POESIA GIAPPONESE WAKA- di Chŏng Chisang E IL RIGOGOLO GIALLO a cura di Steven Grieco-Rathgeb, con un Waka di Ki no Tomonori e Fujiwara no Sadaie

waka 6.

Nel 1999 conobbi un professore giapponese, che mi invitò a collaborare con lui su un progetto che accarezzava da anni: tradurre in inglese e italiano un significativo numero di waka del periodo classico Heian (9°-13° sec.), con relativo commento critico. Nel mondo letterario anglo-sassone, progetti di questo tipo vengono spesso fatti a quattro mani: dei due collaboratori uno – l’esperto in materia storico-filologica e interpretativa – illumina il componimento nel contesto originale, il secondo è il poeta e traduttore, che li porta, come uccelli migratori, a destinazione nella lingua di arrivo.

Lo studioso di Tokyo si interessava anche di poesia cinese classica, e a questo riguardo mi parlò di un poeta coreano, Chŏng Chisang (?-1135), vissuto durante la dinastia Koryo, periodo in cui tra i letterati di quel paese si coltivava lo stile cinese dei poeti Tang.

Di Chŏng Chisang si sa soltanto che era discendente di una famiglia dell’aristocrazia Koryo, funzionario e poeta a corte. Partecipò ad una rivolta contro il re che fu soffocata nel sangue dal generale-poeta Kim Pusik, suo principale rivale a corte e in poesia. I capi ribelli, compreso Chŏng, furono giustiziati. La damnatio memoriae del poeta che seguì spiega la scarsità di notizie biografiche su di lui. Un volume originale di sue poesie, sopravvissuto fino ai nostri tempi ma divenuto introvabile dopo la fine della Guerra Coreana (1953-56), giacerebbe ancora oggi dimenticato in qualche inaccessibile archivio a Pyongyang.

 waka 8L’amico studioso mi fece una traduzione carattere per carattere di alcune poesie delle pochissime ancora esistenti di Chŏng: composizioni quasi fotografiche, velocissime e dai colori accesi, che veicolano un costante monologo del poeta sulle vicende legate alla sua vita personale e a corte. Le studiammo a lungo; di alcune lui stesso non riusciva a cogliere certi significati e allusioni. A tratti però l’ombra del grande poeta comparve davanti a noi.

Provai, con le indicazioni fornitemi, a tradurne qualcuna, in particolare Dalla villa di Changweong, uno dei lü shih di Chŏng Chisang più notevoli, dal tono malinconico e fortemente allusivo. Nella forma primitiva, molto abbozzata, la traduzione suona:

monti, due portoni alti, un cuscino le rive del fiume
la notte intera, trasparente, non un granello di polvere
vento invia la vela dell’ospite, nuvole pecorelle pecorelle
la rugiada si condensa tegole del Palazzo gemma squame squame
dietro i verdi salici si chiudono le porte di otto-nove case
alla luna chiarissima alzano le cortine due-tre persone
oltre la foschia, il Monte Pong Nae forse si avvicina –
in sogno il fiorito usignolo gorgheggia la sua gioventù

waka 7

.

Rimanevano punti irrisolti; soprattutto non mi convinceva la comparsa dell’usignolo nell’ultimo verso.
Passò del tempo. Una mattina ero seduto nel minuscolo soggiorno di casa, sopra i tetti di Firenze. Era maggio, fuori il cielo era sereno, limpido, il silenzio profondo. Dalla finestra alle mie spalle, così azzurra, entrò furtivamente un ricordo che risaliva a venticinque anni prima: io seduto nel mio orto toscano  mentre ascolto il canto mattutino di un uccello. Avviluppato dall’aria già calda, quel richiamo prendeva forma, si librava sopra il boschetto vicino – un gorgheggio a piena gola, quasi ubriaco…

Ma sì! Era l’uccello di allora, il rigogolo giallo… ecco cosa mi suggeriva il lü shih di Chŏng Chisang! Possibile? In fretta e furia scrissi una mail a Tokyo, chiedendo all’amico se esistessero usignoli nell’Estremo Oriente. Disse di no; che il nome dell’uccello nella poesia di Chŏng corrisponde al giapponese uguisu. Gli chiesi di appurare se l’uccello in questione non fosse per caso il rigogolo. In un lampo arrivò la risposta, entusiasta: sì, era proprio lui: l’oriolus chinensis, il rigogolo giallo orientale, schivo e solitario come il cugino europeo.

waka 3Il buio che avvolgeva l’ultimo verso della poesia impallidì, “l’ usignolo” si trasformò in rigogolo giallo, la notte diventò un mattino azzurro!

E’ un fatto che più volte nelle traduzioni occidentali di poesia dell’Estremo Oriente (specie quella giapponese) si siano felicemente confusi i due uccelli: a tutto scapito di poeti che erano (e sono) in sintonia con ogni vibrazione della natura, ogni sua atmosfera, ogni minimo scarto cromatico (così come lo è Messiaen, nel suo pezzo per pianoforte Le Loriot).

Il rigogolo mi riaccese l’immaginazione, incoraggiandomi a pensare che era possibile rendere in traduzione l’autentico spirito dell’originale. Continuai a lavorarci sopra, cercando di tirare fuori tutta la bellezza che vi sentivo, poi ancora dovetti mettere da parte la bozza per lavori urgenti.

Qualche anno più tardi persi le tracce dell’amico di Tokyo e la traduzione della poesia di Chŏng, bisognosa di ulteriori verifiche, rimase sepolta sotto le mie carte.

waka 9Passò qualche anno ancora. Nel settembre 2012, setacciando la Rete per notizie sul nostro poeta (ormai invano, pensavo), mi sono imbattuto nel Dr. Gregory Evon, esperto di letteratura sino-coreana e autore di una monografia dal titolo Tracking a Ghost: Chong Chisang and a Forgotten Style of Sino-Korean Poetry.[1] Gli ho chiesto una collaborazione. La risposta è stata immediata:

Caro Steven,

grazie della mail. Ho velocemente controllato la sua bellissima versione della poesia di Chŏng Chisang e trovo due questioni da chiarire. La prima, nel verso 7, riguarda il monte degli Immortali, il Penglai dei cinesi. Sarebbe forse meglio utilizzare qui il nome coreano, Monte Pong Nae (蓬莱山). Lo stesso verso lei lo fa affermativo: “dalla distanza remota, il Monte Pong Nae sembra avvicinarsi”, quando invece sarebbe meglio l’interrogativo: “dove esiste?” E’ proprio questo senso di “incertezza” che si collega all’uccello che sogna, o all’uccello che appare in sogno.

Dr. Gregory N. Evon,

Asian Studies Program Convenor, Korean Studies & Japanese Studies, School of International Studies, The University of New South Wales, UNSW, Sydney, NSW, 2052

Australia

Dopo altre lettere su questioni tecniche, gli chiesi se avrei potuto citarlo in un pezzo che avevo in animo di scrivere su questa curiosa nonché annosa vicenda. La sua risposta fu entusiasta: “…Sentiti assolutamente libero di usare i miei suggerimenti, e di citarmi. Anzi, ti ringrazio!…”

                                     Dalla villa di Cheongwong

I portoni della Cittadella sopra le morbide sponde del fiume
in lontananza una notte chiara, non un granello di polvere
il vento spinge la vela dell’Ospite verso le mille nuvole sfilacciate
le tegole sul Palazzo stillano rugiada, miriade di squame lucenti
dietro i verdi salici hanno chiuso le porte di quasi tutte le case
solo qua e là qualcuno solleva le cortine alla luna che risplende
nella distanza remota, il Monte degli Immortali – dove esiste?
in sogno lo splendido rigogolo canta la sua primavera azzurra

waka 5.

La poesia andrebbe letta lentamente, per evitare l’effetto “collana di pietre brillanti”. Secondo l’estetica cinese, l’immagine interiore si fonde sottilmente con il paesaggio che il poeta evoca per meditare sulle vicende politiche, il successo mondano, la vita intima.

Il tratto verticale, scuro, dell’inizio contrasta con la luminosa orizzontalità femminile del fiume. La notte così chiara nel 2° verso potrebbe alludere a un dissidio interiore che il poeta ha superato. 3°: nella poesia Tang, il fiume e le nuvole spesso alludono a un errare o all’esilio. 4° verso: statico, contrasta con il precedente, fluido. Il palazzo reale consisteva di padiglioni grandi e piccoli, collegati da corridoi esterni protetti da tettoia (le tegole lucenti: i membri della corte?). 6°: i poeti Tang usavano la luna, simbolo di “verità”, anche per indicare il ricongiungimento dopo lunga separazione. 7°: la Montagna degli Immortali, dove si recarono anche Li Po e Po Chü I. Dopo la notte così chiara, qui regnano incertezza, opacità, speranza (che tutti sentiamo nel momento che precede l’alba). 8°: i toni notturni cedono all’oro e all’azzurro, simboli di atemporalità.[2]

(Steven Grieco)

[1] Alla ricerca di un fantasma: Chŏng Chisang e uno stile dimenticato di poesia sino-coreana.

[2] Per una maggiore comprensione della tecnica della forma poetica cinese lü-shih, si veda François Cheng, L’écriture poétique chinoise, Editions du Seuil, 1977.

waka 2

 

Miwataseba
hana mo momiji mo
nakari keri
ura no tomaya no
aki no yugure.

Fin dove arriva lo sguardo
non fiori né foglie rosse d’acero:
solo una capanna dal tetto di giunchi
vicino all’insenatura
nel crepuscolo autunnale.

Fujiwara no Sadaie
(1162-1241)

*

Aki chikō
no wa na rinikeri
shiratsuyu no
okeru kusaba mo
iro kawariyuku.

È ormai prossimo
l’autunno nei campi.
Anche le foglie, ove si posa
la candida rugiada,
vanno mutando colore.

Ki no Tomonori
(?-905?)
Kokinwakashū, X, 440

 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, è nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016). Sempre nel 2016 con Mimesis hebenon esce la raccolta di poesia Entrò in una perla (ital. ingl.)

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

86 commenti

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86 risposte a “POESIA GIAPPONESE WAKA- di Chŏng Chisang E IL RIGOGOLO GIALLO a cura di Steven Grieco-Rathgeb, con un Waka di Ki no Tomonori e Fujiwara no Sadaie

  1. VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – Ecco due waka giapponesi:

    POESIA GIAPPONESE WAKA- di Chŏng Chisang E IL RIGOGOLO GIALLO a cura di Steven Grieco-Rathgeb, con un Waka di Ki no Tomonori e Fujiwara no Sadaie


    Oritsureba
    sode koso nioe
    ume no hana
    ari to ya koko ni
    uguisu no naku

    Ho appena colto un ramo;
    così le mie maniche profumano
    del fiore di susino
    ma ecco che, forse da questa fragranza
    ingannato, canta l’usignolo.

    [Anonimo, Kokinshū I-32. Susino giapponese (ume)]

    *
    Hototogisu
    haku o no ue no
    unohana no
    uki koto are ya
    kimi ga kimasanu

    Canta un cuculo
    sulla vetta di una montagna,
    ove sboccia mesto il fiore di deutzia.
    Provi, forse, rancore verso di me,
    amor mio che non ti degni di visitarmi?

    [Owarida no ason hiromimi, Man’yōshū VIII-1501. Deutsia scabra (unohana)]

    Il testamento spirituale e stilistico che la poesia giapponese waka e choka ci lascia è di grande importanza anche per la poesia che si fa oggi; innanzitutto, direi, riabilitare l’immagine, ripristinare le figure di uccelli, di alberi, nominare le montagne, i fiori… lasciare da parte il consunto e corrivo “io” che tanto abbonda nella poesia del minimalismo. L’«io», rapportato alla vastità dell’universo, non ha alcuna importanza, e inoltre è muto, non può parlare di altro che dei suol mal di schiena e del suo mal di denti (che mi affliggono da un po’). Ma tutto ciò è realmente importante in poesia? È veramente indispensabile?

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    • Ambra Simeone

      Penso che sia un “mal di denti” che il “nome di un uccello” possano allo stesso modo dire qualcosa, se utilizzati non per rappresentare il nulla e parlare al nulla, ma per “essere metafora di” e quasi un divenire “fatto”, “azione”.

      Personalmente non gradisco troppo la poesia orientale, la trovo molto lontana dal nostro sentire occidentale, trovo terribili anche gli haiku…. ma comprendo che per la maggiore comprensione forse bisognerebbe che se ne assorbisse la cultura e la filosofia mentale; ecco amo molto più la filosofia orientale che la poesia, parlo per me ovvio!

      Ma apprezzo enormemente il lavoro di Grieco per la sensibilità e la capacità di rapportarsi meravigliosamente alle lingue che traduce, lo fa con molta bravura e attenzione!

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      • Però, cara Ambra, se apprezzi la filosofia orientale, allora dovresti almeno esser capace di entrare nel mood della poesia haiku. Le due cose sono strettamente connessi. La Weltanschauung delle tradizioni orientali è paragonabile a quella occidentale, ma l’unione di individuo e natura, nella filosofia orientale (come negli haiku), l’aggregazione di fisicità e mente, causa di sofferenze, e l’assenza di un io eterno e immutabile, si risolvono nell’illuminazione, nel risveglio spirituale.

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        • Ambra Simeone

          caro Giuseppe forse mi sono espressa male, apprezzo la filosofia orientale nel momento che si palesa in pratica nella meditazione, nelle arti marziali ecc ecc… le poesie come gli haiku sono sicuramente in connessione con la filosofia orientale, ma non le apprezzo esteticamente come non apprezzo gli aforismi! è una questione di gusto mi annoio a leggerli!

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  2. “È ormai prossimo
    l’autunno nei campi.
    Anche le foglie, ove si posa
    la candida rugiada,
    vanno mutando colore.”

    Complimenti come sempre a Steven per il suo lavoro e per la sua ricerca.
    Giorgio, ha ragione…dovremmo imparare a distaccarci dall’antropocentrismo, anche a conferma dei progressi del mondo della Fisica dell’ultimi secoli. L’unico valore dell’uomo-in realtà- gli è assegnato dall’uomo stesso.

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  3. Ho trovato per caso in una vecchia biblioteca privata, tra fogli sparsi in disordine, un frammento di pagina in cui, scritta a mano, compare una parte (?) di composizione poetica. Nessuna indicazione sull’autore e sulla sua origine. Solo uno scarabocchio in un angolo: “Bozza di traduzione”.
    .
    “Giardino-paradiso di delizie:
    variopiumati canti vi s’effondono
    nell’aria che s’abbevera
    del sole rutilante, alto nel cielo.
    Gorgheggi dolci echeggiano, preziosi
    come arabeschi d’oro, nell’immenso
    sospesi, puro suono aereo e fragile.
    Risuonano le note altosquillanti
    delle peonie rosse, dei giaggioli
    violaolezzanti, delle ortensie azzurre
    che ravvivano l’aria
    con il celeste profumo dei petali.
    Albóre di clematide s’avvolge
    al tronco scuro d’un ombroso leccio.”

    Anonimo

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  4. antonio sagredo

    caro Steven, semplicemente, grazie.

    a. s.

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  5. La vera poesia non ha bisogno di commenti.
    Grazie a Steven Grieco per la splendida offerta.
    GBG

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  6. Steven Grieco

    Cari amici, è vero che poesia come questa lascia incantati. Ma anche ispirati, e pieni di fiducia che noi poeti possiamo andare avanti, fare, in tutti i tempi. Chong Chi Sang (che ha pagato con la propria vita) avvalora tra l’altro la tesi di Giorgio, che in poesia l’immagine è fondamento imprescindibile. Ho passato durissimi mesi a Tokyo, quattro visite fra il 2004 e il 2009, lavorando su queste cose. Di notte ho dialogato con le principesse poetesse giapponesi, con in grandi poeti anche, come infatti Ki no Tomonori. Sto approntando altri episodi di questo progetto ai limiti dell’impossibile. Presto li posteremo. Sempre un grande grazie a Giorgio per la sua curiosità intellettuale, la sua lungimiranza e generosità! E a voi, che commentate, a Giorgina, Antonio, Mariano, e tutti gli altri.
    Riprendiamoci la poesia!

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  7. In principio era il tan-renga, successivamente si passa al kusari-renga (renga a catena) in cui il primo tanka (letteralmente “poesia breve”) o waka (letteralmente “poesia giapponese”) costituiva il primo emistichio e formulava la domanda posta dal primo poeta (5-7-5 sillabe) e a seguire, gli ultimi due versi, secondo emistichio (7-7 sillabe) erano la riposta da parte del secondo poeta. E così via per un totale di 50 o 100 emistichi, oppure 36 in onore ai 36 più grandi poeti di quel tempo in Giappone. Le due parti dovevano formare un contrasto.
    Bashō (banano in italiano), nome d’arte di Munefusa (1644-1694), isolò il primo emistichio (5-7-5 sillabe) regalando al mondo gli haiku che conosciamo.
    Apparentemente semplici, gli haiku hanno una struttura rigida che coniuga illuminazione a tecnica. Essi devono sempre contenere una stagione (kigo), almeno negli haiku classici. E sebbene essi possano apparire come qualcosa di appena abbozzato, incompiuto o puerile alle volte, in realtà, i buoni haiku, in tre versi, racchiudono una metafora e la capacità di suscitare imprevedibili immagini.

    Ne ho scritti parecchi di Tanka (catena) e di haiku, cercando di attualizzarli: una struttura orientale con contenuti occidentali (?), forse, nemmeno tanto banali o puerili, credo.

    Se Grieco vuole conoscere i miei “Fiori di U” ne sarei onorato.

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    • Steven Grieco

      Perché non postare i “Fiori i U” qui, su L’Ombra delle Parole (previo accordo con Giorgio)?
      La questione degli haiku è comunque interessante, al giorno d’oggi. Mani Kaul, regista indiano, amò molto la forma haiku, e cercò più volte di adattarne lo spirito, l’essenza, a certe scene nei suoi film. Una volta mi disse che nell’epoca moderna forse non era più possibile scrivere haiku. Non parlammo mai in modo dettagliato sul perché pensava così.
      Nel 2011 il mio amico nonché maestro scomparve per un male incurabile. Non riuscì mai a fare il film su Rossellini, commissionatogli dall’allora direttore del Festival di Venezia, con Toni Servillo come attore nel ruolo principale.
      Un giorno, forse due anni dopo la sua morte, mi venne da pensare che sicuramente la fotografia è una forma di haiku moderno. Forse che per fulmineità e completezza una buona fotografia abbia sostituito l’haiku? Non so.
      Certo è che a livello letterario la questione rimane senza risposta.
      Intanto continuo a cercare di scriverne qualcuno ogni tanto, quante volte per strada mi capita di iniziare a formulare qualche grumo di parole nel pensiero, ma spesso sento come mi sfugge qualcosa, l’essenza intima, lo stupore dell’attimo svanisce.
      Come nel birdwatching, ci vogliono lunghi silenzi, profonda osservazione. Allora potrebbe forse zampillare dal profondo quell’istante, quella grazia, in cui l’immagine interna già inizia a fondersi con ciò che vediamo con gli occhi, sentiamo con l’udito.

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  8. Nel mio giardino
    Il profumo di rose
    E’ primavera
    .
    GBG

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  9. VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/11/10/poesia-giapponese-waka-chong-chisang-e-il-rigogolo-giallo-a-cura-di-steven-grieco-un-waka-di-ki-no-tomonori-e-fujiwara-no-sadaie/comment-page-1/#comment-3402 Vorrei riprendere da quanto dice Carl Sini in una recente intervista sul problema dei segni e delle immagini:

    “Si può ipotizzare che diecimila anni fa sulla terra esistesse una sorta di «linguaggio universale», che i nostri antenati utilizzassero «un sistema di espressione comune, fatto della convergenza di gesto, suono, visione, esercitati e vissuti come un atto globale». La differenziazione culturale, la torre di Babele nella quale viviamo sarebbe un’acquisizione successiva.
    Analogamente, la sintassi dell’arte preistorica potrebbe aver generato la nostra attuale forma di scrittura. «La configurazione delle nostre lettere alfabetiche non è affatto arbitraria o convenzionale. Ogni lettera è invece un disegno decaduto o stilizzato la cui origine va rintracciata proprio nelle figure e nei segni del paleolitico e del neolitico».

    Rispetto al passato, dunque, c’è qualcosa che abbiamo perduto. L’unità di scrittura, figura e azione. Le parole si sono separate dalla loro figura, si sono «s-figurate», diventando astratte e autonome. La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.

    Le dinamiche percettive sono complesse e intrecciate; per scoprire cosa significa davvero «sentire», dovremmo considerare la possibilità di «ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie». L’esperienza non è mai univoca. Anche del lattante di poche settimane o di pochi mesi, non si può dire che sia una «tabula rasa», un «foglio bianco» unidimensionale, puramente ricettivo: egli «è già un mondo complesso di emozioni, di immaginazioni e di pensieri, ancorché non verbali». Secondo gli studi di Daniel Stern sulla prima infanzia e sullo sviluppo psichico infantile, la formazione del Sé emerge molto prima dell’avvento del linguaggio. Da sempre siamo circondati dai segni e, grazie ai segni, impariamo a comunicare”.

    Negli haiku come nei waka c’è ancora il ricordo di quella antica «unità di scrittura, figura e azione» che è andata smarrita. Ora, io ritengo che sia difficile assai per un occidentale del XXI secolo ripristinare artificialmente una scrittura che ripristini quella antichissima unità, ma ritengo invece assai possibile scrivere poesia moderna tenendo presente che la poesia non può essere disgiunta da quella complessa unità di «figura e azione», cioè di immagine e di personaggi “in azione”, perché l’azione è assolutamente necessaria non soltanto nel romanzo (come abbiamo visto nel post odierno dedicato a Milan Kundera), ma anche in poesia (ovviamente in forma diversa). Una «figura» è sempre «azione» (attiva o passiva), e una «azione» è sempre anche «figura». Questa dinamicità è interna sia alla «figura» che alla «azione».
    Ho l’impressione (anzi la convinzione) che la poesia italiana si sia allontanata o abbia dimenticato questo assioma e che oggi si scriva poesia copiando la linearità (temporale) della prosa senza tenere conto del problema del dinamismo spazio-temporale di ogni «figura» in movimento.

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    • Steven Grieco

      Wow! Bellissimo intervento, dettato da una profonda ispirazione a livello critico. “L’unità di scrittura, figura, azione”. Fa bene al cuore sentire cose così. E’ anche la gioia di capire che molte nostre strade procedono in parallelo.
      La fluidità della scrittura, la consapevolezza che non possiamo fermarne il flusso, soltanto afferrarne l’attimo… E’ quello che si chiama satya in Sanscrito: cioò che è vero, folgorante, in questo preciso attimo, forse non lo sarà ‘attimo dopo. Le foglie sull’albero, quanti milioni di riflessi di luce esprimono in un istante di tempo?
      “La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.”
      Queste sono parole di alta ispirazione. Sì, dobbiamo capire dove è quel fulcro di significato che abbiamo perso.
      Consiglio a tutti di leggere questo commento, e di meditarlo profondamente, perché a me sembra contenere tutte le indicazioni, tutti i suggerimenti essenziali, necessari per riscoprire il vero valore della poesia, e del significato essa può avere nella nostra vita.
      Andiamo avanti, anche insieme, per questa strada che ci rivelerà le cose che già si sapevano nel Paleolitico! (basta vedere le pitture rupestri per capire questa semplice verità). E troviamo il modo in cui tutto ciò è vero oggi, nella nostra complessa realtà post-moderna.
      Grazie, Giorgio

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  10. Si potrebbe dire che maggiore è il numero delle sillabe e minore si fa la distanza tra poesia giapponese e poesia occidentale. E’ una domanda.
    Ad esempio, e traggo a caso da Montale, da la poesia Ilimoni:
    le viuzze che seguono i ciglioni,
    discendono tra i ciuffi delle canne
    e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
    Invece, per quanto attiene agli Haiku, il discorso secondo me è diverso; e fa bene Linguaglossa a dire dell’azione, perché si tratta di un principio basilare della cultura Zen. Possiamo aver letto anche mille haiku, e magari, se non siamo degli specialisti come Grieco, anche quel che ha scritto Alan Watts sullo Zen, ma se non abbiamo esperienza di Koan (o di arti marziali, o dell’arte Ikebana) difficilmente riusciremo ad andare oltre il solo piacere estetico di scriverne. Zen è una sofisticata arte della trasformazione mentale, richiede molta pratica… e poche parole.

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    • Steven Grieco

      Sì, ha ragione Lucio Mayur Tosi. La giovane giapponese in kimono rosa, che compose un ikebana in una stanza del museo orientale Rietberg di Zurigo anni fa, nel 1986, mi fece capire come avrei voluto da allora in poi scrivere una poesia: lasciando che l’energia si sprigionasse dall’interno della poesia, non conferendogliela dall’esterno. E’ diventato il lavoro di una vita!!
      Fra le sue fragilissime mani sembrava che i tre ramoscelli fioriti non dovessero mai entrare in dialogo, continuamente ricadevano giù. Poi d’un tratto il miracolo era compiuto, già si allontanava da noi indietreggiando nel tempo: ma adesso i ramoscelli stavano lì, in piedi, labili e un po’ storti: in un gruppo di tre, ma anche ciascuno per sé: come se fossero arrivati per caso, come se fossero tre anatre iridescenti che un colpo di vento costringe ad atterrare su un fiume, e tu passando di lì, a un tratto – le scorgi sull’acqua.

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  11. VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/11/10/poesia-giapponese-waka-chong-chisang-e-il-rigogolo-giallo-a-cura-di-steven-grieco-un-waka-di-ki-no-tomonori-e-fujiwara-no-sadaie/comment-page-1/#comment-3419
    Caro Steven Grieco mi rendo conto che parlare di queste cose in Italia sia una aberrazione, come parlare in inglese a dei bororo, ma certe cose dobbiamo dirle.
    Cito ancora da Carlo Sini:

    “Nelle lingue occidentali si è invece imposta la mentalità classificatoria della grammatica (modellata sul nostro alfabeto e sulla nostra conseguente logica e metafisica), con la tendenza a sostanzializzare l’azione e le figure del soggetto e predicato. Vige qui la prevalenza assoluta della frase assertoria o apofantica costruita con la copula “è”, forma peraltro ancora molto rara in Omero. Nella primitiva frase cinese l’agente e l’oggetto sono nomi solo in quanto limitano un’unità d’azione, Nell’ideogramma “contadino pesta riso”, contadino e riso sono i termini che definiscono l’azione del pestare (che a sua volta può significare “uomo”); fuori da questa funzione, contadino e riso sono verbi a loro volta. “Contadino” appare allora come “Colui che coltiva il riso”. “Riso” uguale a un determinato crescere della pianta nell’acqua. Altro esempio: “La tazza brilla” (traduciamo noi). Qui il brillare è reso da un ideogramma che unisce il segno del sole con quello della luna. La scrittura effettiva è da intendersi letteralmente così: “tazza sole-luna”. La potremmo tradurre “il luccichio della tazza”, oppure “la tazza brilla” o ancora “la tazza è lucente”. Come si vede, l’ideogramma “sole-luna” (ming o mei) svolge contemporaneamente e indifferentemente la funzione di un aggettivo (lucente), di un verbo (brilla), di un sostantivo (il luccichio)”.

    Vorrei riepilogare così il pensiero di Sini: “dimmi come metti l’aggettivo e ti dirò chi sei”. Voglio dire che dal modo in cui uso quel “brilla”, ne deriva una certa idea di poesia. Fatto sta che c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo).
    Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale».

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    • Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).

      Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

      Rotola l’estate
      si stacca dalla pianta
      il fico d’india.

      Quello più intrigante? Quest’altro:

      Il gatto all’alba
      ascolta il concerto
      sognando le ugole.

      Caro Linguaglossa, prova a rotolare un po’ anche tu.

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  12. antonio sagredo

    scusami Giorgio, ma era doveroso precisare con versi:
    —–
    Quel giorno di Pentecoste tra pozze di catrame e merda
    quando i cani aizzarono al martirio la sacra sindone
    – reliquie di ratti albini nei fondali d’una chiavica –
    gonfiarono la sinistra copula di un’astinenza presenile…
    e se mai, qui, tra ostie e tabernacoli s’avventa un prodigio
    sciogliete l’enigma con leggi naturali, ma non fate l’intervista
    al Divino, perché dica che un mistero o una fede la giustifica!

    (dal poema OXFORD, 2007)
    ———————————————————
    Che vuol dire “il male di noi poeti… pippe mentali…”;. Quali poeti? E poi abbiate un linguaggio critico degno! E non come il linguaggio di un qualsiasi pennivendolo!

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  13. “Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali.”

    Io sono… medioevale! Gradirei essere esclusa da queste “copulazioni” sia “troppo”, sia “con noi stessi”. Non ne capisco bene il significato e mi sento terribilmente in imbarazzo! Grazie.

    Giorgina Busca Gernetti

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  14. Si copulava anche nel medioevo. Si è sempre copulato in ogni tempo e in ogni luogo.

    Tolgo dall’imbarazzo la cara Giorgina che stimo come donna intelligente e colta.
    Ma,
    Ceterum censeo Carthaginem esse delendam.

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  15. Gentile Giuseppe Panetta,
    devo rispondere in greco classico o neogreco?
    Accontentiamoci dell’italiano “pulito”.
    Quindi “copulare” è proprio ciò che fecero anche Adamo ed Eva molto prima del Medio Evo, altrimenti come sarebbero nati Caino e Abele?
    Anche lei è una persona intelligente e stimabile, ma se usa questa terminologia per parlare di critica letteraria e poesia, in più aggiunge le “pippe” (?) che cosa devo pensare e dove finisce la stima?
    Dica pure, ma con parole “pulite”.
    Aggiungo che un poco d’ironia non guasterebbe anche in lei, per capire in che senso ho scritto che sono medioevale.
    Cari saluti
    Giorgina Busca Gernetti

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    • Pippe, poppe, pappe, pappette, pàppete o parapaponzi, è il bello della lingua, è la varietà, è la libertà, presunta, di poter usare una gamma infinita di segni, significati e significanti.
      In questo blog, credo, si possa parlare di tutto lo scibile umano, senza preclusione di sorta, anche con irriverenza verso certi paradigmi e/o paradossi.

      Gentile Giorgina Busca Gernetti (non so mai come rapportarmi con Lei/Te perché oggi siamo amici e domani sembriamo sconosciuti. E questo cambio continuo di posizioni sulla scacchiera della comunicazione, che Lei/Tu attua/attui, mi affascina moltissimo), solo per il fatto che nel post precedente siano state riportate le mie pippe, “lo bello stilo che m’ha fatto onore”, mi rincuora.

      Certo che ho capito, da tempo, la Sua/Tua ironia, diversa dalla mia ma congeniale.

      Lei/Tu può/puoi rispondermi in greco antico come in neoclassico, oppure in turco, ultimamente studio le lingue agglutinanti.
      Con stima.

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  16. Vorrei ricordare ad Ambra Simeone che la tradizione (ovvero, il passato) non è qualcosa come un medicinale scaduto che possiamo tranquillamente gettar via, ma è qualcosa che noi portiamo dentro anche se in modo inconsapevole, e la poesia, in quanto «ricordo» del passato, è Mnemosine, la madre delle Muse. A proposito riscrivo le parole di Carlo Sini:

    «Il passato è tale proprio in quanto è trascorso e dimenticato. Solo a questo prezzo può essere ricordato, il che vuol dire: riportato nel cuore del sapere e perduto per la vita diretta. Quindi il cosiddetto passato è in realtà quella presenza che sempre agisce inconsapevole (il passato dei miei genitori rivive nel mio corpo ecc.): questo passato non è mai passato, è la vivente continuità della vita. In questo senso l’animale non ha passato; solo gli esseri umani ce l’hanno, poiché dispongono di segni per constatare la differenza intercorsa tra l’essere e l’avere, l’agire e il sapere, il vivere e il ricordare di aver vissuto; anzitutto, ovviamente, perché dispongono di segni del linguaggio».

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    • Ambra Simeone

      caro Giorgio,

      non mi ricordo di aver mai detto di considerare la tradizione come un medicinale scaduto, si parte sempre dal passato, lo si studia, lo si approfondisce e poi a un certo punto o si va avanti o lo si ricrea, riformula, rivede…. ma d’altro canto ho paura che in Italia sia tutto troppo legato al passato e non in quanto punto di partenza ma purtroppo come punto di arrivo e di stagnazione (e non sono in poesia)!

      ecco in poesia forse, e dico forse, si finirà a parlare delle vecchie poesie e della tradizione come si parla oggi delle pensioni… e le nuove poesie? le nuove generazioni? troppo passato, troppo presente… un po’ di futuro insomma 😉

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  17. “Lack of memory”. Il grande male del nostro nuovo secolo.
    Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
    E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

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  18. Nei film Hollywoodiani assistiamo a incontri interminabili di scherma e karate, in realtà, come avviene anche da noi in queste discipline sportive, la stoccata e l’atterramento durano pochi secondi. La stessa cosa accade nelle brevissime poesie giapponesi, che sembrano scritte in gara con l’attimo vitale e l’azione che l’accompagna. Bisogna tenete presente che il pensiero si svolge nel tempo, tra passato e futuro, ma non può vivere nell’istante. Di fatto tutti i pensieri sono sogni ( maya, illusione), non così la scrittura mentre accade. Si crea per tanto uno stretto rapporto tra scrittura e accadimento, in modo che possa accadere il Satori (risveglio). Chiunque può farne l’esperienza, anche chi scrive graziosi haiku contando le sillabe.

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