“Delta del tuo fiume” di Gëzim Hajdari. “La poesia epica dell’esilio” Lettura di Marco Onofrio

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume copDelta del tuo fiume (Ensemble, 2015, pp. 172, Euro 15) di Gëzim Hajdari è un libro di rara intensità poetica, uno dei più potenti e impressionanti che io abbia letto negli ultimi anni. È un libro che, come un arco teso, permette alla poesia di slanciarsi oltre i propri limiti, superare i confini della parola, significare ben al di là di ciò che dice. Malgrado Hajdari affermi di «pisciare sulle poetiche», conclude Delta del tuo fiume con una lunga poesia-manifesto, “Contadino della poesia”, che funge da specchio di autoconsapevolezza e chiave di accesso al libro. Hajdari coltiva un’idea di poesia come “bestemmia” – cioè preghiera laica rivolta al sacro elementare – che lacera il velo cosiddetto “civile” delle ipocrisie deputate a coprire la verità oscena dei rapporti sociali, l’inferno della convivenza, l’orrore eterno della Storia. La poesia è denuncia, atto inconciliabile d’accusa. La parola non conferma i patti disonesti, non regge il sacco ai ladri nel tempio profanato, ma è eversione che articola il dissenso e osa pronunciarlo con la massima sincerità possibile, costi quel che costi. È eresia, è “besa”, cioè promessa, parola data, confidente appartenenza al fondamento etico. È impegno di autenticità. È dignità che mette in gioco il valore della vita.

Essere “contadino della poesia” significa

tornare all’Essere
riscoprire le radici
bere alla fonte
parlare con i sassi
ascoltare la terra
rileggere il cielo e la terra
(…)
sapere chinarsi a raccogliere
chiamare le cose per nome (…)
lavarsi con la terra (…)
ridare la dignità perduta al Verbo, cioè
la dignità perduta all’uomo,

Gezim Hajdari cop inglesee dunque recuperare il «senso epico, musicale e civile della parola», ricostruire il «tempio della parola» distrutto dagli «eunuchi del minimalismo sterile». Questo significa scrivere in modo semplice ed essere profondi al tempo stesso. La poesia di Hajdari, infatti, è colta e insieme popolare – così come è, sempre, la poesia autentica. Una poesia umana e antropologica a 360°, aperta al dialogo con le realtà del mondo, al di là delle infinite gabbie di rappresentazione.

Scrive Neruda: «La poesia ha perso il suo legame con il lontano lettore … Deve recuperarlo … Deve camminare nell’oscurità e incontrarsi con il cuore dell’uomo, con gli occhi della donna, con gli sconosciuti della strada, quelli che a una certa ora del crepuscolo, o in piena notte stellata, hanno bisogno magari di un solo verso».

gezim hajdari copertinaA patto però – aggiunge idealmente Hajdari – di «essere poeta, non scrittore di poesia». Il preziosismo “laureato” del modello petrarchesco distolse la poesia dal suo cammino: emersero le vanità, le pose artificiali, i conti di ragioneria. Ancora Neruda: «la fonte della grandezza cominciò a estinguersi. Quest’antica sorgente aveva a che vedere con l’uomo intero, con la sua apertura, la sua abbondanza traboccante».

Hajdari scrive poesia con l’occhio che, penetrando le paludi della crisi, traguarda l’unità cosmica dell’uomo “come se” fosse ancora possibile. Occorre «sentirsi parte della totalità», cioè «vivere al confine / ubriaco di mondi»: «vivere negli altri», «attraversare la vita», «recuperare il legame tra parola e verità, tra poesia e vita»: «diventare carne e sangue delle proprie parole».

L’operazione poetica consegue alla discesa nel proprio «io centrale»: con la stessa inesorabile naturalità del fiume verso il proprio delta marino, o del maschio verso il nido caldo della donna che lo invita al ricongiungimento. L’«io centrale» è il nucleo dove convergono e partono i raggi del mondo: c’è un cosmo di vasi comunicanti sotto la superficie impediente, dove i dualismi apparenti si sciolgono in rapporti complementari, poiché “tout se tient”. È una via antitetica ad ogni operazione narcisistica: Narciso si specchia nel mondo e ovunque vede se stesso; Hajdari specchia il mondo nel proprio «io centrale», che coincide con la visione aperta, cosmica, globale di tutto l’esistente. La condizione che lo porta ad avere questo sguardo è quella dolorosa dell’«esule esiliato nell’esilio», che già strappò a Dante Alighieri versi immortali. Hajdari è in esilio come «traditore e nemico della patria» (la nativa Albania) per aver denunciato crimini e abusi della dittatura di Enver Hoxha. Hajdari ha accettato il prezzo della libertà, la solitudine terribile del lupo senza collare, la povertà, la fame, l’esilio. Solo così ha potuto «coniare la moneta del proprio Verbo» ed essere Poeta. Creativo perché libero, e libero perché creativo.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

Fiero, irriducibile, allergico al potere e ai suoi mille compromessi, estraneo alle gerarchie letterarie “ufficiali”, Hajdari affida anzitutto al valore della pagina la rivendicazione del suo mandato poetico e la traccia della sua presenza di poeta-profeta e guerriero. E lo è anche nel raccontare «la ferita mortale dell’uomo svuotato dalla dittatura del denaro», gli infiniti tradimenti perpetrati dagli uomini all’Uomo, e al pianeta – l’unico che abbiamo – cui appartiene anche chi stoltamente ne provoca la distruzione. Il mondo è da sempre dominato da dinamiche di invidia cattiveria egoismo violenza prevaricazione malversazione ingiustizia ignoranza maleducazione… la jungla umana è più sottilmente feroce di quella animale. L’Amore è un autentico miracolo. Scrive Cesare Pavese: «Tu sarai amato quando potrai mostrare la tua debolezza senza che l’altro ne approfitti per affermare la propria forza». La poesia, infatti, è una Cassandra dal canto inascoltato: il mondo va, decisamente, da un’altra parte.

Scrive Hajdari:

Le nenie delle donne
non riescono ad asciugare il sangue degli uomini
versato lungo il confine nemico.

Eppure crede ancora nel «potere della poesia»; come in Congo, dove recitano i versi del poeta senegalese Senghòr – vate e ideologo della “négritude” – «al posto delle preghiere quotidiane». La poesia autentica propone allo sguardo una visione cosmica. Come quando, dall’aereo in volo, i confini geopolitici convenzionali, coi vari recinti di filo spinato, scompaiono magicamente: lo spazio vitale è tutt’uno, il mondo è uno, l’Uomo è lo stesso ovunque – oltre le infinite diversità – è il cielo è l’unica bandiera.

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

La scrittura, in Delta del tuo fiume, articola una poesia “in fuga” che nasce dalla condizione di esilio permanente del poeta: e sgorga non a caso da Roma, che Hajdari definisce «patria degli esuli», «città in fuga verso la leggenda e l’oblio del destino». Delta del tuo fiume è uno straordinario viaggio poetico, che parte dalla Roma eterna («nata dall’esilio» di Enea) e a Roma infine riconduce, la Roma storica di oggi (città degli scandali, da «scomunicare», secondo Hajdari, come capitale d’Italia: città delle banalità letterarie «osannate e glorificate dalla mafia politica e culturale» che determina la Curia dei “poeti ufficiali” in un gioco di corruzione, scambi di favori e ruberie – come nella vecchia gestione del Centro “Montale”, denunciata da Hajdari e Luigi Manzi nel 2003). Un viaggio da Roma a Roma: e nel frattempo si percorre il mondo. La poesia come Viaggio nel continente-Uomo: discorso che si produce “in movimento”, dall’incrocio paradigmatico dell’asse spaziale con quello temporale. Il poeta, attraverso lo spazio, raggiunge una dimensione storica pancrona, diventa contemporaneo di ogni epoca, dialoga con uomini che non potrebbe mai incontrare di persona. Ad esempio, va a trovare Rabindranàth Tagore in India; oppure giunge al Cairo e sprofonda nel tempo, per ricevere il benvenuto, al porto di Alessandria d’Egitto, da Alì Pascià – che visse tra il 1700 e il 1800 – per poi finire «nel letto di Cesare, tra balsami e incensi» dove lo guida «l’infedele Cleopatra»; oppure è ospite in Cina del poeta Li Po (che morì nel 762 d. C.) con cui si intrattiene a bere vino e a recitare versi.

La “condicio sine qua non” del Viaggio è la rottura con le menzogne della “civiltà” occidentale, i suoi «falsi altari impietriti», come già Rimbaud, Gauguin, Dino Campana et alii. «Vado via Europa, vecchia puttana viziata», scrive Hajdari. «I tuoi ruderi non mi incantano più». E quindi, «domani, di buon’ora / partirò con la prima nave del Tirreno, / dal porto del Circeo (…) / verso la Croce del Sud / senza voltarmi indietro». «Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini / e delle bandiere insanguinate». Che è un modo anche per negare in blocco il “Sonderweg” dell’Europa, cioè il suo cammino speciale nella storia del mondo, apportatore di grandi conquiste civili e insieme di orrori indicibili; e inoltre un modo per chiamare la lingua a bruciare, a rinnovarsi dalle proprie ceneri, trasformando lo sguardo e il rapporto stesso con le cose: «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne».

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Andar via dall’Europa significa anzitutto uscire dai vincoli della Forma: aprirsi all’incontro libero e diretto con la Vita, la carne calda, le labbra tumide, i seni dorati, le sabbie lunari dei deserti, i cieli stellati, i venti oceanici, il sale dei mari del Sud, gli spiriti delle cose, l’ombra delle parole, i richiami antichi, le lingue tribali sconosciute, i tuareg, i griot, gli sciamani. Emerge naturalmente la potenza ancestrale della Donna-femmina-terra-pube-origine, delta del fiume cosmico. Hajdari scrive, sul corpo della donna, versi erotici di accesa sensualità e di infinite risonanze universali:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
giunta dall’oblio dell’arco del tempo.
(…) I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango (…).
Nei tuoi occhi verdeazzurro ho ascoltato il canto delle balene,
il richiamo dei felini in agonia,
e ho visto tramontare l’occhio inverdito del giorno (…).
I tuoi occhi tinti d’Africa, come l’oceano Indiano all’alba;
i tuoi seni pieni all’insù, come due colline nere e solitarie (…)
il tuo pube in fiamme, tra le cosce alte da gazzella,
come una conchiglia dorata.

E la splendida poesia “Custode della mia uva”, dove la donna stessa gli parla, invitandolo a celebrare insieme la vita:

mordi i miei capezzoli come mordevi i chicchi rossi
(…) bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie
(…). Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,
(…) quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
(…) quando tu muori in me, io rinasco in te.

Gezim Hajdari_1Ed ecco l’Africa, «Madre nostra», «donna stuprata» dai colonizzatori bianchi: «nei tuoi occhi di bambina grida il Verbo della grande solitudine, / si rinnova la stirpe umana». Ecco l’incontro spazio-temporale con la Tanzania, il Congo, il Niger, il Golfo Persico, il Marocco, il Sahara, il Mali, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. I cronotopi si aprono “in fieri”, nel divenire avventuroso del viaggio, svelando l’anima dei luoghi. Un viaggio che discende nelle profondità ancestrali, e ovviamente non esclude gli incroci storici con l’Africa insanguinata dalle guerre, dove uomini con gli occhi sbarrati dal terrore «fuggono lungo il confine / insieme alle bestie impazzite». L’Africa ha stregato il poeta, lo ha messo in crisi, lo ha cambiato per sempre.

Tu, Africa, hai Scomunicato il mio Verbo.
Dal giorno che attraversai le curve negre dei tuoi giorni,
non sono più io.

L’Africa è «infinita nudità» che toglie le sovrastrutture, brucia le maschere, fa cadere tutti gli artifici. È la terra dove perdersi per ritrovarsi, dove dimenticare tutto per ricordare:

non ho più memoria (…)
ho perso il mio nome.

A forza del tuo amore, sono diventato Africa.

E ancora: «Ho affidato alla sabbia la mia memoria». La sabbia del deserto: quanto di più mutevole e impermanente!

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Non solo l’Africa, ma anche l’est asiatico: la Cina, il Vietnam, le Filippine. Manila e il fetore insopportabile della “smokey mountain” del quartiere Tondo – montagna di immondizie di cui si cibano migliaia di miserabili, tra cui opera il missionario Giovanni Gentilin. Andare lontano, sempre più lontano: «mai così lontano dalla patria e dai miei sassi cannibali». Sentirsi sperduto nel mondo. Sdraiato sull’erba, bere la luce degli astri. Parlare con gli altri senza conoscere una parola delle rispettive lingue: intendersi su un piano umano universale. Arrivare all’essenza. Eppure, malgrado i tentativi di dimenticarsi e confondersi nel mondo, non riesce a mitigare la profonda insoddisfazione:

Quando finirà questo esilio?
Albania sono ancora vivo (…)
Tace la tua ombra assassina (…)
La mia ombra non trova pace,
erra impazzita tra le dune della fuga.

Sullo sfondo di ogni luogo si sovrappone l’immagine straziante dell’Albania, patria e infanzia lacerata, che nelle vene del poeta ha seminato «solo panico e terrore», perché è un Paese – scrive Hajdari – che «nutre per uccidere», è terra matrigna che divora i propri figli. Anche nel «sonno nero» dell’Africa, sente la voce di sua madre:

“Gezim, copriti bene,
il freddo dei Balcani punge”.

Egli non può dimenticare la sua terra, nel bene e nel male. E la ritrova nei luoghi più impensati: a Calcutta, per esempio, incontra Madre Teresa, che è di origine albanese. L’Albania dialoga anche con l’origine mitica di Roma: Enea fa tappa a Butrint (luogo antico dell’Albania) prima di giungere sulle sponde del Tevere. Sono proprio gli albanesi ad accompagnarlo in Italia con le loro navi. Segnato per sempre dal regime di Enver Hoxha, Hajdari cerca ad ogni latitudine le radici eterne dell’odio e del terrore, che la Storia usa per limitare o estinguere la libertà dell’uomo, mortificando la bellezza delle sue energie creative. La Storia è piena di despoti che hanno riempito il mondo di crimini e sventolato governi-fantoccio a servizio dei poteri imperialistici. Il processo di “civilizzazione”, con le sue menzogne, ha santificato cose vergognose (come le guerre) e ricoperto di vergogna cose sacre (come il sesso).

Ma la poesia è dalla parte della vita, delle sue ragioni, delle sue verità. La poesia non si lascia ingannare, anzi: lotta perché l’uomo non venga più ingannato, perché apra gli occhi, si liberi di tutte le catene e sia finalmente felice. La poesia di Gëzim Hajdari è profondamente etica nella sua stessa vocazione ontologica, che la rende centrata sull’“essere parola” di ogni cosa, e dunque potenzialmente atta ad incarnare un’opzione di coscienza condivisa, a livello di trasformazione profonda, di cammino collettivo degli individui (ciascuno con il suo percorso). Il canto di Hajdari nasce dalla natura, come il vino dai raspi della vigna, e raccoglie tutta la cultura che conosciamo (cioè il senso di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere, al di là di tutti gli impedimenti) per riconsegnarla infine alla natura, su un piano evolutivo superiore. Una poesia di cui c’è assoluta urgenza storica: proprio in quanto nuovamente, eternamente ancora umana, piena di luce cosciente e lontanissima dal grigiore di tante sterili lallazioni contemporanee.

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”. Ha fondato, insieme a Giorgio Linguaglossa, il blog lombradelleparole.wordpress.com

22 commenti

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22 risposte a ““Delta del tuo fiume” di Gëzim Hajdari. “La poesia epica dell’esilio” Lettura di Marco Onofrio

  1. La poesia di Gezim Hajdari anela alla felicità, ma se la raggiungesse, cesserebbe di essere poesia. In effetti, la poesia (e l’arte in genere) non può che indicare la luna, la felicità lontana come la luna. E questo atto dell’indicare è un fonema instabile, cioè un significante che addita un significato. Così, la poesia è per sua natura un atto instabile, la sua via è lastricata da inquietudine, irresoluzione, contraddizione; se cessassero di operare questi elementi, cesserebbe di essere poesia. Nella sua essenza la poesia è un atto di liberazione dalla falsa coscienza e dall’alienazione, dall’ingiustizia e dalla protervia degli uomini; quanto più forte è la costrizione esterna, tanto più alto si leverà il canto della poesia. Credo che questo sia chiaro

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  2. Non scordiamoci caro Giorgio che il lupo senza collare ha il pelo nitido e integro anche sul girocollo, roba che chi porta il collare non ha. Segno di libertà, segno di indipendenza. Salvo diventare Africa a forza di ricevere amore. La poesia di Hajdari è questa, lirica e concreta, vera senza appesantimenti o inutili ghirigori. Il poeta in questo caso riflette l’uomo e la statura di entrambi è alta.

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  3. antonella zagaroli

    Veramente mi dispiace scrivere queste parole per l’autore che è comunque serio. Ma è stato immediato pensarlo anche perché so che Manzi è il suo mecenate.
    Luigi Manzi perché non firmi a metà con Hajdari?
    Cosa me lo fa scrivere? Tutto questo passo:
    mordi miei capezzoli come mordevi i chicchi rossi
    (…) bevi il mio collo di cerbiatta,
    stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie
    (…). Uomo toro che profumi di eros,
    appena mi guardi, mi inumidisco,
    appena mi sfiori, mi sento donna,
    (…) quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
    (…) quando tu muori in me, io rinasco in te.
    Queste sono tue parole anche se vivi nell’ombra della poesia, dichiarando che non la segui più.
    Tu ti definisci uomo toro e la donna cerbiatta che si abbandona.

    Questa parte mi dispiace per Gezim è una sorta di plagio di alcuni miei versi che gli consiglio di leggere e parlarne col suo amico.
    Io ho scritto della cerbiatta in due sezioni di Venere minima (pubblicata nel 2009) e anche presa sul collo per amore e morte e sempre nello stesso libro ho inserito la sezione L’uomo Toro ma con una struttura più complessa poiché comprende varie articolazioni poetiche. Eccone un esempio della parte dialogante (T. è sta per Toro, D, per donna):

    L’uomo Toro
    (..)

    T: Inseguire quel dorso di delfino
    che lascia emergere i fianchi,
    che magnifico perlaceo animale!

    D: E’ il delfino sacro della dea
    suo nobile famiglio
    suo messaggero nel mare.
    (…)
    T: Ho visto una donna dal viso bello
    e ti ho pensata,
    ho visto due donne dai fianchi belli
    e ti ho desiderata
    ho visto una ragazza dai seni minuti
    e ho sete di te(…).

    Spero che la corona dei miei denti
    sia trapassata dallo scarlatto al blu,
    dalla ferita sanguinosa del morso
    al solco della memoria(…)

    Verginità e martirio l’odore del sangue!

    D: C’è la mareggiata
    creste bianche si rincorrono impazzite,
    il vento e il sole ne sono inorgogliti
    la spuma lenisce le ferite
    sulle labbra interne ed esterne.

    T: L’odore del mare arriva qui,
    solleva la marea degli istinti primordiali.

    D: Immagina quelli negli abissi scuri!
    Eppure anche lì ci sarà un luogo di assoluta calma
    simile all’attimo in cui mi volto
    m’apro per circondarti con la vagina(…)
    Ecco allora l’essenza che spinge dall’osso sacro
    eleva la spina dorsale.
    Seduta ho il senso della presenza (…).

    T: Che perfetta misura dentro la cavità…delle mie mani!
    Che cerchio perfetto intorno al centro,
    il mio centro eretto e profondo!(…)
    China la testa sul ceppo.
    Solleva i fianchi.
    Ricevimi sottomessa dentro la porta stretta
    che conduce al centro tuo.
    (…)
    D: Mi lasci sempre meno segni visibili all’esterno.
    Le curve del corpo mi specchiano terra rigogliosa,
    liquido di placenta per l’anima(…).

    Buona giornata dall’arco alla sua freccia
    dal paesaggio all’occhio che lo guarda
    dai fianchi alla cima
    dal mare al suo amorevole leviatano.
    (…)
    T: Ti amo, ti voglio presto, subito.
    Vorrei che il mio seme piovesse sulle tue labbra
    insieme alla pioggia fuori della finestra.(…)

    Vorrei essere Chirone che ti bacia mentre ti monta.

    D: Io vorrei essere scovata, ammansita,
    fatta scivolare, custodita.
    (…)
    T: Sono in viaggio con te
    dentro le bianche vele delle lenzuola
    dove l’iride guarda il proprio colore
    dove l’antinomia e la tautologia sono la stessa cosa,
    come il maschio e la femmina.

    D: Veleggio sul ponte, l’attraverso per raggiungerti(…).

    E’ notte. Ho bevuto vino.
    Ho cosparso olio sul corpo.
    Immersa nell’acqua odorosa
    il vestito è il crepitio del bagnoschiuma.
    Sono nella tua lontananza.
    Le tue parole non titilleranno
    nulla più. Forse mi vedrai toccandoti.(…)
    So che non mi dirai chi sono.
    Attenderanno invano i commenti che le preparavano,
    le mie natiche, forti , espansive.
    Fa troppo caldo in questa vasca!
    Inspiro il mio sudore, immagino il tuo sperma.
    Con la penna sto facendo un gioco pericoloso,
    un gioco per nutrire il desiderio, per ingoiare il desiderio.
    (…)
    La storia dell’uomo toro li ha turbati,
    la trasparente carnalità
    non esaurisce le spiegazioni sui comportamenti
    di lei. Occorrono altre notazioni.

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  4. antonella zagaroli

    Avevo dimenticato che anche la mia cerbiatta è portata alla morte da un lupo-cane che la azzanna sul collo ma lo fa per amore

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  5. cara Antonella Zagaroli,

    ho letto le tue poesie sulla cerbiatta e sul lupo, ma in verità le poesie di Gezim Hajdari mi sembrano lontanissime per tono, lessico e pentagramma musicale dalle tue cose come anche dalle poesie di Luigi Manzi che tu hai citato.
    Citare Gezim Hajdari come se fosse un plagiatore di testi altrui mi sembra davvero riduttivo e fuorviante. Io preferirei che i commenti si concentrassero sui testi prodotti o sulla validità della critica che li riguarda e non su altri elementi esterni alla poesia.

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  6. antonella zagaroli

    Caro Giorgio Linguaglossa (visto che usiamo i cognomi),
    Ci sono stati commenti su altri autori anche su questo tema del linguaggio similare ma forse nel commento non mi sono spiegata bene.
    Certo le idee e le parole comuni (ho scritto una sorta di… )possono girare e succede in ogni campo (dai pittori, gli scultori, i romanzieri e ai produttori di vino e di formaggio) ma l’analogia di stamattina l’ho trovata immediata, sai sono dentro di me le parole e le situazioni che scrivo. Quel dialogo poi era così simile!
    Non ho parlato delle poesie di Manzi ma del suo linguaggio cercato per scrivere la poesia, semplicemente del suo modo di vedere la donna e so per certo della comunione dei due poeti.
    Lo stile è diverso? Sì e ne sono contenta per loro e per me, che in Venere minima ho utilizzato una narrazione poetica complessa e diversificata, ma certo io sono nessuno eppoi non vorrei scalfire due delle figure portanti del tuo sito.

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  7. I saggi di Marco Onofrio sui poeti sono sempre eccellenti per acutezza d’interpretazione e fedeltà ai testi analizzati.
    In questo caso la poesia di Gezim Hajdari e il poeta stesso ne escono vivi, quasi scolpiti con nitore da un artista abile con i suoi strumenti.
    Pare che la grande, vera poesia debba nascere dal dolore, molto spesso dall’esilio, come ben dimostrano Dante Alighieri nel Poema e Ugo Foscolo nel sonetto “A Zacinto”. Spesso, come nel Foscolo e in Gezim Hajdari, la nostalgia della patria lontana si unisce alla memoria dell’infanzia trascorsa in quel luogo sacro. Ma se nel poeta greco (così gli piaceva essere pensato) la bella Zacinto era evocata con immagini luminose e mitologiche, nel poeta Haidari l’Albania è sì rimpianta, ma al tempo stesso è ricordata come matrigna che nutre i suoi figli per ucciderli. L’esilio è solitudine, come sanno per esperienza sia Dante Alighieri sia Gezim Haidari; ma è preferibile la tragicità della solitudine ai compromessi e alla disonestà.
    Il dolore è il prezzo della libertà, senza la quale l’uomo non può vivere dignitosamente e il poeta non può creare la sua poesia autentica.
    ‘Hajdari ha accettato il prezzo della libertà, la solitudine terribile del lupo senza collare, la povertà, la fame, l’esilio. Solo così ha potuto «coniare la moneta del proprio Verbo» ed essere Poeta. Creativo perché libero, e libero perché creativo.’ scrive infatti Marco Onofrio.
    La poesia d’amore di Gezim Haidari mi ha ricordato il “Cantico dei cantici” di Salomone per la delicatezza delle immagini, pur fortemente erotiche, e per la finezza del linguaggio.

    Giorgina Busca Gernetti

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    • Mi scuso con il poeta Gëzim Hajdari se qualche volta ho scritto il suo nome in modo impreciso.
      GBG

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    • Grazie Giorgina, come al solito sei una delle poche persone a commentare il post entrando in dialogo con l’analisi proposta, senza utilizzarla solo o soprattutto per scantonamenti, voli pindarici, riscritture o pretesti esibizionistici. Grazie anche per i complimenti 🙂

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      • Grazie a te, Marco, per l’apprezzamento. Una mia “fissazione”, da insegnante, era che lo svolgimento fosse del tutto aderente al tema proposto, soprattutto quando si trattava di analizzare un passo d’autore.
        Chi “svicolava” o mi raccontava la vita dell’autore o parlava d’altro a piacer suo si rovinava con le sue stesse mani (penna).
        Un caro saluto
        Giorgina 🙂

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  8. antonio sagredo

    Più che la Terra, è il sangue che lo vincola irreversibilmente e irriducibilmente a un NOSTOS che lo accerchia e lo libera allo stesso tempo… e i miti grecorientaliafricani che rincorre e a cui ricorre indubbiamene gli sono amici/nemici, e che le ombre e le luci dei miti suoi indigeni accendono e spengono gli entusiasmi e le gioie e le ”concenti disillusioni”. Avverto nei versi di Gezim Hajdari una tortura quasi da neoespressionismo, specie là dove i colori-stiletti a tinte forti incidono la sua carne, la triturano affinché come semi informi e deformi vengano gettati non sulla superficie della sua terra, ma dentro le sue viscere che nutrito hanno le sue generazioni. Non possiamo escludere nulla dall’esilio, nemmeno una ostentata dignità che lo sorregge!… lui che s’apposta come una “aquila” poco nutrita dagli alberi alle cime innevate che io giovanissimo talvolta miravo dalle sponde di Otranto. E l’ho conosciuto da poco tempo di persona… gli occhi si sono incontrati e l’empatia è scoppiata come doveva essere, e ho riconosciuto- dovute sono le distinzioni! – in lui un destino alla Mandel’štam! E poi il corpo delle sue donne e del suo mare, indistinguibilmente legati dalle creste delle spume: la comunione è più che una unione razionale, e ci invita ad una meditazione sui versi di un poeta che del passato ha cicatrici insanate, ma del presente la vittoria sulla incomprensione! Mi sovvengono- che mi scusi Gezim- alcuni versi di un Majakovskij prossimo alla fine (14 aprile 1930):
    I
    Io voglio essere compreso dalla mia terra,
    se non sarò compreso che importa,
    per la terra natìa passerò di fianco,
    come passa l’obliqua pioggia.

    Antonio Sagredo
    Roma, 22 aprile 2015

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  9. gabriele fratini

    Su questa storia del plagio, che mi ha dato modo di conoscere anche il bel testo di Antonella Zagaroli, mi viene in mente l’immagine/allegoria della farfalla bruciata al fuoco della luce, in Pirandello che ha plagiato Nievo che ha plagiato Goldoni che ha plagiato Marino che ha plagiato Bruno che ha plagiato Tasso che ha plagiato Tansillo che ha plagiato Bandello che ha plagiato Leonardo che ha plagiato Dante da Maiano che ha plagiato Chiaro Davanzati che ha plagiato il Mare amoroso che ha plagiato Giacomo da Lentini che ha plagiato Isidoro di Siviglia che ha plagiato Plinio.
    Un saluto.

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  10. Steven Grieco

    Arrivo un po’ in ritardo stasera per celebrare la bellssima poesia di Hajdari. Leggendola, ho subito ricordato l’ovvio, e cioè che Hajdari è poeta balcano, e in questo senso i Balcani hanno davvero allevato tanti importanti poeti, per poi cercare di ammutolirli, ucciderli, cacciarli dal proprio grembo. Qualcuno ha resistito, diventando esule in patria.
    Bisogna capire da dove nasce questa immagine di Hajdari così forte, che colpisce volta dopo volta, ti coglie impreparato, questa inesauribile voragine di figurazioni.
    Penso al grande Ivan Lalić, al grande Slavko Mihalić.
    Poeti serbi e croati apparentati ad un albanese? Ecco, questo mi chiedevo io anni fa, ma un caro amico albanese psicologo, Fatos Dingo, mi ebbe a spiegare che nonostante l’antica e mai sopita conflittualità, c’è pur sempre una grande affinità culturale e geografica, che da secoli lega questi popoli insieme in un rapporto problematico e appunto così spesso distruttivo.
    Di Mihalić, poeta sicuramente sconosciuto in Italia, c’è comunque un’antologia molto bella (“Un passo fuori – Iskorak, poesie di Slavko Mihalić, a cura di Marina Lipovac-Gatti, Jaca Book, 1990) curata purtroppo molto male, con innumerevoli refusi, ma comunque veniamo via con la sensazione di aver letto un grande poeta.
    Perché dico queste cose? Nella introduzione a quel volume, la curatrice, la Lipovac-Gatti, dice una o due cose folgoranti sulla poesia jugoslava, che mi sembra possa aiutarci a capire qualcosa del fenomeno della poesia di Hajdari:
    “Mentre la poesia europea del XX secolo aveva perso molto del suo alone mitico, in quest’area slava assumeva invece un preciso ruolo sociale; in Europa il poeta è diventato uno specialista della parola, un tecnico del testo, in Jugoslavia ha conservato qualcosa del vate, del prestigio di chi porta la bandiera e dispone di una carica quasi profetica.” … “La situazione della poesia jugoslava nel dopoguerra, legata alla tradizione epica e orale, lontana dalla coscienza simbolica elaborata nell’Europa occidentale nel primo Novecento, determina il perdurare di atteggiamenti oratori, popolari o enfatici, ma anche custodisce il germe segreto che segna di forza inconsueta nel nostro continente i più originali poeti di quel paese. Questo germe segreto è il legame naturale, genetico della poesia con il mito. Quando tale legame scade a cronaca nascono le deteriori mitologie poetiche, quando affonda nelle proprie radici la poesia affronta l’inquietante e avventurosa luce dell’archetipo.”
    E’ questa luce dell’archetipo, mi sembra, che contrassegna la poesia di Hajdari. Essa nasce dalla sua terra e dal suo popolo, e può andare fino in Africa, fino nei mari del Sud, ma la luce rimane, e agisce da filtro per dare al discorso una struttura intellettuale sempre centralizzante e luminosa, affina le immagini, per quanto siano forti e lacerate, le raccoglie, le rende armoniose. Infatti, a dispetto di tutte le violente mareggiate di questa poesia, il lettore sente di potersi affidare ad essa, sente di poterci riposare. Il mondo ha ancora un suo senso.

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  11. Complimenti a Gezim Hajdari per “Delta del tuo fiume”: ho sempre apprezzato le sue poesie, dalle quali trasuda un dolore autentico…Dolore di una realtà che Hajdari riesce a scolpire come pietra, una splendida pietra.
    Inoltre, complimenti a Marco Onofrio per questa lettura accurata.

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  12. Giuseppina Di Leo

    Leggo la poesia di Gezim Hajdari e mentalmente vi associo la parola ‘resistenza’, per il senso profondamente vero della sua battaglia, chiaro in questi versi:

    Quando finirà questo esilio?
    Albania sono ancora vivo (…)
    Tace la tua ombra assassina (…)
    La mia ombra non trova pace,
    erra impazzita tra le dune della fuga.

    Riporto qui di seguito un mio commento scaturito dalla lettura della poesia Anche nell’aldilà mi suonerà, dalla raccolta “Erbamara”, per l’assonanza che vi ritrovo con la perfetta nota critica di Marco Onofrio su questo grande poeta.

    *
    – Sembra quasi che un disegno premonitore sia al fondo della vita di Hajdari (la data di nascita del poeta coincide con la morte del dittatore Stalin). Un evento ineluttabile è dunque la poesia, che è poesia del dolore, del distacco dalle sue origini e della perdita della parola. Una parola che era già eco nel suo pronunciarsi («Gli stornelli che scavavano nella roccia / come se fossero impazziti…»). Persino la morte si mostrerà spietata, né porterà riscatto all’esistenza: «Anche nell’aldilà mi suonerà / la maledizione nell’alba: / «Non avrai mai fortuna, che tu possa morire / per strada, come un cane!…». La morte, nella sua accezione di annullamento del ricordo andrebbe intesa come pensiero immanente che trova il suo posto nel luogo della poesia: essa condurrà un corpo giovane tra le rovine per riportare in vita in maniera, se possibile, ancor più atroce i richiami ancestrali della terra-madre. Allora, luogo e memoria diventeranno tutt’uno, quasi legami imprescindibili, e, con essi, più dolorosi saranno i ricordi.
    GDL

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  13. letizia leone

    Complimenti a Marco Onofrio per il suo intervento critico e illuminante che sollecita ulteriori approfondimenti e molto è stato detto in modo brillante in questi interventi.
    Per me leggere la poesia di Hajdari è come spalancare la finestra sulle due camere e cucina di tanta poesia italiana…poesia di casta e unicamente libresca che si divide l’alloro delle piante d’appartamento.
    Eppure avevamo alle spalle sollecitazioni feconde come quelle gramsciane di un “intellettuale organico”. Hajdari potrebbe essere un esempio importante di poeta organico che si “mescola” e va a rischiare di persona, che calpesta fisicamente quel “Meridiano” umano e terroso della poesia. Non a caso è un contadino della poesia che ci fa intravedere nuove possibilità o vie d’uscita.
    Questo perchè la letteratura è dialogo infinito ed ecumenico, e bisogna andarci cauti con le accuse di plagio, almeno che non si tratti di traslazione di interi versi. Ma di quante agnelle, fanciulle, cerbiatte (o amate, o inseguite e rapite) è ricca la tradizione? E di quanti caproni, seleni, pan o tori predatori? Sono tòpoi come è stato già detto e figurazioni (per quel che mi riguarda così obsolete) che solo la grandezza e la parola antiretorica di Hajdari può insufflare di nuovo ossigeno etico.

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  14. Ricevo alla mia e-mail e lo trascrivo il commento inviatomi da Luigi Manzi:

    Caro Giorgio,

    mi hanno segnalato alcune osservazioni riguardanti l’ultimo libro di Gezim Hajdari, Delta del tuo fiume, che mi coinvolgono.
    Gezim non ha, né ha mai avuto bisogno di imitare altri; tantomeno di plagiarli, tanta è la forza ribelle e l’originalità che immette nella propria poesia. Il plagio si addice a chi è affetto da debolezza morale. Questo non è certo il caso di Gezim alla cui altezza può stare solo chi unisce a una grande poesia una grande vita: la sua davvero eroica quanto straordinaria; altrimenti si potrebbe parlare solo di buona poesia. La mail di Gabriele Fratini spiega con esatta ironia le coincidenze che possono avvenire su temi universali: coincidenze che riguardano frequentemente i poeti di levatura e possono risalire via via fino al Codice di Hammurabi. Nel caso del nuovo libro di Gezim, e di quella parte in evidenza, va pure tenuta presente la sua esperienza di viaggio nell’Africa più ancestrale per dare orizzonte a molte delle metafore e figurazioni animali, persino bibliche. L’ amicizia di cui Gezim mi onora (e non mecenatismo) risale a molto tempo fa: a quando era arrivato da poco profugo in Italia a causa delle sue coraggiose lotte politiche e minacce ricevute in patria. L’occasione era venuta nel 1991, durante un reading poetico ad Agnone, condotto da Luigi Amendola, poeta ingiustamente dimenticato, cui partecipava anche Dario Bellezza; il quale, come me, rimase enormemente impressionato da quella poesia lapidea, scagliata con impeto e urlo contro vento, in faccia a un occidente sonnolento. Come pure colpito da quel viso schietto e scavato, di pastore. Stimo grandissimamente Gezim, che merita i più alti riconoscimenti internazionali; che alla fine verranno.
    Per quanto mi riguarda, chiedo cortesemente di essere tenuto fuori da tali controversie. In questo momento sono impegnato in altri ambiti, e lontano dalla letteratura.

    Grazie, Luigi Manzi

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