Rosa Riggio è nata a Siderno, in provincia di Reggio Calabria e vive da alcuni anni a Viterbo. Laureata in Lettere e in Beni culturali, insegna Lettere nella Scuola superiore.
Ha pubblicato, nel 2005, Un elaborato silenzio, (ed. Il filo), che ha ottenuto la Targa di riconoscimento – Premio L’Iride (Città di Cava de’ Tirreni) e L’orizzonte alle spalle, ed. FusibiliaLibri, 2014. Ha esposto i propri lavori materici e collage in diverse collettive di pittura a Viterbo. Del 2014 è la sua prima personale, Le forme dell’orizzonte, presso la Bottega delle Arti di Viterbo. Si occupa di critica letteraria e cura la rubrica di critica alla poesia contemporanea per la rivista NiedernGasse.it
Commento di Giorgio Linguaglossa
La poesia di Rosa Riggio ha preso congedo dalla forma-concerto della poesia ragionante e argomentante poggiata sullo zoccolo duro del Novecento, che va da Lavorare stanca (1936) di Pavese a I quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca fino a Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996), ed ha optato per la poesia da camera, poesia dove ci sono soltanto due strumenti: il violino e il pianoforte. Il violino fa le veci dell’io e il pianoforte fa le veci del mondo, e la forma-poesia è già data: narra un incontro, o meglio, il mancato incontro tra l’io e il mondo, con «l’infinito alle spalle», «l’orizzonte alle spalle», «l’infinito da una parte». Dov’è l’io?, si chiede l’autrice, che risponde: «Sto nelle cose», «nessun mittente», «dietro la soglia»… Insomma, l’io della Riggio è disperso, dis-locato, frammentato, sta in tutti i luoghi, in tutte le cose, e non sta in nessun luogo, è questa la condizione esistenziale dell’io; e poi il fatto che si tratti di un «Breviario d’amore», come recita il sotto titolo, a mio avviso rischia di rivelarsi fuorviante, perché l’amore è una condizione particolarissima, anche se privilegiata, d’esserci dell’essere, una esperienza non ripetibile, una esperienza che consente sì l’incontro con l’Altro, ma anche con il vuoto. Questa di Rosa Riggio è dunque una poesia esistenziale che riesce bene laddove trova l’espressione aforistica («Dentro di me continuo a precipitare»), il dettato breve e asciutto, il lessico basso, i toni sotto controllo pressorio. C’è una termodinamica dei tropismi esistenziali che distribuisce la materia esistenziale, ma c’è anche una materia oscura insieme a quella visibile, e un’energia oscura che trascina e divora la materia visibile. C’è il quotidiano e la riflessione sul quotidiano alla maniera del«diario», un quaderno aperto sul quale appuntare le nostre esperienze più intime.
Rosa Riggio da L’orizzonte alle spalle. Breviario d’amore (Fusibilia, Viterbo, 2015) pp. 84 € 13
Niente mi resta. Immutato presente.
Lascio sul tavolo le tracce incustodite
della memoria. Segni di un incauto passato.
In calce l’acuta follia di un’ipotesi muta
una voce di trasparente energia.
*
Niente accade per caso, hai detto
e sono tanti i momenti che precedono
il tempo, il giorno, l’ora.
Era settembre. In apparenza
niente accadeva. Forse una vibrazione minima
nell’aria, uno spostarsi di luce.
Più tardi, davanti allo specchio, cercavo
un appiglio, la forza nel volto
in fuga, lo sguardo oltre l’abisso
(smarrimento dell’io)
troppo tardi per riavvolgere il nastro.
Tutto compiuto? Quanti occhi
quante visioni in corsa nel tempo
dal big bang all’apocalisse
fino a questo spostarsi lento
di ogni cosa, moviola del
nostro raggiungerci, ma dove e quando.
Oh avvenire, raccogliersi è un ordine
del fato nel qui, nell’adesso.
*
Verso dove, dove mi porti
cuore in fuga,
sconosciuta vendetta.
Ho stretto un patto con l’infinito
ho, di nascosto, tessuto la tela.
E’ enorme adesso
in agguato
dietro il rumore della mia infanzia
ha occhi di rara potenza
ed avanza
sono io quell’ombra.
*
Non c’è poesia, non c’è pace.
L’infinito alle spalle. Un epilogo muto
nel centro obliquo dell’io.
*
Dopo l’attesa, cosa resta?
L’orizzonte alle spalle, l’infinito da una parte,
corrosa la voce del passato, finisce così?
porte chiuse, passi veloci
perduta ogni cosa, senza la grazia
dell’oblio
niente che si smemori
eppure, ciò che deve essere fatto
va fatto
e continuano i giorni
ostinate ordinarie presenze
si perpetua il quotidiano ronzio.
*
Sto nelle cose. E ogni gesto che faccio
si fa da solo, staccato da me.
Da quella distanza mi guardo
e quella cosa che cade dall’occhio
è una dura consistenza.
*
Non so come faccia a non cadere,
a mantenere la posizione eretta.
Dentro di me continuo a precipitare
in quella mattina.
E mi chiedo
come abbiamo potuto
sopportare che il tempo
ci sopravvivesse.
*
Così continuo ad avanzare. E retrocedo.
Ritrovo il momento, davanti a me:
spudorato assente che non teme di esistere
e mi provoca, ancora. Se provo a guardare oltre
non vedo altro istante. Cos’è accaduto al mio tempo?
Si rifiuta di scorrere, franto, devia, ferreo e ostinato.
Allora c’è qualcosa, in questa vita, che non sa cos’è morire.
*
Rumore di spade.
Accarezzo la lama di questo verbo
distratto. Dove ho lasciato le carte?
No, nessun mittente.
Si sono prese ciò che era loro
il rito antico
di fiabe senza nome.
Un gesto deciso
poi nulla.
*
Non mi posso permettere tutte le parole
(il vuoto è uno scrigno).
Non me ne posso permettere una.
Chiuse le porte. Altrove gli occhi.
Non rispondono.
Sono dietro la soglia, prossimi.
Non lo posso permettere.
*
Il tragitto è compiuto
intero
negli occhi
l’unico luogo dove
ogni cosa
è al suo posto.