
hiroshige, foglie di acero
I.
L’haiku è quanto di più sottile e avveniristico possa esistere in poesia. Scritto male, si avventa sul lettore con la sua banalità inaudita; un haiku autentico rende la realtà sottile al di là delle parole di cui è fatto; con la sua economia, esprime in un attimo fuggente ciò che tutta l’arte, forse dalle prime pitture nelle caverne di Lascaux (ricordiamo che la scrittura non è altro che una forma di pittura), cerca di esprimere: come è che l’uomo si trovi a vivere il sogno di sé e del suo mondo, senza mai poterlo pienamente afferrare.
Inoltre, dal punto di vista formale, per scriverne uno non è necessario seguire alla lettera le regole ereditate dalla tradizione: l’haiku dà una libertà sconfinata al poeta innovatore, ponendogli una condizione: che sappia ricollegarsi alla sua essenza, che è tanto riconoscibile quanto difficile da evocare in parole.
Tuttavia, prima di iniziare, sento la necessità di accennare brevemente a quelle letture di haiku di vari autori cui sono stato presente più volte negli anni: la recitazione di interminabili composizioni lette a velocità, come le somme di una fattura, senza alcun pensiero per il pubblico che ascolta e nemmeno per l’eventuale merito di alcuni dei componimenti stessi.
Ho un altro ricordo di lettura di haiku: quella volta a metà degli anni ’90 quando la BBC Radio – che io, esiliato linguistico e culturale in Italia, ascoltavo giornalmente – mandò in onda un programma sul poeta Bashō. Quest’uomo, il quale visse una piccola e quasi invisibile vita nella “arretrata” società giapponese del Seicento, nel corso degli anni trasformò l’haiku da composizione giocosa, goliardica, simile al limerick, in quella che è la prima forma di poesia moderna – e oggi più che mai in grado di veicolare la nostra sensibilità di uomini dell’Antropocene.
Il programma era un interessantissimo compendio di notizie biografiche e commenti critici, alternati alla recitazione. Per quest’ultima si era scelto un formato del tutto adatto alla brevità estrema dell’haiku: lettura di un singolo componimento in lingua originale, subito seguito dalla versione inglese: il tutto della durata di pochi secondi. Silenzio: un altro haiku con traduzione, altro silenzio; un terzo. Poi si tornava al commento critico-biografico. E via dicendo. L’attenzione era totale. In questo modo l’ascoltatore afferrava qualcosa del senso del suono e dell’atmosfera originale, cui poteva, quasi sul momento, dare intelligenza in lingua inglese: afferrava anche la repentinità dell’haiku, e della sua ricaduta spesso lentissima, che si estende nel tempo, perfino negli anni.

Inazuma ya yami no kata yuku goi no koe
Inazuma ya yami no kata yuku goi no koe
il guizzo di un fulmine
attraverso l’oscurità
grido dell’airone notturno
suzushisa ya hono mikazuki no Haguroyama
questa frescura –
vaga falce di luna
sopra al Monte Hirago
La recitazione era una collaborazione fra il lettore giapponese dei testi originali e l’eccellente traduttore (e lettore) inglese, di cui non ricordo il nome (e adesso che vivo su una lontana isola greca non posso nemmeno fare le ricerche necessarie). Pur non letterato, il lettore giapponese era profondo conoscitore di Bashō, e lo venerava come maestro. Leggeva dalla pancia: le parole uscivano come ruggito, rauca parola d’amore, grido di disperazione, stupore – senza mai l’odore di una retorica teatralità. E pensare che quest’uomo non era né poeta, né scrittore, né critico: era un uomo d’affari!
II.
Cerchiamo di capire come l’haiku “classico”, quello coltivato dai poeti giapponesi del 17°-19° secolo, sia molto diverso da quello di “Faro lontano”, e come si possa pertanto rilevare una sostanziale affinità – se non in certe regole base che ne governano la scrittura, e nemmeno come vedremo nella dinamica, sicuramente nel grado di rarefazione e tipica forza suggestiva.
Per fare ciò prendo ad esempio uno dei pezzi più celebri: sebbene mille volte riproposto, penso che quanto segue aiuterà tutti a rileggere questo e altri haiku in modo più completo e immaginativo. Shikō ci riferisce come fu composto:
Quella primavera Maestro Bashō stava nella sua capanna in riva al fiume, a nord di Edo. Attraverso il quieto picchiettare di pioggia arrivava il tubare profondo delle tortore. Il vento era mite, e i fiori [i.e., sugli alberi] indugiavano. Alla fine del terzo mese, spesso lui sentiva il suono di una rana che saltava nell’acqua. Infine un sentimento indescrivibile galleggiò nella sua mente e si plasmò in due frasi:
kawazu tobikomu | è saltata una rana mizu no oto | il suono di acqua
Kikaku, che stava accanto a lui, fu tanto audace da suggerire come frase d’inizio le parole ‘le rose montane’, ma il Maestro scelse ‘furuike (ya) il vecchio stagno’. Se mi è lecito offrire un parere, penso che sebbene ‘le rose montane’ suoni poetico e incantevole, ‘il vecchio stagno’ possiede semplicità e sostanza.
L’haiku di cui si parla è:
furuike ya kawazu tobikomu mizu no oto
il vecchio stagno –
è saltata una rana
e il suono d’acqua
(In Makoto Ueda, Bashō and His Interpreters, Stanford University Press, 1992.)
Il commento mette in rilievo una questione tecnica e metafisica nel contempo: dove dentro ogni singola poesia sta la sua chiave? Per quanto riguarda l’haiku in genere, si dice quel punto stare al crocevia – articolazione, punto vuoto, cesura, come dir si voglia – tra frase 2 e frase 3. E spesso è proprio così. Ma il resoconto dell’allievo-discepolo suggerisce che in questo caso il punto dinamico, la ruota di fuoco, sta proprio dove non ce l’aspetteremmo – nel punto di congiunzione tra prima e seconda frase, con movimento compositivo a ritroso dalle frasi 2 e 3 alla frase 1. La prima qui indica luogo e tempo umani: poiché lo fa in modo sottaciuto (cosa c’è di tanto speciale nell’immagine ‘un vecchio stagno’?), la frase ancor più si carica di nascoste associazioni, e quindi forte energia numinosa; così porta sulle proprie ali le due frasi successive, ciascuna delle quali è chiamata a veicolare, simultaneamente, tempo e spazio (ma nel senso oltre-umano, cosmico).

suzushisa ya hono mikazuki no Haguroyama
Bashō era un infaticabile sperimentatore e innovatore, e scrisse anche haiku di 18, 19 sillabe (per cui la sacralità del formato 5-7-5 è, di nuovo, una rigidità poco giapponese). In questo haiku, la dinamica ingannevolmente capovolta non è per dissacrare ma soltanto scavare nel senso più interno delle cose. Al suo paragone le sottigliezze compositive dei poeti moderni occidentali dell’ultimo secolo spesso appaiono un po’ goffe ed eccessivamente enfatizzate. Solo, ad es., i Four Quartets di T.S. Eliot (ad es., da “Burnt Coker”: “Footfalls echo in the memory / Down the passage which we did not take / Towards the door we never opened / Into the rose-garden. My words echo / Thus, in your mind.”) fanno qualcosa di simile; anche se, andando avanti in quel poema, troviamo maggior dispendio di parole, con rischio di maggior dispersione della suggestione profonda. Ogni metodo di scrittura poetica ha la propria eccellenza: il poeta americano controlla la composizione dall’esterno, come un architetto disegna la planimetria di un edificio (in questo ispirandosi a Dante Alighieri, massimo poeta e maestro della tradizione occidentale); Bashō fa uscire l’haiku dal suo intimo in un continuum nel quale le pause e interruzioni in fase compositiva fanno parte della ininterrotta continuità di ispirazione.
III.
Anni fa, parlando con un amico regista, Mani Kaul – egli, grande amante di haiku e sottile intuitore di come esso si apparenti al cinema (cosa già studiata da Andreij Tarkovskij) – ebbe a chiedersi in quale modo ai nostri tempi si sarebbe potuto scrivere haiku nel 21° secolo. Pensava difficile trovare oggi quella particolare intensa e distaccata osservazione che dà modo al poeta di operare una radicale decostruzione della realtà, e aprire inediti orizzonti di attesa; di cui l’haiku poi si fa veicolo in modo del tutto parallelo a come lo fa la musica elettro-acustica. L’incapacità di “animo” (quel luogo sottile fra mente e cuore che questa parola italiana rende così bene), l’incapacità di noi uomini del 21° sec. di agire partendo da quel luogo in noi, fa sì che – a parte qualche sparuto fisico di alta levatura, qualche rarissimo poeta o scrittore o artista o pensatore – risulti quasi impossibile afferrare con le parole la realtà ineffabile delle cose. Le stesse parole che usiamo ci paiono consunte, effimere, macchiate, private del loro reale spessore: e non capiamo che anche questo non è che un abbaglio dovuto al rimpianto per i valori assoluti dei due gemelli: religione cristiana – positivismo scientifico.
Purtroppo, proprio oggi quando più che mai si dileguano le nostre certezze e il mondo sfugge per così dire al nostro controllo, siamo assediati dalla retorica che inneggia al falso progresso, all’uomo ‘creatura più intelligente del cosmo’, al suo glorioso futuro. Tutto appare pesante, impaludato di auto-celebrazione e non poca stoltezza. Lo sguardo sottile sulle cose appare arduo.
Opinai che forse la difficoltà di scrivere haiku ai nostri tempi era anche dovuta all’avvento della fotografia, questa tecnica perfezionata nei secoli XIX e XX; che oggi il poeta deve, seppure con epocale ritardo, sforzarsi di misurare la sua arte con il fenomeno di questa immagine ‘reale’, tratta direttamente dal fisico intergioco tra luce e ombra. Lo scatto fotografico è sicuramente un tipo di haiku – basti pensare agli “attimi” fermati nel tempo delle immagini di un Cartier-Bresson.
il figlio di un contadino
nel mondare il riso, si sofferma
a guardare la luna
(Bashō)
Menzionai a Mani Kaul che la fotografia e il cinema avrebbero in ogni caso dovuto portare il poeta a privilegiare nella sua scrittura un sempre maggior grado di trasparenza, velocità e senso immediato delle cose, gettando nel cestino tutti quegli artifici letterari che ancora oggi costituiscono il farraginoso repertorio del versificatore mediocre. Solo così, sembrava a me, la poesia sarebbe entrata di diritto nel 21° secolo.
(Steven Grieco Rathgeb)

«yuku haru ya «passa la primavera-
Didascalia esemplificativa
.
«Furu ike ya –
kawazu tobikomu
mizu no oto»
*
il vecchio stagno –
è saltata una rana
e il suono d’acqua
.
Questo è il più celebre haiku, scritto dal maestro Matsuo Bashō.1)
*
1) [È grazie al kireji che si crea nella struttura dell’Haiku la frammentarietà: il significa di kireji è “parola che taglia”. Non esiste un corrispettivo del kireji in italiano (di solito nella traduzione dell’haiku si usa mettere un trattino, un punto o una virgola), esso è un termine che comprende una categoria di parole che sono poste solitamente alla fine del verso per creare attesa e pausa. Queste parole non hanno un vero e proprio significato, sono quasi come segni di punteggiatura ma con aspetto fonico: esse, però, creano una forte suggestione, un vuoto, una sospensione momentanea di senso e aggiungono indeterminatezza all’intero haiku. Ecco un paio di esempi di kireji tratti dalle poesie del maestro Bashō:
.
il kireji ya や tra due versi:
«行く春や «yuku haru ya «passa la primavera-
鳥泣魚の tori naki uo no piangono gli uccelli, sono lacrime
目は泪» me wa namida» gli occhi dei pesci»
.
Lo ya enfatizza la parola o le parole che lo precedono e taglia l’haiku in due parti, invitando il lettore a esplorare meglio le loro interrelazioni.
.
Il kireji kana 哉 posto alla fine dell’haiku:
«ひやひやと «hiyahiya to «come è bella la sensazione
壁をふまへて kabe wo fumaete di un muro contro i piedi-
昼寝哉 » kirune kana» siesta»
.
Il kana è posto sempre alla fine dell’haiku e denota un’esclamazione. È usato per far risaltare la parola che lo precede, indicandone la centralità. Il kigo, il satori e il kireji sono le tre caratteristiche principali dell’haiku, fissate da Bashō, assieme al numero di sillabe.]
*
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com
Tenteremo qualche haihu; così, per fare ribaltare Basho nella tomba; in caso fosse ancora lì:
Mattino presto.
Il telefono squilla.
Squilla e tace.
Un capriolo
dal bosco finito qui.
Fotoritocco.
Steven Rathgeb
acuta intelligenza.
Miele nel libro.
… poi io conoscevo questa versione dell’haiku di Basho, sicuramente frutto di diverse traduzioni:
Il vecchio stagno
una rana si tuffa
Plot!
Bentornato su queste pagine, Steven. Ci mancavi, si ha bisogno di te.
I libri di poesia visti da una nuvola Letti da Giorgio Linguaglossa
Tiziano Scarpa, Le nuvole e i soldi, Einaudi, 2018, pp. 114, € 11,50
Marcello Fois, L’infinito non finire, Einaudi, 2018, pp. 69, € 10
La parola è il significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto. La parola è un sintomo. Un Simbolo scritto sulla sabbia.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/10/07/a-proposito-dellhaiku-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-38437
La mia incapacità a scrivere Haiku, e nemmeno «pseudo haiku» alla maniera di Zanzotto, deriva dalla mia formazione culturale. Nell’haiku ho sempre la sensazione che ci sia da qualche parte, nascosto, il soggetto che ammaina le vele o le mette a dritta per la navigazione in quell’oceano di sabbia che è il linguaggio. Perché parto dalla evidenza che: dove c’è il soggetto non ci sono io. E viceversa. ho il presentimento che nell’haiku ci sia sempre da qualche parte nascosto il soggetto che si gode la rappresentazione. Ho questo sospetto che non riesco a zittire.
Però sono convinto che nel circolo ermeneutico e simbolico dell’Haiku si nasconda, anzi, si riveli una grande evidenza: che dobbiamo a tutti i costi far sloggiare il soggetto (l’io) dal centro dell’universo e dal centro della frase. Questo sospetto diventa certezza quando leggo certi libri come quelli di Tiziano Scarpa e Marcello Fois i quali ci consegnano una scrittura che si è completamente arresa alla frase narrativa. Di fatto, qui entriamo nella narrativa. Bisogna dirlo per onestà verso noi stessi e verso gli sparuti lettori di poesia. Sono libri di «poesia» totalmente narrativizzata, cioè narrativa.
Non so se gli autori abbiano scelto consapevolmente questa soluzione: la fine della poesia e la sua fluidificazione nella narrativa. Se così è va bene, buon per loro e per noi che possiamo subito chiudere il libro perché pensavamo che in una collana di poesia trovassimo dei teti di poesia; se invece non è così, dovremmo cercare la ragione perché la «poesia» è scomparsa per diventare completamente «prosa». Personalmente, sarei curioso di chiederlo agli autori stessi.
Il discorso sul perché la poesia si sia «suicidata» è molto complesso e risale a tanto tempo fa, quando qualcuno ha pensato di liberalizzare, democratizzare la «forma-poesia» per adattarla alla nuova civiltà mediatica. Nei primissimi anni settanta fu Montale a porsi questo problema che risolse a suo modo con Satura (1971) aprendo la «forma-poesia» alla penetrazione della «prosa». Ma sarebbe bene ricordare che Montale ci aveva avvertito che si trattava di «falsa» prosa perché c’era un contro movimento interno alla «prosa» che interrompeva e disturbava lo scorrimento frastico della «prosa». Ma tant’è, nessuno ha più fatto caso a questa avvertenza di Montale e le cose da allora sono andate per il loro verso, cioè sono precipitate sempre più in basso. Da allora, è avvenuto che non è stato posto nessun argine a questa resa totale della poesia alla prosa, e il risultato è questo che vediamo, questo che possiamo leggere nei libri di poesia di questi ultimi decenni e di oggi. Sarebbe stato bene che qualcuno in tutti questi decenni avesse avvertito di questo rischio, ma ormai è tardi per porvi riparo, oggi non possiamo che levare un grido postumo di allarme, è troppo tardi per porvi riparo. Si dirà: ma la poesia si è democratizzata, si è adattata all’uditorio! Può darsi, ma si è trattato di un rimedio peggiore del male che voleva curare. Adesso è troppo tardi per cercare un altro rimedio. Penso che allo stato degli atti, bisognerà fare una conversione ad “U”, pur infrangendo le norme del codice della strada, è un rischio che ci dobbiamo accollare.
Penso che bisognerebbe de-localizzare il soggetto per localizzare la soggettività. Quando leggo la poesia di oggi, vengo preso dal sospetto che sia una poesia scritta dall’io per l’io degli altri, come una scrittura pubblicitaria, una scrittura mediatica. È un sospetto terribile, che basta di per sé a farmi passare la voglia di leggere oltre il primo rigo, quel rigo infatuato di encomiastica fiducia nel soggetto e di falsa soggettività. Quel «pieno» che è il soggetto mi mette letteralmente la nausea. Quel geroglifico (l’io) che tutti danno per scontato mi fa sorridere di noia.
Però l’esercizio dell’haiku è importantissimo, penso, per quei «tagli» (kireji è “parola che taglia”). Quanto poco utilizziamo i «tagli» in una poesia! – Eppure, i «tagli» sono essenziali nell’haiku! – Ecco, questo aspetto è una caratteristica preminente della poesia che qui stiamo pensando e facendo e che abbiamo chiamato la «nuova ontologia estetica». Senza i «tagli» la nuova poesia non esisterebbe nemmeno! I «tagli» e i «cambi di marcia» e le «peritropè» (i ribaltamenti, le conversioni), sono elementi assolutamente essenziali per la nuova poesia.
Leggiamo qui la poesia messa in copertina dal libro di Tiziano Scarpa, Le nuvole e i soldi, Einaudi, 2018:
Nel cimitero della mia città
vengo a rubare i fiori.
Non li darò a una donna.
Non sono per nessuno.
Con gli occhi bassi, li offro
alla parola amore
che ho imparato dai morti.
Lasciando da parte per un momento se la poesia sia bella o brutta (esercizio che lascio volentieri ai numismatici), quello che mi suona posticcio è quell’«io» che soggiace ovunque e sottende tutta la poesia, quell’io invasivo e pervasivo che continua a guidare e governare il rapporto fraseologico. Ecco, di questo «io», di questo «io» epicentro avverto il suono fesso, incautamente imbonitorio, vi leggo un messaggio egolalico, con un qualcosa di ammonitorio e intimidatorio…
Leggiamo un’altra poesia messa in copertina delle edizioni Einaudi, 2018 di Marcello Fois, L’infinito non finire:
Esiste un altro tempo
Io l’ho visto
Prima che dal suolo scaturisse sangue
Prima del magma che forzava le crepe
Disteso con la bocca a terra
Ho atteso che si compisse a stagione
Qui addirittura l’«io» è nominato al secondo rigo. Tutti gli altri righi sono superfetazioni catacretiche dell«io» egolalico, sono sue emanazioni variopinte.
Indubbiamente, «la forza delle chiese risiede nel linguaggio che esse hanno saputo conservare».1] Anche il linguaggio poetico è diventato un linguaggio chiesastico, un catechismo che passa di mano in mano, di generazione in generazione come un sussidiario nel quale i catecumeni mettono le proprie generalità. È la forza di un linguaggio chiesastico dove il sacerdote è l’«io» e la messa sono le sue omelie pronunziate in pubblico. Penso che tutta questa materia lessicale metricamente posta nelle sue forme sia il prodotto di una presupposizione, di una congettura da tutti presa per vera e sul serio, al pari dell’esistenza di un «io» che legifera nel suo universo di parole. L’«io» di cui si discute nella poesia italiana degli ultimi cinque decenni e si continua a discutere nei libri di poesie pubblicati è nient’altro che un simulacro in similpelle di una presupposizione, simil plastica inzuppata nel deodorante di una cultura da supermarket. L’«io» di cui tratta la poesia epigonica altro non è che il surrogato di un simulacro in simil plastica.
Il linguaggio poetico non è affatto fatto per trovare l’oggetto: «io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato per ciò che sto per divenire».2]
Il linguaggio poetico non è il responsorio dove sono custodite le risposte alle istanze pulsorie dell’«io», ma è esattamente l’opposto, è il luogo dove risuonano le parole dell’Altro e degli Altri in un linguaggio estraneo, allotrio…
In questi ultimi giorni ho letto alcuni libri di poesia di vari autori. Che dire? Sono scritti in un buon italiano, un italiano accettabile, nulla quaestio, ci sono dei giri frastici al punto giusto, degli incisi morbidi, l’a-capo è sempre (o quasi) azzeccato, non ci sono indugi, né incertezze, ci sono delle belle strofe con le spaziature per far sembrare interessante l’acqua corrente. Tutto è a posto, sono scritture con i tacchi a spillo e la cravatta, ma non c’è il tema, non c’è quello che il titolo delle poesie indica. Si vede che non c’è un «Progetto» (scusate la parola maiuscola), si vede che gli autori non si sono mai posto alcun problema di cosa vuoi farci con il linguaggio, che cos’è la composizione poetica, se è una chiacchierata dell’io che sciorina le sue considerazioni o altro, si tratta di libere considerazioni, più o meno brillanti, ricchi di trovate e battute di spirito. Direi che c’è una ingenuità o sconoscenza di fondo sui fondamentali, su ciò che si intende debba essere una poesia… mi trovo in imbarazzo… non saprei proprio che cosa dire di questi libri, tranne che mi sembrano scritti in base ad un impulso irrefrenabile dell’io che vuole presentarsi sul palcoscenico… quando invece la poesia proviene di preferenza, anzi direi sempre, da un filtro, da una rarefazione. Moravia diceva che una poesia è un romanzo ma scorciato fino in fondo. Ecco, credo che Moravia abbia colto nel segno. Ma questi sono racconti prolissi e compositi, scritti proprio come dei racconti ma senza capo né coda. E questo proprio non è sufficiente per annoverare questi libri tra i libri di poesia.
1] J. Lacan, Scritti, vol I, trad. it. a cura di Giacomo Contri, Einaudi, 1976. p. 276
2] Ibidem p. 293
[Tiziano Scarpa, da Le nuvole e i soldi, Einaudi 2018]
Mi fa venire
un corpo nudo mi fa venire
la foto di un corpo nudo mi fa venire
il video di un corpo nudo mi fa venire
un piede di donna che calpesta la marmellata mi fa venire
l’idea che ci sia chi viene per un piede di donna che calpesta la marmellata mi fa venire
una suola che spiaccica una gomma sul marciapiede mi fa venire
il marciapiede mi fa venire
un tubo di scappamento mi fa venire
un semaforo mi fa venire
una vigilessa mi fa venire
un viale alberato mi fa venire
un supermercato mi fa venire
le nuvole mi fanno venire
la luna mi fa venire
il sole mi fa venire
l’universo mi fa venire
gli angeli mi fanno venire
dio mi fa venire
il terremoto mi fa venire
le catastrofi mi fanno venire
la morte mi fa venire
i fulmini mi fanno venire
la luce mi fa venire
il mare mi fa venire
la gente nuda al mare mi fa venire
tutta la gente che viene mi fa venire
una persona particolare che so io che viene mi fa venire
fare l’amore mi fa venire
venire mi fa venire
Poesia scritta dalle parole #9
Non sei credibile
perché sei maschio.
Làsciatelo dire da noi parole
che in italiano infatti siamo femmine
la nostra desinenza è femminile.
(tra l’altro, è indicativo
che il sesso delle parole stia alla fine,
sulle estremità. Sarebbe come avere
cazzi e vagine aperte
sulle mani, sui piedi,
invece che protette fra le cosce
di due sillabe interne,
per esempio lamApad,
sofOfitt, temApest,
oppure sul cocuzzolo
Ofuoc, Aguerr, Efulmin, Odisastr)
Qualunque cosa dici
sei maschio quindi porco
puerile irresponsabile
ambizioso narciso.
E anche se soffri sarà sempre meno
della sofferenza femminile
che infatti è femminile.
Se il dolore è maschile
è perché è inferto dai maschi.
Lascia che siamo noi a rappresentarti,
a farti da avvocate.
Ogni riga è un processo
intentato da noi nei tuoi confronti
e questo ti conviene
perché mostrarti accusato
ti procura indulgenza
se non proprio una vera assoluzione.
*
Marcello Fois da L’infinito non finire (Einaudi, 2018)
Congedo
Parti da te, figlio… da quello che sei.
Bisogna morire per imparare?
Mi chiedi.
Sì, figlio, per imparare qualcosa deve morire.
Tu non lo sai e non devi saperlo,
ma il cuore, con l’età, si restringe.
Non è più tanto capiente, immenso,
come all’inizio dei giorni.
Tra non molto gli abbandoni conteranno anch’essi.
Ma ora il tuo cuore è una piazza sconfinata,
e ti fa credere che sopravviverai
senza dover rinunciare a niente,
capirai, col tempo, quanto sia difficile trattenere
ogni cosa, ogni pensiero, ogni persona…
Sei nell’euforia di tutti gli inizi.
Qualcuno dovrà morire perché tu viva.
Domani, quando chiamerai, io non ci sarò,
ma solo perché tu possa esserci,
quando chiameranno te.
Arandona Star
Lunghezza: 163 metri.
Posti in prima classe: 364.
Velocità di crociera: 60 nodi.
Tonnellaggio lordo: 12 847 tonnellate,
prima di essere riarmata fino a 15 501 tonnellate…
arandora festeggia il primo anno,
diventando Arandora Star, nave da crociera
di gran lusso…
Come un adolescente che si svegli, d’improvviso, donna.
Avreste dovuto vedere come svettava fiera e sfacciata
Nella sua livrea brillante al porto di Southampton.
Dieci anni a viaggiare dall’Inghilterra alla Costa est
del Sudamerica:
Vittoria, rio de Janeiro, Santos, Florianopolis,
Montevideo, Mar del Plata,
fino al 1939.
Oh sì, verso il ’39 c’è poco da ridere,
l’europa è uno zerbino scosso da una massaia energica
che pretende pulizia.
All’Arandora si toglie l’abito da sera,
dodici operai lavorano per quattro giorni
ininterrottamente
per ridipingerla di grigio.
Questi sono gli ordini.
La signora elegantissima è diventata un’anziana dimessa
Che stenta a mantenere i segni dell’antica eleganza
Negli intarsi di legni africani, nelle modanature decò,
nei tappeti persiani, nelle travature di ghisa…
Di quella e delle altre navi tuttavia
non si ricorderanno gli arrivi,
ma solo le partenze, che le partenze valgono
solo per chi resta…
Ho sempre considerato l’haiku come un traguardo verso cui tendere. E non tanto dal punto di vista formale, anche se nella tradizione giapponese la struttura, il kigo, tante altre cose, e il kireji, come sottolineano Antonio Sacco, da una parte, e Steven Grieco, abbiano una loro ragion d’essere. Ciò che mi attira è il vuoto, il risparmio linguistico, la consumazione del linguaggio, la sue perdite. La parola dev’essere triturata, spogliata, ridotta all’osso, deve perdere agni aura descrittiva, deve ritornare ad essere se stessa, nuda e cruda. Il superfluo e la retorica non fanno parte dell’haiku! Devono le parole, come suggerisce Steven Grieco, ritornare all’origine: una forma di pittura, essenziale. Ciò che crea difficoltà è il processo per raggiungere tale obbiettivo. I Giapponesi hanno a disposizione una condizione spirituale e mentale che chiamano “Sonomama”; in essa e con essa si spogliano dei concetti, dei preconcetti, si abbandonano al respiro e al flusso della natura, ritornano ad essere pianta tra le piante, pietra fra le pietre, luce ed ombra nel giorno e nella notte… Steven Grieco riporta il racconto di Shiko: in primavera, sulla riva del fiume, in una capanna, immersi nella natura… tre mesi di solitudine e di osservazione… solo alla fine del terzo mese, il Maestro Basho,dopo avere ascoltato, chissà quante, il suono di una rana che saltava nell’acqua, ha “un’esplosione di luce”: “Infine un sentimento indescrivibile galleggiò nella sua mente e si plasmò in due versi:
è saltata una rana
il suono dell’acqua”.
Tre mesi per due versi!
Oggi fagocitiamo parole su parole in preda a una irrefrenabile bulimia, le affastelliamo in cumuli e montagne, le mercifichiamo tra letteratura e spettacoli, tra versi e canzoni. Il più delle volte ci auto inganniamo e speriamo che le parole consumate abbiano “senso”, “anche se un senso non ce l’hanno” come canta il nostro Vasco Rossi… Invece dovremmo perderle le parole e liberarci del loro “peplo”; diceva così Linguaglossa, o ricordo male? O almeno perderne il più possibile… per ritornare a un sentiero di silenzio, a un percorso di riflessione, sostare nella capanna di Basho in riva al fiume… Tace, quiesce, fuge… purtroppo la città e i suoi echi, le sue propaggini e i suoi scarti hanno distrutto ogni argine e ogni confine… non ci sono più luoghi… nessun altrove, né fisico né mentale… allora non ci resta che seguire l’insegnamento del maestro Basho: ogni haiku è un salto nel vuoto. La rana salta, affronta l’incognito, ma non si perde, non scompare; plana e affonda nell’inconscio, nell’acqua delle origini! Il risultato? Soltanto un fremito nella coscienza… anche il pelo dell’acqua ha un tremore che si espande… Uomo e natura nell’identico mistero, sotto lo stesso segno. Il salto nel buio e nell’ignoto ha increspato l’orizzonte… l’haiku ha prodotto l’aggancio con la realtà “noumenica”… e forse, nell’attualità del mondo moderno, soltanto le sue diciassette sillabe, storte o diritte che siano, possono ancora evocare e arpionare un lembo di quel “sogno di noi” che ci perseguita.
Azzardo anch’io qualche Haiku in doppia versione: italiano e “urdu” calabro, sperando sempre che Basho continui il suo riposo.
S’attorce il ramo-
Dispersi sulle foglie
ombre e profumi
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Ntosta lu ramu-
Nta li pampini sicchi
umbri ed adduri
Arrivederci-
Gli luccica la mano
telefonando
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Pue ni vidimu-
E la manu s’addhuma
telefonandu
Anche il fringuello
all’alba cicaleccia
della sua notte
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Puru lu spinzu
ni parra a hfjiacca ‘arva
de la nottata
Nello zen viene raccomandato di stare nel presente, quindi con le cose che si hanno attorno, onde evitare inutili fantasie e intellettualismi. Ecco perché questo sentore dell’io, anche se non viene mai nominato.
E’ aria calda
Sorregge il falco
pensa il topo
Aria calda.
Sorregge il falco.
Un topo.
Haiku è difficilissimo
Però ripensandoci, nel suo haiku, Federico, è il topo che pensa che l’aria calda sorregge il falco.
Mi era sfuggito. Vedi, alle volte la prospettiva!!!
Dovrebbe però usare le interpunzioni, che nell’haiku sono determinanti.
E’ aria calda.
Sorregge il falco,
pensa il topo.
È aria calda.
Sorregge il falco,
pensa il topo.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/10/07/a-proposito-dellhaiku-di-steven-grieco-rathgeb/comment-page-1/#comment-38467
l’haiku di Federico (mi piacerebbe conoscere anche il cognome dell’autore) mi convince pienamente per la ragione spiegata da Giuseppe Talia: nel terzo verso “pensa il topo” si ha un capovolgimento della relazione “Sorregge il falco”, il che rende la visione da un punto di vista scentrato, non è più il falco il soggetto agente ma l’azione del pensiero del topo che “pensa”. Qui è chiaro che l’io, il famigerato io che mi affligge da cinquanta anni di modesta poesia italiana, dicevo, quest’io è finalmente scomparso, non ne è rimasta traccia. Direi che questo è un modo moderno, tutto occidentale, di pensare e scrivere l’haiku. Il primo rigo: “È aria calda», è soltanto una dichiarazione, una constatazione, che però nell’ambito della composizione è essenziale perché ci introduce nel vero tema della composizione: l’«aria» che tutto sorregge e sovrasta e che contiene sia il topo che il falco. Complimenti di nuovo a Federico.
Anche nella mia composizione è rimasto qualcosa dell’haiku: direi la «sospensione», il satori, il vuoto che si rivela nell’attimo della contemplazione.
Il primo e il secondo rigo, sono chiari, vogliono essere una mera dichiarazione di un dato oggetto caduto entro il campo visivo dell’occhio, quasi un terzo occhio o di un estraneo.
Il secondo distico invece introduce un pensiero, una cogitazione, è un periodo ipotetico.
Il quarto rigo introduce un secondo dato (un signore) mediante una frase dichiarativa, neutra, seguito da una osservazione ipotetica (mi aspetta), il che costituisce una mera ipotesi in quanto il «signore» potrebbe esser capitato lì per i fatti suoi, o per caso etc. Ma quel «mi aspetta», introduce una complicazione. Da dove viene quel «signore»? Perché aspetta?
Il quinto e sesto rigo introducono ad uno stato di sospensione, c’è «silenzio assoluto», l’io è «in ascolto».
La composizione è aperta, non «chiude», si apre alla «sospensione» della lettura da parte del lettore, invita il lettore a soprassedere alla interpretazione, a rinviare qualsiasi atto di pensiero interpretativo, è un invito ad entrare in punta di piedi e in silenzio in un luogo misterioso dove è accaduto qualcosa che però non viene detto…
Una grande sala illuminata, bianca.
Al centro una scrivania in radica, una sedia.
Il pavimento è in candido marmo, penso di Carrara.
Un signore vestito di bianco è in piedi, mi aspetta.
Entro nella sala. Silenzio assoluto. Avverto lo scricchiare
delle scarpe sul pavimento. Sono in ascolto.
Se si intende la poesia haiku unicamente come fatto letterario, allora conviene mettere da parte Basho e tentare di cogliere gli elementi che ci possono essere utili per comprendere e intervenire in chiave moderna e contemporanea il componimento breve, o per meglio dire il frammento.
Giorgio Linguaglossa ha ottenuto una versione “haiku” tramite l’utilizzo del frammento contenuto nel distico; e ha posto il distico in sostituzione del verso. Risultato: al posto delle sillabe si conteranno i frammenti, che in questo caso sono doppi (sempre che ora abbia senso questo far di conto).
Haiku rimane terzina, ma terzina composta da distici. Una sorta di equazione dove si tiene conto dei decimali.
Questa l’interpretazione pitagorica. Ma, cosa a mio avviso più importante, è che dello haiku è rimasto l’accadimento, quel saper cogliere l’attimo: il satori.
Il fatto puramente letterario sconfina, anche formalmente, nell’ontologico…
Questo mi ricollega a Baho, che era maestro zen.
Per Giuseppe Talia
In un cielo bambino
senza parole
hai vissuto felice
Grazie mille caro Livia, apprezzo, ma non sono stato un bambino felice, e quando ancora mancavano le mie parole, purtroppo, c’erano quelle degli altri, gli adulti.
Ricambio con questa.
La Musa Last Minute
In bagno prima d’ogni scomparsa.
Strisce di bianco sulla tavolozza.
La catena di Nefele nuvola
e di Orfeo il trampoliere ottico.
Si canta il gospel e si sfoglia il gossip
si vola capaci di vivere quel tanto
di farsi bozzolo e mai farfalla.
La Musa dura pochi minuti.
Però io tenterei un confronto con l’haiku tradizionale.
Grande sala bianca.
Un uomo in piedi mi aspetta.
Scricchiare di scarpe.
Nell’haiku tradizionale vengono abolite le descrizioni; che c’è silenzio lo si capisce dallo scricchiare delle scarpe, altrimenti non si sentirebbe. In un certo senso nell’haiku tradizionale trionfa lo stile nominale. Riallacciandomi a quanto scritto da Giuseppe Gallo, penso sia una bella lezione per tutti, limitare verbi, aggettivi e persino articoli. Però… però qualcosa di interessante,e nuovo, sembra accadere nel triplo distico di Giorgio Linguaglossa; il posizionarsi del frammento lascia intravvedere possibili ulteriori sviluppi, non solo per la prosa – maniacalmente – descrittiva ma anche per poesia diversamente ispirata, se entrambe nel poco spazio puntano (è il caso di dirlo) al raggiungimento del satori.
Ecco un paio di miei haiku, che mi venivano durante le mie camminate.
scarpe in cammino
un tombinio di ghisa
lieto rimbomba
tre cani trottano
tre ombre passano
sul marciapiede
ooops
naturalmente è
“un tombino di ghisa”
scusate.
caro Guido Galdini,
io proporrei nell’ultimo verso un “taglio” più severo. Ad esempio, così:
tre cani trottano
tre ombre passano
sul muro; sogno.
Però, condivido in toto il parere di Lucio Mayoor Tosi di trasfondere il satori dell’haiku nel modo tutto moderno di fare poesia ontologica, di trapiantare il «vuoto» del satori nel verso italiano, che può essere composto sia in distici sia in gruppi di strofe variate; questo è solo un dettaglio.
Ma a questo punto sarebbe benvenuto il parere di un grande esperto di haiku come Steven Grieco Rathgeb il quale ha anche tradotto in italiano dal giapponese antico alcuni haiku dell’800 in prima assoluta in italiano, ma so che è in viaggio per l’Epiro e non penso che abbia modo di connettersi con l’Ombra…
“La campana del tempio tace,
ma il suono continua
ad uscire dai fiori.”
Basho
Caro Gino, che bello questo haiku di Basho! grazie.
Alla fine, tutto questo togliere a che serve se non per trovare poesia?
Dedico al poeta GIno Rago.
Mezzo inverno. Falena che piange. Robespierre. La notte dei cavernicoli. Il salto dell’aquilone. Via via scorrendo. Il primo impulso. Questa faccenda dei neri piuttosto che i bianchi. Dei grassi e dei magri. Prima che faccia notte. Il respiro del dromedario. L’àncora di sicurezza. Mamma papà ha detto. Prendimi sul divano. Le nozze proibite. Fascicolo chiuso. (Al di là di bene o male). Quando si scherza, Fenicotteri.
Il sogno di Ulisse. L’eternauta. La scaletta di alluminio.
may – ott 2018
Grazie Lucio, catturi e cristallizzi immagini.
La notizia data da Giorgio Linguaglossa e da me appresa poco fa leggendo L’ ombra di oggi mi ha stordito…
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com