Archivi del giorno: 3 aprile 2015

CONSIDERAZIONI SUL MINIMALISMO IN POESIA di Valerio Gaio Pedini  Poesie di Raymond Carver, Vivian Lamarque, Deborah Žerovnik con un Appunto di Giorgio Linguaglossa “L’invasione del minimalismo”

Eidetica

Eidetica

È inutile parlare della – per così dire – “piega” che ha preso la poesia con l’avvento del minimalismo: ma se l’arte è superflua, allora anche la critica è superflua. Se l’essere umano vive del superfluo, allora anche la critica diventa necessaria.

Il minimalismo nasce, si dice, negli Stati Uniti. Nasce? Come se una scuola poetica e artistica possa nascere? Va bene, i critici sono sempre soliti umanizzare la letteratura, quando invece, proprio anche grazie al minimalismo, la letteratura è diventata ciò che -si dice- debba essere: design. Ed è questo il problema, la crisi che la critica millanta.

Ma quando si parla di «crisi», non si spiega l’etimologia, si dice «crisi» così, senza rendersi conto che poi «crisi» significa scelta, criterio e, forse, necessità. Per andare avanti c’è bisogno di «crisi». Fa un po’ di pulizia nel suo essere fossile. Oggi la crisi è il minimalismo. E per quanto ci possa piacere, dobbiamo renderci conto che è un linguaggio, un modo di pensare, un linguaggio che entra fin da subito nell’archeologia della parola. Il problema dell’emozione – abilmente retorizzata – nel minimalismo è che essa è momentanea, legata al presente e la poesia diviene un luogo comune, uno spazio liquido, subito da gettare.

Raymond Carver

Raymond Carver

Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica  su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che  significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio.  «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare. Ecco tre poesie di Raymond Carver:

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.

.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”

.
La poesia che non ho scritto

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.

 Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano.

Vivian Lamarque

Vivian Lamarque

Una poetessa italo-francese farà di lì a poco un esercizio più spicciolo, più brutto, più retorico, più banale, più zuccherino, più ovvio: si tratta di Vivian Lamarque, che tanto è stata ammirata per il suo lirismo semplice ed emotivo. Delle composizioni così retoriche da far rivoltare nella tomba persino Cicerone. Ma Vivian capì tutto: ci avrebbe guadagnato e presentandosi come una non poetessa, una donna semplice, pensosa che rigettava stati d’animo “complessi”. È così diventata una poetessa cardine del ‘900. La capacità di intenerire. Ecco tre poesie di Vivian Lamarque:

 Caro albero meraviglioso

Caro albero meraviglioso
che dal treno qualcuno
ti ha tirato un sacchetto
di plastica viola
che te lo tieni lì
stupito
sulla mano del ramo
come per dire
“cos’è questo fiore strano
speriamo che il vento
se lo porti lontano”.
Ci vediamo
al prossimo viaggio
ricorderò il numero
del filare, il tuo
indirizzo, ho contato
i chilometri dopo lo scalo-merci
arrivederci.

da Gentilmente (Rizzoli, 1998)

I mattini ghiro mio


I mattini ghiro mio

come vorrei che tu imparassi ad amare i mattini
soffriresti meno ad alzarti forse
se da te fosse come qui
che quando apri le finestre
subito hai lì alberi perfetti
immobili ma a guardare bene
con anche un punto dove le foglie tremano
per un uccello appena volato via
al rumore della finestra
(o forse ghiro mio avresti sonno lo stesso).

*

Se sul treno ti siedi al contrario
con la testa girata di là
vedi meno la vita che viene
vedi meglio la vita che va.

da Poesie 1972-2002 (Mondadori, 2002)

E così, fra emozioni, digitalizzazione, opinioni, esempi, salotti e soprammobili il minimalismo diviene pane per i denti dei poeti e degli editori della necro-editoria.

La poesia italiana diventa (nulla di autentico rispetto agli albori di Carver), un nastro trasportatore di minimalisti: Valerio Magrelli, Maurizio Cucchi, Davide Rondoni, Vivian Lamarque, Biancamaria Frabotta eccetera, faranno propri gli stilemi del minimalismo, ne adotteranno la formula vincente secondo le proprie necessità, ne svilupperanno le tematiche ciascuno con le proprie direzioni di ricerca. C’è chi si concentra sulle emozioni vissute (Cucchi), chi sui bambini (Lamarque), chi fa poesia sull’opinione e diventa un opinionista letterario (Magrelli).

Fortunatamente, l’Italia respira aria fresca in alcuni minimalisti isolati quali Calamassi, che si evolve e, come un angelo, si stanca e inizia a planare sul mondo, incolpandosi dei mali del mondo. Lì Calamassi, dopo 30 anni, ristruttura tutta la sua poetica minimalista concettuale e diviene sociale. Una poetessa che si muove da sola nel suo minimalismo è Mariangela Mascia: testi lineari, semplici, “ignoranti”, la incoronano e fanno del suo minimalismo una specie di commento dedicatorio agli altri. Con la poesia ignorante Mariangela Mascia si dona. E per quanto la possa criticare male, arriva al punto di aver compreso, senza copiature il minimalismo.

alfredo de palchi

alfredo de palchi

Alfredo De Palchi, invece, de-costruisce un minimalismo spirituale, intimo, dissacrando la lingua, oggettivandola, scheggiandola, ribaltandola per renderla irriconoscibile. Diverso invece è il discorso di poetesse quali Deborah Žerovnik, in cui la dimensione tra sacro profano diventa un modo per portare alle estreme conseguenze la formula vincente del minimalismo. C’è ancora spazio per uscire dal minimalismo retorico, dobbiamo però capire quale. Ecco due poesie di Deborah Žerovnik

Deborah Žerovnik

Deborah Žerovnik

 Deborah Žerovnik

Non è mica vero che Gagliarda è la pecora bastarda…
è colpa del pastore che gli tira le tette a tutte le ore
e lei per dissenso, nel secchio del latte, ci caga e ci piscia
per render il pecorino di sapore abietto, mica per, al pastore fare dispetto
ma al gregge far capire cosa è, di rispetto, il concetto… Stella e Albina belano in coro:
“Gagliarda…non si fa, non ci si comporta così in società” ma lei di tanto belare si è rotta il cazzo
“belate così perché siete Merino, pecore dal pelo fino…le tette il pastore non vi tocca, chiudete la bocca…
voi sciocche non avete capito, chi se ne fotte del pelo grezzo o pelo fino, ciò che deve disgustare è il pecorino.
Se non mi credere chiedete a Selma, la pecora Awassi da coda grassa, che di figli fornisce il Kebabbaro, il dissenso non deve essere un evento raro!
Per lei, prenderlo in culo sarebbe gran rivoluzione, non importa se a secco o lubrificata basta non finire come carne da grigliata.”
Poi arriva Adolf il montone frisone, con svastica tatuata sul coglione, lui di pura razza nella figa ci sguazza, e belando riporta il gregge alla disciplina:
“ Il lavoro, il lavoro libere vi renderà, e quindi, che ve lo dico a fare che a pecorina dovete stare…
einz, zwei, drei… tutte in fila ben allineate, e chi si rifiuta già lo sa, che come carne da macello finirà”.

La mia macelleria

Ho un impatto incompatibile
Devo sbarazzarmi di questo disagio
vuole essere me
mi guarda negli occhi
e vuole vedere tutto
ma io ho diritto alla sofferenza
questa è la mia macelleria
piena di dense nebbie dei torti
giorni bui
poliziotti sporchi
puttane
junky
un tavolo a tre gambe
senza nessun chiodo
dove invoco lentamente
giorni di orgoglio e gloria
e svantaggi dell’attuale
che la norma non ha sollevato
dal essere mascalzoni,ladri e devianti
sotto il palazzo di giustizia bombe
e poi pregare Dio per formare una famiglia
perché le promesse sono a buon mercato
ma quanto basso è giù?
ora che le utilità sono altre
mi dicono nulla
tranne che potrebbe essere peggio
ma non so stare di fronte al sole
alzare la testa e vedere la luce
mi perseguita il male
e ho diritto al dolore
dicono che si può cambiare il mondo
però i miei sogni sono andati a male
è la mia macelleria questa
durante la mattanza
ogni osso va rimosso.

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Appunto di Giorgio Linguaglossa: l’invasione del minimalismo

 Una riflessione in questa direzione è presente in Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra Conformismi e Nuove proposte pubblicato nel 2003;[1] il libro raccoglie – ho scritto nella prefazione al volume  «una ampia selezione di articoli, stroncature, recensioni, spunti di riflessione pubblicati quasi integralmente sul quadrimestrale di letteratura «Poiesis» dal 1993 al 2002. Qualche altro scritto, come quello su «Dante e Petrarca», è apparso sulla rivista internazionale di letteratura «Hebenon» (n. 5, aprile 2000); così come anche il saggio «Appunti per la costruzione della nuova poesia», è apparso su Linee odierne della poesia italiana a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio (Quaderni di Hebenon, n. 7-8 ottobre 2001). Si tratta di cavalleria leggera, azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni, condotte in solitaria esposizione e nella convinzione, un po’ donchisciottesca, di pungolare ai fianchi le istituzioni letterarie costrette e costipate in una generale epidemia di conformismo e di elefantiasi. Nella scelta ho privilegiato quegli scritti che avevano un diretto e immediato riscontro con i testi dei poeti contemporanei, e che sono stati redatti, diciamo così, nel fuoco della controversia, lasciando i saggi più propriamente speculativi ad altra più idonea occasione di pubblicità”. Si tratta di un vero e proprio “bombardamento a tappeto degli adiposi conformismi che hanno intorbidato gli anni Novanta».[2]

Ovviamente, la pars destruens precede la pars construens, poiché, come ha scritto Enzensberger in un famoso saggio del 1960: «L’inverso di ogni distruzione della poesia è la costruzione di una poetica nuova». Il volume, che consta di ben 320 pagine, è «strutturato secondo due grandi categorie estetiche: a) la belligeranza del Tramonto e b) tra Modernismo e post-modernismo, precedute da un’area di conflittualità cui ho dato significativamente il titolo di tra Egemonia e isolazionismi, nella quale sono ricomprese posizioni ‘statutarie’ come quelle di Eugenio Montale e di Giovanni Raboni e posizioni ‘isolate’ come quelle di Amelia Rosselli, di Alfredo De Palchi o degli «invisibili» Maria Rosaria Madonna, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Roberto Bertoldo, e altri significativi poeti contemporanei come Daniela Marcheschi, Patrizia Valduga, Luigi Manzi, Laura Canciani, Giorgia Stecher. Questa sezione è seguita da quella denominata l’Egemonia del conformismo, una spregiudicata serie di analisi di autori: Jolanda Insana, Biancamaria Frabotta, Vivian Lamarque, Gianni D’Elia, Albino Pierro, Mario Lunetta, Edoardo Cacciatore, Antonella Anedda  fino ad arrivare a delle messe a punto critiche su poeti di taglio elevato come Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti e Maria Luisa Spaziani».[3] Dalla visione tragica di Amelia Rosselli (La libellula è scritta nel 1958 ma viene pubblicata in volume nel 1969 come parte di Serie ospedaliera, mentre Variazioni belliche è del 1964) alla «poesia da cabaret» di Valentino Zeichen, si snoda una interminabile foce epigonica che ha finito per prosciugare qualsiasi voce e qualsiasi sussulto di criticità della poesia del tardo Novecento.

Il retroterra del minimalismo lo si può misurare tenendo presente la distanza, per così dire, che separa la «visione tragica» della Rosselli dalla sua carnevalizzazione messa in atto dal poeta di Fiume e dalla infinita schiera di «poete» che tentano di imitarne il registro stilistico.

Da questa distanza emerge, senza equivoci, la caduta perpendicolare della poesia italiana del tardo Novecento. Il risultato è andato ben oltre le più funeste previsioni: si è verificata la deiezione e la cancellazione di ogni ipotesi di poesia «diversa» o divergente dal binario del conformismo poetico del minimalismo; il minimalismo, in silenzio e in sordina, ha compiuto scientemente l’assassinio della poesia italiana ponendole un bavaglio e una museruola, imponendo una irreggimentazione al nuovo conformismo. La parola d’ordine sottaciuta ma sottostante è: l’allineamento ai parametri del Modello maggioritario, non mediante l’egemonia di una scuola o di uno stile, ma mediante la imposizione di un Modello dominante e di una alleanza di fatto tra il minimalismo di adozione romana e quello milanese.

il minimalismo come deriva delle poetiche epigoniche

 il minimalismo come deriva delle poetiche epigoniche. Se gettiamo uno sguardo retrospettivo alla poesia dei due ultimi decenni, non possiamo non notare il pendio declinante di quelle che ho definito poetiche epigoniche. Cosa intendo dire con questa definizione? Intendo dire – come ho affermato e ribadito innumerevoli volte in più occasioni sulla rivista «Poiesis» – che tutte quelle poetiche che sono sorte sulla «fede» nella tecnologia dei linguaggi, sono miseramente fallite. In primo luogo, già nel concetto così ipostatizzato dallo sperimentalismo si può notare il sostrato teologico di un atto «politico»: la fede nella costruzione dei linguaggi rivelava la ingenuità teorica di tutte quelle posizioni che speculavano sulla possibilità di «costruire» i linguaggi poetici. E che tra tutti i linguaggi proprio quello poetico si sottragga ad ogni istanza di «costruttivismo», è un dato talmente palese che oggi balza agli occhi con autoevidenza assoluta. Oggi finalmente si comincia a comprendere che se i linguaggi mediati sono fungibili e costruibili, l’unico tipo di linguaggio che non si può «produrre» è proprio quello poetico; ed una ragione ci sarà pure del perché di questa «stranezza». Da alcune parti si è parlato (a sproposito) della fattibilità di un «evento» che accade ed opera in modo quasi magico, al di là di ogni interferenza del soggetto. Appare di tutta evidenza che siffatto concetto non è degno di esser preso in alcuna seria considerazione: un evento che cade dal cielo come una manna sul deserto del Sinai, rientra più nella sfera della taumaturgia che non in quello dell’estetica, e noi possiamo tranquillamente ignorarlo in quanto abitanti del secolo primo del terzo millennio. È pacifico che, alla soglia di una poetica allo stato zero, cioè alla soglia di una poetica che faccia tabula rasa della sofisticata macchinosità del pensiero estetico del Novecento, debba e possa venire riproposta la questione della lingua come questione originaria, giacché la lingua (nella sua duplice funzione: mimetica e simbolica), in quanto principio rivolto alla comunicazione di contenuti spirituali, è categoria fondante di tutta la realtà.

[1] Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra Conformismi e Nuove proposte Coed. Libreria Croce, Scettro del Re, Roma, 2003 p. 32

 [2]  Ibid. p. 63

[3]  Ibid. p. 12

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se poteteRigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicalaEssence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme LiquideScenari ignoti e Glocalizzati.

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