara no Sadaie
(1162-1241)

*

Aki chikō
no wa na rinikeri
shiratsuyu no
okeru kusaba mo
iro kawariyuku.

È ormai prossimo
l’autunno nei campi.
Anche le foglie, ove si posa
la candida rugiada,
vanno mutando colore.

Ki no Tomonori
(?-905?)
Kokinwakashū, X, 440

 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, è nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016). Sempre nel 2016 con Mimesis hebenon esce la raccolta di poesia Entrò in una perla (ital. ingl.)

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

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