Archivi del giorno: 12 Maggio 2015

POESIE SCELTE di Salvatore Martino da Cinquant’anni di poesia (1962-2013) SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DEL POETA E LO SPECCHIO O DELL’IDENTITA’

edward-hopper

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È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità. L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

 

de chirico particolare

de chirico particolare

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma.

Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Nel 2015 esce l’Opera Completa del poeta in Cinquant’anni di poesia (1962-2013).

È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

Salvatore Martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013Da La tredicesima fatica 1980-1986

Riflesso nell’occhio giallo

Lui sta

nell’atroce sfidare la fortuna
l’inquinato potere dello specchio
la leggenda irripetibile
del gesto mai compiuto
superbo del patrimonio
che consegnarono gli avi
tutti venuti d’oltremare
il prezioso fatalismo degli arabi
la durezza degli uomini del nord
la mente speculativa del greco

Forse mi odia
ma so per certo che mi teme
cospira alla mia perdizione
Nell’angolo dove ci siamo confinati
talvolta può accadere un bacio
un addio una promessa

Mi hanno detto che nel sonno piange
ma non posso alleviare le sue pene
immaginargli un incubo diverso

Di un labirinto aperto in un crocicchio
lui solo pronuncia la parola
per evocare il filo dell’inganno

Avvolto nel mistero suo e dell’isola
discioglie la faccia
dentro la catena del silenzio

Chissà se mai potrò incontrarlo
per combaciargli o ucciderlo

.
Da Il guardiano dei cobra 1992.1996

Il prigioniero

E lui assente
da sé dalle cose
quasi un altro a ridere al suo posto
a dissertare a bere con gli amici
a guidare la macchina
confondere di un giorno il calendario
un altro a confutare l’idiozia delle stelle
i fiori che dissacrano il giardino
ostile alla misura comune
emarginato dalla stupidità
nel bozzolo che s’era costruito

Gli chiesero perché
ansiosi gli si fecero incontro
ma il suo sguardo attraversa i corpi
la disarmante lancia del sorriso

Lui assente
dalle foglie dall’aria
per divenire una leggenda un mito

Ch’egli possa remare
attorcigliato tra le canne
udire i passi invisibili del tempo
nella camera dove ogni incontro si dilata
complice di un rito
che lo apparenti ai numeri
alla soglia iniziatica dell’ombra
e il vento moltiplichi il suo nome
fino al brusio indistinto dell’eterno

salvatore martino

salvatore martino

Sempre nell’occhio giallo

Un colloquio s’attarda sulla scala
lungo una solitudine evocata
dal suo letto di piume

Da millenarie cisterne affiora l’ombra
il fratello che veglia nella stanza
da un numero periodico indicata
di corridoi e porte di emozioni

Mi aspetta solitario
con un singhiozzo lieve sulla bocca
sui muri della mia prigione
descrive intorno a me una folla
nel lungo esercizio del possibile

Rapace sentinella del mattino
compagno detestabile e sicuro
mi segue negli androni
ai margini di un prato
nel verde di una squallida panchina
lungo una balaustra
che non oso percorrere da solo
in un crocicchio che ho deciso d’ignorare

Si fondono talvolta i nostri passi
le strategie diventano comuni
uguale il dettato della sorte

M’impegna in questa lurida partita
io folgorata torre astuto alfiere
stralunata pedina
lui sordida regina pavido re
temibile cavallo
A volte gioco il nero
per confondere il bianco
nascondergli
la mossa prevedibile in agguato

-Non ti conosco
non ti ho mai incontrato
avverto il soffio dietro la mia nuca
ricordo la magia delle tue parole
il sortilegio per frantumare l’ansia-

Ho tramato congiure
nel sospetto dell’alba
e lui dorme tranquillo
nel fondo degli armadi
nel perfido giacere degli specchi
nel ballo senza suoni dei vestiti
insinua i denti sopra il mio cuscino
come un bambino si abbandona
al gelido abbraccio della libertà

Implacabile amico
servile custode dei miei sogni
mi aspetta in terra per lavarmi i piedi
dettarmi un rimprovero inatteso
un consiglio che non posso rispettare
Conversa con me di Calibano
di quella nave smarrita alla tempesta
del match di domenica a San Siro
del conto in banca che dobbiamo aprire
della fatale fedeltà di Oreste
dell’incubo acquattato nel risveglio

Manoscritto del mio incerto vagare

Quando la polvere salirà alla gola
e saremo il richiamo dove ristagna l’acqua
e l’intreccio sarà forse un ritorno
quando il colloquio diventerà una larva
e finalmente godremo del silenzio

– Guarda laggiù contro la tua finestra
il raggio esploso a combaciare la ferita

Sono saliti amici per la cena
faranno festa suoneranno per te
e tu ti sentirai rasserenato
e ti addormenterai contro il mio petto
e saranno verdissimi i tuoi sogni
e veglierai tranquillo il mio destino

Poiché tale è il letargo del mondo
che non può scalfirlo la nostra paura
gli incerti tentativi di corrompere il tempo
Il brusio attardatosi alla casa
come un evanescente laccio si dissolve
la trafitta lega delle maschere
precipita in platea –

– Sì ! Questo non era dopotutto un viaggio
non c’erano stazioni sulla carta
né spazio per saluti
sportelli dimenticati aperti
vagoni che s’incrociano
lungo nebbie di acciaio
semafori che lampeggiano il futuro
sale d’aspetto simili a prigioni

Il letto è intatto
Con la nostra figura disegnata
La minestra tiepida sul tavolo
Il bicchiere in frantumi sull’acquaio

Un vento secolare
quando hai aperto la finestra
e sei caduto
in questo itinerario irripetibile
che a niente ti conduce
perché non c’è mai stato
e tu non l’hai mai percorso
e forse non dovevi farlo

Nessuno ad attendere una lettera
che possa ridere di te
o servirti il caffè nel pomeriggio
Sei finalmente libero
in quella accettazione del vuoto
da noi sempre abitato –

– Vieni è solo la mia mano
o la tua?
Domani scelto il nero
muoverò all’attacco la Regina –

– L’Alfiere bianco
saprà come aspettarla –
salvatore martino copertina la fondazione di ninivo

Mi trovavo nel sogno in una barca con il mio fratello
e Guardiano C’erano anche dei compagni e un marinaio
Doveva essere un braccio di mare grigio e calmissimo del
nord simile a un lago senza sponde Io chiedevo notizie
sulla rotta ai compagni e al giovane nocchiero e il motivo
della fuga perché di fuga si trattava Ma non ottenevo
risposta Erano tutti morti E non provavo angoscia né
dolore solo un acuto senso di vertigine e vergogna per
loro che non avevano avuto la disperazione di resistere
Il mare cominciava a farsi denso Al posto dell’acqua mi
sembrava ci fosse un liquido vischioso una specie di olio
In preda a una violenta eccitazione presi a scuotere il
Guardiano sdraiato al mio fianco perché temevo che
quest’altro incidente potesse rallentare il precario avanzare
della barca Una caligine lattescente era caduta senza
bussola sarebbe stato impossibile orientarsi Ma quello
non rispose girò mostruosamente sul fianco rotolandomi
addosso all’infinito La sua faccia penentrava la mia
le braccia le cosce il suo sorriso m’invadevano il corpo in
una indescrivibile euforia e incominciai a cantare a voce
altissima a ridere a sognare e non ci fu più fuga né barca
né compagni soltanto e sconfinata una distesa bianca

salvatore martino 2

Da Libro della cancellazione 1996-2004

E lotteranno sempre
l’Angelo-dèmone e il bambino

Il racconto
e la folgore autunnale
le favole ascoltate da bambino
attraverso le scale
nell’antro della carbonaia
dove terrori ignoti si nascondono
come nell’altra stanza
di legna accatastata

Incominciai allora
a frequentare gli inferi
il discorso con l’Altro
che affonda nel fianco
il suo pugnale

Ma il bambino che veglia
la mia sorte
cerco di custodirlo
di lasciarlo gridare

Quando terminerà questo colloquio
forse sarò nessuno
sarò tutti
certamente qualcosa che non muore

.
Autoritratto non finito

Questa maturità che oggi mi tiene
non ha trovato quello che cercava
il sogno liberato dall’angoscia
la parola di luce

Chissà se all’ultima fermata
incontrerò i frammenti del mio specchio
come in un gioco assurdo ricomposti
e avranno finalmente la mia faccia

Preghiera al limitar dell’alba

Salito a deturpare
con la luce l’inganno
astro che ragiona della notte
la magia del rimpianto
quella solare della cancellazione

Il dio non parla
nell’ambigua dimora
ogni vendetta sua è una speranza
ogni mia ribellione un obbedire

Treccia di neve liquefatta
mi chiami dall’oracolo perduto
a quale segno mi trascini?
Come vanificare il tradimento?

Vuoto artificio
che soccorri i naufraghi
astro gelato dei mattini
crocifero dell’ansia
col tuo mantello celi la paura
nella voce sicura fioriscono
tutti i tradimenti

Quando potremo sconfinare il mito
e consacrare al vento la saliva
come una cantilena di silenzi?

Vieni a confondere le menti
dèmone bianco
a circondare i passi dell’uscita

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La moneta di ferro

Angelo dell’inizio e della fine
segreto mormorio del mio destino
sorvegli il respiro della casa
ogni mio movimento familiare

Come un serpente
scivolato all’alba
o nell’ora più atroce
prima dell’ultimo duello
tra la notte e il mattino
prepari l’imboscata

Indovino i tuoi trucchi
i sortilegi
l’ombra evocata dallo specchio
Del mio corpo e dell’anima
conosci ogni dettaglio
della mente
Ma io non ignoro
il tuo tremore
io come te la vedo l’avventura
che percorriamo insieme
in questo letamaio

Dèmone bianco
che baci il mio cuscino
quasi assetati di vergogna
senza una lira in tasca
in questo viaggio
dimenticammo l’armatura
in un campo di ortiche
e stranamente i cavalli
erano uno

Portami sulle spalle all’altra riva
un rosso fazzoletto di saluto
l’occhio giallo perduto nell’addio

Non puoi non farlo

Neri cespugli coprono
il teatro in rovina
la maschera lasciata in camerino
il pane raffermo sulla tavola
la minestra gelata nell’acquaio
Perfetta si chiude la moneta
in entrambe le facce

Anch’io ti porterò
ai campi di narcisi in fiore
che l’isola nostra ha custodito
laggiù saremo
una bianca risacca
una canzone
un’alga perduta nella spuma

.
Sinfonia n° 6 in si minore
quella sera “Patetica”

Se lasci una fessura
incisa da una punta di coltello
e un barlume di seta
una speranza
l’occhio dell’Altro
prepara l’imboscata

Ricordo la sera di un concerto
quando un’ultima volta
gli archi intonano quel tema
per consegnarlo poi ai soli bassi
un patetico invito mi raggela
lo sguardo lucido dell’Altro
come un avvertimento
implacabile e dolce
mi spia dalla fessura

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