Archivi del giorno: 25 aprile 2015

 POESIE SCELTE IN LINGUA URDU di MIRZA ASADULLAH GHALIB (1797-1869) traduzione di Steven Grieco-Rathgeb in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. UN POETA PER TUTTI I TEMPI – La lingua Urdu e il ghazal – Singoli sher (Prima traduzione in italiano)

IndiaCenni biografici

Mirza Asadullah Ghalib nacque a Agra nel 1797 e morì a  Delhi nel 1869. Discendeva da una famiglia turca dell’Uzbekistan. Come altri uomini di stirpe nobile e guerriera dell’Asia Centrale, il nonno, Mirza Kokan Beg, era calato in India verso la metà del XVIII sec. in cerca di fortuna.

Orfano del padre a 5 anni, Ghalib crebbe come rampollo di una famiglia aristocratica non agiata. Imparò in giovanissima età a scrivere versi in Persiano, oltre che in Urdu. A 13 anni fu sposato con Umrao Begum, una ragazza del suo stesso ceto. Dopo il matrimonio si trasferì a Delhi. Nacquero figli, ma i due non raggiunsero mai una vera intesa, vivendo in appartamenti separati nello stesso haveli (casa padronale). Tranne un lungo viaggio compiuto a Lucknow, Benares e Calcutta, il poeta non lasciò mai più Delhi.

La famiglia conobbe diverse disgrazie. Forse la più grave per il poeta fu la scomparsa in giovane età di Arif, l’amato figlio adottivo. Le ristrettezze economiche lo perseguitarono per tutta la vita. Non riusciva a pagare il macellaio e il vinaio, perché infatti mangiava quasi solo carne e pane, ed era bevitore appassionato. Spesso dovette ricorrere agli usurai.

Ghalib ebbe una relazione molto intensa con una cortigiana che morì giovane in circostanze mai del tutto chiarite, ma certo tragiche. Tali esperienze, e l’indifferenza dei contemporanei verso la sua opera, lo portarono sempre più ad appartarsi dal mondo. Per un breve periodo fu precettore poetico dell’ultimo Imperatore Mughal, Bahadur Shah Zafar, grazie a cui poté percepire una pensione, peraltro modesta.

Nell’ultimo periodo di declino dei Mughal, le casse di stato erano vuote, e la stessa famiglia regnante era ridotta sul lastrico. Nel Lal Qila, un tempo splendido palazzo imperiale, il Badshah, le mogli e i fedeli ormai occupavano poche stanze, dove erano costretti a vivere al lume di qualche fioca candela. La fine dell’Impero fu affrettata dalla presenza nel subcontinente degli Inglesi, intenti a influenzare le vicende politiche a proprio vantaggio, senza intervenire di prima persona. L’instabilità politica sfociò nella grande e cruenta sommossa nazionale, detta The Indian Mutiny (1857-59), di cui Mirza Ghalib fu diretto ma imparziale testimone.
 

huñ garmi-e nishāt-e tasavvur se naghmah-sanj
maiñ andalīb-e gulshan-e nah āfrīdah huñ

 
nelle mie melodie è il riverbero di una gioia profonda –
sono l’usignolo di un giardino che sarà

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

L’eco dei torbidi che sconvolsero il mondo e l’epoca di Ghalib sono in genere rintracciabili soltanto nell’epistolario di questo grande letterato, molto meno nella sua opera poetica. Le lettere ci dicono che egli visse i suoi tempi con tutto lo slancio umano di cui era capace un uomo della sua sensibilità. Oggi però noi ci ci rendiamo conto che l’angoscia ghalibiana dell’essere, la sua solitudine, hanno una dimensione  cosmica e senza tempo. Ghalib è poeta non della storia, ma dell’eternità.

In India il modernismo viene in genere fatto risalire al secolo 19°, e all’impatto che l’Occidente ebbe su questa parte del mondo. Senza negare questa ovvia realtà, l’opera poetica di Ghalib tuttavia esprime un modernismo Indo-centrico che non ebbe niente a che vedere con le influenze occidentalizzanti, ma è frutto di dinamiche culturali specifiche al Subcontinente, avviate in tempi più antichi, e di cui elemento fondante è l’incontro secolare fra due grandi tradizioni culturali – la Persiana e l’Indiana. Ghalib si situa al vertice di questo processo.

Se l’affermarsi dell’essere umano come individuo è uno dei tratti determinanti del modernismo in genere, possiamo dire che Ghalib fu uno dei nostri primi moderni. Egli iniziò a definire l’uomo in questo senso. Privato delle antiche narrazioni come modello per il proprio agire, delle certezze della tradizione, della solidarietà di un determinato ceto o gruppo sociale, della sicurezza di religione e fede in Dio, l’uomo moderno emerge come individuo solo, vulnerabile, ed esposto a tutte le intemperie, che si interroga su ogni cosa e vive con forte angoscia l’oscurità della vita. Non ha né casa né dimora, ma si trova, rahguzar, sul ciglio della strada (vedi sher n. 4, “non un tempio, non la Ka’aba…”).

Dove si pone dunque l’uomo in questo mondo ostile;  quale la condizione del poeta di fronte a se stesso e agli altri; dove si situa l’amore in una società caratterizzata dall’indifferenza?

Da qui è breve il salto al quesito cruciale – cosa sia l’Essere – che sottende tutta l’opera poetica di Ghalib. Tuttavia, egli è profondamente scettico di ogni possibile spiegazione: “ogni luogo, ogni attimo, cantano il proprio specifico non-essere nell’Essere”. In questo il nostro poeta si avvicina per certi versi al nichilismo occidentale. Con la differenza che in lui il rifiuto del mondo è del tutto assente, e la disperazione si stempera nella coscienza che la fine corsa del nichilista è anch’essa inganno, semplice tappa sulla via dell’infinita esistenza, della memoria che involontariamente crea i diversi stadi e le inesauribili trasformazioni della vita. A questo proposito, un suo distico, prossimo al pensiero indiano tradizionale:

Self-encrypted is what we take as our waking state
they are still in dream who have awoken in dream
 

ascoso in sé è quel che noi pensiamo realtà diurna
sono ancora in sogno coloro che si svegliano in sogno

India 5Il mondo allora diventa tamasha, uno spettacolo che ora diverte, ora lascia sdegnati. Ghalib ebbe suprema la facoltà di ridere di se stesso, della sua poesia e delle sue passioni. Da una parte il poeta intravede in ogni attimo l’unità del Tutto – “sempre il cielo si china giù per salutare la propria luce” – da un’altra egli si trova a contemplare i frantumi della vita, dell’amore, dello spirito.

Oggi Ghalib ci appare come un gigante della poesia, e noi volgiamo lo sguardo verso lui per ringraziarlo del suo estremo ardire e della sua angoscia, del suo spirito innovatore e penetrante, soprattutto per essersi addentrato, senza facili certezze, nel dilemma dell’essere e del non-essere.

Sempre scettico di se stesso, Ghalib spinge i suoi lettori a esserlo di se stessi.

donna cinese antica

donna cinese antica

La lingua Urdu e il ghazal

 La lingua Urdu si sviluppò in India dal X sec. in poi, negli accampamenti militari degli invasori musulmani provenienti da Occidente. Essa è commistione delle lingue locali, basate sul Sanscrito, con elementi di Persiano, Arabo e Turco. Con il tempo l’Urdu divenne lingua letteraria delle più raffinate. Grandi poeti lo preferirono al Persiano per scrivere le loro opere più significative.

Il ghazal, forma poetica di origine Araba e poi Persiana, si articola in una sequenza di singoli bayt, o distici, in numero variabile.

I due versi del primo distico fanno “rima” (più propriamente si tratta di un ritornelloradif). Questa si ripete nel secondo verso di ciascun distico successivo. Lo schema dunque è: aa, ba, ca, da, ea, fa, ecc.

Se è impossibile enumerare in questa sede le altre convenzioni stilistiche legate alla forma, è necessario però dire che il ghazal non prevede, in genere, lo sviluppo di un dato tema poetico su tutto l’arco della composizione – così come succede, ad esempio, nel sonetto occidentale (che da esso sembra derivare). Ciascun bayt (distico) affronta un tema, una riflessione, una immagine, e la sviluppa, risolvendola al suo interno, per cui risulta un mondo completo in se stesso.

Si dice che il ghazal sia l’anima della poesia Urdu. In Ghalib esso è come una collana di perle: ogni distico è unico, ma legato agli altri per mezzo di un filo tanto sottile quanto tenace.

Questa è la prima volta che viene proposta una scelta di ghazal del poeta indo-musulmano tradotta in italiano e disancorata dalla ricerca filologica pura.

Le poesie di Ghalib, specialmente in forma di popolarissime canzoni, costituiscono ancora oggi nel subcontinente un patrimonio poetico vivente amato e condiviso da tutti. Tipico di quell’ethos è proprio il singolare fatto che i versi di un poeta così arduo e spesso oscuro, possano stare sulle labbra anche dell’uomo di strada. Ciò è dovuto in parte al fatto che in Ghalib, è del tutto fluido il passaggio, nello stesso contesto, dal dialogo amoroso al dialogo profondo con il Sé e con l’Inconoscibile.

Presentiamo tre ghazal e una serie di sher,  nome che designa un distico che spicca per bellezza e significato, e viene dunque spesso scorporato dal ghazal di appartenenza e presentato da solo.

Per la traslitterazione dall’originale in lettere Romane, si è usato il sistema diacritico semplificato.

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

               Ghazal

sab kahāñ kuchh lālah-o-gul meñ numāyāñ ho ga’īñ
ķhāk meñ kyā sūrateñ hoñgī kih pinhāñ ho ga’īñ

non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere

yād thīñ ham ko bhī rangārang bazm-ārā’yāñ
lekin ab naqsh-o-nigār-e tāq-e nisyāñ ho ga’īñ

anche noi ricordiamo lo splendore di sontuose e polìcrome feste
meri arabeschi ormai, che sbiadiscono nella nicchia dell’oblìo

thīñ banāt un-na’sh-e-gardūñ din ko parde meñ nihāñ
shab ko un ke jī meñ kya ā’ī kih ’uriyāñ ho ga’īñ

le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
perché mai ascesero nude, radiose nella notte?

jū-e khūñ āñkhoñ se bahne do kih hai shām-e firāq
maiñ yih samjhūñgā kih sham’eñ do firozāñ ho ga’īñ

la sera dell’addìo, sgorghi pure un fiotto di sangue dagli occhi –
mi farà pensare a due luci diventate incandescenti

in parīzādoñ se leñge khuld meñ ham intiqām
qudrat-e haq se yihī hūreñ agar vāñ ho ga’īñ

di questa progenie di fate ci vendicheremo in cielo –
se per giustizia divina le ritroveremo houri (donzelle) lassù

nīñd us kī hai dimāgh us kā hai rāteñ us ki haiñ
terī zulfeñ jis ke bāzū par pareshāñ ho ga’īñ

suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome

maiñ chaman meñ kyā gayā goyā dabistāñ khul gayā
bulbuleñ sun kar mire nāle ghazal-khvāñ ho ga’īñ

al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti

vāñ gayā bhī maiñ to un ki gāliyoñ kā kyā javāb
yād thīñ jitnī du’ā’eñ sarf-e darbān ho ga’īñ

e se anche andassi lassù, che risposta dare alle ingiurie di lei:
le preghiere che ricordavo le sprecai tutte sul guardiano

jāñ-fizā hai bādah jis ke hāth meñ jām ā gayā
sab lakīreñ hāth kī goyā rag-e jāñ ho ga’īñ

il vino è afflato vitale – le linee della mano che regge il calice
vanno tutte pulsando verso la grande vena dell’Essere

ranjh se khūgar hu’ā insāñ to mit jātā hai ranj
mushkileñ mujh par parīñ itnī kih āsān ho gaīñ

quando al dolore l’uomo si abitua, il dolore se ne va –
di guai me ne capitarono tanti, finché non mi parvero leggeri

yūñ hī gar rotā rahā ghālib to ay ahl-e-jahāñ
dekhnā in bastiyoñ ko tum kih virāñ ho ga’īñ

gente del mondo! se Ghalib continua a versare lacrime così
questi rioni affollati diventeranno una città fantasma

India 4
Singoli sher

* * *
yā rab zamānah mujh ko mitātā hai kisliye
lauh-e jahāñ pah harf-e mukarrar nahīñ hūñ maiñ

Dio mio, perché il Tempo mi cancella?
io non sono una lettera (cifra) scritta due volte sulla lavagna del mondo

* * *
ab maiñ hūñ aur mātam-e yak shahar-e ārzū
torā jo tū ne ā’inah timsāldār thā

e ora io sono, e il dolore di una città che anela:
lo specchio che rompesti era creatore d’immagini

* * *
dair nahīñ haram nahīñ dar nahīñ āstāñ nahīñ
baithe haiñ rah-guzar pah ham ghair hameñ uthā’e kyūñ

non un tempio, non la Ka’aba, non una porta, né una soglia:
stiamo seduti sul ciglio della strada – perché mandarci via?

* * *
nah gul-e naghmah hūñ nah pardah-e sāz
maiñ hūñ apnī shikast kī āvāz

non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
io sono la voce del mio stesso spezzarsi

* * *
hai kahāñ tamannā kā dūsrā qadam yā rab
ham ne dasht-e-imkāñ ko ek naksh-e pā paaya

dove sta il secondo passo del desiderio, oh Signore –
sulla desolazione del vissuto abbiamo trovato
l’impronta di un piede solo

India 6

Ghazal

hāñ khayo mat fareb-e hastī
har chand kaheñ kih hai nahiñ hai

no, non consumarti nell’abbaglio delle apparenze
anche se dicono, “qualcosa c’è, forse non c’è”

hasti hai nah kuch adam hai ghalib
ākhir tu kyā hai ai nahiñ hai

Ghalib, Essere e Nulla entrambi vacillano –
in fondo, come puoi tu essere e non essere

.

Ghazal

nah hu’ī gar mire marne se tasallī nah sahī
imitihāñ aur bhī bāqī ho to yih bhī nah sahī

se la morte non mi recasse alcun conforto, pazienza
dovessi superare altre prove, di nuovo, pazienza

ek hangāme pah mauqūf hai ghar kī raunaq
nauhah-e gham hī sahī naghmah-e shādī nah sahī

è il continuo via vai che dà calore alla casa –
se questo è un grido di angoscia, non un canto festoso, pazienza

nah satā’ish kī tamannā nah sile kī parvā
gar nahīñ haiñ mire ash’ār meñ ma’nī nah sahi

non ho sete di plausi, né bramo compensi:
se nei miei versi non è alcun senso, pazienza

.

Ghazal

zulmat-kade meñ mere shab-e gham kā josh hai
ik sham’a hai dalil-e sahar so ķkhamosh hai

nella mia buia dimora, la notte di dolore trabocca
c’è una candela, segno dell’alba, ma è spenta (ma ora riposa)

dāgh-e firāq-e suhabat-e shab kī jali hu’i
ik sham’a rah ga’i hai so vuh bhī ķhamosh hai

arsa dall’angoscia del notturno lasciarsi
è rimasta una candela – anch’essa è spenta

āte haiñ ghaib se yih mazāmiñ khiāl meñ
ghālib sarīr-e khāmah navā-e sarosh hai

giungono dal Vuoto questi temi all’immaginare –
Ghalib! il frusciare della penna è richiamo dell’Arcangelo

*Questo lavoro è frutto di una collaborazione fra A.shok Vajpeyi e Steven Grieco. Il primo dei contributori è poeta in lingua Hindi e saggista. Ha creato e diretto per diversi anni il Bharat Bhavan Culture Centre, Bhopal, nel Madhya Pradesh. Il secondo è poeta in lingua Inglese e traduttore.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com

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