Pubblicato sul n°304 di POESIA, Crocetti Editore (Maggio 2015)
N.B. I testi qui riprodotti sono una parte di quelli pubblicati nella monografia del numero di POESIA citato.
INTRODUZIONE di Francesca Diano
In un primo momento abbaglia, poi stordisce, poi oscura, poi consola. Infine illumina, seppur di una flebile luce, la tenebra in cui ti ha fatto penetrare. È quanto si prova nel leggere la parola di James Harpur e il suo inglese corrusco.
Un lungo percorso di ricerca escatologica, tanto personale quanto collettiva, il suo, che emerge chiarissimo dalle sue stesse parole. “Sono giunto alla poesia solo negli anni dell’università. D’un tratto mi sono trovato ad obbedire a un impulso sotterraneo e decisi che la poesia era un’impresa nobile e un mezzo per esplorare le fondamentali questioni spirituali, quali l’esistenza di un Dio, se la vita abbia un senso, cosa c’è dopo la morte, ecc. questioni che nella mia vita sono sempre state una forza centrale e propulsiva. Forse tutti quegli uomini di chiesa nel mio DNA… La poesia mi apparve una missione, il mezzo che mi avrebbe permesso di penetrare l’escatologia della vita o, almeno, di venire a patti con i miei rapporti personali, con i grandi temi dell’esistenza. Da questo punto di vista, per me scrivere era ed è tuttora un’attività sacra, quasi quanto la meditazione e la preghiera.” [1]
Non sono molti, oggi, i poeti che vedono nella poesia un’attività che li collega al Sacro, così com’era alle sue origini. Ma Harpur è un poeta delle origini. Un Urdichter, si potrebbe dire, poiché la sua poesia attinge proprio a quel magma originario da cui la Parola emerge come lògos, come portatrice di tutti i significati possibili e, allo stesso tempo, come potenza ordinatrice dell’universo. Che separa, distingue, nomina e ordina.
Che questa sia la funzione che Harpur le attribuisce è forse sommamente evidente nel lungo poemetto Voices of the Book of Kells, (Voci del Libro di Kells) esplorazione della genesi di questo prodigioso Evangeliario miniato, dell’animo degli anonimi monaci irlandesi che lo miniarono e, allo stesso tempo, della genesi dell’arte. In quella sfera misteriosa della creazione, che è anche lotta costante fra la materia e lo spirito.
Nato in Inghilterra nel 1956, da padre irlandese e madre inglese, di antiche ascendenze anglonormanne, Harpur tiene a spiegare che il significato originario del suo cognome, documentato già nel XII secolo, è arpista, dunque poeta. Lo fu sicuramente un suo antenato. Ma discende anche da una tradizione familiare di uomini di chiesa, Church of Ireland, come lo fu suo nonno e altri prima di lui. Tuttavia Harpur ha scelto un’altra strada. In lui si sono fuse l’anima dell’arpista medievale e quella del mistico. Perché Harpur è un cantore del Sacro. Nel senso più ampio del termine.
La sua prima raccolta organica, A Vision of Comets, (Anvil Press) è del 1993 e raccoglie buona parte dei testi poetici scritti durante il suo soggiorno a Creta, dove ha vissuto per un anno insegnando inglese. L’isola egea gli fa esplodere dentro una potenza poetica e visionaria che diventerà negli anni la sua voce originale, e la poesia che dà titolo alla raccolta ne è riconoscimento e accoglimento.
Le raccolte successive, The Monk’s Dream, 1996 Oracle Bones, 2001 The Dark Age, 2007, Angels and Harvesters, 2012, tutte edite da Anvil Press, insieme a The Gospel of Joseph of Arimathea, (Iona Books) 2007 e Voices of the Book of Kells, (2012), confermano la natura esplorativa di questa ricerca, attraverso i due elementi che raccolgono e alimentano la poesia di Harpur: la luce e la tenebra, che non solo non le è opposta, ma le è complemento speculare ed essenziale.
Uno degli aspetti più profondi e significativi della mentalità celtica è la fascinazione per tutto ciò che è passaggio, trasformazione, per il liminale, per quello spazio e quel tempo che si insinuano fra il momento in cui tutto finisce e quello in cui tutto inizia di nuovo, secondo un tempo ciclico, per quello iato abissale che si apre sul mistero che irrompe fra il “non più” e il “non ancora”. Il non casuale twilight di Yeats. Questo spazio incommensurabile, temibile nel quale si inoltra il pensiero del mistico e dell’artista.
È questo spazio che Harpur esplora. Perché per lui il faticoso e misterioso processo creativo è simile a quello della ricerca spirituale. Lo afferma più volte lui stesso. Un’avventurosa, travagliata esplorazione come uomo e come artista, non immune dal dolore, che tanto somiglia al fortunoso viaggio di Brendano, cui del resto Harpur dedica in The Dark Age un testo qui presentato.
Come dice Adam Zagajevski, “nella poesia si mette ciò che non si sa”. Ma il non sapere richiede che solidi siano i supporti da cui muovere. Per non perdersi nelle fauci del nulla. Il percorso che Harpur si è scelto quindi, chiede strumenti adatti. La sua formazione classica (conosce perfettamente il greco e il latino e gli autori della classicità, di cui ha fatto alcune traduzioni) lo spinge ad esplorare le possibilità che la metrica antica, greca soprattutto, offre alla sua lingua. Trimetro giambico, pentametro, distico elegiaco suonano nel suo inglese con lo stesso elegante equilibrio classico dei testi redatti dagli antichi monaci e santi irlandesi che preservarono la cultura antica e la mantennero viva nelle abbazie, nei cenobi e nei monasteri da loro fondati. Ma l’attingere al patrimonio metrico degli antichi non è solo un espediente tecnico, è l’attingere direttamente alla fonte poetica di quella cultura, da cui non si sente affatto separato o lontano.
Tipicamente irlandese è questa fusione armonica – quasi un fluire dell’una nell’altro – fra l’antica cultura celtica, rutilante di meandri, miti visionari, eroi luminosi anche se sconfitti, percorsi circolari e un cristianesimo coltissimo, esplorativo, costellato di santi anacoreti, misticismo, bizzarria e magia. Una spiritualità in fondo non poi così diversa, nelle sue componenti, da quanto l’ha preceduta in quell’isola.
Ed è infatti questo momento aurorale del cristianesimo, irlandese, ma anche latino, greco e siriaco, che affascina Harpur. Non meno del lento estinguersi dell’antica tradizione classica nei suoi epigoni. Si veda la sua traduzione di Boezio dal titolo The Fortune’s Prisoner, oppure L’augure a riposo, in Ossa oracolari; non meno del patrimonio mitologico celtico, che è costantemente presente in sottofondo.
Nell’interazione fra questi due momenti nella storia dell’Occidente, fra il paganesimo e il cristianesimo, fra l’antico e la modernità, Harpur non legge solo il passaggio fra due epoche, fra due culture, ma un aspetto ben più profondo e inquietante; la lotta, appunto, fra natura e spirito. Come è nel mito di fondazione della conversione irlandese al cristianesimo da parte di San Patrizio, in cui i serpenti che egli scaccia dall’Irlanda, non sono altro che i pericolosi “rettili della mente” di Blake, niente affatto sconfitti.
“Il mio rapporto con la religione, col Cristianesimo e la chiesa è complesso. Mi considero un agnostico rinato, o un ricercatore spirituale. Sono attratto dai mistici di ogni religione e cultura, da Meister Eckhart a Rumi, a Kabir e dal più profondo e radicale maestro spirituale dei tempi moderni che io abbia mai incontrato, J. Krishnamurti. Nutro profonda diffidenza nei riguardi delle strutture religiose istituzionali e delle gerarchie e mi piace il commento di Blake, che, per il culto religioso, un pub sarebbe un luogo migliore di una chiesa”, afferma ancora Harpur nell’intervista già citata.
Fra quelle che Harpur definisce “questioni che nella mia vita sono state forza centrale e propulsiva”, non di secondaria importanza è il problema del Fato, il chiedersi se un destino segnato esista, se lo si possa cambiare. È sicuramente centrale in The Monk’s Dream, raccolta pubblicata nel 1996, successivamente alla morte del padre. La poesia che dà il titolo alla raccolta si riferisce alle sospette circostanze della morte del poco amato re Guglielmo II (1056-1100) in un incidente di caccia. Pare che un anonimo monaco avesse sognato la fine del re e l’avesse fatto avvertire, ma questo non cambiò il fato che lo attendeva. La sezione centrale di questa raccolta è dedicata interamente alla malattia, alla morte e ai funerali del padre di Harpur ed è una lunga meditatio mortis, ma anche una profonda riflessione sul destino finale di ogni vita. E ancora ritorna, come questione aperta, in Ossa oracolari, dove l’eroe nazionale Cuchulainn, protagonista del ciclo mitologico dell’Ulster, sfida il proprio destino già segnato, ignorando volutamente i segni premonitori e i tabù che non potrebbe infrangere, andando consapevolmente verso la morte. Morendo da eroe e da uomo libero.
Fondamentale è stata per lui, in età giovanile, la lettura di Jung e la scoperta della sua teoria dell’inconscio collettivo, che gli dischiudono una nuova visione del mito, quale narrazione fondante della psiche. Così Harpur legge, nelle vite dei santi, talvolta bizzarre e sorprendenti, una ricchezza di miti e leggende non meno articolati e variegati di quelli del mondo pagano e classico, tale da tracciare una mappa della psiche umana.
In questa inesausta ricerca della luce del Sacro attraverso la tenebra della psiche, individuale e collettiva, e della storia dell’uomo, Harpur conversa con i santi e i mistici e gli asceti pagani e cristiani, talvolta anonimi o immaginari, spesso realmente esistiti, ai quali non di rado dà voce. Con Jakob Böhme, con Giuliano di Norwich, con Richard Rolle, con Marguerite Porete. E, soprattutto, in un poemetto di circa 400 versi, con San Simeone lo Stilita, l’anacoreta la cui vita è una parabola della via negationis che, non potendo fuggire dal mondo in orizzontale, lo fuggì in verticale, dimorando per trentasette anni su di una colonna alta quindici metri. Negando se stesso, la propria natura, la propria umanità, il mondo, alla ricerca dell’Assoluto. Ma solo per accorgersi poi, che il mondo accorreva a frotte verso di lui, talché sotto la sua colonna, come dice Harpur, si radunava una sorta di permanente Woodstock!
San Simeone, come lo scrittore, come il poeta, ha sete d’isolamento, di solitudine, ma come l’artista creatore, comprende poi di non poter trascendere, di non poter negare il mondo. Così come lo comprese Faust. Sostenute da un virtuosismo linguistico prodigioso, da una perizia tecnica degna di un antico bardo irlandese, tensione, ascensione, sete e cerca sono i punti nevralgici della sua poesia – poesia mistica, religiosa si potrebbe dire, consapevoli che per Harpur un mistico è anche l’artista – che forse ha solo in Gerard Manley Hopkins, seppur in modo e con origine del tutto diversi, un predecessore in lingua inglese. Forse soprattutto nella ricerca di un metro nuovo, di una lingua nuova, capaci di esprimere l’ineffabile, l’invisibile, l’ascesi, ma che nascono dalla consuetudine con l’antico, ponendosi Harpur volutamente al di fuori delle correnti contemporanee postmoderne, e tantomeno limitandosi a un chiuso mondo, in cui l’io rimane prigioniero delle cose cui arriva la sua vista fisica. No, il mondo di Harpur è fatto più di visioni, di rivelazioni che dalle cose emanano – della capacità di vedere il miracolo, il mistero, irrompere nel quotidiano, come nel testo Angeli e mietitori che dà il nome all’ultima raccolta – e non ha confini né di tempo né di luogo. Ė terra incognita, l’oceano sconosciuto su cui si avventuravano Brendano e i suoi monaci alla ricerca dell’Isola dei Beati, incontrando nel corso del viaggio mostri minacciosi e dèmoni. È la sua stessa anima di poeta e di uomo.
L’uso di immagini sorprendenti e inattese, il concatenarsi delle metafore, la fluidificazione del mito, che scorre potente verso di noi con l’ardore bruciante della fiamma ma con veste rinnovata, e della sua potenza visionaria, la profonda conoscenza del patrimonio culturale dell’Irlanda celtica, della cultura classica, della tradizione cristiana, l’uso sottilissimo del linguaggio, fanno di Harpur il più irlandese dei poeti irlandesi. Perché è su queste basi culturali che si è formata l’Irlanda moderna. Tutta la sua produzione poetica è un unico, ininterrotto dialogo, che fluisce lungo quel costone semi-illuminato che è il passaggio dal mondo antico e pagano alla modernità, e dalla modernità alla contemporaneità. È una poesia fortemente impregnata di spiritualità dunque, molto nella grande tradizione poetica bardica irlandese, ma una spiritualità che ha una profondissima connessione con la modernità.
Il travaglio del passaggio da un’epoca a un’altra infatti è l’eco del nostro, le domande che torturano i suoi asceti, cristiani e pagani, i dubbi che attanagliano i suoi uomini, i suoi peccatori, i suoi indovini, i suoi monaci, sospesi tra un mondo e un altro, sono i nostri, la fine drammatica di un’epoca che si avvia incerta verso l’ignoto è la nostra.
Francesca Diano
James Harpur è nato nel 1956 da genitori angloirlandesi e da molti anni si è trasferito a vivere nella Contea di Cork, a Clonakilty. Ha compiuto studi classici, approfondendo poi la storia e la letteratura irlandese dei primi secoli del cristianesimo, ma possiede anche una solida formazione di latinista e di grecista, ha studiato l’ebraico e ha soggiornato per lunghi periodi sull’isola di Creta, ambiente che ha ispirato molte delle sue opere.
Ha pubblicato varie raccolte di testi poetici con la Anvil Press e una meravigliosa traduzione di Boezio, che ha intitolato Fortune’s Prisoner. Ma traduzioni ha pubblicato anche da Dante, da Virgilio, da Eschilo, da Plotino ecc. Da A Vision of Comets, a The Monk’s Dream, da The Dark Age a Oracle Bones a Voices of the Book of Kells, le sue raccolte poetiche gli hanno guadagnato moltissimi riconoscimenti e numerosi premi nazionali e internazionali. Nel 2007 ha pubblicato, con la Iona Books, The Gospel of Joseph of Arimathea, testo in prosa e versi.
Fra i molti premi e riconoscimenti, nel 1995 ha ricevuto the British National Poetry Prize, borse dalla Cork Arts Society, dall’Arts Council, dall’Eric Gregory Trust e dalla Society of Authors. Nel 2009 ha vinto il Michael Hartnett Award. Nel 2012 ha pubblicato la quinta raccolta poetica, Angels and Harvesters, sempre con la Anvil Press. E’ direttore della sezione poesia di Southword, uno dei più importanti e autorevoli periodici letterari irlandesi e della Temenos Academy Review.
È stato poeta residente per il Munster Literary Centre, la Princess Grace Kelly Irish Library di Monaco e la Cattedrale di Exeter. Tiene corsi di scrittura poetica in varie università sia in Irlanda che in Gran Bretagna, letture pubbliche, televisive e radiofoniche e attualmente sta conducendo un lavoro su Ulisse e l’Odissea.
Nota di traduzione
Ho incontrato la poesia di James Harpur circa otto anni fa, quando scoprii, durante alcune ricerche, il poemetto in quattro parti Voices of the Book of Kells e ne rimasi fulminata. Avevo visto l’Evangeliario a Dublino, ne avevo anche scritto e in questo suo testo lo ritrovavo in tutta la sua gloria, ma con il dono della Parola. Così lo tradussi subito, perché per me tradurre è il modo più diretto e profondo di conoscere un testo. Nemmeno la più attenta lettura permette di penetrare con altrettanta precisione nei meccanismi più profondi della creazione. Nel corso degli anni, con Harpur è nato un bellissimo rapporto epistolare, che mi ha permesso di conoscere non solo un grandissimo poeta, ma anche una persona di profonda generosità e umanità. Ho tradotto altre sue cose nel tempo e sono grata a Nicola Crocetti che, con la sua eccezionale sensibilità per la grande poesia e per i grandi poeti, ha immediatamente compreso, quando gliene ho parlato, il valore di un poeta di grande statura, famosissimo all’estero ma sconosciuto in Italia e ha voluto ospitarlo in anteprima nazionale nella sua rivista.
Tradurre l’opera di Harpur non è cosa semplice, e per molti motivi; prima di tutto perché è un poeta grande, ormai entrato nella storia letteraria del suo paese; a poeti così ci si accosta con grande timore e reverenza. Poi perché il suo linguaggio, pur limpidissimo e cristallino, mai fumoso o scontato, è intessuto di rimandi, di stratificazioni culturali, di echi delle tante tradizioni culturali e letterarie che in lui si fondono. Poi per la musicalità e la preziosità della parola e per l’arte somma nella costruzione dei testi. Le allitterazioni, le assonanze, le rime usate con grande parsimonia e dunque particolarmente significative, la danza continua dei suoni. È un’impresa da far tremare i polsi.
Credo che, senza la mia lunga frequentazione della tradizione letteraria irlandese, senza il mio amore per quella terra, senza averci vissuto, e senza tutto quello che da mio padre mi è giunto in eredità dal mondo classico, senza il mio amore per le sfide, ma soprattutto senza l’approvazione di Harpur stesso delle mie traduzioni, non avrei avuto nemmeno il coraggio di accostarmi alla sua opera. In questo mio lavoro, che ho compiuto con grande rispetto e con la consapevolezza che mai riuscirò a rendere appieno la bellezza dell’originale, ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di trasmette quello che ho capito e sentito nei suoi versi, le grandi emozioni che mi hanno comunicato traducendoli, la musica che ho cercato di ricreare in italiano con l’uso di endecasillabi, settenari, ottonari, alessandrini, assonanze e allitterazioni. Certo non ci sono riuscita che in piccola parte, ma ci ho messo tutta me stessa.
Francesca Diano
Francesca Diano è nata a Roma. Si è laureata in Storia della Critica d’Arte e ha vissuto a Oxford, Cambridge, Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e all’Istituto Italiano di Cultura e in Irlanda, dove ha insegnato all’Università di Cork. Dal 1981 è traduttrice letteraria di narrativa, poesia e saggistica e ha collaborato con Fratelli Fabbri, Cappelli, Neri Pozza, Donzelli, l’irlandese Collins e Guanda. È la traduttrice italiana delle opere della grande scrittrice indiana Anita Nair. Autrice di poesia, saggi e narrativa, nel 2012 ha vinto il Premio Teramo. Ha tenuto corsi di Storia dell’Arte all’Università per Stranieri di Perugia e seminari di traduzione letteraria, ha organizzato convegni ed eventi, fra cui Terrazza sull’India per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Fiabe d’amor crudele, 2013 Edizioni La Gru e nel 2010 il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese.
[1] Intervista su Poetry Ireland Review, N° 105 Inverno, 2011/12
Da Visione di comete
A Vision of Comets 1993
Mito modificato
La serpe stava immobile, l’essenza
Di generazioni di serpi compressa
In ciascun atomo di nervi e muscoli;
Le verdi spire oleose scintillanti
Con l’asciuttezza del colore a smalto.
Il santo sereno, sangue caldo
Si piegò e versò gocce d’acqua santa
Finché come uno spasmo di saetta forcuta
La serpe, crocefissa, sputò e risputò fuori
Il vangelo con sibili e veleno,
Sventagliando come un fioretto la lingua cieca,
Distaccata la testa dalla coda
Dal peso abnorme di solida carne.
Uscendo dalla pelle, iniziò a tremare,
Poi saettò attraverso le felci
Che crepitarono come pioggia su un’inferriata viva.
Ovunque andasse i serpenti svanivano:
Lui scagliava una croce,
Loro guizzavano in tane di volpe.
Lui schioccava le dita,
Loro sgusciavano fra le crepe di lapidi.
Diceva “Abracadabra”
E loro si scioglievano diventando miraggi.
Ma mentre il santo gettava via i sandali
Le serpi si fecero strada a morsi sottoterra,
E s’incontrarono, e serpe mangiò serpe
Finché un solo serpente, pregno dei propri succhi,
Il dorso incrostato dei colli dell’Irlanda
Stette immobile.
Ed ora sta in attesa,
S’ingrossa sotto l’esile pelle del Nuovo Testamento,
Attendendo che i santi su San Pietro
Crollino ad uno ad uno,
Come tante oche ritte al tirassegno.
.
Revised Myth
The snake lay still, the essence
Of snake generations compressed
Into each atom of nerve and muscle;
Its oily green coils glistening
With the dryness of glazed paint.
The warm-blooded serene saint
Leant over and let drip drops of holy water
Until like a fork of lightning spasm
The snake, crucified, spat and spat
Back the gospel with hiss and venom,
Its blind tongue flickering foil-like,
Head and tail split from each other
By the great sackweight of solid flesh.
Unpeeling itself, it began to shudder,
Then rocketed through the bracken
That crackled like rain on a live rail.
Wherever he went, the snakes vanished:
He lobbed a cross.
They darted into foxholes.
He clicked his fingers,
They slipped between the cracks of gravestones.
He mouthed ‘Abracadabra’,
They melted into their own mirages.
But while the saint kicked off his sandals
The snakes chewed their way through thick earth,
And they met, and snake ate snake
Until just one serpent, sweating in its juices,
Its back crusted with the hills of Ireland,
Lay still.
And now it lies waiting,
Swelling under the thin skin of the New Testament,
Waiting for the saints on St Peter’s
To drop off, one by one,
Like stand-up ducks at a rifle range.
Visione di comete
Il volo era in ritardo.
Fuori, il cielo notturno era pulito,
E la terra che tutto il giorno aveva accolto il sole
Ora dormiva nel silenzio.
Poteva essere un’isola greca
O la nuova terra d’America.
Tornava a casa, una buona volta, o cattiva,
E il fermento di ricordi accumulati
Delle amicizie d’un tratto emerse dal centro
Dello stomaco in ondate di nausea inaspettate.
Il tempo ticchettava e i passeggeri sedevano in file
Sotto le tremolanti luci al neon
Cercando di alleviare l’inquietudine
Del non sapere quando il decollo venisse annunciato.
Ed infine, affondato del tutto
In emozioni dolorose di perdita e rimpianto,
Fu sorpreso da un senso di pace,
Da un’inspiegabile intima certezza
Che ritornare a casa fosse giusto.
D’improvviso si sentì sereno e, voltandosi,
Vide la gente alzarsi tutta insieme,
Radunando in fretta i bagagli e muoversi
Verso il gate per l’imbarco.
Tornò indietro risalendo la folla per cercare le borse
E salutare quelli che erano stati cari amici.
Stranamente, avvicinandosi al posto in cui era stato
Vide qualcosa che gli parve stellata oscurità –
Come se il muro si fosse dissolto –
E la gente svanire dai bordi della vista.
Gli parve di conoscere il giovane lì ritto.
Era certo all’esterno perché l’oscurità
Si dilatava intorno chiudendo gli orizzonti.
Si avvicinò all’uomo, che indicò il cielo.
E lì, a incendiare il buio di spruzzi d’oro,
Otto comete fulgide solcavano la notte dolcemente,
Lente levandosi, girando, scivolando, immergendosi
Come delfini aurei che balzano nell’azzurro dell’oceano.
Le loro code, da cui emissioni di scintille
Sprizzavano e svanivano, si intrecciavano, muovendosi
Come guidate da un’intelligenza,
Come se le comete fossero guidate con fili d’aquilone
Da questo giovane che muoveva le mani.
Poi le comete presero a dissolversi –
Ma le particole si riallinearono e si fusero
In tratti luminosi con punti e ghirigori –
E capì ch’erano parole ebraiche gigantesche,
Che gli dicevano quale fosse il suo scopo,
Quale la sua missione sulla terra.
.
A Vision of Comets
The flight was delayed.
Outside, the night sky was clear,
And the land that had received the sun all day
Now slept in silence.
It could have been a Greek island
Or the new land of America.
He was returning home, for good, or for bad,
And the welter of accumulated memories
And friendships loomed up from the pit
Of his stomach in sudden queasy waves.
Time tickled on and passengers sat in rows
Under the flickerings of neon
Slowly numbing themselves to the worry
Of wondering when the flight would flash up.
Eventually, sunk in the midst of
Painful feelings of regret and loss,
A sense of peace overtook him,
An inner inexplicable assurance
That his journey home was right.
He felt suddenly at ease and, turning round,
Saw people rising as one from their seats,
Quickly assembling their luggage and moving
Towards the gate for their departure.
He went back against the flow to find his bags
And say goodbye to those who had been his intimates.
Strangely, as he approached the place he’d been,
He saw what seemed to be starry darkness –
As if the wall had melted away –
And people vanishing into the fringe of his eyes.
He somehow knew the young man who stood there.
It must have been outside for the darkness
Stretched all around sealing the horizons.
He approached the man, who pointed to the sky,
And there, igniting the dark in golden sprays,
Eight glowing comets moved softly through the night,
Slowly rising, turning, dipping, gliding
Like gilded dolphins hooping through the ocean blue.
Their tails, from which auras of sparkle
Would fizz and fade, were interwoven and moving
As if guided by an intelligence,
As if the comets were on the kite strings controlled
By this young man as he moved his hands.
Then the comets began dissolving –
Yet their particles realigned and coalesced
Into luminous strokes with dots and squiggles –
And he realised they were giant words of Hebrew,
That they were telling him what his purpose was,
What his mission was on earth.
Da Il sogno del monaco
The Monk’s Dream
1996
Il tuffatore di Paestum
Dipingi questo sarcofago di pietra
Con scene del mio convito funebre.
Raduna i miei compagni d’un tempo
E ponili sopra letti morbidi.
Fa’ che il vino sciolga loro la lingua
Carezza le carni dei loro efebi
Succhia a baci dai flauti melodie
Trai armonie pizzicando le lire.
Tutto mi son lasciato dietro.
Scorie di vino mi impastano la lingua
La musica fa stridere il silenzio
E pelle sulla pelle mi disgusta.
Dipingi tinte ricche e veritiere
Fa’ che la sensualità colori
Questo sepolcro gelido ed ascetico –
Ad eccezione dell’interno del coperchio:
Qui fai vedere l’oceano sconfinato
Uno o due alberi con rami come felci
La sagoma di un trampolino;
Che tutto sia essenziale e delicato.
E raffigurami senza veste alcuna
Un’anima nuda in volo e rilucente
Che attraverso la mia vita sensibile
Si tuffa nelle acque dell’oblio.
The Paestum Diver
Paint this stone sarcophagus
With scenes of my funeral feast.
Gather my old companions
And place them on soft couches.
Release their tongues with wine
Caress the flesh of their ephebes
Canoodle tunes from flutes
Pluck harmonics from their lyres.
I have left it all behind me.
My tongue is scummed with wine
Music shrills the silence
And skin on skin sickens.
Paint the colour rich and true.
Let sensuality stain
This cool ascetic tomb –
Except the inside of the lid:
Here show the boundless ocean
A tree or two with fernlike branches
The framework of a diving board;
Keep it delicate and simple.
And show me stripped to nothing
A naked shining soul in flight
Diving through my sensate life
To the waters of oblivion.
.
L’appartamento di mio padre
Discostando le tende tutti i giorni
Vedeva sempre, dal terzo piano, imponente
Un’ansa del Tamigi e gli alberi di Battersea
E la Pagoda giapponese, lì acquattata –
Che s’infiamma – parodia di un gazebo per la banda,
E ai quattro lati ostenta un Buddha d’oro.
Splendeva come lanterna accanto all’intreccio sfavillante
Dell’Albert Bridge di notte.
Se avesse attraversato
Il fiume avrebbe forse sentito un Rinuncia al mondo
Sfuggire dalle labbra dorate o visto Gautama immerso
Nel sonno mortale, il volto rilassato, la carne liberata;
Ad insegnare l’arte del morire persino nella morte.
Oltre il fiume, la notte due occhi ardono
Fissi sul pesante velluto delle tende.
.
My Father’s Flat
Tugging apart the curtains every day
He always saw, three storeys up, a grand
Sweep of the Thames, the trees of Battersea.
And, squatting there, the Japanese pagoda –
Inflaming – a parody of a bandstand,
Its four sides flaunting a golden Buddha.
It glowed like a lantern near the glitzy braid
Of Albert Bridge at night.
If he had crossed
The river he might have heard Renounce the world
Escape the gilded lips or seen Gautama lying
In mortal sleep, his face relaxed, his flesh released;
Even in death, teaching the art of dying.
At night, across the river two golden eyes burn
Into the heavy velvet of the curtain.
.
Il sogno del monaco
“È un monaco e, come monaco, sogna a pagamento;
dategli cento scellini”
Guglielmo II, come riferito da Guglielmo di Malmesbury
“Quello che ti raggiunge non poteva in alcun modo evitarti,
e quello che ti evita non poteva in alcun modo raggiungerti.”
Proverbio arabo
In quell’alba d’agosto, i campi imperlati di stelle luminose,
Un monaco straniero – non disse mai il suo nome –
Venne a dirmi del sogno fatto la notte prima
Insistendo perché lo raccontassi a Re William.
Trasudando malvagità, il re fece irruzione
In una chiesa deciso al sacrilegio:
Agguantato un crocefisso di legno prima
Rose le braccia aperte poi morse le gambe serrate
Quando d’un tratto il Cristo pungolato sferrò un calcio
E gettò a terra il re: mentre era in ginocchio le mascelle
S’aprirono come un pozzo infernale ed un getto
Di fuoco, proiettato in alto fino al cielo, fumigò le stelle.
Quando lo dissi al mio signore, lui ghignò e si lasciò sfuggire
Che lui pure, la notte precedente, aveva fatto un sogno:
Mentre gli praticavano un salasso, il sangue zampillò
Fino a offuscare il sole col suo flusso schiumoso.
E poi, sfidando Dio, il re se n’andò a caccia.
Il sole, folle occhio rosso, tramontava
Traendo ombre azzurre e oblique da ogni ramo e tronco
E con Walter Tyrell come compagno unico di William.
Scrutando in cerca di cervi la radura adornata di felci
Il re, il braccio dell’arco pronto al tiro, era in attesa.
Poi, fra la macchia frusciante, apparve un cervo:
Mirò, scoccò e mancò l’animale, che fuggì.
Walter ne vide immediatamente un altro
E scoccò un dardo… poi fermò il respiro
Poiché aveva colpito il corpo del sovrano,
Che piombò sulla freccia affrettando la morte.
Io, Robert Fitz Hamon, lascio testimonianza
Degli eventi accaduti come mi furon detti.
Venni poi a sapere che Walter fuggì all’estero
E che l’ignoto monaco non venne mai più visto.
Ma spesso io mi chiedo se il suo sogno
Avrebbe mai mutato il destino di William –
Siamo costretti a un piano già segnato dagli astri
O sono libere le nostre azioni?
Questo so: dobbiamo mondare la vita dal sangue
Far penitenza per i peccati del passato
Pregare per l’anima nostra e far pace con Dio
E vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo:
Poiché chissà quando la freccia in mano al fato
Con i muscoli tesi, nel fremito di uccidere
In un giorno ignoto od ignorato
Ci spedirà in paradiso o all’inferno.
The Monk’s Dream
‘He is a monk, and dreams for money, like a monk;
give him a hundred shillings.’
William II, as reported by William of Malmesbury.
‘What reaches you could not possibly have missed you,
And what misses you could not possibly have reached you.’
Traditional Arab Saying
That August dawn, the fields star-dewed with light,
A foreign monk – he never said his name –
Came to tell me of his dream the previous night
Insisting I should tell it to King William.
Oozing maleficence, the king had burst
Into a church intent on sacrilege:
Seizing a wooden crucifix he first
Gnawed its outstretched arms then bit its bolted legs.
When suddenly the goaded Christ kicked out
And floored the king; as he lay prostrate, his jaws
Opened like the pit of hell and a spout
Of fire, streaking up to heaven, smoked the stars.
When I told my lord, he sneered and blurted
That the night before he too had had a dream:
His blood was being let when up it spurted
Until it dimmed the sun with its frothy stream.
Later, testing God, the king went off to hunt.
The sun, a mad red eye, was in decline
Slanting blue shadows from every branch and trunk
And Walter Tyrell, William’s sole companion.
Staring in the bracken-fretted glade for deer
The king, his bow arm at the ready, waited.
Then, through the twitching copse a stag appeared:
He aimed, fired and grazed the beast, which fled.
Straightaway Walter saw another one
And loosed an arrow… then held his breath
As it pierced the body of our sovereign,
Who plunged down on the shaft to hasten death.
I, Robert Fitz Hamon, leave this record
Of the day’s events as I was told them.
I later heard that Walter fled abroad
And the foreign monk was never seen again.
But I often wonder if his dream
Could have altered William’s destiny –
Are we constricted to a star-fixed scheme
Or can we execute our actions freely?
This I do know: we must cleanse our lives of blood
Do penance for transgressions of the past
Pray for our souls and make our peace with God
And live each day as if it were the last.
For who knows when the arrow gripped by fate
In muscled tension, quivering for the kill
On an ignored or unknown future date,
Will send us into paradise, or hell.
Da Ossa Oracolari
Oracle Bones 2001
“Tendo le braccia”
Tendo le braccia come un cigno in volo
E, senza peso, guardo il mondo volgere
Tanto in alto io vedo – senza fine parrebbe
Roma e i suoi bianchi monti all’orizzonte,
Triremi all’ancora nella pigra Alessandria
Pescatori di perle tuffarsi dagli scogli
Ed il vento che vaga in lande desolate.
Il sole non trae ombre dallo gnomone.
Io son qui radicato, disfacendomi dentro
Non altra scelta ho avuto che questa pertica
Ed ora io più scegliere non posso
Ogni scelta compiuta è stata come un chiodo
Che inchioda le mie braccia ad abbracciare il mondo.
.
‘I stretch my arms’
I stretch my arms like a swan flying
And watch, weightless, the world turning
So high up I can see – endlessly it seems
Rome and white mountains rising beyond,
Triremes at anchor in still Alexandria
Pearl-divers practising from rocks
The wind wandering through the wilderness.
The sun casts no shadow of the compass.
I am rooted to the spot, rotting inside
I had no choice but to choose this perch
And now I cannot choose any more
Each choice I made was like a nail
Fixing my arms to embrace the world.
.
L’augure a riposo
Questo sì mi rincresce
Che sempre il coraggio m’è mancato
Di annientare le maschere
Di volti tesi nell’anticipazione.
L’ aspettativa era cibo per la mia aspettativa
O la mia anarchia paralizzava.
Troppo giovane e troppo diffidente
E immergere le mani
Nella pungente succulenza
Ad afferrare il fegato vischioso
Ed estrarlo ancora fumigante
Con un gesto ostentato e plateale
Possedeva una sua solennità
Un fascino di cui un tempo godevo.
Che cosa ha fatto sì che dèi immortali
S’affidassero a un pugno di fifoni ammuffiti
Per gracchiare i loro messaggi
Io non l’ho mai capito.
Ma il volo degli storni
Prima dell’alba
In un cielo invernale
Una massa di luci tratteggiate che s’espandeva
E si contraeva
In un disegno in continuo cangiante
Di momento in momento
E tuttavia mantenendo la forma
Come una rete da pesca lanciata
Sopra il mare
Si librava nell’aria liquescente
Spampanandosi molle –
Le sue linee d’ombra e di luce
S’avvicendavano filtrate dalle maglie
Per poi aprirsi in un flusso di splendore…
Il punto è la bellezza, non
La comunicazione degli dèi:
Un lampo di bellezza inaspettata
Penetrante e che non lascia traccia
Prima ancor che la mente getti luce
Sul suo significato preordinato.
Questo mondo s’avvia alla ragione
E le guerre civili son finite
Le speranze deposte sugli archi di trionfo
Ammassando cultura dalla fredda Britannia
Giù giù fino ai deserti di Giudea.
Che gli Etruschi rasati dal ventre prominente
Con le loro superstizioni deliranti
Buttino pur via la vita in profezie.
Che i riti continuino a impressionare
Come un’ostentazione di stabilità
Ma cessiamo, cessiamo
Di bramare la sfera della superstizione.
Non dei, non uccelli non statue essudanti
Ma i ceppi della legge
E lo staffile… la crocefissione
Introdurranno e assicureranno
Mille anni di pace.
Retired Augur
It is a matter of regret
I never had the confidence
To puncture the masks
Of taut anticipating faces.
Expectation fed my expectation
Or paralysed my anarchy.
I was too young and diffident
And to plunge my hand
In the stinging succulence
Clutch the slippery liver
And whip it out still steaming
With an ostentatious flourish
Had its own momentum
A fascination I once relished.
What made immortals gods
Pick out a clutch of dusty chickens
To cluck their messages
I never understood.
But the flight of starlings
Before the sun arose
Across a wintery sky
A mass of dotted light expanding
Contracting
The pattern always changing
Moment to moment
Yet held within the form
As a fishing net when swept
Above the sea
Poised in the liquid air
Unbuckles loosely –
Its lines of light and dark
Shifting in the sifting mesh
Then spreading in one glorious flow…
The point is beauty – not
Divine communication:
A flash of unprepared-for beauty
Penetrating, traceless
Before the mind can cast
Its predetermined meaning.
This world is moving into reason
The civil wars are over
Our hopes rest on triumphal arches
Staking culture from cold Britain
To the deserts of Judea.
Let bald fat-bellied Etruscans
Hawking crackpot superstitions
Piss away their lives in prophecy.
Let the rituals stagger on
As stabilising pageantry
But let us cease, cease
To crave the sphere of superstition.
Not gods, birds, sweating statues
But the manacles of law
The scourge… crucifixion
Shall usher in, ensure
A thousand years of peace.