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VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – ECCO DUE WAKA GIAPPONESI, DIBATTITO AVVENUTO IL 10 NOVEMBRE 2014 su L’OMBRA DELLE PAROLE tra Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco Rathgeb Lucio Mayoor Tosi e Giuseppe Panetta, alias, Talia

Gif I must break you

giorgio linguaglossa

10 novembre 2014 alle 8:21

Ecco due waka giapponesi:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/11/10/poesia-giapponese-waka-chong-chisang-e-il-rigogolo-giallo-a-cura-di-steven-grieco-un-waka-di-ki-no-tomonori-e-fujiwara-no-sadaie/comment-page-1/#comment-3382

Oritsureba
sode koso nioe
ume no hana
ari to ya koko ni
uguisu no naku

Ho appena colto un ramo;
così le mie maniche profumano
del fiore di susino
ma ecco che, forse da questa fragranza
ingannato, canta l’usignolo.

[Anonimo, Kokinshū I-32. Susino giapponese (ume)]

*
Hototogisu
haku o no ue no
unohana no
uki koto are ya
kimi ga kimasanu

Canta un cuculo
sulla vetta di una montagna,
ove sboccia mesto il fiore di deutzia.
Provi, forse, rancore verso di me,
amor mio che non ti degni di visitarmi?

[Owarida no ason hiromimi, Man’yōshū VIII-1501. Deutsia scabra (unohana)]

Il testamento spirituale e stilistico che la poesia giapponese waka e choka ci lascia è di grande importanza anche per la poesia che si fa oggi; innanzitutto, direi, riabilitare l’immagine, ripristinare le figure di uccelli, di alberi, nominare le montagne, i fiori… lasciare da parte il consunto e corrivo “io” che tanto abbonda nella poesia del minimalismo. L’«io», rapportato alla vastità dell’universo, non ha alcuna importanza, e inoltre è muto, non può parlare di altro che dei suol mal di schiena e del suo mal di denti (che mi affliggono da un po’). Ma tutto ciò è realmente importante in poesia? È veramente indispensabile?

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2014 alle 10:04 

VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/11/10/poesia-giapponese-waka-chong-chisang-e-il-rigogolo-giallo-a-cura-di-steven-grieco-un-waka-di-ki-no-tomonori-e-fujiwara-no-sadaie/comment-page-1/#comment-3402 

Vorrei riprendere da quanto dice Carlo Sini in una recente intervista sul problema dei segni e delle immagini:

“Si può ipotizzare che diecimila anni fa sulla terra esistesse una sorta di «linguaggio universale», che i nostri antenati utilizzassero «un sistema di espressione comune, fatto della convergenza di gesto, suono, visione, esercitati e vissuti come un atto globale». La differenziazione culturale, la torre di Babele nella quale viviamo sarebbe un’acquisizione successiva.
Analogamente, la sintassi dell’arte preistorica potrebbe aver generato la nostra attuale forma di scrittura. «La configurazione delle nostre lettere alfabetiche non è affatto arbitraria o convenzionale. Ogni lettera è invece un disegno decaduto o stilizzato la cui origine va rintracciata proprio nelle figure e nei segni del paleolitico e del neolitico».

Rispetto al passato, dunque, c’è qualcosa che abbiamo perduto. L’unità di scrittura, figura e azione. Le parole si sono separate dalla loro figura, si sono «s-figurate», diventando astratte e autonome. La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.

Le dinamiche percettive sono complesse e intrecciate; per scoprire cosa significa davvero «sentire», dovremmo considerare la possibilità di «ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie». L’esperienza non è mai univoca. Anche del lattante di poche settimane o di pochi mesi, non si può dire che sia una «tabula rasa», un «foglio bianco» unidimensionale, puramente ricettivo: egli «è già un mondo complesso di emozioni, di immaginazioni e di pensieri, ancorché non verbali». Secondo gli studi di Daniel Stern sulla prima infanzia e sullo sviluppo psichico infantile, la formazione del Sé emerge molto prima dell’avvento del linguaggio. Da sempre siamo circondati dai segni e, grazie ai segni, impariamo a comunicare”.

Negli haiku come nei waka c’è ancora il ricordo di quella antica «unità di scrittura, figura e azione» che è andata smarrita. Ora, io ritengo che sia difficile assai per un occidentale del XXI secolo ripristinare artificialmente una scrittura che ripristini quella antichissima unità, ma ritengo invece assai possibile scrivere poesia moderna tenendo presente che la poesia non può essere disgiunta da quella complessa unità di «figura e azione», cioè di immagine e di personaggi “in azione”, perché l’azione è assolutamente necessaria non soltanto nel romanzo (come abbiamo visto nel post odierno dedicato a Milan Kundera), ma anche in poesia (ovviamente in forma diversa). Una «figura» è sempre «azione» (attiva o passiva), e una «azione» è sempre anche «figura». Questa dinamicità è interna sia alla «figura» che alla «azione».

Ho l’impressione (anzi la convinzione) che la poesia italiana si sia allontanata o abbia dimenticato questo assioma e che oggi si scriva poesia copiando la linearità (temporale) della prosa senza tenere conto del problema del dinamismo spazio-temporale di ogni «figura» in movimento.

    • steven-grieco-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-15-dic-2016Steven Grieco Rathgeb

11 novembre 2014 alle 14:21 Modifica

Wow! Bellissimo intervento, dettato da una profonda ispirazione a livello critico. “L’unità di scrittura, figura, azione”. Fa bene al cuore sentire cose così. È anche la gioia di capire che molte nostre strade procedono in parallelo.

La fluidità della scrittura, la consapevolezza che non possiamo fermarne il flusso, soltanto afferrarne l’attimo… È quello che si chiama satya in Sanscrito: ciò che è vero, folgorante, in questo preciso attimo, forse non lo sarà ‘attimo dopo. Le foglie sull’albero, quanti milioni di riflessi di luce esprimono in un istante di tempo?

“La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.”

Queste sono parole di alta ispirazione. Sì, dobbiamo capire dove è quel fulcro di significato che abbiamo perso.

Consiglio a tutti di leggere questo commento, e di meditarlo profondamente, perché a me sembra contenere tutte le indicazioni, tutti i suggerimenti essenziali, necessari per riscoprire il vero valore della poesia, e del significato essa può avere nella nostra vita.

Andiamo avanti, anche insieme, per questa strada che ci rivelerà le cose che già si sapevano nel Paleolitico! (basta vedere le pitture rupestri per capire questa semplice verità). E troviamo il modo in cui tutto ciò è vero oggi, nella nostra complessa realtà post-moderna.

Grazie, Giorgio

  1. Opere di Lucio Mayoor Tosi
  2. Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2014 alle 11:39 Modifica

Si potrebbe dire che maggiore è il numero delle sillabe e minore si fa la distanza tra poesia giapponese e poesia occidentale. È una domanda.

Ad esempio, e traggo a caso da Montale, da la poesia «I limoni»:

le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Invece, per quanto attiene agli Haiku, il discorso secondo me è diverso; e fa bene Linguaglossa a dire dell’azione, perché si tratta di un principio basilare della cultura Zen. Possiamo aver letto anche mille haiku, e magari, se non siamo degli specialisti come Steven Grieco Rathgeb, anche quel che ha scritto Alan Watts sullo Zen, ma se non abbiamo esperienza di Koan (o di arti marziali, o dell’arte Ikebana) difficilmente riusciremo ad andare oltre il solo piacere estetico di scriverne. Zen è una sofisticata arte della trasformazione mentale, richiede molta pratica… e poche parole.

    • Steven Grieco Rathgeb

11 novembre 2014 alle 16:47 Modifica

Sì, ha ragione Lucio Mayoor Tosi. La giovane giapponese in kimono rosa, che compose un ikebana in una stanza del museo orientale Rietberg di Zurigo anni fa, nel 1986, mi fece capire come avrei voluto da allora in poi scrivere una poesia: lasciando che l’energia si sprigionasse dall’interno della poesia, non conferendogliela dall’esterno. È diventato il lavoro di una vita!!
Fra le sue fragilissime mani sembrava che i tre ramoscelli fioriti non dovessero mai entrare in dialogo, continuamente ricadevano giù. Poi d’un tratto il miracolo era compiuto, già si allontanava da noi indietreggiando nel tempo: ma adesso i ramoscelli stavano lì, in piedi, labili e un po’ storti: in un gruppo di tre, ma anche ciascuno per sé: come se fossero arrivati per caso, come se fossero tre anatre iridescenti che un colpo di vento costringe ad atterrare su un fiume, e tu passando di lì, a un tratto – le scorgi sull’acqua.

  1. cinese DipintoDiCapodanno1giorgio linguaglossa

11 novembre 2014 alle 16:51 

VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

Caro Steven Grieco mi rendo conto che parlare di queste cose in Italia sia una aberrazione, come parlare in inglese a dei bororo, ma certe cose dobbiamo dirle. Cito ancora da Carlo Sini:

“Nelle lingue occidentali si è invece imposta la mentalità classificatoria della grammatica (modellata sul nostro alfabeto e sulla nostra conseguente logica e metafisica), con la tendenza a sostanzializzare l’azione e le figure del soggetto e predicato. Vige qui la prevalenza assoluta della frase assertoria o apofantica costruita con la copula “è”, forma peraltro ancora molto rara in Omero. Nella primitiva frase cinese l’agente e l’oggetto sono nomi solo in quanto limitano un’unità d’azione, Nell’ideogramma “contadino pesta riso”, contadino e riso sono i termini che definiscono l’azione del pestare (che a sua volta può significare “uomo”); fuori da questa funzione, contadino e riso sono verbi a loro volta. “Contadino” appare allora come “Colui che coltiva il riso”. “Riso” uguale a un determinato crescere della pianta nell’acqua. Altro esempio: “La tazza brilla” (traduciamo noi). Qui il brillare è reso da un ideogramma che unisce il segno del sole con quello della luna. La scrittura effettiva è da intendersi letteralmente così: “tazza sole-luna”. La potremmo tradurre “il luccichio della tazza”, oppure “la tazza brilla” o ancora “la tazza è lucente”. Come si vede, l’ideogramma “sole-luna” (ming o mei) svolge contemporaneamente e indifferentemente la funzione di un aggettivo (lucente), di un verbo (brilla), di un sostantivo (il luccichio)”.

Vorrei riepilogare così il pensiero di Sini: “dimmi come metti l’aggettivo e ti dirò chi sei”. Voglio dire che dal modo in cui uso quel “brilla”, ne deriva una certa idea di poesia. Fatto sta che c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo).
Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale».

11 novembre 2014 alle 22:02 

Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).

Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.

Quello più intrigante? Quest’altro:

Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.

Giuseppe Talia

12 novembre 2014 alle 20:17

Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

 Lucio Mayoor Tosi

13 novembre 2014 alle 15:01 

Nei film Hollywoodiani assistiamo a incontri interminabili di scherma e karate, in realtà, come avviene anche da noi in queste discipline sportive, la stoccata e l’atterramento durano pochi secondi. La stessa cosa accade nelle brevissime poesie giapponesi, che sembrano scritte in gara con l’attimo vitale e l’azione che l’accompagna. Bisogna tenete presente che il pensiero si svolge nel tempo, tra passato e futuro, ma non può vivere nell’istante. Di fatto tutti i pensieri sono sogni ( maya, illusione), non così la scrittura mentre accade. Si crea per tanto uno stretto rapporto tra scrittura e accadimento, in modo che possa accadere il Satori (risveglio). Chiunque può farne l’esperienza, anche chi scrive graziosi haiku contando le sillabe.

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Giorgio Linguaglossa

“Lo studio delle lingue – ha notato Thom in una relazione tenuta a un importante convegno internazionale su ‘le frontiere del tempo’ organizzato nell’aprile 1980 da Ruggiero Romano – mostra che in quasi ogni lingua – se non in tutte – esiste una classe di parole indispensabili alla costituzione di una frase semanticamente autonoma, quella che nelle nostre lingue indoeuropee si designa con il VERBO. Il verbo ha con la localizzazione temporale una affinità evidente, che spesso si manifesta attraverso una morfologia esplicita (i tempi del verbo); non si può dire altrettanto dello spazio, che sembra avere il solo ruolo – molto implicito – di differenziare gli attanti che intervengono nella sintassi di una frase”. Per questa via Thom ritiene di poter venire alla conclusione che “il tempo abbia una profondità ontologica superiore a quella dello spazio”.
Un opposto scenario ci viene prospettato da quei glottologi che si sono soffermati sugli aspetti linguistici della modellizzazione del tempo. Essi non si limitano a constatare che il principale ostacolo nel cogliere l’enigma della dimensione temporale sta nel fatto che i “percetti” che la compongono “possono essere confrontati fra loro solo memorialmente”: e che pertanto a essere comparate sono “le esperienze portate dal tempo, non la dimensione che lo porta”. Ma ritengono addirittura di poterne concludere che il solo modello “percepibile nella sua interezza”, a cui ricondurre l’ “insieme dei riferimenti temporali”, sarebbe, per l’appunto, “lo spazio” (Giorgio R. Cardona)».2]

1] https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/13/claudio-borghi-il-tempo-generato-dagli-orologi-lipotesi-di-un-tempo-interno-termodinamico-tempo-e-irreversibilita-il-concetto-di-durata-in-newton-ed-einstein-dilatazione-del-t/

2] Marramao Giacomo, Minima temporalia luca sossella editore, 2005 p. 15

 

 

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SULLA POESIA “WAKA” GIAPPONESE – POESIE HAIKU di Bashō Matsuo (1644-1694) traduzione e nota di Giuseppe Rigacci

Toshinobu Yamazaki ( 1866 - 1903 ) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki ( 1866 – 1903 ) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Il primo esempio di poesia giapponese è il Choka (poesia lunga). La metrica del Choka è un succedersi di 5-7, 5-7, 5-7, sillabe con finale 7-7.

Nel Man’yoshu, La più antica collezione poetica in giapponese giunta sino a noi , vi sono circa 260 choka; il più lungo consta di 149 versi. Successivamente troviamo il Waka il cui schema poetico è composto di 31 sillabe divise in 5-7-5-7-7. Tale schema si sostituì al Choka . Fu successivamente identificato con il termine Tanka (Poesia breve)
Struttura del Tanka è composto da due ku [strofe] rispettivamente di 5+7+5 sillabe (kami no ku) Emistichio superiore di un tanka (5-7-5 sillabe). Che nel renga è chiamato hokku e di 7+7 sillabe (shimo no ku). Emistichio inferiore di un tanka (7-7 sillabe)

Il Sedoka e’ un tipo di waka con metrica 5-7-7, 5-7-7. Si trova principalmente nel Man’yoshù, “Raccolta di diecimila foglie” oppure “Raccolta di diecimila generazioni”, la più antica collezione poetica in giapponese conosciuta, composta da 20 parti con 265 choka, 4.207 tanka, 62 Sedoka.

Il Renga è invece una composizione “a catena”. Il termine “Renga” in giapponese significa infatti “verso collegato”. E’ una forma poetica che si sviluppò in Giappone a partire dal XII secolo, in un primo tempo come passatempo e diventando successivamente arte seria: è generalmente una forma a più mani. Alcuni poeti (in genere tre, ma esistono casi di un unico autore) iniziavano il kami no ku (emistichio superiore, 5-7-5 sillabe), e lo shimo no ku (emistichio inferiore 7-7 sillabe), fino a formare un renga di cento ku. (si indica con ku la parte che ogni poeta compone in successione. Dato un primo verso come tema, aggiungevano versi da 14 o 21 sillabe; tali versi erano poi associati “a catena”, il primo verso con la composizione precedente e l’ultimo con quello successivo. Successivamente il renga si trasformò in “haikai renga“, ossia in composizioni a catena di poesie contenenti 17 sillabe. La catena poteva arrivare a comprendere anche decine di strofe. Non si trattava comunque di una concorrenza poetica ma di un dialogo fra autori.

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Bashō Matsuo (松尾 芭蕉?(Ueno 1644 – Ōsaka, 28 novembre 1694) poeta giapponese del periodo Edo.

Nome originale Matsuo Munefusa, probabilmente il massimo maestro giapponese della poesia haiku. Nato nella classe militare ed in seguito ordinato monaco in un monastero zen, divenne poeta famoso con una propria scuola ed allievi, col passare del tempo, sempre più numerosi. Viaggiatore instancabile, descrive spesso nella sua opera l’esperienza del viaggio. La sua estetica fa coincidere i dettami dello zen con una sensibilità nuova che caratterizza la società in evoluzione: dalla ricerca del vuoto, la semplicità scarna, la rappresentazione della natura, fino ad essenziali ma vividi ritratti della vita quotidiana e popolare.

Shizuka sa ya
iwa ni shimi iru
semi no koe

*

Il silenzio
penetra nella roccia
un canto di cicale

Il nome di famiglia del poeta era “Matsuo” ma usualmente lo si chiamava semplicemente “Basho”, senza il cognome. Era conosciuto come Kinsaku da bambino e, crescendo,Munefusa. Durante la vita assunse diversi nomi d’arte. Uno dei primi, Tosei, significa pesca acerba (o pesca in blu) un omaggio al poeta cinese Li Bai (李白), il cui nome significa pruno in bianco. Assunse il nome bashō, che significa banano, da un albero ricevuto da un allievo. Si dice che il clima fosse stato troppo rigido perché questo albero potesse portare frutto, e intendeva che lo pseudonimo evocasse l’idea di un poeta inutile, o almeno affezione per le cose inutili.

Romanizzazioni alternative di “Basho” sono rare, ma possono includere Matuo Basyou, utilizzando il Nihon-shiki, o Matuwo Baseu utilizzando una romanizzazione più corrispondente all’ortografia utilizzata durante il periodo in cui egli viveva.

La prima neve!
appena da piegare
le foglie dell’asfodelo

Bairei Kouno  (1844 - 1895)

Bairei Kouno (1844 – 1895)

Nacque a Ueno , nella Provincia di Iga , vicino Kyoto . Era il figlio di un samurai  di basso livello e inizialmente lavorò al servizio del signore locale, Todo Yoshitada , che era solamente due anni più vecchio di lui. Entrambi si divertivano a scrivere haiku , e la prima opera conosciuta di Basho risale al 1662. A partire dal 1664  le sue prime poesie furono pubblicate a Kyoto, e fu all’incirca in questo periodo che adottò il nome samurai di Munefusa. Il suo padrone morì nel 1666  e Basho preferì andarsene di casa che servirne uno nuovo. Suo padre era morto nel 1656.

Tradizionalmente si crede che abbia vissuto a Kyoto per almeno parte dei sei anni seguenti; durante questo periodo pubblicò le proprie poesie in numerose antologie. Nel 1672  si spostò a Edo  (ora Tokyo). Continuò a scrivere, e dal 1676  era riconosciuto come un maestro dell’haikai, pubblicando un suo “libretto” e giudicando in gare di poesia. Acquisì un seguito di studenti, che costruirono per lui il primo rifugio “Basho” nell’inverno del 1680.

Basho non trovò soddisfazione nel suo successo, e si rivolse alla meditazione Zen. Nell’inverno del 1682  il rifugio venne distrutto da un incendio, e sua madre morì prematuramente nel 1683 . Nell’inverno 1683 i suoi discepoli lo omaggiarono di un secondo rifugio, ma rimase insoddisfatto. Nell’autunno del 1684 iniziò un viaggio che in seguito chiamò i ricordi di uno scheletro scosso dalle intemperie (Nozarashi Kiko) – il titolo di un giornale di viaggio con prose e poesie che compose al termine dello stesso. Il percorso lo condusse da Edo almonte Fuji, ad Ise, Ueno e Kyoto, prima di tornare a Edo  nell’estate del 1685.

Il suo rapido incedere faceva pensare alcuni che Basho potesse essere stato un ninja . I suoi lunghi viaggi gli permisero di osservare le condizioni nelle varie province e ascoltare le ultime notizie, informazioni di interesse al regnante shogunato Tokugawa , che impiegava dei ninja per queste attività. Il luogo di nascita di Basho nell’area di Ueno della provincia Iga  possedeva una ricca tradizione ninja e Basho poteva essere stato una guardia del corpo per Todo Yoshitada anni prima. Comunque, pochi letterati considerano seriamente la possibilita che potesse essere stato una spia per lo shogunato Tokugawa.

Il viaggio sembrò giovargli, nell’allontanare alcuni dei suoi fantasmi, e i suoi scritti dei pochi anni seguenti raccontano del suo piacevole … Compì un breve viaggio a Kashima  nell’autunno del 1687, per osservare di là la luna piena in prossimità dell’equinozio. Di nuovo compose un resoconto dell’escursione: Una visita al Tempio Kashima (Kashima Kiko).

Jakuchu Ito ( 1716-1800)

Jakuchu Ito ( 1716-1800)

Nell’inverno di quell’anno cominciò il suo seguente lungo viaggio, dopo essergli stato reso un arrivederci che “sembrava quello per un dignitario”. Attraversò Ueno, Osaka, Suma, Akashi, Kyoto, Nagoya , le alpi giapponesi  e Sarashina , dove vide il plenilunio equinoziale. Il viaggio da Edo a Akashi è raccontato nei Ricordi di un bagaglio consumato (Oi no Kobuni), nel quale espone il suo credo nell’haikai come una fondamentale forma artistica. Il viaggio di Sarashina è descritto in Una visita al villaggio di Sarashina (Sarashina Kiko).

Verso la fine della primavera, nel 1689 , cominciò delle escursioni più difficoltose verso le selve dell’Honshu del nord. Fermate in questo viaggio inclusero Nikko Toshogu, Matsushima, Kisagata  e Kanazawa , attraversando nell’ultima parte di questo percorso l’isola di Sado . Di nuovo compose un diario di viaggio, Lo stretto sentiero verso il profondo Nord (Oku noHosomichi ), che è dominato dal concetto di sabi : l’identificazione dell’uomo con la natura. Due ulteriori volumi svilupparono l’idea: Ricordi dei sette giorni (Kikihaki Nanukagusa) e Conversazioni a Yamanaka (Yamanaka Mondo).

Dall’autunno 1689 in poi, Basho trascorse due anni visitando amici e compiendo brevi viaggi attorno all’area di Kyoto e de lago Biwal . Durante questo periodo lavorò su una antologia che stava per essere compilata da alcuni dei suoi allievi, tra i quali Nozawa Boncho, – L’impermeabile della scimmia (Sarumino) – che espresse e seguì i principi estetici ai quali era arrivato durante il viaggio settentrionale.

Nell’inverno del 1691  tornò a Edo per abitare nel suo terzo rifugio Basho, di nuovo omaggiatogli dal suo seguito. Comunque non rimase solo, accolse un nipote e un’amica, Jutei, entrambi di salute cagionevole, ed ebbe una grande quantità di visitatori. Si lamentò in una lettera che questo lo aveva lasciato senza “pace della mente”. Nell’autunno del 1693  rifiutò di vedere chiunque per un mese, adottando quindi il principio di karumi  o leggerezza: una regola di non attaccamento che gli permetteva di vivere nel mondo ma di sollevarsi dalle frustrazioni.

Basho lasciò Tokyo per l’ultima volta nell’estate del 1694, e passò del tempo a Ueno e Kyoto prima di andare ad Osaka. Lì morì per una malattia allo stomaco, dopo aver scritto il suo ultimo haiku:

viaggiando  malato
la strada dei sogni miei
su una palude prosciugata

l'opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 - 1858 )

l’opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 – 1858 )

Fu Basho a sollevare l’haiku da un verso volgare, spesso scritto come semplice sollievo, ad una forma seria, imbevuta con lo spirito del buddismo Zen. Molti dei suoi haiku erano in effetti le prime tre linee di renga più lunghi (che alcuni critici considerano le sue migliori opere), piuttosto che opere isolate, ma erano stati collezionati e pubblicati da soli molte volte e il suo lavoro fu di grande ispirazione per scrittori successivi come Kobayashi Issa e Masaoka Shiki . Uno dei più famosi haiku attribuitogli (Matsushimaya Aa Matsushimaya Matsushimaya), che trae dalla bellezza indescrivibile della baia di Matsushima, fu in realtà scritto da un poeta successivo del periodo Edo, Tawarabo . Basho preferiva scrivere nel dodicesimo giorno del decimo mese del calendario lunare e utilizzare Shigure (時雨), una fredda pioggia autunnale, come kigo.

Il vecchio stagno!
La rana si tuffa –
Il suono dell’acqua

Basho viaggiò molto estensivamente durante la sua vita, e molti dei suoi scritti riflettono le esperienze dei suoi viaggi. Il suo libro Oku no Hosomichi  (奥の細道, Lo stretto sentiero per il profondo Nord), scritto nel 1694 e largamente ritenuto il migliore, ne è un esempio. In esso, descrizioni in prosa del paesaggio che attraversa sono intervallate con gli haiku per i quali è ora maggiormente conosciuto.

Ecco qui un buon numero di haiku di Matsuo Basho (1644-1694), considerato il più grande autore di haiku.
 

Yamanaka Hot Springs

Yamanaka Hot Springs

Basho, Poesie, Sansoni, Firenze 1992, trad. e note di Giuseppe Rigacci

 

Della frescura
faccio la mia casa,
e qui riposo.

*
Il canto delle cicale
non da’ segno
del loro vicino morire.

*
La separazione:
l’ape sguscia
dagli stami della peonia.

*
A un peperone
aggiungete le ali:
una libellula rossa.

*
Il cavallo ha brucato
l’ibisco della siepe
sul ciglio della via.

*
Quando guardo attentamente
vedo il nazuna che fiorisce
sull’orlo della siepe.

*
Verrà quest’anno la neve
che insieme a te
contemplai?

*
Anche i cinghiali travolge
l’uragano
d’autunno!

Japanese Priest

Japanese Priest

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*
Mare burrascoso:
attraverso l’isola di Sado
si stende il Fiume del Cielo.

*
Raccogliendo tutte le piogge di maggio
corre rapido
il Mogami.

*
Su un ramo spoglio
si posa un corvo
nel crepuscolo d’autunno.

*
Nella brezza primaverile
colla pipa in bocca
il mastro barcaiolo.

*
Vieni a sentire
la voce dei tarli
nel romitaggio di paglia.

*
Un cuculo.
La grande notte di luna
penetra il bosco di bambù.

*
Gli occhi del falco
ora si irrigidiscono
mentre la quaglia garrisce.

*
Ammalato nel mio viaggio,
il sogno percorre
pianure aride.

giapponese 2

 

 

 

 

 

 

*
La prima neve
piega appena
le foglie dell’asfodelo.

*
Nobiltà di colui
che non deduce dai lampi
la vanità delle cose.

*
È il riso mescolato d’orzo,
o è l’amore che fa gemere
la femmina del gatto?

*
Il fiume Mogami ha tuffato
le fiamme del sole
nel mare.

*
Prima festosa,
poi subito triste,
la barca dei cormorani!

*
Affaticato
alla ricerca di un tetto…
I fiori di glicine!

*
Nel profumo dei fiori del pruno selvatico
improvviso sorge il sole
sul sentiero di montagna.

giapponese 5

 

 

 

 

 

 

*
Sono un uomo
intento a mangiare il suo riso
in mezzo ai convolvoli.

*
Il mio cavallo cammina
per la pianura d’estate.
Io: in una pittura.

*
Quieta dimora:
un picchio becca
sui pali.

*
Il verme del ravizzone
tremola al vento d’autunno
senza mutarsi in farfalla.

*

Passero amico
non beccare il tafano
che succhia i fiori.

*

La notte di primavera e’ finita.
Sui ciliegi
sorge l’alba.

*

Sapendo che mangia la serpe
orrenda la voce
del fagiano verde.

*

Sul valico montano
stanco riposo
al canto dell’allodola.

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