Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964, vive a Roma): poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, organizzatrice culturale, autrice e conduttrice di programmi culturali per Radio 3, critica letteraria per il quotidiano “il manifesto”, scrive per “la 27ora” del “Corriere della Sera” e cura la rubrica di inediti “Cantiere Poesia” per il mensile internazionale “Poesia”, collabora con il quadrimestrale di cinema “Rifrazioni” e con la rivista di arte e psicoanalisi “Il Corpo” e codirige la collana di poesia “i domani” per Aragno Editore. Tiene laboratori di poesia nelle scuole, nelle carceri e con i malati di Alzheimer. Sta lavorando a Ti chiamavo col pianto, libro-inchiesta sulle vittime della giustizia minorile in Italia.
Libri: Pietra di paragone (Tracce, 1998 – edizione-premio Nuove Scrittrici 1997), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) La macchina responsabile (Crocetti, 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle, 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture dei propri testi (luca sossella, 2011), La vita chiara (transeuropa, 2011) e Serie fossile (Crocetti, 2015); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012); la sua prosa Salvare Caino è in Nell’occhio di chi guarda (Donzelli, 2014).
Ha composto, con Michele Caccamo, Dalla sua bocca. Riscritture da undici appunti inediti di Alda Merini (Zona, 2013) e, con Amarji, Rosa dell’Animale (At-Takwin, Damasco e Zona, 2014 – prefazione di Adonis), ha scritto tre monologhi per Sonia Bergamasco (La scimmia bianca dei miracoli, Pochi avvenimenti, felicità assoluta e Elle) e Gernika, frammenti poematici intorno alla Guerra Civile Spagnola, per la compagnia internazionale “Théatre en vol”. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi Paesi Europei e delle due Americhe: segnaliamo le antologie La realidad en la palabra (Editorial Brujas, 2005), Caminos del agua (Monte Avila Latinoamericanas, 2008) e Antologia italikes poieses (Odós Panós, 2011); ha curato per Adonis, l’antologia Voci della Poesia Italiana Contemporanea: Un’Antologia Breve (L’Altro, 2012 – Beirut e Damasco), nella quale è inserita. Con la silloge Illustrazioni ha vinto, nel 1993, l’XI edizione del premio Montale per l’inedito e, dallo stesso anno, viene invitata nei più rilevanti festival nazionali e internazionali; nel 2007 ha interpretato Il Desiderio preso per la coda di Pablo Picasso per Radio 3 (regia di Giorgio Marini, con Silvia Bre, Anna Cascella, Iolanda Insana, Laura Pugno, Maria Luisa Spaziani e Sara Ventroni); dal 2009 porta in scena in Italia e in Europa il videoconcerto Senza bagaglio (finalista “RomaEuropa webfactory” 2009), realizzato con Stefano Savi Scarponi; nel 2010 il suo testo My language is the rose, scelto dal compositore malese Chie Tsang, è finalista in “Unique Forms of Continuity in Space” in Melbourne, Australia; sempre nel 2010 è scelta come rappresentante della poesia italiana e diretta da Lucie Kralova in “Evropa jedna báseň”, documentario andato in onda il 28.8.12 in Česká Televize; nel 2012 fa parte del progetto RAI TV “UnoMattina Poesia”, collabora con Rai Letteratura e con il musicista Canio Loguercio ed è vincitrice del Premio Haiku dell’Istituto Giapponese di Cultura; comincia nel 2013 una collaborazione con Cult Book (Rai 3) ed è nella video installazione Ritratto continuo di Francesca Montinaro, esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Roma.
La sua poesia è tradotta in: arabo, ceco, francese, giapponese, greco, inglese, iraniano, olandese, portoghese, romeno, russo, serbo, sloveno, spagnolo (Spagna, Argentina, Cile, Ecuador, Messico, Venezuela), svedese, tedesco e turco. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it
Commento di Giorgio Linguaglossa
Maria Grazia Calandrone ha preso atto che la «Forma» è diventata «gelatinosa». La «Forma» si fa carico di molteplici significati che si sono destrutturati, che non si sono ancora realizzati e che mai si realizzeranno, che rimangono invisibili, non dati, non leggibili. La «Forma» è ormai diventata non abitabile. Dopo Kafka e Beckett la frammentarietà della forma parla per se stessa, di se stessa, e indica, per via indiretta, la impossibilità di leggere il reale, di parlare al reale. La forma della poesia è diventata un contenitore di significanti de-strutturati, cioè priva di legislazione, senza regole, e quindi libera e liberata, anche da se stessa, e dall’onere improprio di porsi come rappresentazione di un oggetto, dalla servitù di designare un «reale». La «Forma» (tra virgolette) ha qui esaurito il mandato della secondarietà per porsi come unico baluardo al senso che non c’è, alla reificazione del senso.
Non è un caso che le prime parole del libro della Calandrone inizino con il rimando alla «selva oscura» della Commedia dantesca:
La selva automatica e squillante, l’anonimato azzurro
ma non etereo: scrupoloso
piuttosto, di un cantiere che muova tutta insieme sotto sforzo la meccanica
munita di contrappesi di mercurio, trivelle
di affondamento e bracci…
Siamo in un mondo non più rappresentabile (che non sta più davanti ad un soggetto che osserva), e quindi non orientabile in una «Forma», tantomeno chiusa o algebrica o aperta che sia. Non c’è nessuna matematica o lessematica applicabile a questa «Forma», se non una matematica per sottrazione, per diversione topologica (ma non toponomastica, perché è assente in questa poesia qualsiasi toponomastica, qualsiasi mappa per l’orientamento delle direzioni). E non c’è nemmeno un «viaggio» che sia rappresentabile e presentabile in termini di una edulcorata presentabilità borghese. Insomma, la realtà non è più citabile nemmeno per via e per mezzo di citazioni illustri o meno; c’è una machinerie che gioca con macchine desuete e celibi alla Duchamp dove scorrono e si scontrano biglie rumorose e indisciplinate in «una luce semicieca» in «una infinitesima porzione della nostra unanime sostanza terrestre» e «la evanescenza del cielo / e la sua effervescenza di ali…». Il «viaggio» borghese qui conosce la sua fine, o meglio, la sua implosione, è un viaggio bombardato, segmentato e ridotto a lessemi e a relitti non codificabili e non organizzabili in un discorso di senso compiuto, perché c’è un discorso laddove c’è ancora un senso rinvenibile, per quanto disarticolato e frantumato.
La realtà è diventata muta, l’universo è dissonante, e la «Forma» è qualcosa che è divenuta estranea sia al concetto di rappresentazione che a quello di testimonianza; non deve testimoniare nulla a nessuno, perché non c’è nulla di cui render testimonianza, la «Forma» non è un luogo tranquillamente abitabile né facilmente accessibile se non come luogo sottoposto a continui scossoni e deragliamenti direzionali. Un luogo terremotato e terremotabile. Il fatto è che soltanto attraverso questa «Forma» può parlare il non-identico, cioè il reale, ma come un di-fuori, un di-lato, un esterno di cui noi siamo semplici e passivi spettatori di un reale che non può comunicarci altro che la sua lingua straniera.
«La materia ha il peso e l’esattezza che ci serve / a dividerci come nuotando, come arcieri che scoccano. Abbiamo convincimenti da laboratorio angelico: nell’acuto, nel perno / del cronografo, nel / fulgido…».
Qui non è il soggetto che parla, che riproduce, rappresenta qualcosa di esterno a sé, è una entità indifferenziata che si esprime attraverso i verbi all’infinito e declinati al passivo e attraverso un linguaggio ridotto al gradiente minimale:
Ecco.
Davanti. Non possiamo che essere
davanti. La schermaglia caprina degli aceri echeggia, rimacina…
In questo tipo di poesia le particelle neutre del discorso sono spesso impiegate alla fine (oltre che all’inizio come si conviene) del verso, come a tentare di disciplinare il traffico lessematico ormai impazzito in un sistema semaforico neutro e neutralizzato da agenti di un altro sistema solare che sono scesi sulla terra e la abbiamo colonizzata ad insaputa dei terrestri. «L’espressione è il volto addolorato delle opere» scrive Adorno. Appunto, in questa poesia l’espressione viene stravolta da un dolore anestetizzato, posto sotto controllo; è un dolore insonoro, non percepibile mediante il sistema nervoso centrale e periferico, è questo il motivo della insonorità di fondo di questa poesia, o meglio, della sua sonorità ma come di una lingua straniera; è un dolore in-significante, per questo i lessemi corrispondono a fonemi anestetizzati, svirilizzati, svuotati di significazione.
Maria Grazia Calandrone non ha nulla da rappresentare o da testimoniare circa la presentabilità della sua epoca, circa la degradazione e la catastrofe avvenuta, e non ha da dire neanche alcunché circa il non-senso della realtà (posto che vi sia una realtà degna di questo nome). Di qui il suo asintattismo, la dis-locazione sistematica dei versi secondo un dis-ordine sistematico, di qui la dis-locazione di frasari anestetizzati (comunque privati di capacità comunicativa), non più visti come un sistema vascolare di lessemi che concordano o discordano in qualche modo pur scomposto e dissonante. Il fatto è che la Calandrone ha fatto propria la tesi secondo cui il «reale» sia un qualcosa non più comunicabile e non più leggibile mediante gli strumenti linguistici tradizionali, e che per questo compito non resta altro che percorrere l’ultimo passo che resta da fare: la sistematica liquidazione della unità metrica di base, l’endecasillabo e la sua sostituzione con unità frastiche articolate e disarticolate a secondo delle necessità.

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …
da Maria Grazia Calandrone Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) pp. 72 € 7
La selva automatica e squillante, l’anonimato azzurro
ma non etereo: scrupoloso
piuttosto, di un cantiere che muova tutta insieme sotto sforzo la meccanica
munita di contrappesi di mercurio, trivelle
di affondamento e bracci
che individuano una infinitesima porzione della nostra unanime sostanza terrestre
e la sollevano (con il lamento
dei giunti ridotto a un fiato dalle cromosfere
dei cuscinetti): la collocano
dove si prende senza consenso alla terra
data la grossolana efficacia
del peso. Così la evanescenza del cielo
e la sua effervescenza di ali
fermissime stanno ancorate al suolo come una milizia. Nessuno
vola. Non sono
reparti contraffatti dalla controluce. Non sono
i frantumi tonanti delle nostre anime
posti nel mezzo di una domanda
vuota e rovente, la strumentazione di un volo che non si può rifare
per venire
immatricolati in un corpo la cui tendenza insurrezionale
dimostra tutto, tutto il dolore taciuto.
*
La materia ha il peso e l’esattezza che ci serve
a dividerci come nuotando, come arcieri che scoccano. Abbiamo
convincimenti da laboratorio angelico: nell’acuto, nel perno
del cronografo, nel
fulgido. La sfoglia calda della superficie sostiene
una comune interezza, l’incedere
lauto e canoro delle pallonate – spezzoni: curve, torsioni della vela
dell’esistenza tutta che non si vorrebbe
pronta. O sangue malinconico o vascello legato
a cose come – la schiuma
– l’ombra – la consistenza agrosalina del sangue, la miseria climatica
dell’unghia, la midolla
radiografica dell’osso
quasi scoperto – o
l’argilla che rode
il tubo
gommato – il vulnere
ingoiato
nella ferma
poderosa. Questo volto rifatto sconosciuto è una cosa
che rimbomba e approssima a niente
l’automatismo del respiro. Entra
nella memoria
nella fermezza della caccia
e nella discriminazione senza profitto
dell’amore. Datele
coscienza:
la pietà che apre gli occhi. Sempre, sopra
ogni fortuna, avrei chiesto che tu non fossi morta.
*
Ecco.
Davanti. Non possiamo che essere
davanti. La schermaglia caprina degli aceri echeggia, rimacina
rosso doloso,
pneuma
di tende su un biancore di mote di paeselli – al di là
del bollore invernale dell’interno
sul palinsesto delle ringhiere
che paiono un ancoraggio del nulla
alla terrazza planare, e quel vetro
premuto in basso con la bocca
è appannato e smagliante, dove tocca
il respiro il vetro
comincia a esistere, unto
dalla neve e dal profumo d’alga
del tuo respiro – cosa
che appare a un tratto fondamentale, cose come la nebbia e i paraventi
o gettare le reti
nelle occasioni felici, spingere avanti il peso
caucasico e sbendato e senza peso di un corpo
già qualunque – una zona
franca che chiede di essere
liberata
dalla stele di intelligenza chirurgica, lasciata a un semivuoto
passo di uccello con tutto il respiro
preso da una lentezza subumana
come la forza esercitata dal vento sui bancali
in travertino, l’imprevisto tumulto di una lanugine. Di essi, nessuno.
*
Lo scoppio nelle camere
di combustione (la combustione
della grafia legata all’emisfera nella quale il corpo fu incominciato
– incomincia ogni giorno –
ad esistere prima per iscritto e dolcemente poi
a desistere
a cedere un calore di sottana alle sponde
di acciaio cromato) con l’elevato grado di fermezza prodotta
dal cobalto
della schiuma marina. Nel letto
vinilico i residui del nòcciolo
radioattivo: cuore vicino al flusso della lava, vene senza esercizio – un fulmine
globulare – le feritoie di olio e di bitume – perché il letto ha grandezza e superfici
– navate – o è un Reno gelato
e plebeo – piccole fruste che sbandano le truppe (e nei reparti
vige una generale ritirata
verso il santuario, la porta occidentale). Siete navi
condotte dal vento come per mezzo di una lunga briglia
a figure interne che tendono alla sequenza e alla stasi.
Siete corpi iniziati dal nome e da quel nome
– mamma – evaporate
con quegli occhi iniziali
scacciati
dal dolore e dal freddo come bestie.
La domesticità insorta e molto altro
disordine: abitacoli in ferro verniciato sugli spalti di malva rifatta
costa d’inverno e cerea
neve contumaciale: spalmata in buchi
semplici, fosse
cellulari, scardinamenti: terra
crepata dalla insostenibile
vibrazione del vero. Ma altre volte arriva come un editto
annunciandosi al branco che ciondola su materassi d’erba accrescitiva
del cielo sui depositi vulcanici: spazi rimossi dai merli che cantano
primitivi e coerenti, senza traccia
nel becco
del lago amniotico – subliminale
amnesia, inclinazione all’eresia degli astri
che dondolano appesi per le chiome alle volte
e alle volte irradiano dimenticando.
*
Il dolore disinfetta, ha una disciplina e una inclinazione
grammaticale – soprattutto
ai lati delle strade dove l’asfalto come noi è incline
alla luccicante consecutio
segnaletica – e il carburo sfibrato del respiro
ha un odore essenziale: segatura bagnata nel calcio
di edifici scolastici
o cielo che cospira su teste grandi come frontiere marittime con l’acqua limpida e orefice che lavora – il cielo
svaligiato dalle sue ampie nuvole di pioggia – di uccelli
depurati, soffocati dal vapore nativo. Per deduzione
da quelle teste – e per associazione con i pesci soffianti e candenti del fondo – emerge
il vero: il mastodontico, la segretezza. L’ospite
viene senza disturbare
ed è stato vagliato.
*
Il quadrilatero senza spessore
che contiene la spina perimetrale e bianca
del posteggio forma nella materia
un disegno morale, il termine effettivo di una pulsione
conciliativa tra il diffondimento integrale
delle nostre pròtesi
e la organizzazione del possesso: questo smalto
– questa linea brillante amaranto che costeggia i ciuffi migliorati dal sole dei campi
ribatte interiormente
luce refrigerata – mercuriale.
*
Abbandoniamo l’incuria volontaria dei nostri estatici allusi frammenti su molti guanciali: i solchi
delle vite nelle biancherie degli alberghi sono i lacci degli anni
nel tornio
del tronco: quadri del suo infinito accrescimento. Nessuno
è estraneo: legifera dal buio del nostro sangue
una sola lingua: tiene il posto
di questo impasto
di carne nella propria sopravvivenza
idroelettrica, di questo ingorgo pieno di nobiltà e desiderio tra gli scuri
sostrati di giustizia e i portici – distesi su un banco di dormiveglia. Il poco
che uno a uno lasciamo da ricordare: un giardino
una piastra malata di vanità e di vero
dove è in sospeso la bacca della nostra semiincoscienza
provvisoria, pertanto perdutamente
necessaria. I bambini (i bambini!)
fanno giri di vite nel destino.
*
V
Il corpo deposto come un attrezzo
E’ più arduo indovinare il passaggio di quello che non ci modifica.
Da quale disaffezione della memoria provenga il commiato, il pentimento degli abbandonati e dei morenti
lungo l’ultimo intenso vorticare di foglie
che se ne va per le finestre. Ciò che entra di sabato in quel brusìo di farfalle ha sordità
del rotolìo di un carro tra le felci, l’autonomia della stagionatura
di corpi non comuni, incamminati
su raggi di sole. Come una primizia – o il rimpianto nel fondo
delle coppe: i morti sprofondati
acutamente nella grazia delle loro stalle.
O terra intrisa dal corpo lento e testuale del sole, uscito
tra boschine lacustri.
*
La pelle bianca dei morti – la croce quieta delle costole nell’acqua oleosa: un bollore appartato – le diatomee
fin dove la luce
tocca lo scalmo argenteo del palato.
*
Io sono nella mia morte – sono dove nessuno più mi cerca:
infelice come una bambina – felice come una bambina.
*
E tu violenta e rassegnata nella vestìna smalvita: una reliquia
nel suo fiammeggiare
preparata a una muta capienza. Ti poso sulla seggiola
come un vestito vuoto
e bianco. Mio piccolo legno di tabernacolo.