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SEI POESIE di Giorgina Busca Gernetti “Ombra della sera”, “Non mi conosco”, “Nell’azzurro”, “Nella grotta”, “Nella chiaría dell’alba”, “Identità” sul TEMA DLL’AUTORITRATTO O DEL POETA E LO SPECCHIO O DELL’IDENTITA’

foto Renato Mambor

foto Renato Mambor

È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità. L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti è nata a Piacenza, si è laureata con lode in Lettere Classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore  di Milano ed è stata docente di Italiano e Latino nel Liceo Classico di Gallarate (Varese), città dove tuttora vive. Ha studiato pianoforte nel Conservatorio di Piacenza. Pur avendo composto poesie fin dall’adolescenza, ha iniziato tardi a renderle note. Ha pubblicato i libri di poesia Asfodeli (1998), L’isola dei miti (1999), La luna e la memoria (2000), Ombra della sera (2002), La memoria e la parola (2005), Parole d’ombraluce (2006), Onda per onda (2007), L’anima e il lago (2010, con rassegna critica 2012²), “Amores” (2014); “Echi e sussurri” (in corso di stampa). Inoltre ha scritto il saggio su Cesare Pavese Itinerario verso il 27 agosto 1950 (in “Annali del Centro Pannunzio 2009; in estratto 2012) e i racconti Sette storie al femminile (in “Dedalusn.1, 2011; in estratto 2013).  

canciani

Ombra della sera

Esile come l’Ombra della Sera*
la mia identità, riflessa
nel fumido specchio enigmatico
della coscienza.

Lunghe discendono le ombre
dai monti, la sera;
più lunghe dietro di noi, nella luce
fioca del sole morente.
Esili e lunghe.

Forse la vera essenza
si svela nel tardo crepuscolo,
presso l’oscura soglia
della tetra notte.
Dinanzi a quel varco la mente
si desta, forse,
l’arcano comprende.
Di là balùgina un lume:
là, forse, vedrà se stessa
nitida e vera.

La mia ombra si staglia
sempre più lunga
finché c’è un barbaglio
di fioca luce anzi il tramonto.

La mia fragilità è racchiusa
nell’Ombra della Sera,
esile e lunga:
il mio segreto
nell’enigmatico sorriso etrusco.

* Statuetta “ex voto” in bronzo, databile al III sec. a.C., conservata nel Museo Etrusco Guarnacci di Volterra. La poetica denominazione, ispirata dal suggestivo allungamento del corpo di un adolescente, è attribuita a Gabriele D’Annunzio.

dal libro Ombra della sera, Genesi, Torino 2002

Non mi conosco

In un tempo lontano mi pareva
di conoscere il mio volto interiore.
Credevo di sapere
chi fosse quell’amara, triste effigie
manifesta per gli occhi trasparenti;
chi quella fioca immagine riflessa
dallo specchio dell’anima.

Ora non so chi fui, non so chi sono.
Incerto è tutto, incerta
anche l’amara immagine
che allora riconoscere sapevo.

Era “mia” la tristezza
dipinta in quell’effigie, in quelle ombre
svelate dai miei occhi, n’ero certa.
Il mio Ego potevo ravvisare,
pur chiuso dentro l’anima e la mente:
identità scolpita nel mio petto
senza vana incertezza.

Identità svanita
è questa mia diuturna scontentezza
di me, dei miei pensieri, del mio tutto.
Non so più chi io sia.
Non mi conosco.

dal libro Parole d’ombraluce, Genesi, Torino 2006

Jason Langer nightwalk_94

Jason Langer nightwalk_94

Nell’azzurro

Vedi? In quest’azzurro
che l’animo dilata
all’infinito
– non sai se è cielo o mare –
forse si sfaldano le pene
come conchiglia fragile
premuta tra le dita.

Un gabbiano si posa
sull’acqua, si lascia guardare
senza timore.
Ci cullano le onde
con timidezza
nel sereno dell’aria.
Senti che pace?

In quest’immensità
d’azzurro mi rispecchio,
indago nel mio animo
senza pudori, infingimenti.
Ascolto il sonoro silenzio
del mare, che la brezza
increspa con soffio di flauto.

Vedi? Lontano dalle rocce,
dal travaglio dei giorni,
ritrovo la mia quiete
di gabbiano senz’ali;
«la gran quiete marina»
che talora mi salva dal baleno
della burrasca
e mi dirada il velo
che nasconde il vero del mio volto.

Il gabbiano mi guarda
e improvviso s’innalza
in volo verso l’azzurro infinito.
Lo seguo come s’io volassi,
godendo del suo immenso spazio
ed annegando
nell’infinito mistero dell’animo.

Dal libro Onda per onda, Edizioni del Leone, Spinea (Ve) 2007

Nella grotta

Oscura l’acqua nella grotta buia.
Non penetrano i raggi
del sole ardente d’un meriggio estivo
nello stretto pertugio ove la barca
a stento silenziosa è scivolata.

La mano immergo nella tiepida acqua
e la ritraggo quasi fossi in sogno:
gocce d’argento dalle dita stillano
e d’argento è la mano,
bagnata ancora, nel buio irreale.

Di nuovo tuffo la mano nel mare
nero d’oscura grotta:
statua d’argento d’essere m’illudo
la mano contemplando e le mie dita
rilucenti nel buio come stelle.

Fuori la vera luce ma la mano,
opaca e scialba, perde quel lucore
che l’acqua magica, nel buio nero
della grotta d’argento, sa donare.
Solo nel buio luce?

Quale son io tra le immagini chine
a immergere la mano?
Non sono io la donna viva e pallida
che s’illude e si forgia come statua
di luminoso argento?

Statua sono io d’argento in altro tempo
nel buio della cella, nell’arcano,
in un vetusto tempio sull’acròpoli
della città dal sacro nome eterno
tra le genti nei secoli?

Io cerco, io scruto in me, io m’arrovello
per distinguere il vero dall’immagine
fatua e illusoria che la mente crea
se vede solo l’ombra del reale
ai viventi negato. 

da Echi e susurri, Polistampa, Firenze 2015 (in corso di stampa)

Nella chiaría dell’alba

Stillano rugiada le ciglia
degli abeti, dei pini.
Chiara l’alba tersa risveglia
la natura sopita.

Un brivido di vita
mi pervade le membra.

Fremono le fronde del platano
alla timida brezza,
freme il mio animo all’unisono:
ròrida foglia trèmula?

È mio l’animo fragile
che vibra in controcanto?

Mie sono le ciglia che stillano
rugiada, o forse lacrime?

Sono l’abete, il pino,
il platano fitto di fronde.
Io sono tutto e nulla
nella chiarìa dell’alba.

Variante di una precedente poesia, ora ibidem (in corso di stampa)

Identità

Non sono la fontana chioccolante
nella frescura ombrosa d’alta quercia,
ristoro per chi ha sete nel calore
della torrida estate di Canicola.

Non sono una leggera, bianca nuvola
vagante nell’azzurro in una danza
lieve che le trasforma il bel contorno
d’armonia cinto, soffice, impalpabile.

Non sono la mia ombra che mi segue
passo per passo invano. dalla luce
stampata sopra un muro scalcinato
come la scabra vita che trascino.

Chi sono io, che mi struggo nel dubbio?

Una lama di luce mi trascina
verso un fondo infinito, senza sosta,
come gorgo letale tra i marosi
del mare amaro che dianzi era amico.

Non so dove mi porti questa luce
ingannevole, forse, quasi trappola
tesa perché sprofondi in un abisso
senza un approdo certo, senza il vero.

Pena crudele inferta alla mia anima
da un dèmone malvagio che mi tenta
con la sua fatua luce fascinosa
perché mi perda per sempre nel nulla.

Non è quel Nulla cui tendere soglio,
ma un disperdersi vano, irreparabile,
di lieve polvere che il vento ignaro
solleva e via con sé lungi rapina.

Questa son io, son io. Questa son io!

(Inedito)

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POESIE SCELTE di Salvatore Martino da Cinquant’anni di poesia (1962-2013) SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DEL POETA E LO SPECCHIO O DELL’IDENTITA’

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È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità. L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

 

de chirico particolare

de chirico particolare

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma.

Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Nel 2015 esce l’Opera Completa del poeta in Cinquant’anni di poesia (1962-2013).

È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

Salvatore Martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013Da La tredicesima fatica 1980-1986

Riflesso nell’occhio giallo

Lui sta

nell’atroce sfidare la fortuna
l’inquinato potere dello specchio
la leggenda irripetibile
del gesto mai compiuto
superbo del patrimonio
che consegnarono gli avi
tutti venuti d’oltremare
il prezioso fatalismo degli arabi
la durezza degli uomini del nord
la mente speculativa del greco

Forse mi odia
ma so per certo che mi teme
cospira alla mia perdizione
Nell’angolo dove ci siamo confinati
talvolta può accadere un bacio
un addio una promessa

Mi hanno detto che nel sonno piange
ma non posso alleviare le sue pene
immaginargli un incubo diverso

Di un labirinto aperto in un crocicchio
lui solo pronuncia la parola
per evocare il filo dell’inganno

Avvolto nel mistero suo e dell’isola
discioglie la faccia
dentro la catena del silenzio

Chissà se mai potrò incontrarlo
per combaciargli o ucciderlo

.
Da Il guardiano dei cobra 1992.1996

Il prigioniero

E lui assente
da sé dalle cose
quasi un altro a ridere al suo posto
a dissertare a bere con gli amici
a guidare la macchina
confondere di un giorno il calendario
un altro a confutare l’idiozia delle stelle
i fiori che dissacrano il giardino
ostile alla misura comune
emarginato dalla stupidità
nel bozzolo che s’era costruito

Gli chiesero perché
ansiosi gli si fecero incontro
ma il suo sguardo attraversa i corpi
la disarmante lancia del sorriso

Lui assente
dalle foglie dall’aria
per divenire una leggenda un mito

Ch’egli possa remare
attorcigliato tra le canne
udire i passi invisibili del tempo
nella camera dove ogni incontro si dilata
complice di un rito
che lo apparenti ai numeri
alla soglia iniziatica dell’ombra
e il vento moltiplichi il suo nome
fino al brusio indistinto dell’eterno

salvatore martino

salvatore martino

Sempre nell’occhio giallo

Un colloquio s’attarda sulla scala
lungo una solitudine evocata
dal suo letto di piume

Da millenarie cisterne affiora l’ombra
il fratello che veglia nella stanza
da un numero periodico indicata
di corridoi e porte di emozioni

Mi aspetta solitario
con un singhiozzo lieve sulla bocca
sui muri della mia prigione
descrive intorno a me una folla
nel lungo esercizio del possibile

Rapace sentinella del mattino
compagno detestabile e sicuro
mi segue negli androni
ai margini di un prato
nel verde di una squallida panchina
lungo una balaustra
che non oso percorrere da solo
in un crocicchio che ho deciso d’ignorare

Si fondono talvolta i nostri passi
le strategie diventano comuni
uguale il dettato della sorte

M’impegna in questa lurida partita
io folgorata torre astuto alfiere
stralunata pedina
lui sordida regina pavido re
temibile cavallo
A volte gioco il nero
per confondere il bianco
nascondergli
la mossa prevedibile in agguato

-Non ti conosco
non ti ho mai incontrato
avverto il soffio dietro la mia nuca
ricordo la magia delle tue parole
il sortilegio per frantumare l’ansia-

Ho tramato congiure
nel sospetto dell’alba
e lui dorme tranquillo
nel fondo degli armadi
nel perfido giacere degli specchi
nel ballo senza suoni dei vestiti
insinua i denti sopra il mio cuscino
come un bambino si abbandona
al gelido abbraccio della libertà

Implacabile amico
servile custode dei miei sogni
mi aspetta in terra per lavarmi i piedi
dettarmi un rimprovero inatteso
un consiglio che non posso rispettare
Conversa con me di Calibano
di quella nave smarrita alla tempesta
del match di domenica a San Siro
del conto in banca che dobbiamo aprire
della fatale fedeltà di Oreste
dell’incubo acquattato nel risveglio

Manoscritto del mio incerto vagare

Quando la polvere salirà alla gola
e saremo il richiamo dove ristagna l’acqua
e l’intreccio sarà forse un ritorno
quando il colloquio diventerà una larva
e finalmente godremo del silenzio

– Guarda laggiù contro la tua finestra
il raggio esploso a combaciare la ferita

Sono saliti amici per la cena
faranno festa suoneranno per te
e tu ti sentirai rasserenato
e ti addormenterai contro il mio petto
e saranno verdissimi i tuoi sogni
e veglierai tranquillo il mio destino

Poiché tale è il letargo del mondo
che non può scalfirlo la nostra paura
gli incerti tentativi di corrompere il tempo
Il brusio attardatosi alla casa
come un evanescente laccio si dissolve
la trafitta lega delle maschere
precipita in platea –

– Sì ! Questo non era dopotutto un viaggio
non c’erano stazioni sulla carta
né spazio per saluti
sportelli dimenticati aperti
vagoni che s’incrociano
lungo nebbie di acciaio
semafori che lampeggiano il futuro
sale d’aspetto simili a prigioni

Il letto è intatto
Con la nostra figura disegnata
La minestra tiepida sul tavolo
Il bicchiere in frantumi sull’acquaio

Un vento secolare
quando hai aperto la finestra
e sei caduto
in questo itinerario irripetibile
che a niente ti conduce
perché non c’è mai stato
e tu non l’hai mai percorso
e forse non dovevi farlo

Nessuno ad attendere una lettera
che possa ridere di te
o servirti il caffè nel pomeriggio
Sei finalmente libero
in quella accettazione del vuoto
da noi sempre abitato –

– Vieni è solo la mia mano
o la tua?
Domani scelto il nero
muoverò all’attacco la Regina –

– L’Alfiere bianco
saprà come aspettarla –
salvatore martino copertina la fondazione di ninivo

Mi trovavo nel sogno in una barca con il mio fratello
e Guardiano C’erano anche dei compagni e un marinaio
Doveva essere un braccio di mare grigio e calmissimo del
nord simile a un lago senza sponde Io chiedevo notizie
sulla rotta ai compagni e al giovane nocchiero e il motivo
della fuga perché di fuga si trattava Ma non ottenevo
risposta Erano tutti morti E non provavo angoscia né
dolore solo un acuto senso di vertigine e vergogna per
loro che non avevano avuto la disperazione di resistere
Il mare cominciava a farsi denso Al posto dell’acqua mi
sembrava ci fosse un liquido vischioso una specie di olio
In preda a una violenta eccitazione presi a scuotere il
Guardiano sdraiato al mio fianco perché temevo che
quest’altro incidente potesse rallentare il precario avanzare
della barca Una caligine lattescente era caduta senza
bussola sarebbe stato impossibile orientarsi Ma quello
non rispose girò mostruosamente sul fianco rotolandomi
addosso all’infinito La sua faccia penentrava la mia
le braccia le cosce il suo sorriso m’invadevano il corpo in
una indescrivibile euforia e incominciai a cantare a voce
altissima a ridere a sognare e non ci fu più fuga né barca
né compagni soltanto e sconfinata una distesa bianca

salvatore martino 2

Da Libro della cancellazione 1996-2004

E lotteranno sempre
l’Angelo-dèmone e il bambino

Il racconto
e la folgore autunnale
le favole ascoltate da bambino
attraverso le scale
nell’antro della carbonaia
dove terrori ignoti si nascondono
come nell’altra stanza
di legna accatastata

Incominciai allora
a frequentare gli inferi
il discorso con l’Altro
che affonda nel fianco
il suo pugnale

Ma il bambino che veglia
la mia sorte
cerco di custodirlo
di lasciarlo gridare

Quando terminerà questo colloquio
forse sarò nessuno
sarò tutti
certamente qualcosa che non muore

.
Autoritratto non finito

Questa maturità che oggi mi tiene
non ha trovato quello che cercava
il sogno liberato dall’angoscia
la parola di luce

Chissà se all’ultima fermata
incontrerò i frammenti del mio specchio
come in un gioco assurdo ricomposti
e avranno finalmente la mia faccia

Preghiera al limitar dell’alba

Salito a deturpare
con la luce l’inganno
astro che ragiona della notte
la magia del rimpianto
quella solare della cancellazione

Il dio non parla
nell’ambigua dimora
ogni vendetta sua è una speranza
ogni mia ribellione un obbedire

Treccia di neve liquefatta
mi chiami dall’oracolo perduto
a quale segno mi trascini?
Come vanificare il tradimento?

Vuoto artificio
che soccorri i naufraghi
astro gelato dei mattini
crocifero dell’ansia
col tuo mantello celi la paura
nella voce sicura fioriscono
tutti i tradimenti

Quando potremo sconfinare il mito
e consacrare al vento la saliva
come una cantilena di silenzi?

Vieni a confondere le menti
dèmone bianco
a circondare i passi dell’uscita

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

La moneta di ferro

Angelo dell’inizio e della fine
segreto mormorio del mio destino
sorvegli il respiro della casa
ogni mio movimento familiare

Come un serpente
scivolato all’alba
o nell’ora più atroce
prima dell’ultimo duello
tra la notte e il mattino
prepari l’imboscata

Indovino i tuoi trucchi
i sortilegi
l’ombra evocata dallo specchio
Del mio corpo e dell’anima
conosci ogni dettaglio
della mente
Ma io non ignoro
il tuo tremore
io come te la vedo l’avventura
che percorriamo insieme
in questo letamaio

Dèmone bianco
che baci il mio cuscino
quasi assetati di vergogna
senza una lira in tasca
in questo viaggio
dimenticammo l’armatura
in un campo di ortiche
e stranamente i cavalli
erano uno

Portami sulle spalle all’altra riva
un rosso fazzoletto di saluto
l’occhio giallo perduto nell’addio

Non puoi non farlo

Neri cespugli coprono
il teatro in rovina
la maschera lasciata in camerino
il pane raffermo sulla tavola
la minestra gelata nell’acquaio
Perfetta si chiude la moneta
in entrambe le facce

Anch’io ti porterò
ai campi di narcisi in fiore
che l’isola nostra ha custodito
laggiù saremo
una bianca risacca
una canzone
un’alga perduta nella spuma

.
Sinfonia n° 6 in si minore
quella sera “Patetica”

Se lasci una fessura
incisa da una punta di coltello
e un barlume di seta
una speranza
l’occhio dell’Altro
prepara l’imboscata

Ricordo la sera di un concerto
quando un’ultima volta
gli archi intonano quel tema
per consegnarlo poi ai soli bassi
un patetico invito mi raggela
lo sguardo lucido dell’Altro
come un avvertimento
implacabile e dolce
mi spia dalla fessura

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OTTO POESIE DEGLI ANNI OTTANTA e NOVANTA di Lucia Gaddo Zanovello SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DEL POETA ALLO SPECCHIO O DELL’IDENTITÀ

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 Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di scuola media. Ha condotto studi, fra gli altri, su Niccolò Tommaseo e sul suo corrispondente friulano Pierviviano Zecchini.

Per la poesia ha pubblicato: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup, la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura. Ed ancora Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup 2012, Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014.

Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello. Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso.

Per la saggistica ha pubblicato: Faedo di Cinto Euganeo, in “Città di Padova”, anno VIII, n.1, 1968; L’eremo del Monte Rua, ibidem, anno IX, n.1, 1969; Considerazioni del Tommaseo sulla poesia in una lettera inedita a Pierviviano Zecchini, in “Lettere Italiane”, Leo S.Olschki, Firenze, 1988; Scrittura poetica e funzione estetica in “Punto di Vista”, (Rassegna italiana di Lettere ed Arti), Libraria Padovana Editrice, n.36, 2003; L’epico innesto etico nell’etimo di Cesare Ruffato, in Per Cesare Ruffato. Testimonianze critiche, Marsilio, Venezia, 2005; Quando il silenzio accende, per “La colpa di scrivere”, luglio 2006 ora anche in appendice ad Illuminillime; Per un’etica dell’apparenza, recensione a Strategie dell’occhio di Francesco S. Mangone, ne “Il Fiacre n.9”, 2007.

Lucia Gaddo con Luciano Troisio e Cesare Ruffato

Lucia Gaddo con Luciano Troisio e Cesare Ruffato

“Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.”

(Lucia Gaddo Zanovello)

diabolik particolare di  Eva Kant R. Lichtenstein

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

L’oca

Non so vivere
che come un’oca spenta
tra la folla.

So del mio occhio attonito
del mio vezzo goffo
del caracollar malfermo
alla corrente.

Conosco l’argine penoso
che m’accoglie
vinta
alla nemica sponda.

Bramiti, 1980, p. 83

.
Ortoscopia

Qualcosa scricchiola
la mia corazza
e mute danze
trilobate
conducono
la mia carcassa
a formiche senza preda

un cuoco leggero
oscilla
le mie antenne
sulla zuppa delle mie zampe.

Semiminime, 1988, p. 161

Da serpe amica

In quest’agile spelonca
dove tutto è mite
io mi posso acciambellare,
su di un ammainar di vele
vuota d’orgogli
residuo pigolante
di soli accesi
a coccolare
lenti minuti albini,
a gettar griglie
per arenare soffi
bercianti inallegrati.
Con altre mani
con altri lini
accolgo
sinfonie d’effetti
e dopo i crudi passi
del mattino
ho gli occhi tondi
di serpe amica.

Da serpe amica, “Metamorfosi”, 1987, p.30
Charles Baudelaire 3

Io sono un capolinea

un self-service
uno snack-bar.

Io sono un pronto soccorso
un motel
e un generale d’armata.

Io sono un capro,
una spalla
e un muto zerbino,

sono tana e palcoscenico
un’urna vivente
un’antenna, una chiave
un frigorifero

io sono un ampio parcheggio
al capolinea delle vostre necessità.

Da serpe amica, “Taccuino di viaggio con interni”, 1987, p.62

.
Un’idea di seta

si svolge
nel cielo dei desideri

non chiudere la luna
nel baule della notte
quando libera gioca
coi chiarori della sera
e mi sorprende
alta e nuda
dove non la cerco

i lunghi suoi capelli
scesi sulle case
brillano i pensieri di malia
spandono speranze sulla malinconia

come pietra riposo
sul cuore della terra
come segno sulla pagina
un punto fermo.

La partitura, armonie, 1998, p.45

varietà dell'identità

varietà dell’identità

Identità

Perché fondono segnando
il doppio procedere
da nascita e da morte,
lo stupore dell’alba
e la notte terrena
accendono verità
se il pensiero
impaniato di illusione
di stordite apparenze
si fa magnete impazzito
e la storia
è meta perduta.
Ci fanno scorta
il cielo stellato
e l’opale dell’aurora
catturati
nell’iperspazio della promessa,
voti congiunti di luce
perché l’Uno
con parole di opposto colore
propone lo stesso
monogramma di vita.

La partitura, armonie, 1998, p.46

.
Un me migliore

Quando tutti i figli del mondo
saranno figli nostri
da amare,
l’arco che ci chiude
sarà colmo
di vita,
perché fiori di tenerezza
rivivranno,
carni e ceneri
riamate,
e la memoria
tornerà un oggi senza tramonti.

I virgulti recisi
saranno ombrose
querce serene.

Le domande
tutte
muteranno in lucide risposte
che brillano
di un sole arguto e alto,
anche nella notte
e tu sarai
un me migliore.

La partitura, armonie, 1998, p. 56

.
Incomunicabilità

Dico a te
che affiori
dall’anima
con moto labile
inadatto agli aliti mutevoli
di superficie.

Afferro della tua verità
i sintomi
come alghe
fuggono
la mietitura.

Necesse
una bara di cristallo
per carcerare strette
quelle ali
inafferrabili
di polvere:
il tuo io
che affiora
quando non guardo
e dilegua
come stendo la mano
incontaminato
e puro

ma dove?

La partitura, un suono nuovo, 1998, p.70

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POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco Rathgeb SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno”

hopkins Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.

(È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.
 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Nel 2016 per i tipi di Mimesis Hebenon pubblica Entrò in una perla, e sempre nello stesso anno dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia contemporanea curata da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma,Progetto Cultura)

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. indirizzo email:  protokavi@gmail.com

foto di Steven Grieco

foto di Mani Kaul luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Vorrei ricordare l’acutissima notazione di Ernest Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non è che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti, per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è data dall’immagine (statica e/o dinamica). L’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una Civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.
Per esempio, Steven Grieco, poeta educato alla severità dell’haiku cinese e giapponese, pensa e fa una poesia di immagini in sviluppo, di immagini che scorrono nel tempo. La pittura sarebbe poesim tacentem. E, in apparente contraddizione, la poesia picturam loquentem. La figuralità della sua poesia nasce dentro la dislocazione linguistica delle «cose», ripete mimeticamente la struttura elementare dell’universo, e della nostra vita quotidiana; vive in uno spazio. Leggiamo l’incipit di una sua poesia:

Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

 

 una voce chiarissima risuonò:
 “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
“Ah, sì, il susino…”

Il protagonista della poesia fa l’azione di volgere «le spalle all’orto». È una azione casuale, fortuita. È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e… scopre «il susino». Il centro di gravità della poesia riposa sulla figura del «susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto figurale e linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista, alzando gli occhi, scopre in modo fortuito il «susino».
Una poesia come questa, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto di più concreto si possa immaginare.

In un’altra poesia c’è il personaggio centrale che sta in piedi, «assorto», quando accade un evento insignificante, improvviso; il protagonista scorge la figura di un’altra persona nella «squallida camera d’albergo». Nella poesia di Steven Grieco accadono eventi silenziosi, inappariscenti, inspiegabili, fortuiti che rivelano all’improvviso ciò che è rimasto a lungo nascosto dietro il diaframma dell’apparenza, dietro il velo della fenomenologia della vita quotidiana:

Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Poesie che sono quasi una traduzione dalla analitica esistenziale dell’esserci, che passano da una galleria di «ritratti» ad una di «autoritratti», e viceversa. La verità diventa un «evento» non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade.

Onto Grieco

s.g.r.

 

Appunto critico di Steven Grieco Rathgeb

Sappiamo tutti che in Occidente l’autoritratto ha una lunga storia, soprattutto nella pittura. Talvolta esso è collegato alla condizione detta melancolia, che a sua volta è legata all’incapacità dell’individuo di dare un senso alla propria vita. Basti pensare agli autoritratti di Albrecht Dürer, fra i primi e migliori esempi della rappresentazione di sé come groviglio umano complesso e problematico. Dopo secoli di autoritratti che studiano i mille aspetti della nostra immagine riflessa, da Velazquez a Rembrandt e Goya, arriviamo alla modernità, e ci imbattiamo subito in Van Gogh e nei suoi contemporanei, poi in una Frieda Kahlo, un Egon Schiele. Il processo di problematizzazione dell’autoritratto è andato avanti inesorabile. Ma soprattutto possono interessarci oggi gli autoritratti di artisti come Francis Bacon o Lucien Freud e simili, opere altamente significative della seconda metà del Novecento, che non avrebbero potuto nascere senza le guerre, senza Auschwitz, senza la successiva affermazione della cosiddetta “libertà individuale”, che emancipa il soggetto da ogni morale, regola, o valore sociale o spirituale che sia, ma poi lo costringe ad una incessante auto-affermazione che diventa il suo peggior nemico. Ma anche l’individuo come pedone in una società ridotta a semplice sistema di scambio commerciale e di interscambiabilità di ogni cosa. Mettendo così a nudo l’estrema fragilità e atomizzazione del singolo.

Gli autoritratti di quegli artisti sono carne lacerata, in cui l’artista sembra identificarsi totalmente, soffertamente e forse ciecamente, con il sé ridotto alla pura fisicità. Ma invece in questo senso viene catturata una realtà esistenziale profonda dell’uomo moderno, la sua strana, tormentata condizione che non gli dà modo di elevarsi dalla bruta materialità senza incappare nel suo rovescio speculare, quello della fede religiosa.

Ma vado avanti, perché voglio portare l’accento sul volto umano come realtà inafferrabile e inconoscibile per il suo “possessore”. Nessuno di noi potrà mai vedere il proprio volto se non come immagine riflessa – non potrà mai vederlo “direttamente”, così come vediamo tutte le cose del mondo esterno, compresi i visi dei nostri simili (e come essi vedono noi).

Abbiamo, certamente, un “senso” della nostra presenza psico-fisica nel mondo, del nostro comparire in esso, ma questo non ci dà nessuna garanzia di “oggettività”, se è vero che spesso gli altri scorgono in noi aspetti o realtà a noi ignoti, che talvolta ci possono sembrare perfino folgoranti.

Dice Harold Pinter nel suo discorso Nobel: “When we look into a mirror we think the image that confronts us is accurate. But move a millimetre and the image changes.” Oggi, questa immagine riflessa, caleidoscopica e cangiante, appare anche come immagine fotografica, altra contraffazione del “reale” con cui noi moderni ci dobbiamo volenti o nolenti misurare (perché anch’essa contiene una profonda verità).

E’ inoltre vero che l’oggetto di un “autoritratto” non deve necessariamente essere il nostro volto riflesso, ma può essere cose diverse. Nella tradizione pittorica cinese, il paesaggio era talvolta dal pittore così fortemente prima interiorizzato e poi espresso (“pro-dotto”) da risultare, se non quasi un autoritratto “traslato”, comunque emblema della condizione umana (del pittore e nostra, in quanto spettatori). Con il suo tratto, le sue pennellate, egli interviene direttamente nel divenire del mondo, ne è parte integrante, per cui la contrapposizione soggetto-oggetto si scioglie in una visione allargata non solo della composita ma unica realtà cosmica “natura-uomo”, ma della stessa capacità dell’uomo di, sottilmente, plasmarla.

E dunque, su questa linea di pensiero, che beninteso è soltanto una delle tante (fra cui figura anche la sua negazione), l’autoritratto può pure essere la possibilità di scorgere il sé (o l’altro sé, come dir si voglia) in momenti in cui la mente razionale non è in grado di occupare e ordinare l’intero campo della percezione e intellezione umane. Fatto che suggerisce non soltanto l’estrema mobilità e labilità della condizione umana, ma anche il fatto che la realtà individuale è più grande del singolo individuo (Sigmund Freud insegna), più grande della sua circoscritta e “unica” vita. Un esempio dai miei diari:

 

Casa toscana, 2 maggio 1980. Nella notte mi sono svegliato da un sogno che sembrava andare avanti da molto tempo, immerso com’era nella sua umbratile luce di respiro.

 

Mio fratello e io ci trovavamo in una camera un po’ squallida di una vecchia pensione francese o italiana. Lui stava sdraiato sul letto, rivolto verso di me. Io mi ero appena alzato e guardavo la mia immagine nello specchio sopra il lavandino.

Sentivo una voce (forse di nostra madre) che parlava a lungo del dolore che viviamo; concludendo, ”un giorno il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Nel momento non sentivo dolore, piuttosto uno stordimento. Ma dopo quella frase, ho capito che la stanza, la posizione del fratello sdraiato sul letto, lo specchio: tutto era immerso in un dolore invisibile.

Ho riguardato il viso nello specchio. Ero io, certo, ma non quell’io che sono o penso di essere in un momento qualsiasi della vita d’ogni giorno, bensì un’immagine molto più grande, quasi una totalità di me.

Mio fratello, sul letto, disse qualcosa che non ricordo. Non risposi perché stavo ancora pensando alle parole che la voce aveva pronunciato: una voce purissima, direi, senza tempo, nascente come un’eco in un vuoto di cristallo.

Continuando a studiare il mio volto riflesso, mi sono chiesto: di quale futuro parlava la voce? Sappiamo che il “futuro” è un tempo del tutto ignoto, forse inesistente. Allora capii l’allusione nascosta in quelle parole: la voce evocava piuttosto il senso di “una gioia che verrà”: cosa ben diversa dunque, semplice proiezione del desiderio umano sull’oscurità assoluta di ciò che è inconoscibile.

Era l’uso di quella parola che mi aveva sviato: la gioia “futura” la sentivo adesso, adesso che stavo in piedi davanti allo specchio.

Nel frattempo, dallo stato onirico ero passato quasi senza accorgermene al dormiveglia, nel buio della stanza. Riflettevo che se fosse proprio nel sogno che la nostra immagine può rivelare la reale interezza di ciò che siamo, allora avrei modo di scorgervi, anche solo per un attimo, aspetti di me che per vari motivi non sto vivendo al momento, ma che ciò malgrado esistono altrove nello spazio e nel tempo illimitati del mio essere.

Al momento io mi trovo qui, in questo luogo; e sono dominato dal sentimento del dolore, penso al dolore, mi concepisco unicamente nel dolore. Ma la mia totalità, il volto intero che non vedrò mai nello stato di veglia ma che adesso mi appare in sogno, mostra regioni di me in cui perdurano altre condizioni, fra cui anche quella della gioia.

Allora mi è sembrato che la voce materna non fosse altro che la forma sonora di quello stesso Io che vedevo nello specchio. E che in quella sonorità si mescolassero gioia e dolore.

Mentre rimuginavo queste cose, mio figlio nella sua camera in fondo al corridoietto ha preso a parlare ad alta voce. Sono schizzato fuori dal letto, ho acceso la luce. Nel sonno, mia moglie ha mormorato: “stai tranquillo, il bambino sta solo sognando.” Ho ascoltato: in effetti, cantava brani di una canzoncina imparata all’asilo.

bello Ferdinando Scianna 5

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio

 

Seguono qui alcuni miei tentativi di tanti anni fa di esprimere questi concetti in poesia:

Senza Titolo

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso sul vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.

1990 (dal mio volume di poesie “Maschere d’oro”, edito da Biblioteca cominiana, 1996).

Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.
La sua espressione alludeva a rischi
per te forse insormontabili.
Ma poi lacerandosi l’auto-inganno,
trasparve un’estrema chiarezza:

intorno alle sopracciglia balenavano
preoccupazioni fin troppo umane,
tirando la pelle fra naso e zigomi
scendevano come un’eco
nei mille labirinti del corpo;
dietro la fronte
pensiero si scioglieva e ricomponeva,
dagli occhi una folla di immagini
entrava nel mondo.

E mentre il tuo sguardo più grande
si allontanava dal semplice riflesso,
pezzi dello specchio annerito
cadevano in terra fracassandosi.

(novembre 1988)

Autoritratti

Stanno qua e là: quasi una foto,
gli occhi chiusi come da occhiali scuri.
L’attenzione è rivolta altrove,
e dorme il loro corpo senza esterno.

Gambe, braccia, toraci, sono ciechi.
In essi è l’ignaro che regge le sorti,
aggroviglia vicende e situazioni
tende tranelli e trabocchetti.

Pesanti e insensibili sussultano,
precipitano e sbattono con profonde
lesioni e squassi che gorgheggiano;
ma niente distoglie gli sguardi qua e là.

Niente sgretola l’ignaro che non vede,
aggiogato, indistruttibile:
che continua la sua fuga, si disfa e
si ricrea, di corpo in altro corpo.

E mentre si sfaldano a grandi pezzi
ruzzolando giù per la china,
prestano ascolto ai segnali sottili,
le immagini che sgorgano interne.

Pian piano disintegrandosi, senza
un grido né un gemito. Niente
li sgretola, i visi gettati qua e là:
gli sguardi che dormono incatenati.

(“Tronchi”, febbraio 1987)

.
Senza Titolo

Nessun branco di cervi nella radura.

La concentrazione invisibile
alla sorgente ferma del pensare:
allora, senza nemmeno uno specchio,
vedesti l’immagine di te stesso.

(1986)

.
Tre veglie nel sogno

1.
Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

una voce chiarissima risuonò:
                        “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
                                        “Ah, sì, il susino…”

ma un baleno sulla terra nera mi ricordò
che il susino fiorisce solo di bianco

incredulo
guardai a lungo quell’altro biancore

.
2.
Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Per niente meravigliato, ti guardai:
il tuo volto esprimeva qualche presagio,
la pienezza che non sappiamo reggere.

Un voce risuonò: “per il dolore
di oggi il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Cosa intendeva? L’avvenire, o solo il tempo
presente che sempre aspira all’immensità?

Nel tuo sguardo non vidi quella promessa.
Ma le parole, brancolando nell’aria,
rischiararono la stanza di una debole gioia.

3.
Sorrideva (come per dire: “non te ne sei accorto”):

gli alberi nel giardino…
quattro, cinque sparpagliati qua e là

“ma sì, li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti.”

Guardai ancora
il paesaggio fece balenare mille sguardi

allora entrai profondamente in quelle nuvole
cercando l’archetipo, la forma insita
quando una voce squillò
“Niente!”

e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto

febbraio 1989

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“Delta del tuo fiume” di Gëzim Hajdari. “La poesia epica dell’esilio” Lettura di Marco Onofrio

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume copDelta del tuo fiume (Ensemble, 2015, pp. 172, Euro 15) di Gëzim Hajdari è un libro di rara intensità poetica, uno dei più potenti e impressionanti che io abbia letto negli ultimi anni. È un libro che, come un arco teso, permette alla poesia di slanciarsi oltre i propri limiti, superare i confini della parola, significare ben al di là di ciò che dice. Malgrado Hajdari affermi di «pisciare sulle poetiche», conclude Delta del tuo fiume con una lunga poesia-manifesto, “Contadino della poesia”, che funge da specchio di autoconsapevolezza e chiave di accesso al libro. Hajdari coltiva un’idea di poesia come “bestemmia” – cioè preghiera laica rivolta al sacro elementare – che lacera il velo cosiddetto “civile” delle ipocrisie deputate a coprire la verità oscena dei rapporti sociali, l’inferno della convivenza, l’orrore eterno della Storia. La poesia è denuncia, atto inconciliabile d’accusa. La parola non conferma i patti disonesti, non regge il sacco ai ladri nel tempio profanato, ma è eversione che articola il dissenso e osa pronunciarlo con la massima sincerità possibile, costi quel che costi. È eresia, è “besa”, cioè promessa, parola data, confidente appartenenza al fondamento etico. È impegno di autenticità. È dignità che mette in gioco il valore della vita.

Essere “contadino della poesia” significa

tornare all’Essere
riscoprire le radici
bere alla fonte
parlare con i sassi
ascoltare la terra
rileggere il cielo e la terra
(…)
sapere chinarsi a raccogliere
chiamare le cose per nome (…)
lavarsi con la terra (…)
ridare la dignità perduta al Verbo, cioè
la dignità perduta all’uomo,

Gezim Hajdari cop inglesee dunque recuperare il «senso epico, musicale e civile della parola», ricostruire il «tempio della parola» distrutto dagli «eunuchi del minimalismo sterile». Questo significa scrivere in modo semplice ed essere profondi al tempo stesso. La poesia di Hajdari, infatti, è colta e insieme popolare – così come è, sempre, la poesia autentica. Una poesia umana e antropologica a 360°, aperta al dialogo con le realtà del mondo, al di là delle infinite gabbie di rappresentazione.

Scrive Neruda: «La poesia ha perso il suo legame con il lontano lettore … Deve recuperarlo … Deve camminare nell’oscurità e incontrarsi con il cuore dell’uomo, con gli occhi della donna, con gli sconosciuti della strada, quelli che a una certa ora del crepuscolo, o in piena notte stellata, hanno bisogno magari di un solo verso».

gezim hajdari copertinaA patto però – aggiunge idealmente Hajdari – di «essere poeta, non scrittore di poesia». Il preziosismo “laureato” del modello petrarchesco distolse la poesia dal suo cammino: emersero le vanità, le pose artificiali, i conti di ragioneria. Ancora Neruda: «la fonte della grandezza cominciò a estinguersi. Quest’antica sorgente aveva a che vedere con l’uomo intero, con la sua apertura, la sua abbondanza traboccante».

Hajdari scrive poesia con l’occhio che, penetrando le paludi della crisi, traguarda l’unità cosmica dell’uomo “come se” fosse ancora possibile. Occorre «sentirsi parte della totalità», cioè «vivere al confine / ubriaco di mondi»: «vivere negli altri», «attraversare la vita», «recuperare il legame tra parola e verità, tra poesia e vita»: «diventare carne e sangue delle proprie parole».

L’operazione poetica consegue alla discesa nel proprio «io centrale»: con la stessa inesorabile naturalità del fiume verso il proprio delta marino, o del maschio verso il nido caldo della donna che lo invita al ricongiungimento. L’«io centrale» è il nucleo dove convergono e partono i raggi del mondo: c’è un cosmo di vasi comunicanti sotto la superficie impediente, dove i dualismi apparenti si sciolgono in rapporti complementari, poiché “tout se tient”. È una via antitetica ad ogni operazione narcisistica: Narciso si specchia nel mondo e ovunque vede se stesso; Hajdari specchia il mondo nel proprio «io centrale», che coincide con la visione aperta, cosmica, globale di tutto l’esistente. La condizione che lo porta ad avere questo sguardo è quella dolorosa dell’«esule esiliato nell’esilio», che già strappò a Dante Alighieri versi immortali. Hajdari è in esilio come «traditore e nemico della patria» (la nativa Albania) per aver denunciato crimini e abusi della dittatura di Enver Hoxha. Hajdari ha accettato il prezzo della libertà, la solitudine terribile del lupo senza collare, la povertà, la fame, l’esilio. Solo così ha potuto «coniare la moneta del proprio Verbo» ed essere Poeta. Creativo perché libero, e libero perché creativo.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

Fiero, irriducibile, allergico al potere e ai suoi mille compromessi, estraneo alle gerarchie letterarie “ufficiali”, Hajdari affida anzitutto al valore della pagina la rivendicazione del suo mandato poetico e la traccia della sua presenza di poeta-profeta e guerriero. E lo è anche nel raccontare «la ferita mortale dell’uomo svuotato dalla dittatura del denaro», gli infiniti tradimenti perpetrati dagli uomini all’Uomo, e al pianeta – l’unico che abbiamo – cui appartiene anche chi stoltamente ne provoca la distruzione. Il mondo è da sempre dominato da dinamiche di invidia cattiveria egoismo violenza prevaricazione malversazione ingiustizia ignoranza maleducazione… la jungla umana è più sottilmente feroce di quella animale. L’Amore è un autentico miracolo. Scrive Cesare Pavese: «Tu sarai amato quando potrai mostrare la tua debolezza senza che l’altro ne approfitti per affermare la propria forza». La poesia, infatti, è una Cassandra dal canto inascoltato: il mondo va, decisamente, da un’altra parte.

Scrive Hajdari:

Le nenie delle donne
non riescono ad asciugare il sangue degli uomini
versato lungo il confine nemico.

Eppure crede ancora nel «potere della poesia»; come in Congo, dove recitano i versi del poeta senegalese Senghòr – vate e ideologo della “négritude” – «al posto delle preghiere quotidiane». La poesia autentica propone allo sguardo una visione cosmica. Come quando, dall’aereo in volo, i confini geopolitici convenzionali, coi vari recinti di filo spinato, scompaiono magicamente: lo spazio vitale è tutt’uno, il mondo è uno, l’Uomo è lo stesso ovunque – oltre le infinite diversità – è il cielo è l’unica bandiera.

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

La scrittura, in Delta del tuo fiume, articola una poesia “in fuga” che nasce dalla condizione di esilio permanente del poeta: e sgorga non a caso da Roma, che Hajdari definisce «patria degli esuli», «città in fuga verso la leggenda e l’oblio del destino». Delta del tuo fiume è uno straordinario viaggio poetico, che parte dalla Roma eterna («nata dall’esilio» di Enea) e a Roma infine riconduce, la Roma storica di oggi (città degli scandali, da «scomunicare», secondo Hajdari, come capitale d’Italia: città delle banalità letterarie «osannate e glorificate dalla mafia politica e culturale» che determina la Curia dei “poeti ufficiali” in un gioco di corruzione, scambi di favori e ruberie – come nella vecchia gestione del Centro “Montale”, denunciata da Hajdari e Luigi Manzi nel 2003). Un viaggio da Roma a Roma: e nel frattempo si percorre il mondo. La poesia come Viaggio nel continente-Uomo: discorso che si produce “in movimento”, dall’incrocio paradigmatico dell’asse spaziale con quello temporale. Il poeta, attraverso lo spazio, raggiunge una dimensione storica pancrona, diventa contemporaneo di ogni epoca, dialoga con uomini che non potrebbe mai incontrare di persona. Ad esempio, va a trovare Rabindranàth Tagore in India; oppure giunge al Cairo e sprofonda nel tempo, per ricevere il benvenuto, al porto di Alessandria d’Egitto, da Alì Pascià – che visse tra il 1700 e il 1800 – per poi finire «nel letto di Cesare, tra balsami e incensi» dove lo guida «l’infedele Cleopatra»; oppure è ospite in Cina del poeta Li Po (che morì nel 762 d. C.) con cui si intrattiene a bere vino e a recitare versi.

La “condicio sine qua non” del Viaggio è la rottura con le menzogne della “civiltà” occidentale, i suoi «falsi altari impietriti», come già Rimbaud, Gauguin, Dino Campana et alii. «Vado via Europa, vecchia puttana viziata», scrive Hajdari. «I tuoi ruderi non mi incantano più». E quindi, «domani, di buon’ora / partirò con la prima nave del Tirreno, / dal porto del Circeo (…) / verso la Croce del Sud / senza voltarmi indietro». «Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini / e delle bandiere insanguinate». Che è un modo anche per negare in blocco il “Sonderweg” dell’Europa, cioè il suo cammino speciale nella storia del mondo, apportatore di grandi conquiste civili e insieme di orrori indicibili; e inoltre un modo per chiamare la lingua a bruciare, a rinnovarsi dalle proprie ceneri, trasformando lo sguardo e il rapporto stesso con le cose: «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne».

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Andar via dall’Europa significa anzitutto uscire dai vincoli della Forma: aprirsi all’incontro libero e diretto con la Vita, la carne calda, le labbra tumide, i seni dorati, le sabbie lunari dei deserti, i cieli stellati, i venti oceanici, il sale dei mari del Sud, gli spiriti delle cose, l’ombra delle parole, i richiami antichi, le lingue tribali sconosciute, i tuareg, i griot, gli sciamani. Emerge naturalmente la potenza ancestrale della Donna-femmina-terra-pube-origine, delta del fiume cosmico. Hajdari scrive, sul corpo della donna, versi erotici di accesa sensualità e di infinite risonanze universali:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
giunta dall’oblio dell’arco del tempo.
(…) I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango (…).
Nei tuoi occhi verdeazzurro ho ascoltato il canto delle balene,
il richiamo dei felini in agonia,
e ho visto tramontare l’occhio inverdito del giorno (…).
I tuoi occhi tinti d’Africa, come l’oceano Indiano all’alba;
i tuoi seni pieni all’insù, come due colline nere e solitarie (…)
il tuo pube in fiamme, tra le cosce alte da gazzella,
come una conchiglia dorata.

E la splendida poesia “Custode della mia uva”, dove la donna stessa gli parla, invitandolo a celebrare insieme la vita:

mordi i miei capezzoli come mordevi i chicchi rossi
(…) bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie
(…). Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,
(…) quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
(…) quando tu muori in me, io rinasco in te.

Gezim Hajdari_1Ed ecco l’Africa, «Madre nostra», «donna stuprata» dai colonizzatori bianchi: «nei tuoi occhi di bambina grida il Verbo della grande solitudine, / si rinnova la stirpe umana». Ecco l’incontro spazio-temporale con la Tanzania, il Congo, il Niger, il Golfo Persico, il Marocco, il Sahara, il Mali, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. I cronotopi si aprono “in fieri”, nel divenire avventuroso del viaggio, svelando l’anima dei luoghi. Un viaggio che discende nelle profondità ancestrali, e ovviamente non esclude gli incroci storici con l’Africa insanguinata dalle guerre, dove uomini con gli occhi sbarrati dal terrore «fuggono lungo il confine / insieme alle bestie impazzite». L’Africa ha stregato il poeta, lo ha messo in crisi, lo ha cambiato per sempre.

Tu, Africa, hai Scomunicato il mio Verbo.
Dal giorno che attraversai le curve negre dei tuoi giorni,
non sono più io.

L’Africa è «infinita nudità» che toglie le sovrastrutture, brucia le maschere, fa cadere tutti gli artifici. È la terra dove perdersi per ritrovarsi, dove dimenticare tutto per ricordare:

non ho più memoria (…)
ho perso il mio nome.

A forza del tuo amore, sono diventato Africa.

E ancora: «Ho affidato alla sabbia la mia memoria». La sabbia del deserto: quanto di più mutevole e impermanente!

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Non solo l’Africa, ma anche l’est asiatico: la Cina, il Vietnam, le Filippine. Manila e il fetore insopportabile della “smokey mountain” del quartiere Tondo – montagna di immondizie di cui si cibano migliaia di miserabili, tra cui opera il missionario Giovanni Gentilin. Andare lontano, sempre più lontano: «mai così lontano dalla patria e dai miei sassi cannibali». Sentirsi sperduto nel mondo. Sdraiato sull’erba, bere la luce degli astri. Parlare con gli altri senza conoscere una parola delle rispettive lingue: intendersi su un piano umano universale. Arrivare all’essenza. Eppure, malgrado i tentativi di dimenticarsi e confondersi nel mondo, non riesce a mitigare la profonda insoddisfazione:

Quando finirà questo esilio?
Albania sono ancora vivo (…)
Tace la tua ombra assassina (…)
La mia ombra non trova pace,
erra impazzita tra le dune della fuga.

Sullo sfondo di ogni luogo si sovrappone l’immagine straziante dell’Albania, patria e infanzia lacerata, che nelle vene del poeta ha seminato «solo panico e terrore», perché è un Paese – scrive Hajdari – che «nutre per uccidere», è terra matrigna che divora i propri figli. Anche nel «sonno nero» dell’Africa, sente la voce di sua madre:

“Gezim, copriti bene,
il freddo dei Balcani punge”.

Egli non può dimenticare la sua terra, nel bene e nel male. E la ritrova nei luoghi più impensati: a Calcutta, per esempio, incontra Madre Teresa, che è di origine albanese. L’Albania dialoga anche con l’origine mitica di Roma: Enea fa tappa a Butrint (luogo antico dell’Albania) prima di giungere sulle sponde del Tevere. Sono proprio gli albanesi ad accompagnarlo in Italia con le loro navi. Segnato per sempre dal regime di Enver Hoxha, Hajdari cerca ad ogni latitudine le radici eterne dell’odio e del terrore, che la Storia usa per limitare o estinguere la libertà dell’uomo, mortificando la bellezza delle sue energie creative. La Storia è piena di despoti che hanno riempito il mondo di crimini e sventolato governi-fantoccio a servizio dei poteri imperialistici. Il processo di “civilizzazione”, con le sue menzogne, ha santificato cose vergognose (come le guerre) e ricoperto di vergogna cose sacre (come il sesso).

Ma la poesia è dalla parte della vita, delle sue ragioni, delle sue verità. La poesia non si lascia ingannare, anzi: lotta perché l’uomo non venga più ingannato, perché apra gli occhi, si liberi di tutte le catene e sia finalmente felice. La poesia di Gëzim Hajdari è profondamente etica nella sua stessa vocazione ontologica, che la rende centrata sull’“essere parola” di ogni cosa, e dunque potenzialmente atta ad incarnare un’opzione di coscienza condivisa, a livello di trasformazione profonda, di cammino collettivo degli individui (ciascuno con il suo percorso). Il canto di Hajdari nasce dalla natura, come il vino dai raspi della vigna, e raccoglie tutta la cultura che conosciamo (cioè il senso di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere, al di là di tutti gli impedimenti) per riconsegnarla infine alla natura, su un piano evolutivo superiore. Una poesia di cui c’è assoluta urgenza storica: proprio in quanto nuovamente, eternamente ancora umana, piena di luce cosciente e lontanissima dal grigiore di tante sterili lallazioni contemporanee.

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”. Ha fondato, insieme a Giorgio Linguaglossa, il blog lombradelleparole.wordpress.com

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POESIE SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO o DELL’IDENTITA’ (ovvero, il poeta allo specchio) – Poesie di Kikuo Takano (1927-1998) “Lo specchio”, “In me” – Poesie di Bertolt Brecht (1898-1956) “Scacciato per buone ragioni”, “A coloro che verranno”

hopkins Autoritratto

john hopkins Autoritratto

 (È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

 È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano

 Kikuo Takano nato a Sado nel 1927 muore nel 1998, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.

In me

In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato che non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.

Lo specchio

Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.

(da L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Berthold Brecht (che poi semplificò il suo nome in Bertolt) nacque ad Augusta, in Baviera, nel 1898 da una famiglia discretamente agiata, della borghesia industriale.
Nel 1917 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Monaco, ma poi passò a quella di medicina perché era più facile, per uno studente di quel corso, evitare il servizio militare. Proprio in quegli anni pubblicò poesie e opere teatrali. Nel 1922 riscosse un discreto successo con Tamburi nella notte e nello stesso anno si sposò con l’attrice Marianne Zoff. Nel 1924 si trasferì a Berlino e nel ’27, fallito il primo matrimonio, si sposò con un’altra attrice, Helen Weigel, da cui ebbe due figli. A Berlino si affermò come drammaturgo e fece amicizia e collaborò con molti musicisti del tempi come Kurt Weil e Paul Hindemith.
All’avvento del nazismo al potere, nel 1933, Brecht con la famiglia dalla Germania in volontario esilio: andò in Danimarca e vi rimase fino al 1939, manifestando idee comuniste, anche se non si iscrisse mai al partito. Alla vigilia della seconda guerra mondiale dalla Danimarca passò in Svezia e di qui in Finlandia e in Russia per approdare, infine, negli Stati Uniti d’America dove si stabilì in California, a Santa Monica, fino al 1946 vivendo quasi totalmente isolato. Sospettato di attività antiamericane, nel 1948 rientrò in Europa e si stabilì a Berlino Est dove, malgrado il suo professato comunismo, fu guardato con sospetto per le sue posizioni polemiche e per il suo individualismo. Tuttavia le sue opere erano rappresentate ovunque e proprio a Berlino egli organizzò la compagnia teatrale Deutsches Ensemble (1949) che divenne ampiamente famosa in tutta Europa. Brecht morì a Berlino nell’agosto 1956 per infarto cardiaco.

La Raccolta Steffin di Brecht comprende poesie composte fra il 1937 e il 1940).

 

Bertolt Brecht

 Scacciato per buone ragioni

Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto ed educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né esser servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
con la gente del basso ceto.

Così hanno allevato un traditore, istruito
nelle loro arti; e costui
li tradisce al nemico.

Sì, dico in giro i loro segreti. In mezzo al popolo
sto e spiego
come ingannano, quelli, e predico quel che verrà, perché io
sono introdotto nei loro piani.
Il latino dei loro preti venali
lo traduco parola per parola in lingua volgare, dove
si rivela un imbroglio. La bilancia della loro giustizia
la tiro giù e mostro
i falsi pesi. E le loro spie riferiscono
che siedo con i depredati quando
tramano la rivolta.

Essi m’han diffidato e m’hanno tolto
quel che col mio lavoro ho guadagnato. E quando non mi sono emendato
mi hanno dato la caccia; ma
ormai in casa mia
soltanto scritti c’erano, che svelavano
le loro trame contro il popolo. Così
m’han perseguito con un mandato di cattura
che mi imputa una mentalità degradata, cioè
la mentalità dei degradati.

Dove giungo, sono uno marcato a fuoco
per tutti i possidenti; ma i nullatenenti
leggono il mandato di cattura e
mi concedono un rifugio. Quelli, io sento
dire allora, per scacciarti avevano
buone ragioni.

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno ... (B. Brecht)

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno … (B. Brecht)

A coloro che verranno

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha ancora ricevuta.

Quali tempi sono questi quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’angoscia?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto.)

“Mangia e bevi, – Mi dicono: – E sii contento di averne”
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!

II

Nelle città venni al tempo del disordine
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

III

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa la voce roca. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

(1939)
(da Poesie di Svendborg (1939) Traduzione di Franco Fortini, Einaudi, 1976)

 

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