Archivi del giorno: 4 aprile 2015

POESIE SCELTE di Gertrud Kolmar (1894-1943)  “La straniera”, “L’ebrea”, “Il rospo”, “Nel lager”, “Solo la notte ti ascolto”. Commenti di Marina Zancan e Antonella Gargano con Lettere alla sorella Hilde traduzione di Giuliano Pistoso

La straniera di Marina Zancan

Auschwitz-

Auschwitz-

La figura di Gertrud Kolmar – proiettata da uno straordinario immaginario poetico e conservata per frammenti dalla scrittura, da quella poetica, forma di una lingua per lei originaria, a quella privata delle Lettere a Hilde – appare a chi legge, e si stempera, per ricomporsi, in immagini di colore, come filtrata da lenti di caleidoscopio. Sepolta a lungo nel silenzio della storia – Kolmar, tedesca ebrea, scrive nella notte della Germania hitleriana e le sue carte, in parte perdute, rimangono a lungo disperse – la figura di questa donna, riflessa nella sua pagina in una pluralità di immagini autoreferenziali, conserva la seducente ambiguità di una bellezza inconsueta, ancora in parte lontana da quella conoscenza che un’indagine sistematica contribuisce a formare. Certamente Kolmar è una voce importante del Novecento europeo: ma, come per lei in vita la parola poetica è stata soprattutto il suo modo di essere, una straordinaria affermazione di sé intessuta da una struggente richiesta di ascolto (“Mi tieni completamente nelle tue mani.” – scrive la poetessa rivolta al lettore – “Come quello di un piccolo uccello, batte il mio cuore / nel tuo pugno.”) totalmente lontana da ogni forma di ambizione mondana, così le sue carte sembrano segnate da un destino parallelo di incontri quasi privati. Stampate, la prima volta, per la cura affettuosa del padre, apprezzate da Walter Benjamin, il cugino con cui Gertrud discute in carte private di cultura e di poesia, le sue poesie raggiungono la scena del pubblico nel ’38, subito cancellate dalle leggi razziali; consegnate da quella data in poi a familiari emigrati, perché le conservassero, le sue scritture, sommessamente riproposte in Germania dopo la guerra, solo negli ultimi anni hanno iniziato ad acquisire visibilità e valore. Lo conferma la loro storia italiana: dobbiamo infatti ad una raffinata ma piccola casa editrice, la Essedue Edizioni, ovvero a Giuliana Pistoso – che ha incon- trato Kolmar quasi per caso – la prima ed unica traduzione italiana di una parte di quelle carte: // canto del Gallo Nero (1990: una scelta tra testi poetici e le lettere a Hilde); Susanna (1992); Notte (1994: pièce teatrale inedita). Un piccolo, prezioso campionario di un corpus vasto e variato nelle tipologie della scrittura, accolto, in occasione degli appuntamenti editoriali, da letture attente e spesso appassionate, ma rimasto ancora quasi necessariamente in un circuito ristretto di lettura. Attraverso questa mostra fotografica presentata sotto il titolo La straniera, si intende offrire gli strumenti di base per conoscere Kolmar.

La scelta dell’immagine poetica da accostare al nome e a quel ritratto – unico, e così caro a lei – dominato dagli occhi (“ora è morta” dice Susanna di Zoe, la principessa-cagna… “e sotto quel pelo vive solo negli occhi”) non è stata semplice, avendo a monte, da parte mia, letture asistematiche, di pura passione: La straniera (in Ritratto di donna, 1938) è una delle tante immagini di sé attraverso cui Kolmar vive nel suo immaginario poetico. Ma è, io credo, una figura essenziale, un’immagine del profondo che conserva e ci svela il nesso che in lei vincola l’esperienza nel mondo alla scelta della parola poetica. Straniera in casa, straniera nell’amore, straniera nella storia: l’esperienza di Kolmar è esperienza di estraneità. Ma, reietta perché diversa, in Susanna (l’ultimo suo testo a noi pervenuto, se si escludono le Lettere a Hilde) Gertrud è la giovane folle, di straordinaria bellezza, sola tra gli esseri umani, ma fusa e confusa tra gli elementi dell’universo: “vivo” – scrive a Hilde il 10 ottobre 1939 – “rifugiandomi sempre più […] in ciò che è essenziale, negli ‘eventi dell’eternità’”. È un ritrarsi privo di rinuncia, un ritorno alle origini della vita dove l’estraneità, fatta propria, assume il valore del gioiello (“io sono il rospo / e porto il gioiello”, // rospo), dove le parole, rinominando le cose, restituiscono alla vita i colori. In questo universo rigenerato in un silenzio che si oppone alla violenza della storia, Gertrud può dire di sé a Hilde: “Oggi, per fortuna, so […] che quello che ho ottenuto valeva quello che ho dovuto pagare (13 settembre 1939).

Auschwitz Ingresso

Auschwitz Ingresso

Gertrud Kolmar e i poeti di Antonella Gargano

Contro l’oblio si intitolava programmaticamente una mostra organizzata nel 1985 dalla “Deutsche Akademie tur Sprache und Dichtung” di Darmstadt e dalla “Universitàtsbibliothek” di Francoforte, il cui ‘quaderno’ riproduceva in copertina Gertrud Kolmar nella famosa fotografia del 1928. Quella stessa fotografia si ritrova su un lessico uscito un anno dopo: un volto – dei suoi occhi “ciascuno è scuro, ed è una stella”, come è detto nella poesia L’ abbandonata – scelto, di nuovo come un programma, ad aprire un repertorio delle scrittrici di lingua tedesca.

Le manifestazioni in occasione del cinquantenario della nascita di Gertrud Kol- mar (una mostra, curata nel 1993 presso lo “Schiller-Nationalmuseum” di Marbach da Johanna Woltmann) e nel centenario della morte (la mostra del 1994, su progetto di Marion Brandt, presso lo “Heimatmuseum” di Falkensee, che venne presentata a Roma nel marzo 1997 in una versione rinnovata ed ampliata) sono il primo, concreto segnale di una attenzione critica a lei rivolta. Ma è anche vero che la silenziosa presenza di Gertrud Kolmar nel panorama letterario di lingua tedesca aveva avuto una sua significativa eco proprio tra i poeti. Nelly Sachs aveva colto la qualità visionaria e la sostanza iconica della sua poesia in un testo dedicato alla Veggente (1942/1943), Johannes Bobrowski aveva costruito attorno ad un verso dell’ Ebrea di Gertrud Kolmar la sua memo- ria della poetessa berlinese (Gertrud Kolmar, 1961) e Christoph Meckel nel 1964, in un volumetto di disegni per Bobrowski, riprenderà come motto quei versi che, in una sorta di curioso domino letterario, ritornano indietro a Gertrud Kolmar.

E d’altra parte, per quanto possa apparire come ‘voce isolata’, tagliata fuori da una circolazione e da un dialogo poetico, l’opera della Kolmar lascia affiorare i segni di precise contiguità: con la poesia di Annette von Croste, come già nel 1928 aveva indicato il ben altrimenti famoso cugino Walter Benjamin pubblicando due sue poesie, a cui l’accomuna una esplorazione della natura fin dentro la sua dimensione biologica e microrganicistica, lungo una linea ideale che passa attraverso Oskar Loerke e arriva fino a Bobrowski, o, ancora, con la più vicina eredità espressionista. Straniera, détaché e sempre ‘altra’, Gertrud Kolmar insiste sulla sua alterità. “lo sono straniera”, così si apre L’ ebrea, e nell’opposizione poetessa/scrittrice sceglie la via più isolata della poesia: “Sono una poetessa, questo lo so; ma non vorrei mai essere una scrittrice”. Eppure la sua poesia va oltre ogni senso di estraneità, di perdita e di morte, indicando un’immagine di sé, nonostante tutto, come “luce di cera per la veglia del secondo mondo”. Proprio questo sembra aver avvertito Bobrowski che chiudeva la sua poesia ‘dilatando’ un verso della Kolmar e aprendolo ad un luogo senza tempo:“non moriremo, noi, / ci circonderanno le torri?”.

 il binario che porta ad Auschwitz

il binario che porta ad Auschwitz

La poetessa

Mi tieni completamente nelle tue mani.

Come quello di un minuscolo uccello, batte il mio cuore nel tuo pugno. Tu che leggi, sta attento
perché vedi, stai sfogliando una creatura. Ma se per tè è fatta solo di cartone,
fogli stampati e colla, allora resta muta, non ti colpisce col suo grande sguardo che dai neri segni guarda cercando;
allora è solo una cosa con il destino di una cosa.

Pure s’era cinta di veli come una sposa, s’era adornata perché tu la potessi amare ed, esitante, prega che, per una volta,
tu cacci via la pigra indifferenza
e trema e sussurra a se stessa:
«Non succederà.» Ti fa un cenno e un sorriso. Chi dovrebbe sperare se non una donna?
Il suo intero mondo è quel solo: «tu…»
Con fiori neri e sopracciglia dipinte,
con catene d’argento, con sete, stellata d’azzurro. Da bambina sapeva cose più belle,
ma le parole più belle le ha dimenticate.

L’uomo è molto più saggio di noi. Nei suoi discorsi parla della morte,
della primavera, delle industrie, del tempo. Io dico: «tu…», solo e sempre: «tu ed io.»
Questo libro è un vestito di ragazza,
può essere bello e rosso o poveramente sbiadito e sempre soltanto da dita amate
si lascerà gualcire, qualche volta macchiare.
Perciò sono qui a mostrare quello che mi è accaduto;
quello che un forte candeggio ha sbiadito senza poter del tutto cancellare.
Perciò ti chiamo. Il mio richiamo è leggero, sottile.
Tu senti quello che dice, ma comprendi quello che sente?

L’ebrea

Io sono straniera.

Perché gli uomini con me non s’azzardino, voglio essere circondata da torri
che portano aguzzi berretti di pietra grigia in alto verso le nuvole.

Voi non potete trovare la chiave di bronzo della tetra scala. Essa gira su di sé verso l’alto come la piatta, squamosa testa sollevata
una vipera nella luce.

Ah, questo muro si sgretola come roccia bagnata per millenni dalle tempeste;
gli uccelli dai rudi colli rugosi
si rintanano nelle profonde caverne.

Sotto la volta di sabbia friabile groviglio di rettili con i petti maculati… Vorrei armare una spedizione esplorativa nella mia originaria, antichissima terra.

Posso la sepolta Ur dei Caldei forse da qualche parte scoprire, l’idolo Dagone, la tenda degli ebrei, la tromba di Gerico.

La tromba che abbattè le arroganti mura, brunisce sepolta, piegata, distrutta,
ma un tempo ho respirato il soffio che produsse il suo suono.

Nelle cassapanche coperte di polvere giacciono senza vita le nobili vesti, morente splendore dall’ala della colomba, l’ottusità di Behemot.

Io le indosso stupita. Sono ben piccola,
lontana dai tempi della loro ricchezza e del loro potere,
ma intorno a me si aprono scintillanti spazi come a difesa ed io in essi mi espando.

Ora mi sento strana e non mi riconosco perché ero già prima di Roma, di Cartagine, perché subito ardono per me gli altari
di Debora e della sua schiera.

Dal vaso d’oro nascosto
corre attraverso il mio sangue un doloroso splendore e un canto vuole chiamarmi con nomi
che siano di nuovo fatti per me.

I cieli gridano colorati segnali. Impenetrabile è il vostro volto:
quelli che, timidi, con la volpe del deserto mi circondano, non lo vedono.

Soffiano gigantesche, devastanti colonne d’aria, verdi come giada, rosse come coralli,
sopra le torri. Dio permette che crollino e tuttavia i millenni ancora stanno.

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Gertrud Kolmar

Gertrud Kolmar

La straniera

A mia sorella Hilde

.
La città è per me un vino colorato in un levigato calice di pietra
che sta e brilla davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.

Esso riflette il suo cerchio più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi, ci colpiscono tutte le cose a noi quotidiane e usuali.

Davanti a me la rigida parete delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro della piccola bottega
si chiude riservato: «Io non t’ho chiamata.»

II selciato ascolta e cerca a tentoni il mio passo pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno si unisce con la colla, là si parla una lingua che non è mia.

La luna palpita rossastra come un assassinio sopra il corpo lontano, sopra la parola smarrita, quando, la notte, contro il mio petto s’infrange il respiro d’un mondo straniero.

Noi ebrei 15.9.1933

gertrud kolmar 2

Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio, voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa, la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.

E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato, e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità, la mano che si tende a toccare Dio in cielo.

Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei, e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono, gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.

E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante, sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare, e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma, e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.

L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli, l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele; Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!

Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero. Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre, tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!

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Il rospo

12 ottobre 1933

Il crepuscolo azzurro scende denso d’umidità con il mantello dal largo orlo rosa dorato.
Un pioppo nero si staglia nella morbida luce,
e dolci betulle tremano contro la pallida schiuma.
Come una testa di morto, una mela rotola sorda nel solco, s’accartoccia leggera e perisce la bruna foglia autunnale. Con piccole luci spettrali la città, lontano, s’abbuia.
La bianca nebbia dei prati avvolge i ranocchi.

Io sono il rospo
e amo gli astri della notte. La sera, alto, il Rosso
si gonfia purpureo nello stagno d’improvviso incendiato. Sotto le assi marce della botte per l’acqua piovana
mi rintano accovacciato e grasso;
il tramonto del sole
spia, sofferente, il mio sguardo lunare.

Io sono il rospo
e amo il sussurro della notte. Un delicato flauto
nell’oscillante canneto, nel càrice s’è svegliato, un tenero violino
vibra e scintilla sul ciglio del campo. Tacito ascolto,
mi trascino sulle zampe palmate

sotto una panca fradicia
membro dopo membro fuori dal pantano come un sommerso pensiero
si trae fuori dal groviglio e dal fango. Oltre i cespugli, fra i ciotoli
modesta, buia creatura, saltello;
il rugiadoso gocciolare del fogliame, l’edera verde-nera mi sciacquano via.

Respiro, nuoto
dentro un profondo, tranquillo splendore, umile voce
sotto l’alato piumaggio della notte.
Vieni dunque e uccidi!
Per tè posso essere solo un disgustoso animale:
io sono il rospo
e porto il gioiello.

Nel lager

Quelli che s’aggirano qui sono corpi soltanto, non hanno più anima,
soltanto nomi nel registro dello scrivano, carcerati: uomini, ragazzi, donne,
e i loro occhi fissano vuoti

con lo sguardo sbriciolato, distrutto per ore in una fossa buia,
soffocati, calpestati, picchiati alla cieca.
Il loro gemito tormentoso, il loro pazzo terrore, una bestia, sulle mani e sui piedi, carponi…

Hanno ancora le orecchie
e neppure odon più il loro grido. La prigione distrugge, schiaccia:
nessun coraggio, nessun coraggio più per ribellarsi! Stride leggera la sveglia spaccata.

Si affaticano come dementi, grigi, devastati, separati dall’umanità variopinta,
irrigiditi, timbrati e marcati,
come bestiame da macello che aspetta il beccaio e non conosce che il fetido truogolo e il recinto.

Solo paura, solo orrore nei volti
quando, di notte, uno sparo afferra la vittima… e nessuno ha veduto l’uomo
che silenzioso in mezzo a loro
trascina la croce nuda verso il supplizio.

gertrud kolmar 1

Lettera alla sorella

 Hilde, sorella carissima il 15 12 1942

Un mio conoscente, il dottor H. era uno studioso di Spinoza e un giorno mi ha parlato della sua teoria sulla libertà della volontà umana all’interno della non-libertà. Penso di capire tutto questo attraverso le mie esperienze personali. Non è dipeso da me accettare o rifiutare il lavoro in fabbrica, mi è stato imposto, però ero libera di accettarlo o di rifiutarlo intcriormente; posso eseguirlo con ritrosia o con buona volontà. Dal momento che io l’ho accettato nel mio cuore non me ne sono più sentita soffocata. Ho deciso di considerare questo lavoro un insegnamento e di imparare il più possibile. In questo modo, dentro alla non-libertà, ho scelto la libertà. E così vorrei anche sopportare il mio destino, sia esso alto come una torre o nero e soffocante come una nuvola…

Berlino 23.10.41 ore 4 del mattino

 Lettera alla sorella

Cara Hilde,

Di recente mi ha offerto aiuto un breve, piccolo episodio. Durante la pausa per la colazione (un quarto d’ora circa), mi trovavo nella stanza degli armadi e sedevo tutta sola su una panca vicino a una giovane zingara che non faceva nulla, non parlava, guardava completamente immobile fuori, verso il cortile deserto della fabbrica… Io l’ho osservata: non aveva quella faccia angolosa degli zingari con gli occhi inquieti e scintillanti, anzi i suoi tratti erano morbidi, quasi slavi; era di carnagione abbastanza chiara… E non aveva soltanto l’aria cupa, vinta degli animali, dei vecchi cavalli da tiro. Questo inevitabilmente c’era, ma c’era anche qualcosa di più: una chiusura impenetrabile, un silenzio, una distanza non più raggiungibile da una parola o da uno sguardo del mondo esterno… E ho capito che proprio questo avevo sempre voluto possedere senza riu- scirvi e che se adesso l’avessi niente e nessuno dall’esterno mi potrebbe più toccare. Però mi trovo già su questa strada e ne sono contenta… I reumatismi di papà sono migliorati, anche se non molto… Lui naturalmente sta ancora dormendo.

Un caro saluto!

Trude

Lettera alla sorella

Berlino 1.2.42

Mia cara Hilde,

Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.

Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…

Con tanti cari saluti anche da papà

Trude

da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni

campo di concentramento 2La tregua di Primo Levi

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles e io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. E’ stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Continua a leggere

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