POESIE SCELTE  di Marco Onofrio da Ai bordi di un quadrato senza lati (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

cornelius escher stelle

cornelius escher stelle

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con Raffaello Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto decine di prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

Marco Onofrio cop ai bordi di un quadrato senza lati

Commento di Giorgio Linguaglossa

da Marco Onofrio Ai bordi di un quadrato senza lati Marco Saya Edizioni, 2015 pp. 78 € 10

L’autocoscienza del vuoto è quella condizione propria dell’uomo moderno che fa esperienza della propria de-realizzazione; la percezione del vuoto non più visto in contrapposizione al pieno ma come complemento necessario e inevitabile del pieno, anzi, come giustificazione della insorgenza del pieno. Il de-realizzato sa fin troppo bene che il vuoto è onnipotente, tanto da non essere più qualcosa che si avverte, ma piuttosto qualcosa in cui ci si stabilizza esistenzialmente, una tonalità affettiva che diventa totalità affettiva, un dentro-fuori che nuota nel vuoto assiologico, che aderisce agli oggetti circostanti, che contamina il soggetto: così tutto appare vuoto e privo di senso. La melancholia viene anestetizzata in ipertrofia dell’io manifesto. Chi avverte il vuoto sente di condurre una pseudo esistenza, staccata dallo sfondo, priva di un orizzonte di senso o di speranza, chi vive vive sovrappensiero o con pensieri laterali, con retropensieri, senza un contatto tangibile con gli oggetti del mondo, chi vive vive «ai bordi di un quadrato senza lati», «di questo sole verde con criniera» che «brilla dall’interno luce nera». De-personalizzazione e de-realizzazione diventano così due facce della stessa medaglia dove il rapporto col mondo viene tagliato fuori dal «tatto», viene a perdere la tattilità delle cose e il mondo perde la caratteristica della tridimensionalità per apparire unidimensionale come un fondale da teatro.

Ecco spiegata l’ossessione del teatro nella poesia di Marco Onofrio, l’ossessione del burattino che si muove secondo i fili invisibili che lo tirano di qua e di là, senza un perché, senza un per come. I movimenti legnosi del burattino rispondono bene come condizione di esistenza alla dittatura del vuoto.  E c’è anche l’ossessione del vuoto, la poesia di Onofrio è, se mi si passa il termine, piena di vuoto, perché  il vuoto straripa nel mondo pieno di a-sensi e pieno di buchi, di voragini, di abissi dall’uno all’altro dei lati del «quadrato senza lati». L’indirezione, l’inorientazione che ne deriva inibisce ogni scelta direzionale (agorafobia) come per la profondità o l’altezza (acrofobia), di qui il rullo compressore della versificazione che tenta di acciuffare il reale per via della sua spinta progressiva e propulsiva. Di qui la sensazione di un periclitare maniacale senza fine nel fondo di un abisso, lo s-fondamento della metaforizzazione, cioè della distinzione tra il proprio-corpo (il letterale) e in non-proprio (il figurato), tra il significante del referente e un secondo significante del medesimo referente; di qui la «disfunzione» (tipico concetto della poesia di Onofrio), questo indebolimento progressivo della condizione esistenziale si risolve, nella sua poesia, in intensificazione del magma lessicale musicale, quasi un linguaggio primario pre-epistemologico (la lingua materna) che giunge per via di intuizione alla immaginazione delle «cose».

Se quella del vuoto e dell’abisso è un’immagine, lo è nel senso di una immagine (la metafora assoluta di Blumenberg) letterale. Il vuoto di Onofrio è dunque un vuoto originario e genetico che crea le cose, non dunque il vuoto inteso come il non-ancora della sua utilizzabilità come nel caso della brocca come «offerta del versato» (Heidegger, Das DingEssere e tempo), un concetto ancorato alla tematizzazione del vuoto trattato come assenza o lacuna che attende di essere riempita e non come pausa indispensabile nel continuum dell’in-fondato che rende possibile l’apparire linguistico della cosa. Ad un mondo ridotto a superficie priva di senso, la poesia di Onofrio risponde con una superficie che introietta il vuoto ricco di a-senso. La sua è una poesia, diciamo, ricca di vuoto, sospesa tra la a-figurazione dello s-fondo e la figurazione oggettiva della metafora, tra la metafora assoluta che giace al fondo del linguaggio primario musicale e la de-metaforizzazione dei processi linguistici nella lingua di relazione. Come lo s-fondo delle sculture di Henry Moore è una superficie tersa e monocorde che meglio riesce a mettere in evidenza la scultura in primo piano, parimenti la poesia di Onofrio soggiace a questa medesima necessità raffigurativa. Ci sono gli oggetti in primo piano ma il fondale è una superficie linguistica a-significativa. Tra gli oggetti linguistici e il fondale non si dà alcuna relazione, sono come giustapposti e muti, sono privi di comunicazione, ecco spiegata l’intensificazione della colonna sonora di cui questa poesia non può fare a meno.

Marco Onofrio alla Biblioteca Casanatense di Roma legge Emporium, 2013

Marco Onofrio alla Biblioteca Casanatense di Roma legge Emporium, 2013

BURLA

«Portate il mimo dell’invisibile, subito:
che bruci ad ogni tuffo del suo cuore».

(Sussurro dalla tenebra infinita)
«… Se il mondo è una pupilla pitturata
l’occhio che lo vede, mio signore
è un battere di ciglia, un colpo, un velo.
Un buco che sfavilla e poi si chiude
all’orizzonte:
nell’azzurro».

«Chi parla?»

(Scalpiccio di passi approssimati)
«Eccomi, padrone. Sono qua.
Burattino ironico e sublime.
Buffo. A disposizione».

«Apre dai due lati il mio portone».

(Fattosi scoperto alla visione)
«La la la, lallalla…»

«Tu. Che cosa ti sostiene?»

«Mi arrangio. I miei fili
si perdono nel cielo…»

«Forza, dunque, fammi divertire».

«Ma certo, Sire!»

(…)

«Ebbene?»

(toltasi la maschera:
mostrato finalmente il volto fero)
«Vieni che ti mangio in un boccone»…

cornelius escher

cornelius escher

PRIMA DI MANGIARE

Briciole di sogni nei pensieri
curvi come virgole di lampi
vengono-scompaiono dal vuoto.

Sale, lenta, l’onda d’alto sale
cresce l’ombra chiusa sopra il fungo
di questo sole verde con criniera:
brilla dall’interno luce nera
e al fuoco freddo nuvole di prosa
e un giorno che non parte e non finisce
come il sospiro sfatto, il reo maniero
di una meretrice che riposa
cotta col vapore del lenzuolo
e con il burro, del civile uomo
che condisce: prima di mangiare.

LA BESTIA

Le trombe spalancavano la luce
tagliando vasti cerchi di silenzio
il veleggiare ai falchi in alto fumo.
Formicolava l’aria degli scavi:
io scorsi in fondo al cielo le visioni
trascorrere nel vuoto universale
le ali remiganti, i folti stormi
passare ombre nere e poi cadere
tra gli ominosi gesti, i sortilegi
e il lembo sconfinato del sentore
non si lasciava intendere o afferrare
la preveggenza acuta e illuminante
indizi come più nefasti segni:
allora che più ardente la potenza
il palpitare ignoto della vita
la brace agli occhi accesi e roteanti
sputava dalla lingua biforcuta
apriva a forza varchi dentro muri
spallava monti, abbatteva ponti
seccava fumigando i gialli fiumi
e poi, scoccando le saette dai suoi archi
mieteva a frotte martiri innocenti
come le spighe verdi in mezzo ai campi:
e fece tenebra di notte a mezzogiorno
e il mondo più non vide cosa alcuna
e da se stesso ovunque il suo contorno
sparì nel lato opposto della luna.

Cercammo Dio: non c’era.
La bestia ci sorprese tutti quanti.
Di tante anime ritornò nessuna.

labirinto

labirinto

LA SCROFA

La morte ci tiene nel suo grembo
ci culla, madre della bocca
che usiamo per mangiare
baciare, parlare, vivere
del cielo che racchiude il nostro corpo:
la soglia da cui esce lo spirito, nel mondo
ed entra il vuoto dell’immensità
lungamente s’insinua, faticosamente
ovunque intorno a noi
è dentro noi. Soffia, mastica, grugnisce
ci impasta lentamente le budella.
È una scrofa che ci nutre
ci mangia, ci fotte, ci caca
ci semina, ci frutta, ci raccoglie.

Siamo i porci della morte:
rotoliamo nel fango
e mastichiamo i ruvidi diamanti
della sua beltà.
Ingrassiamo di dolore
per la baldoria guasta
di una festa grande
che verrà.

«Ascolta bene: è già con te, lì, qui.
Ti sta aspettando da una vita
oltre la porta del tuo ultimo respiro».

.
TUFFARSI

Basterebbe uno scatto di follia.
Una bestemmia di ribellione.
La forza di volerci come siamo
al di là di tutto.

Ogni accenno di ribellione
ci infervora a un dissenso
d’illusione, al fulgore inane
della vita, che cerchiamo vera.

Tuffarsi e via, lasciarsi andare
lungo il sottilissimo crinale
che separa l’ora dalla fine…

E il senso?

QUALE CENTRO

La verità? È una giostra di seggiole
che gira. Anche le seggiole possono
girare – magari in senso inverso,
contromano: così, poi,
vedi quello che tu lasci
andando avanti.
Alcune sono scomode e legnose;
altre ricoperte di velluto.
C’è qualche cavalluccio
dondolante. E si gira,
si gira tutto in tondo
per viaggiare – e il viaggio
è verso dove?
Non si esce da quel cerchio
a non finire.
E intorno a quale centro,
incontro a cosa?

escher Labirinto

escher Labirinto

CERTE LUCI

Che cosa c’è stasera nei tuoi occhi?

Hai lo sguardo strano, e acceso
delle bestie che annusano la morte.
Il battito ti ha, ormai, nella fiamma
terribile del tempo. Sei avvolta
dal futuro che ti fa carbone.
Niente ti potrà salvare.

«Certe luci» dicevi «sarebbe meglio
non spegnerle mai».

Ma tutto – ricordi? – era ancora possibile:
fino a ieri, non so perché è cambiato,
le cose si piegavano a qualunque
desiderio, in fluttuazioni
liquide, in carni tenere
come le onde che si sfasciano
nel mare. Poi, il culmine estatico
coi suoi picchi di magnificenza:
e lo splendore della tua presenza
ti ha portato via, nella fiamma
terribile del tempo. Cantava cantava
il giallo misterioso dei limoni
contro il cupo ardore delle arance
e intanto vedevi sorgere
da dentro, sotto il manto d’aria
il bianco incenerito sulle guance:
l’argento degli ulivi si spargeva
ovunque, diventavi lo sguardo
del vuoto. Ora lo senti il profumo
del tempo, il suono che dorme
sotto i grandi alberi? Brillano ancora
le strisce di sole nell’erba. La gioia
è tutta nel segreto dell’attimo
che accende l’ultimo fulgore
prima della tenebra finale.

.
INFIORESCENZA

La notte passa radiosa
della sua luce invisibile
con gli occhi di una sposa che sorride:
diamanti smerigliati di rugiada
sui vetri dove, tra meno di un minuto
squillerà il mattino.

MONTECRISTO

Ombrosa, isola isolata
incidi il tuo profilo nella luce
d’oro del crepuscolo tirreno
viola contro il fumo di laggiù
lontano, lontano, all’orizzonte
tricuspide, dentro il tuo mistero
impenetrato, chiusa Montecristo:
tu, fortezza di solitudine
immersa nel tuo tempo millenario
al di fuori del tempo
stai, protetta dalla Storia
nel silenzio dell’eternità.

Ma io ti ho visto, ti ho visto
un pomeriggio di cent’anni fa…

(Follonica, 9 luglio 2014)

Cornelius Escher

Cornelius Escher

AI BORDI DI UN QUADRATO SENZA LATI

Il silenzio, oltre il vuoto nero:
il grande spazio interno
l’Uno eterno,
ai bordi di un quadrato senza lati.

L’immenso è troppo vasto
per farsi quietamente
una ragione.

Beati quelli che si accontentano
delle nuvole: io, per me, basto
alle stelle. La mia bocca storta
nello spasimo amaro
della vertigine
è una porta aperta che si chiude
sulla solitudine.

Ecco l’aprile, che non allunga ponti
al tempo della dolce convulsione
e annoda i resoconti delle sere
sopra il viso: e la speranza
è disperazione.

Il filo che mi teneva in piedi
è sempre più liso, sempre più
sottile. Devo afferrarmi
al mondo, ormai,
per non cadere.

.
OLTRE L’ORIZZONTE

L’aria si prolunga da ogni parte
dentro la rete dello spazio vuoto
dal mio corpo oltre l’orizzonte.

Che ci sarà dall’altra parte?
Chi mi attenderà?

In quale Africa del cielo, in quale Itaca
troverò me stesso?

Il sole sarà l’ultimo gradino
dopo il grande passo:
verso le sorgenti del mattino.

38 commenti

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38 risposte a “POESIE SCELTE  di Marco Onofrio da Ai bordi di un quadrato senza lati (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

  1. Ecco un autore veramente originale: nella struttura e soprattutto nella ‘inventio’ il che significa poesia ossia mondo virtuale della parola. Certi versi sono decisivi. Ne cito uno: “La bestia ci sorprese tutti quanti”.

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  2. Cresci sempre, in poesia, caro Marco( e crescerai ancora ,perchè sei così giovane); cresci nel rifiuto della confusione, del male,dell’indifferenza, cresci nell’uso sempre più scaltro della parola .Hai ragione a diffidare della speranza; ma tu non hai bisogno di sperare: già ci sei.

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  3. Buona poesia che non trova posto, ma lo cerca e lascia acceso un lume alla speranza.

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  4. Sulla copertina bianca del bel libro di Marco Onofrio spicca un quadrato, al cui centro sta un buco nero racchiuso in un cerchio bianco, da cui s’irradiano fitte linee alternativamente bianche e nere. Una figura senza contorni, non delineata da limiti, stimola suggestioni e fantasie, senso di vertigine, di presenza del vuoto, di un abisso che attende buio.
    Chi scrive conosce bene tale sensazione di vuoto, di esistenza quasi irreale in un luogo incerto, senza orizzonte e senza punti di riferimento. Non più sicuro si sente il burattino, passione di Marco Onofrio, scrittore anche di testi teatrali, che si muove sostenuto da fili che «si perdono nel cielo»; fili invisibili sia che il poeta abbia omologato il burattino alla marionetta (effettivamente sostenuta da vari fili invisibili che ne producono i movimenti imposti dal marionettista), sia che si tratti di un vero e proprio burattino, che non è sostenuto da fili ma mosso dalla mano del burattinaio, infilata sotto la veste, che è «padrone» e «Sire» del «Burattino ironico e sublime. / Buffo. A disposizione». I movimenti innaturali del burattino forse raffigurano metaforicamente la condizione esistenziale dell’uomo, sottoposto alla tirannia del vuoto, dell’essere «senza lati» (“Burla”).
    Marco Onofrio supera la condizione di burattino buffo dalla vita fittizia guidata da altri e mira verso l’alto, l’immenso, direi quasi l’infinito. Scrive, infatti: «Beati quelli che si accontentano / delle nuvole: io, per me, basto / alle stelle», ove il verbo ‘bastare’ indica non il limite delle sue aspirazioni, ma piuttosto l’anelito del suo animo verso l’infinito. Nella strofa precedente aveva affermato: «L’immenso è troppo vasto / per farsi quietamente / una ragione», mentre nell’ultima strofa dice: «Il filo che mi teneva in piedi / è sempre più liso, sempre più / sottile. Devo afferrarmi / al mondo, ormai, / per non cadere.». Dunque, tornando alla metafora del burattino, Marco Onofrio non può che ammettere: «e la speranza / è disperazione». (“Ai bordi di un quadrato senza limiti”).
    Sono tutte pregevoli le poesie di questa scelta, cui chi scrive si attiene in mancanza del libro completo, non ancora in suo possesso. Sembra, tuttavia, opportuno evidenziare alcuni versi “passim” per dimostrare l’intensità dell’immaginazione e la nitidezza, musicalità, accuratezza del dettato, ben lontano da certi sperimentalismi lessicali, strutturali e ritmici (a-ritmici?).
    «Cercammo Dio: non c’era. / La bestia ci sorprese tutti quanti. / Di tante anime ritornò nessuna.» (“La bestia”). E anche «La morte ci tiene nel suo grembo / ci culla, madre della bocca / che usiamo per mangiare / baciare, parlare, vivere / del cielo che racchiude il nostro corpo: / la soglia da cui esce lo spirito, nel mondo / ed entra il vuoto dell’immensità / lungamente s’insinua, faticosamente / ovunque intorno a noi / è dentro noi.» (“La scrofa”).
    La poesia “Tuffarsi” è tutta un gioiello, nel pensiero e nel dettato. Efficace la metafora del ‘tuffarsi’; in questa composizione non un tuffo nel mare che inghiotte o in un fiume che trascina via, ma: «Tuffarsi e via, lasciarsi andare / lungo il sottilissimo crinale / che separa l’ora dalla fine… // E il senso?». Che senso ha la vita? Affascina, infatti, quel sottilissimo limite tra il Tempo e il “non più”, il “non esserci più”.
    Il senso del libro, oltre che nel disegno simbolico posto in copertina e nella poesia eponima, pare si trovi nella composizione “Quale centro”, soprattutto nei versi finali «Non si esce da quel cerchio / a non finire. / E intorno a quale centro, / incontro a cosa?». Un senso di smarrimento, d’indeterminatezza, una mancanza di finalità dell’esistenza coglie il lettore di fronte a queste domande. «… in quale Itaca / troverò me stesso?» si chiede Marco Onofrio in “Oltre l’orizzonte”. Itaca è una meta, un punto fermo, un desiderio che deve avverarsi; ma dove, ma quando?
    Altre poesie si distinguono per le immagini create con grande abilità evocativa, come “Montecristo”, «Ombrosa, isola isolata», e “Infiorescenza”, con cui piace concludere questa lettura
    .
    «La notte passa radiosa
    della sua luce invisibile
    con gli occhi di una sposa che sorride:
    diamanti smerigliati di rugiada
    sui vetri dove, tra meno di un minuto
    squillerà il mattino.»

    Giorgina Busca Gernetti

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  5. Gino Rago

    “cresce l’ombra chiusa sopra il fungo…” e chiaro nella valle il fiume appare:
    leopardianamente apprezzo questi versi lessicalmente ben sostenuti e con
    lavorìo di metrica sapiente: bravi Marco e Giorgio per questo incontro lirico
    che alza verso il cielo il sibilo d’una boa dal mare sballottata.

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  6. Davvero perfino in Italia ci sono circostanze in cui si può dire: la Poesia è morta viva la Poesia. Perché, nonostante le politiche editoriali e culturali inspiegabilmente suicide dei grandi editori e delle istituzioni – che ormai è perfino assurdo ricordare, tanto sono la norma – la Poesia non se ne cura e rinasce e rivive dove e quando sa di poterlo fare. Per quello che leggo su questo blog io di poeti veri ne ho visti, eccome. E Onofrio è proprio uno di questi.
    Non ho dubbi sul fatto che tanto l’arte quanto la poesia non muoiano mai. Magari, in certi tempi di magra, si rifugiano in luoghi protetti, dove non possono essere raggiunte dalla distruzione sistematica di una società e di una cultura in agonia e se l’Europa in generale si va spegnendo, non lo fa mai quanto l’Italia, considerata da molti osservatori esterni un paese ormai immobile da molti decenni. Come l’arte e la poesia istituzionalizzate. Arte e poesia ormai di regime.
    Uno degli attributi dell’arte è la chiarezza (“L’arte è un processo dalla confusione alla chiarezza”, affermava Konrad Fiedler), un appropriarsi del mondo secondo un’organizzazione formale che è un processo di conoscenza. Nella poesia di Onofrio tutto questo c’è e c’è anche la consapevolezza che il linguaggio poetico NON può essere piegato ad altro che a sé stesso. Ma, soprattutto, ci sono le grandi questioni dell’Essere e dell’esistere.
    E davvero il vuoto non è assenza, ma vibrazione generatrice.
    Può un quadrato senza lati avere dei bordi? Può, se li si intende come dimensione liminale, come proporzione fra noto e ignoto, come nella “Dotta ignoranza” di Niccolò Cusano. Come centro e circonferenza infinita. Quelle di Onofrio sono le domande di un filosofo, oltre che di un poeta.

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  7. Steven Grieco

    Che poesia forte! Un colpo dopo l’altro. Complimenti… E un vuoto pieno di soffi vitali, che arde di energia.
    Ecco, a caldo dico (perché devo ancora formulare un pensiero più circostanziato, non si può fare in un giorno) che questo stile, questa visione figurativa sono cosa ci vuole per ridare fiato alla poesia.
    Marco diventerà, lo è già, un poeta importante.
    Leggerò e rileggerò. C’è qualcosa da imparare qui.

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  8. Steven Grieco

    Ecco, per esempio,

    L’aria si prolunga da ogni parte
    dentro la rete dello spazio vuoto
    dal mio corpo oltre l’orizzonte.

    mi ricorda cosa dice un pittore cinese:

    Chang Yen-yuan: Collaborare all’opera della Creazione per il tramite del Pennello. E’ detto: l’Idea (del Vuoto) deve precedere il Pennello: altrettanto, deve prolungarlo una volta terminato il Tratto. Un tratto tracciato secondo la regola è un tratto morto.

    Oppure il waka:

    Shunzei no Musume (Antologia Shinkokin, composizione del 1201)
    shita moe ni omoi kie namu kemuri dani ato naki kumo no hate zo kanashiki

    nelle sue braci m’incenerisce la passione,
    innalzandomi come nuvola di fumo
    scompare infine all’orizzonte
    dove dilaga la mancanza

    Felice convergenza!

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  9. Marco Onofrio, una fantastica mente che non conoscevo. Grazie Tony

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  10. Antonella Pompei

    Non vedo l’ora di avere fra le mani questo testo, per leggere, rileggere e meditare questi e gli altri nuovi versi di Marco. Ha ragione Grieco: ce n’è di materiale su cui riflettere. Sono poesie stupende. E, con Francesca, anch’io penso che quelle che l’autore si pone siano ‘le domande di un filosofo, oltreché di un poeta”.

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  11. Giuseppe

    Grande vitalità.

    GP

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  12. attanasio cavalli

    il signor Onofrio dovrebbe con un rastrello eliminare il superfluo che alligna purtroppo spesso tra i suoi pensieri e i versi realizzati…. come dire va troppo veloce, così quando parla in conferenza dovrebbe andar più lentamente, e non dire frettolosamente… e a volte non si comprendono bene alcune parole ed è un peccato poi che detta cose intelligenti… e vi è un rimedio. riascoltarsi – se registrata è stata la sua voce – … porsi davanti a uno specchio e pronunziare e scandire… comunque auguri

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    • Superfluo e necessario non sono categorie assolute, o ontologiche. E’ tutto relativo. Poi a me risulta che chi va veloce raramente aggiunge, ma casomai toglie. E poi, fretta o velocità? Sono due cose diverse. La fretta implica l’approssimazione, la velocità no. L’opposto di lentamente è velocemente e non frettolosamente. E ancora diverso è il parlare e lo scrivere. Si può parlare velocemente senza per questo essere poco chiari o essenziali. Dunque sarebbe interessante conoscere qualche esempio di quello che a lei appare superfluo

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    • marconofrio1971

      Ma, gentile signor Cavalli, vuole insegnarmi lei – magari tra un nitrito e l’altro – le regole prosodiche della corretta dizione? e spiegarmi quando mi avrebbe ascoltato parlare? e chiedere al suo amico Sagredo che cosa azzecca l’esposizione orale con il “superfluo che alligna purtroppo spesso” (che sgomento! che costernazione!) tra i miei pensieri e i “versi realizzati”? – compreso il nitrito, naturalmente… 🙂

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    • Gentile Signor Cavalli,
      ” con un rastrello eliminare il superfluo che alligna purtroppo spesso tra i suoi pensieri e i versi realizzati…”!
      Tra le varie metafore con cui avrebbe potuto esprimere la sua disapprovazione per la pregevole poesia di Marco Onofrio ha scelto proprio la meno elegante, la più rozzamente offensiva.
      Il superfluo che alligna nel pensiero? Lei riesce a leggere nel pensiero degli altri? Quali potrebbero essere i pensieri superflui nella poesia di Onofrio? Oppure intendeva dire, ma non è stato chiaro, che c’è discrasia tra i pensieri e i versi realizzati?
      Quanto alla dizione poi? O lei era presente a Roma, come si vede nella fotografia, e lo ha sentito parlare oppure…
      Perché, se non le piace come parla (caso mai “velocemente”, non “frettolosamente”, come ha ben chiarito Francesca), non gli ha suggerito di usare lo stratagemma di Demostene per rendere perfettamente comprensibile la sua dizione?
      Eh! Da un cavallo non si può pretendere tanto!

      Giorgina Busca Gernetti

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  13. letizia leone

    Ho avuto il piacere tempo fa di parlare della poesia di Marco Onofrio e degli strati di significazione e suggestioni filosofiche che contempla e leggerò al più presto con piacere e lentezza (perchè purtroppo sono molto lenta nel leggere poesia ) questo suo nuovo libro ma già l’annuncio dato da questi pochi testi mi sorprende. Mi sorprende il modo del poeta di attardarsi sulla “soglia”, sul limite dell’indicibile, nello spazio negativo di un oltre (“quadrato senza lati”) attraverso la strada più difficile che è la declinazione di un dettato loico, sapiente, senza smagliature formali o logiche anzi addirittura con movenze ironiche, si veda ad esempio il primo testo “Burla”…Questo a dimostrare un modo ambizioso di fare poesia indicato già da Eliot: “Il poeta può trattare concetti filosofici, non come materia di discussione, ma come materia di visione”…

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  14. antonio sagredo

    Non sono d’accordo con ciò che scrive il signor Cavalli, però devo sottolineare che quel che scrive serve a far scaturire le reazioni degli “interventisti”, a far conoscere il loro pensiero interiore che altrimenti non sarebbe uscito fuori, cioè suppongo che provoca volontariamente e in buona fede e non credo affatto che abbia secondi fini. Il Cavalli tutto sommato è buon diavolo e somiglia a quello che circuisce Bulkagov o ad alcuni personaggi di Gogol o all’Arlecchino di Blok… e lasciatelo divertire e non siate così permalosi da risultare poi anche ridicoli!
    Comunque lo crediate o no, io non conosco questo Cavalli, e mi piacerebbe tanto parlare con lui, perchè suppongo che abbia una ” fantastica mente” al pari (non lo so) di quella dell’Onofrio, di certo più ironica, ecc.

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    • marconofrio1971

      Sagredo tanaaa!!! tu non appezzi e non riconosci l’ironia quando la fanno gli altri in risposta alle tue “provocazioni”. Sei come i camerieri al ristorante romano “La parolaccia”: per te il gioco è punzecchiare (e allora tutto è ammesso e giustificato), ma se ti rispondono a tono, il gioco guarda caso non ti piace più. Tipico di un egocentrico infantile e geniale, quale tu sei. Come al solito entri in crisi quando qualcuno in questo blog (tranne Valerio Gaio Pedini) riceve lodi e complimenti; è allora che ti senti chiamato al ruolo di “bastian contrario”, di “avvocato del diavolo”. Se poi invece le lodi riguardano te, la faccenda fila liscia come l’olio: sono lodi più che lecite e giuste. Altro che permaloso “l’Onofrio”… caro sparapizze alias pernacchia alias cavalli etc., tu scorgi la pagliuzza altrui e non senti la trave che hai nell’occhio! Comunque, visto che ti piacciono tanto, abbiti i miei più sinceri e multicentrici complimenti: sei un grande poeta e un finissimo dicitore, incomparabilmente il migliore di tutti. “Fantastica mente” tuo 🙂 PS. Mi scuso con gli utenti del blog per il tono privato e personalistico di queste “comunicazioni”…

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      • Caro Sagredo,
        se avessi letto meglio quello che ho scritto, (oppure se non avessi finto di non averlo letto) ti saresti reso conto che, per quanto mi riguarda per lo meno, io mi sono limitata in modo del tutto distaccato a una semplicissima analisi testuale del commento in questione, che mette in luce la mancanza di logica, oltre che la mancanza di conoscenza semantica, di Attanasio Cavallo Vanesio (“mammamia le arie che si dà”, come cantava Rascel nell’omonima commedia musicale da cui lo pseudonimo è tratto) , evitando sia i toni accesi o offesi, che qualsiasi giudizio sulla poesia di Onofrio, perché sarebbe stata un’inutile ripetizione, dato che ne avevo già scritto.
        Nessuna reazione da “interventista”, come suggerisci:
        “però devo sottolineare che quel che scrive serve a far scaturire le reazioni degli “interventisti”, a far conoscere il loro pensiero interiore che altrimenti non sarebbe uscito fuori”.
        Il mio “pensiero interiore” era già uscito fuori. Non serviva lo sproloquio sconnesso di Attanasio, manco fosse Pavolv coi suoi cani a far scaturire alcunché.
        Dunque né permalosa né ridicola di sicuro. Pura logica caro mio, pura logica.
        Ho solo chiesto che l’autore del commento fornisse qualche esempio.
        Ovviamente non ho avuto risposta (quando si scoprono gli altarini chi li ha eretti in genere scompare), che non poteva ovviamente esserci, perché il commento di Attanasio aveva il solo scopo di creare genericamente disturbo, di provocare insomma. E con qualcuno ci è riuscito.
        In genere, ed è un fatto ben documentato in psicologia, più si usa il discorso logico e i toni pacati di fronte a un’aggressione verbale, più l’aggressore carica i toni. Perché il suo solo scopo era quello di provocare una reazione uguale e contraria e far passare l’altro da aggressore. E se vede che non ci riesce si arrabbia.
        E c’è chi ci casca in questo giochetto facilone, perché non se ne rende conto.
        Purtroppo ho già notato che ci sono casi in cui i commenti, in questo blog, come in molti blog italiani, troppo spesso degenerano (parlo in senso generale) in attacchi personali, in sfoghi umorali, in manifestazioni di rabbie e risentimenti davvero infantili. E magari pure con corredo di insulti. E lì sì che emerge la vera natura di ciascuno.
        Peccato. Altro che poesia.

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  15. antonio sagredo

    Ma, scusate, non ho attaccato alcuno: non è nel mio stile, semplicemente mi diverto e non avete colto il gioco delle maschere, anche pirandellianamente! Ma vi pare che non apprezzi davvero i versi di Onofrio?
    Non solo li apprezzo, ma talvolta l’ho anche saccheggiati e deformati: che per me è il massimo riconoscimento! Dunque, “cari miei, qual millennio è adesso nel nostro cortile?”. Per natura mia voglio bene a chi ama la Poesia e ne voglio ancora di più a chi non la ama affatto! Cara Francesca, mi hai preso troppo sul serio! Quando io e Onofrio ci incontriamo, passiamo 5 minuti a scherzare con battute anche salaci: è un puro divertimento della mente fine a se stesso, e parliamo di poesia altrui con leggerezza e mai in mala fede… eppure come Poeti dovreste comprendere che la Poesia è anche gioco anche quando è tragica: un gioco tragico come in Shakespeare! che tra l’altro sapeva bene che era anche un giro di parole per prendere in giro tutta l’umanità… come faceva Omero e Dante!
    ma… a Voi tutti dono:

    Figure e maschere

    Di metallo etrusco era tutto il cielo
    e l’orizzonte colmo di un vento romano scabro.
    Donava la terra ai volti parvenze d’oro,
    fulvo era il cuore del sole ferito dal ramarro.
    Radici di miele e sciami di madrepore giganti
    ornavano una fievole menzogna sulla soglia.
    L’Ospite giunse con occhio di re,
    e polvere di rame e vigna maturata la scia
    di baci rossi scodinzolante
    coda di levriero.

    Donato il tralcio e smarrito il passo
    esitava la luce al centro della sala,
    mentre un Pierrot di porpora perle infilava
    alla sua veste di sorriso e di chimera.

    Arlecchino, di grappoli e di polipi,
    soffocava il suo gozzo… nei colori!

    1976
    —————————-
    antonio sagredo è morto!
    viva antonio sagredo!

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  16. Egregio Signor Sagredo / Cavalli e altri “alias” fantasiosi,

    “Eh! Da un cavallo non si può pretendere tanto!”
    ho scritto ieri, alludendo alla nota canzoncina cantata negli Anni Cnquanta/Sessanta da Renato Rascel “Attanasio cavallo vanesio”.
    Anch’io ho solo commentato il suo scritto che traspira rozzezza nella metafora del rastrello e offre un maldestro tentativo di sminuire, anzi, distruggere criticamente la poesia e la dizione di Marco Onofrio.
    In forma di domanda ho criticato il suo commento e le ho ricordato lo stratagemma di Demostene per correggere la dizione.
    Questo sarebbe da “interventisti”? Lei avrebbe provocato per “far scaturire le reazioni degli “interventisti”, a far conoscere il loro pensiero interiore che altrimenti non sarebbe uscito fuori? Ma che azione eroica!
    Il mio “pensiero interiore”, come lo denomina lei, è sempre chiaro nei miei scritti, dato il mio carattere limpido e trasparente, mai subdolo, ipocrita e infingardo. Io “esco fuori” (si può anche uscire “dentro”?) ogni volta che mi piace commentare poesie, ma soprattutto quando vedo offendere gratuitamente chi non lo merita per nessun motivo.
    Spirito cavalleresco? E chissà! Del resto si parlava di … cavalli!

    Giorgina Busca Gernetti

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  17. Cari amici,

    credo che la poesia commentata da poeti critici o critici poeti e dai poeti stessi corra il rischio di scomparire, perché ciascun autore osserva e giudica la poesia dell’altro dal punto di vista della propria poesia. Il che è quanto di più sbagliato ci possa essere. In questo Antonio Sagredo è l’esempio più calzante, ma ci sono una infinita schiera di “poeti” i quali vorrebbero sentirsi dire dal critico commentatore le cose che loro credono giuste. Ovviamente, tutto ciò è assurdo oltre che illogico. Ecco la ragione per cui ciò che va sotto il nome di critica della poesia è solo un racconto imbonitorio e apologetico. Quello che dovrebbe fare un critico contemporaneista è semplicemente esplicitare la problematica estetica che la poesia affronta, e non altro, che non compete al critico.

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    • “ciò che va sotto il nome di critica della poesia è solo un racconto imbonitorio e apologetico.” G.L.
      Mi auguro proprio che non sia così.
      “imbonitorio” poi mi sembra un po’ troppo, dato che deriva da “imbonitore”, cioè colui che, interessatamente, esalta le qualità inesistenti di qualche cosa (Treccani ≈ ciarlatano).

      Giorgina

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  18. antonio sagredo

    Come il cammino sul molo irriverente segue incerto
    una luce franta che conduce a un sentiero cieco,
    ma un oblio che vai a cercare ha la morte altrove
    e non sai il canto di una nostalgia che non ha passato.

    Oggi ho ascoltato con le dita il continuo sconforto del mare
    sui granuli… le implorazioni e le suppliche, i gridi, e i suoi lamenti,
    e compassione ha avuto – lui di me! – con la sua belante letania,
    e non la sfida di un gabbiano con uno sguardo in picchiata: amami!

    E ho sentito sui malleoli i vagiti asmatici delle sue risacche
    e dei cavalli omerici le scintille dalle criniere dei marosi,
    dagli occhi di Diomede gli uncini dei suoi furori come braci –
    – mi sono ricordato l’infanzia delle vigilie eretiche:

    le bestemmie contro gli angeli e tutti gli dei in ogni tempo,
    i pugni dei miei occhi contro tutti gli altari e i cristi crocefissi,
    le omelie blasfeme da pulpiti e patiboli come frustate inquisitorie
    perché interdetto è il condannare per chi il diniego e la smorfia

    sono un sacramento nuovo contro ogni verbo irrazionale – ma non ho
    timore del puzzo delle scimitarre e dei candelabri, né di quelle croci –
    invano attendi una liberazione da questi barbari legami che solo
    su questa terra infame sono divisi e uniti per sterminarci tutti!

    antonio sagredo

    Campomarino, 23 luglio 2011
    (ora prima del nuovo giorno)

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  19. antonio sagredo

    Sono certo che vi sono centinaia di lettori di questo blog che apprezzano i miei versi, e quindi li chiamo a raccolta per sostenermi: il Poeta senza un ascoltatore non vale nulla, e poi che non sono affatto un nulla… a Voi miei lettori il dovere gioioso di difendermi!
    antonio sagredo

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  20. Gino Rago

    Lo grido a tutti e a tutte: “Guai a chi mi tocca Antonio Sagredo”, come notista e come poeta. E’ tra i pochi che conosco che ama i volti e i corpi che
    cambiano perché raccontano la storia di una vita…E da sé allontana maschere, plastiche facciali, trucchi

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    • Io avrei scritto parole di apprezzamento per alcune composizioni di Antonio Sagredo, per esempio sull’ultima qui postata (“Come il cammino sul molo irriverente segue incerto”), se subito non mi paralizzasse la mano e soprattutto la mente quella sua (per me) inaccettabile abitudine di stroncare e offendere nascondendosi dietro una maschera (“alias” stravagante) per ricomparire “vero” quando scrive a Giorgio o ai suoi preferiti. Anch’io non apprezzo le plastiche facciali e mai mi farei togliere dal viso i segni del tempo che è mio perché l’ho vissuto io, nel bene e nel male. Ma la maschera della pavidità mai.
      Amo le maschere solo a teatro e nel Carnevale di Venezia (il più bello).

      Giorgina Busca Gernetti

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      • letizia leone

        …dunque non ama la letteratura e la poesia, gentile Giorgina? Shakespeare, Donne, Pessoa, Belyi? e non posso mettermi ad elencare i secoli. Ma d’altra parte vedo che ama il restauro…Ora spero che il signor Cavallo (con quel suo anadarsene nel buio dei cortili) non sia partito per sempre alla volta di tundre e steppe con il suo cannocchiale aristotelico al collo!
        In quanto al signor Sagredo e alle sue poesie che intercedono in sua vece come veri e arguti interventi critici dedico i versi del Marino:

        È del poeta il fin la meraviglia
        (parlo de l’eccellente non del goffo):
        chi non sa far, stupir vada alla striglia.
        …e a dispetto dell’ultima parola giuro che questa volta il signor Cavallo non c’entra!

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        • Gentile Letizia Leone,
          dove ha letto, dove ha mai potuto arguire che io “non ama la letteratura e la poesia, (…) Shakespeare, Donne, Pessoa, Belyi”?
          Dov’è il signor Sagredo e dove sono le sue poesie che intercedono in sua vece come veri e arguti interventi critici?
          I versi del Marino mi sono ultranoti, data la mia pluriennale professione e le mie private letture.
          Superfluo, anzi, da presuntuosi venire a tenermi una lezione di letteratura proprio oggi, dopo i pessimi esempi dei giorni scorsi.
          Comunque grazie per aver sprecato il suo tempo prezioso per una come me che “ama il restauro”!
          Ben venga il restauro, specialmente a Pompei.
          Giorgina Busca Gernetti

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  21. Gentili poeti e lettori del blog “L’Ombra delle Parole”

    richiamo la vostra attenzione sull’acutissima (?) affermazione della Signora Letizia Leone, facente parte della Redazione, quindi persona senza dubbio di alto livello culturale:

    “…dunque non ama la letteratura e la poesia, gentile Giorgina? Shakespeare, Donne, Pessoa, Belyi? e non posso mettermi ad elencare i secoli. ”
    (commento di Letizia Leone a proposito di una mia risposta a Gino Rago circa il poeta Antonio Sagredo)

    Traete voi le conclusioni.
    Grazie. Cordiali saluti

    Giorgina Busca Gernetti

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    • Boh, sarà per le quote rosa… 🙂

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    • letizia leone

      Giorgina Busca Gernetti,
      il mio argomentare parte da domande retoriche amplificative che vogliono sottolineare la sua contradictio in adiecto, “amo le maschere solo a teatro”.
      E il teatro non è poesia e alta letteratura? E da qui le citazioni di Shakespeare, lo specchio e il suo doppio , Pessoa e gli eteronimi a voler sottolineare una modalità fondamentale del fare poetico che riguarda il discorso in questione. La poesia del Marino è dedicata ad Antonio Sagredo (che ovviamente conoscerà a memoria) e non è dunque rivolta a lei nell’ambito di una ipotetica presuntuosa lezione da maestrina. Il cattivo esempio della mia poesia è una sua opinione e la rispetto, così come è una mia opinione quella sul restauro protonovecentesco di alcuni suoi versi.
      Tra l’altro siamo colleghe sia nell’insegnamento che nello studio del pianoforte che ho concluso con studi sulla dissonanza e l’improvvisazione jazz, molto utili nel farmi abbandonare certe cattive abitudini di sterile pedanteria. Ma questo dubito che possa interessare…
      Tutto il resto non merita commento.
      La saluto, Letizia Leone

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