Archivi del giorno: 14 aprile 2015

SEI POESIE di Ugo Magnanti da “L’edificio fermo” (2015) “Entrata”, “Quinta stanza” “Decima stanza”, Venticinquesima stanza”, “Quarantesima stanza”, “Uscita”, con due Appunti critici di Giorgio Linguaglossa e Cristina Annino

Labirinto

Labirinto

 Ugo Magnanti e nato e vive nelle città di Anzio e Nettuno, dove lavora come insegnante di materie letterarie in un istituto superiore. Poeta e promotore culturale, ha ideato e diretto numerosi eventi letterari in diverse città italiane, fra cui la rassegna “Nettuno Fiera di Poesia 2010”. Pur privilegiando l’oralità e l’azione della poesia, ha pubblicato, fra l’altro, la raccolta Rapido blé, Ume, 2003, la poesia d’arte “Pronostico”, con 2 acquerelli originali di Eugenia Serafini, Artecom-onlus, 2011, e le plaquette 20 risacche, Acume, 2007, Poesie del santo che non sei, Akkuaria, 2009, Il battito argentino, Alla pasticceria del pesce, 2011. Ha partecipato con sue poesie-oggetto a varie mostre e ha curato azioni, fra cui Otto poeti nell’immondizia, Poesie vomitate contro la Turbogas, il body poem Notte di Valpurga, Sicilia Poetry Bike (con Enrico Pietrangeli), Icaro e Dedalo Ditirambi No Turbogas, BiciNuragica-Poesia. Nel 2012 ha rappresentato, insieme ad altri poeti, la poesia italiana al 49° Festival Internazionale degli Scrittori di Belgrado.

Ugo Magnanti Copertina L'edificio fermo«Il poemetto è strutturato secondo un disegno razionale. È una voce monologante che prende la parola. Un labirinto di quaranta stanze per quaranta composizioni più una Entrata e una Uscita. Dunque, un numero pari per una versificazione che privilegia il novenario e il settenario (numeri dispari). Si dirà che i conti non tornano, e invece tornano e ritornano come un martello percussivo seguendo la via indiretta della mano sinistra. Quello di Magnanti è un discorso poetico incentrato sulla disseminazione dell’io. Le poesie cominciano ad ogni stanza daccapo come un pensiero rimosso che non può essere pronunciato. Per 42 volte Magnanti si prova a ricominciare daccapo, alla ricerca del «nome» che sfugge. La versificazione procede per contiguità e per affinità, in modo razionale come può essere razionale un incubo o un sogno sospeso tra i realia del sogno e il nulla, un viaggio all’interno del nichilismo interrotto, qua e là, da presenze umane irriconoscibili («Un estraneo che mi /viene incontro sulla /strada…») dove l’«io» è una «figura» altra, sospesa nella sua dimensione di inessenza e di alterità».

(Giorgio Linguaglossa)

«Verticalmente dunque, per la fisicità che ogni poemetto ci lascia intravedere, immagino l’autore più che aprire porte ideali, salire invece le scale di un approfondimento interiore, con addosso “un’allegria operaia […]” come scrive nella Quarta stanza, componimento dove mi sembra che raggiunga quasi la perfezione, per compostezza e fluidità di linguaggio. Molte sarebbero comunque le poesie da segnalare, in questo libro dove l’esame del poeta, su di sé e sul mondo, ci viene offerto con una freschezza linguistica invidiabile, nonostante l’evidente complessità che l’origina».

(Cristina Annino)

da L’edificio fermo Fusibilialibri 2015 pp. 68 € 13

Ugo Magnanti

Ugo Magnanti

ENTRATA

È solo un palazzo fra tanti,
un prodigio sollevato dal
deserto, è tutto ciò che
spazia al crepuscolo davanti
alla sua ombra isolana.
Per giorni lenti il cancello
si è infuocato, e la statale
che gli sfolgora accanto si è
fatta ipnotica, riflessa su vetri
di assenzio, in un riverbero
che risveglia le vertigini.
È affiorato col vento, come
un nervo smisurato, sotto
nuvole che non hanno forma,
fra la luce e gli abbandoni
che respirano dai muri, così
riconosco l’avido bisogno
di essere covato, di essere
unito a una lontana striscia
di sole, sprofondato in un
abbraccio senza piombo,
come se svanisse la memoria,
e se per fare tanta leggerezza
si dovesse attraversare l’atrio
dove qualche mosca gravita,
e sgorgare offuscati nel cortile,
nel torrido sfacelo di un paese.
È questo il mito che mi viene
dietro, e mi commuove come
un tesoro di versi inceneriti,
povera curva di polvere!, oggi
tremano le crepe del muretto
e le erbacce saziano l’aria,
perciò nessuno smentirà
le mille cose perse o sfiorate,
e quelle ancora mormorate
ai miei miraggi vacanzieri.
Un germoglio ha spaccato
il mattone sul terrazzo, e
non è servito a riscaldarmi
il sangue, ma solo a scoprire
un sogno così uguale al mondo.
Ho molti battiti nuovi,
e molti volti alzati al cielo
per formare la scia bianca
e la sagoma dell’aeroplano,
tanto l’estate vista da qui, sarà
sempre il difficile teatro a cui
non appartengo, e non avrò
tempo per essere un altro.

QUINTA STANZA

Ciò che il giorno
ha seminato, con una
lama fatta per squarciare
l’occasione di guardarmi
in faccia, è il raccolto
aspro delle notti senza
sonno, dove un deserto
mi trascina, e cambia
le parole dette o non
dette, soprattutto
quelle vili, come oscure
bestiole da interrare,
col ventre gonfio e riverso.
Se qualcosa mi plasma
appartiene a queste
scene, che fanno di me
una pianta agghiacciata
in qualche crepa.
Eppure ogni ora viene
e smette di essere
immensa, e mi riporta
al sole, a una speranza
stupida che traffica
con le reliquie, ma è
pur sempre una speranza.

DECIMA STANZA

Io non sono, nessuno è, uno
zodiaco di vetro da rompere
con il martello, tanto per
vederlo in pezzi, e non
fargli prevedere quello
che accadrà quando il giorno
avrà smesso di risvegliarsi
nelle mani di un altro.
Se la mia guancia stordita
splende a casa con me
per l’ennesima volta,
non ho più gambe
che sguscino su un
prato, né voci spezzate
che rivelino l’erba,
e non so più cambiare
col pensiero il tragitto
di una blatta sulla sabbia,
facendo finta che siano
miei, i suoi ripensamenti.
Così non ho più abbracci
e non sono più l’uomo di
prima: se il desiderio da
scegliere è uno solo, sono
via per un’odissea bugiarda.

Ugo Magnanti

Ugo Magnanti

VENTICINQUESIMA STANZA

Se ho sbagliato qualche
verso, per caso o per abuso,
o per imperizia, non ne ho
fatto certo un dramma,
perché tutto si muoveva
dentro l’edificio fermo, e
spesso la parola mi mancava.
Ma questi che ora leggi
li ho scritti per quando finirà,
e se sono sbagliati li ho
sbagliati volentieri: forse
la mano sorpresa a navigare,
stavolta voleva solo vivere.
Non è più importante
che siano fatti bene,
già è tanto che festeggino
la pace con chi è stato
misero e radioso, e solo per
questo merita di sciogliersi.
E soprattutto invocano
il coraggio, e vogliono il fuoco:
sono stati sepolti con me
nel grembo dell’estate,
mai sopporterebbero
il buio di una bara.

QUARANTESIMA STANZA

Non spero che il rivolo
ostruito, di colpo mi
riveli chissà cosa, solo
perché si torce e scende
verso il suo tombino
come se mormorasse
da un’infanzia sfatta,
o nelle faccende da sbrigare
prima che sia mezzogiorno
e una sirena di metallo
suoni, mettendo
addosso a chi è eremita
un po’ di appartenenza.
Sebbene lo sguardo
recitante si approssimi
alla pioggia, e il monotono
mattino che si spande
accarezzi un’intuizione,
la lotta di vento e rami
avviene dove non c’è
mondo dietro il mondo
che trabocca, nella banalità
del temporale che non sa
fare a meno della gioia,
sotto uno squarcio di sole.

USCITA

Non ci sono che ore
viziose in una vita,
allora non puoi fingere
che il respiro sia cessato
per crederti migliore.
Spudorato e già pronto
a ritornare vivo, senti
come è imperdonabile
il tuo desiderio, e come
non è fatto per finire.

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