
La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica»
Quattordici poeti si confrontano con il Paradigma dello Specchio. La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica». La parola «specchio» deriva da «speculum», ed ha la stessa radice di «speculazione», cioè pensare qualcosa in rapporto ad un’altra. Lo «specchio» ci mette dinanzi agli occhi una immagine nella quale spesso non ci riconosciamo, e ci invita a pensare noi stessi in rapporto a ciò che vediamo riflesso nello specchio. È dal non-riconoscimento che ha inizio la speculazione intorno a ciò che noi siamo e ciò che non siamo; è attraverso l’immagine esterna a noi che possiamo speculare intorno a ciò che siamo o non siamo, perché ciò che noi vediamo di noi è sempre altro da ciò che noi credevamo di sapere…
«Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il Vuoto stesso […]».
(Roland Barthes)
l’immagine allo specchio ci rivela il nostro sembiante come un «gioco» di significanti e di significati, di codici e di geroglifici inscritti tra le pieghe del nostro volto […]
Un contesto di «gioco» nel quale la Parola, nel suo significato, rischia di farsi ambigua. Da questa ambiguità trae l’origine il «lutto» e da questo l’ impedimento al pieno dispiegarsi dell’adempimento nel tempo della «Storia».
La storia individuale è quindi una ripetizione del «gioco luttuoso» del Trauerspiel, ripetizione infinita della rottura, dell’incongiungibilità di suono e significato, della dif-ferenza tra significante e significato, del permanente rischio di parlare tramite la ciarla.
Autotrasparenza e autoriflessività sono due momenti dello «specchio» intorno ai quali ruota la rappresentazione nel Moderno. La rappresentazione si fa rappresentazione di se stessa, si duplica, si mostra nella trasparenza e nel riflesso allo specchio, mostra la propria struttura riflessiva e, nello stesso tempo, mette in atto un rapporto con il soggetto della rappresentazione di cui smarrisce la genesi; il soggetto si mostra «barrato» nella elisione direbbe Lacan* indicando in tal modo la lacuna intorno a cui si costituisce la rappresentazione, lacuna che colpisce, a ritroso, il soggetto, elidendolo. Così, il linguaggio tende al metalinguaggio e l’io tende al meta-io.
L’atteggiamento giubilatorio del bambino davanti allo specchio è, per Lacan, la seduzione dello specchio, la fascinazione in cui si produce quello sdoppiamento nel soggetto per cui l’immagine riflessa diventa l’emblema nel quale il soggetto si riconosce e si identifica. Si è colti in imago prima ancora come persona, si è catturati dall’immagine statuaria che si produce sulla superficie dello specchio. Il corpo è la sede dell’ingovernabilità, in balia dell’altro e della propria inibizione motoria. Il corps morcelé è l’espressione che Lacan utilizza per descrivere questo stato. Il «corpo-in-frammenti», è l’altro polo di questo processo che detta le regole, da un lato, allo disgregazione del soggetto tra la sua immagine unitaria, ortopedica, come dice Lacan, in cui il soggetto si aliena, e la frammentazione che rivela al soggetto il soggetto.
Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria e in cui accade qualcosa che appare nel registro della finzione: la formazione di sé nell’immagine.
* M. Foucault, Les Mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad.it. Panaitescu E., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967 .
(Giorgio Linguaglossa)

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria
Niente è più astratto e sfuggente della nostra identità e nello stesso tempo niente è più esposto al giudizio altrui, è più concreto e visibile. A cominciare dal volto, la prima immagine di noi stessi. Da quasi due secoli la fotografia è legata alla nostra stessa idea di identità. Tutti portiamo con noi un documento con il nostro volto e abbiamo fotografie delle persone che più amiamo. Il rapporto emozionale che stringiamo con queste immagini è talmente complesso da farci rifiutare, qualche volta, i nostri stessi ritratti. Non ci riconosciamo, anche se bastano pochi anni per trovare sorprendentemente migliorate fotografie che prima detestavamo. Perché la fotografia è come la memoria: cambia. Non resta immobile, ma si trasforma sulla base della storia di ciascuno e dell’idea che si ha di se stessi.
(Ferdinando Scianna, Lo specchio vuoto, Laterza, 2015)
La creazione sarebbe secondo Jakob Böhme (1575-1624) una sorta di gigantesco specchio, cioè un enorme occhio che è in grado di guardare se stesso.
Un gruppo di cosmologi guidato da Julian Barbour, dell’Università di Oxford, ha ipotizzato che all’origine della freccia del tempo non ci sia l’entropia, ma la gravitazione.
Il loro modello cosmologico prevede, infatti, l’esistenza di due universi specchio, che evolvono simmetricamente – creando strutture complesse e ordinate, come le galassie, per esempio – a partire da uno stesso stato iniziale caotico, di dimensioni minime e densità massima.
Uno dei due universi va quindi in avanti nel tempo, l’altro indietro. Naturalmente non potremo mai incontrare gli ipotetici abitanti dell’universo specchio, perché ognuno percepirà di muoversi verso il futuro, allontanandosi da quello stato caotico primordiale.
Le particelle virtuali spesso appaiono in coppie che si annichilano a vicenda quasi istantaneamente. Tuttavia, prima di svanire possono avere un’influenza reale sull’ambiente circostante. Per esempio, i fotoni – i quanti di luce – possono saltare dentro e fuori un vuoto. Quando due specchi sono posti l’uno di fronte all’altro in un vuoto, all’esterno degli specchi possono esistere più fotoni virtuali di quanti ce ne sono nello spazio che li separa, generando una forza apparentemente misteriosa che tende ad avvicinare gli specchi.
Questo fenomeno, previsto nel 1948 dal fisico olandese Hendrik Casimir e da allora chiamato con il suo nome, fu osservato per la prima volta con specchi mantenuti in uno stato di quiete. I ricercatori però hanno previsto anche un effetto Casimir dinamico, che si osserva quando gli specchi sono in moto o quando gli oggetti subiscono qualche tipo di cambiamento. Ora il fisico Pasi Lähteenmäki dell’Università di Aalto, in Finlandia, e colleghi, hanno dimostrato che variando la velocità con cui viaggia la luce è possibile farla apparire dal nulla.*
* notizie tratte da http://www.lescienze.it/news/2013/02/16/news/luce_vuoto_quantistico_particelle_virtuali_fotoni_effetto_casimir_dinamico-1511221/

Quello che vedo lo ingoio all’istante
1 Ezra Pound
Sul suo viso allo Specchio
“O strano viso nello specchio!
O compagnia ribalda, ospite
sacro, o folle
sconvolto dal dolore, che risposta?
O voi moltitudini che lottate,
giocate e svanite,
scherzate, sfidate, mentite!
Io? Io? Io?
E voi?”
2 Sylvia Plath
Specchio
Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
Quello che vedo lo ingoio all’istante
Così com’è, non velato da amore o da avversione.
Non sono crudele, sono solo veritiero –
L’occhio di un piccolo dio, quadrangolare.
Passo molte ore a meditare sulla parete di fronte.
È rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
Che credo faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
Facce e buio ci separano ripetutamente.
Ora sono un lago. Una donna si china su di me
cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente.
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Va e viene.
Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio.
In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
Sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo.”
3 Wislawa Szymborska
Lo specchio
Si, mi ricordo quella parete
nella nostra città rasa al suolo.
Si ergeva fin quasi al sesto piano.
Al quarto c’era uno specchio,
uno specchio assurdo
perché intatto, saldamente fissato.
Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a riavviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
“luogo”.
Era come durante le vacanze-
vi si rispecchiava il cielo vivo,
nubi in corsa nell’aria impetuosa,
polvere di macerie lavata dalla pioggia
lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba.
E cosi come ogni oggetto fatto bene,
funzionava in modo inappuntabile,
con professionale assenza di stupore
4 Ewa Lipska
Lo specchio
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere
Nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile
A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro.
L’occhio incrinato del tempo. O forse è solo una stella
Che sbraita nel vaudeville locale.
5 Francesca Dono
-allo specchio-
lo sconosciuto si guarda allo specchio Poi abbassa le mani
In silenzio Con un pettine indolenzito La posa di altre ombre
Che scivolano dalla cornice per le crepe allineate Sono le nove
Passate Un’eternità Con l’orologio tagliato nel buio Sullo specchio
corrono cavalli selvaggi Un collage sfinito di Dravidi in ginocchio
Nessuno riflette il tempo I pianeti Chi c’è sotto quel volto ustionato?
Nulla di più complicato Il carnefice indossa un fermaglio di ego Ogni
Parola del mondo acquatico
ഇപ്പോഴും ടെമ്പി ദിനങ്ങൾ (Ancora dieci giorni di tombe)
Un cingolato senza nome né polmoni Di nuovo il ritratto scenderà vicino
A te Per l’ennesima mail da inviare agli indirizzi sbagliati Ai lati interi
Degli occhi finti e inestricabili.
6 Kikuo Takano
Chiunque si specchia
Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini.
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.
7 Donatella Costantina Giancaspero
Quasi una velatura
Quasi una velatura. A settembre, in periferia.
Un pulviscolo insonoro ad attutire le case,
la domenica mattina.
Di là, in cucina, il marmo grigio. Una bambina
siede con cura – l’attenzione per l’abito celeste…
Ma cadono i ricami – silenziosi alle dita –
dalle forbici scordate oltre lo specchio,
che discorre con lei,
pettinando un’onda, al viso opale di ragazza.
Confidando un sorriso, nel tocco rosso di vanità…

Dopo gli specchi […] altri specchi
8 Letizia Leone
(Paradigma dello specchio)
Chi è la più bella?
Chiedeva allo Specchio. Buco igneo
Nicchia di raffreddamento di tutte le brame.
E si vedeva al rovescio la matrigna: fanciulla
Nascosta nel futuro.
Ad ogni ora l’Eretica: Chi è la più bella? Chi c’è di là?
Dalla linea che orla questo corpo, il suo Reame.
Veramente, veramente bella…
Rispondeva l’oggetto per eccellenza
Che non è più specchio ma lucernaio, nera lucerna.
Qualcuno disse stella. Addirittura Via Lattea
Per speculum in aenigmate
Spazio liscio che insidia la strega.
Ogni visione aggiunge sogno al sogno
Una che grida nel sonno, ombra, illusione.
Brutta, rispose e si frantumò in mille pezzi e più.
Delle nostre voci riempimmo anche i sassi.
L’oratorio dei viventi. I rossi ardenti di velluti e rasi.
Il Decamerone, e non solo fole ma esseri concreti.
Ogni linea nega la via di fuga a questo corpo.
Mio specchio
Brame
Bocca sigillata.
9 Lidia Popa
Arrampicarsi sugli specchi
Dopo gli specchi il paradigma di altri specchi
accanto alla scala mobile. Tutti salgono. Tutti scendono.
Gli specchi grandi assorbono infiniti atomi.
Piedi che camminano per il target del primo posto
sotto il sole. Un fantasma si scatena nel teatro:
«Ecco lo specchio dell’ego! Chi rimane più in alto?»
Tra terra ed il cielo, i mortali e i divini
reciprocamente connessi come in un cerchio:
la danza è l’anello, enigma di due mondi diversi.
Inanella il gioco degli specchi flessuosamente.
Mondana duttilità della cosa di “Saggi e discorsi”
illumina il secolo spropriando l’avvenire.
Paralizzano le menti dei geni ottuagenari
davanti allo specchio riflesso dei giovani corpi
esposti in ammirazione con muscoli tesi.
Ci sono figure sulla scala mobile. Senza sosta.
Tutti salgono per pregare il cielo ad aprire l’ingresso.
Tutti scendono verso la loro ultima tomba.
Gli specchi grandi della Serenissima Opera
nell’atrio del Teatro Friburgo degli scienziati,
la voce dell’Ombra: «Gli attimi appartengono a noi?»
Un carosello degli specchi e delle idee del primato.
E se fosse il riflesso sugli specchi a scegliere
chi rimane più in alto, chi sale o chi scende?
10 Edith Dzieduszycka
Lo specchio nello specchio…
La luce venne accesa
Lo specchio nello specchio
ora si rifrangeva
Una frattura oscena lo deturpava
Rimanere nell’ombra avrebbe preferito
non gli fu dato scelta
A piegarsi costretto
all’infinito quella ferita
avrebbe riflettuto
Altre facce passando
di breve lampo accese
turbavano le acque
prima d’allontanarsi
D’argento non brillava
lo stagno ma di piombo
Scagliate da lontano
le pietre – arme improprie –
cadevano crudeli con grida di dolore
Di sanare lo specchio
nessuno si curava
Le fratture – si sa –
sono pronte a scavare
nel letto addormentato
ferite più profonde.
(gennaio 2018)
11 Gino Rago
Un colpo di vento ha capovolto lo specchio
Un colpo di vento ha capovolto lo specchio.
Fondo del suo cristallo,
magie d’acqua.
Gli occhi non sono quelli d’allora,
il tempo rimescola correnti.
Dal fondo del lago-cristallo
il corpo riemerge senza forma,
lacerata da lame di spuma.
Lo specchio è l’abisso.
L’immagine è scissa in vermi e rughe.
Altri pesci guizzano [gli anni passati
ma chi li riconosce?]
Tu fondo dello specchio non hai colpe.
È l’ultimo guizzo
12 Alejandra Alvaro Alfieri
[Paradigma dello Specchio]
I passi.
L’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme avanti
Secondo il calzolaio ogni suola porta uno
specchio.
Qui si riflette la propria vita.
Tutti lungo la strada si affacciano da un
lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce
Te lo ricorda il monologo che parla dietro
la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere
si va in scena senza paradiso.
Ma se soltanto mi fermassi giusto per
aggiustarmi?
Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.
l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È’ arrivato il colpevole a riflettersi! – Si guardi
nello specchio rotto, la prego.
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo
– non sono stato io!
Passo di fretta ed è rimasta la ferita riflessa
sul petto del mio specchio.
Davanti alla salita il vecchio chiede di
sfuggire
a quel riflesso.
Annalisa Comes
Specchio
Che rimandi oggi?
Chi rimandi a me?
In piedi, in punta di piedi
guardo, controllo, domando.
Niente da indossare per i giorni
di festa.
Nessuno spettacolo.
A nessuno il sorriso.
A nessuna – il testimone dell’alba e
della notte.
Specchio, curva, immagine e
fantasma.
14 Giorgio Linguaglossa
Il Signor Posterius
sulla sinistra, c’è un vuoto; metto una mano nel vuoto,
faccio un passo in avanti:
di fronte ad uno specchio con la cornice bianca
c’è un altro specchio.
i due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno.
sul fondale, c’è una porta,
dietro la porta, una Figura maschile con la giubba nera
e bottoni di madreperla
da cui risalta una gorgiera bianchissima
bacia sulla gota una dama bellissima
in crinolina bianca.
l’uomo sembra di passaggio, forse è lì per caso;
è immobile sulla soglia [dietro la soglia una vampa
di luce lo investe alle spalle] forse emersa da un’altra stanza,
o da un corridoio attiguo al bianco del nulla.
sta lì, in attesa.
assume una posa, forse osa un passo che non accade,
il suo sguardo occupa la scena, e la scena
respinge il suo sguardo.
la figura accenna un movimento, che non c’è.
la bellissima dama accenna un inchino, che non c’è.
adesso, la Figura è un osservatore distratto
che sta curiosando nelle suppellettili del nostro vuoto
semipieno, o pieno semivuoto.
sulla sinistra,
c’è un vuoto che abita uno specchio bianco,
dietro lo specchio con la cornice bianca
c’è un altro specchio…

Gino Rago con Alejandra Alfaro Alfieri, 2018
Gino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950. Da anni vive e opera fra la Sibaritide e Roma dove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa 28 Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016) e nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Progetto Cultura, Roma, 2018). È membro della redazione di L’Ombra delle Parole e collabora con la Rivista Trimestrale «Il Mangiaparole» [Roma, Progetto Cultura].
Gino Rago
Quattordicesima Lettera a E.L.
[Il passato, il Vuoto, lo specchio]
Cara Signora Ewa Lipska,
portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato.
Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
E Lei da poeta lo sa:
i morti ai processi dei vivi
si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-à-terre
con la sua donna.
Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
si guardano negli occhi.
Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
[…]
Il mio Amico [di Roma]*
litiga di nascosto con lo specchio.
Fra se stesso, lo specchio e il mondo avverte il Vuoto,
Il Vuoto che riflette altro Vuoto.
Il tempo cade come polvere dall’immagine riflessa con i baffi
[ il presente, il futuro e il passato in uno stesso fiocco di neve?].
Ma non si lascia alle spalle la stanza, non esce all’aperto:
il passato si sfarina dai baffi dell’Europa.
L’Occidente ha smarrito la strada.
Forse per questo la donna a Vienna s’avvinghia al primo uomo che passa.
Sui marmi sotto i lampadari balla un valzer senza fine nella mente.
*Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa
GR
che bella compagnia! Complimenti a Giorgio per la critica …A tutti gli autori.
-senza trucco-
di Fritz Hertz
caro tesoro/senza trucco sei irriconoscibile
Quasi una donna stanca /Dalla silhouette
oscura e assente/ Quel make-up sostiene ogni
sfera di carne / Il corpo superstite alla strage
Non vorrai(mica) portarlo in casa?
La Signora Rochester ci è rimasta secca
a furia di calcare il matitone per la linea
indemoniata
Un tracollo
Trediciminuti di mistero
L’avvento antisemita all’offerta delle ciglia
volubili
Caro tesoro/ Forse la miscellanea dei fluidi
ha parti quadrate/Privi di lavoro aria- luce
Gli amici del bar non reggono più il vizio
scimmiesco di ogni tuo passaggio/ Ancora meno
la plastilina svettante dalla cute per il circondario
Potrebbe mai respirare un volto con questa
roba a cazzo?
Che poi diventerà tutto inutile una volta
sprofondato al cielo
Nella “solfa” della bocca minuscola
Da qui al bagno enormi cosmetici seguono le
nostre costole disperse
Incartati /Opere “beauty-look “
dell’ennesimo specchio rotto/Dove il
“water borghese”
ti fa un grande pozzo all’ acqua di rose.
Noi viviamo di continuo in mezzo alla frammentarietà delle immagini allo specchio… le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/09/paradigma-dello-specchio-quattordici-poesie-per-quattordici-poeti-sul-tema-dello-specchio-a-cura-di-gino-rago-poesie-di-ezra-pound-sylvia-plath-wislawa-szymborska-francesca-dono-kikuo-t/comment-page-1/#comment-35597
però io vedo ancora troppi verbi messi come zeppe a spiegare ciò che non ha bisogno di essere spiegato. Eliminiamo una volta per tutte i verbi in eccesso, obliteriamo gli aggettivi inutili… facciamo fare una bella cura dimagrante alla poesia!
La frammentarietà della forma è il contro movimento della frammentarietà della memoria. Le parole oggi sono diventate figlie illegittime di Mnemosyne, attecchite dall’oblio della Memoria fluiscono nella invisibilità, e chi parla di Spirito del mondo o di Spirito della storia dovrebbe essere interdetto dagli uffici pubblici. Il modo nel quale oggi si dà Mnemosyne è il frammento, il graffio, gli stracci; le parole sono isotopi che durante la traslazione dalla memoria alla pagina scritta perdono smalto, si impoveriscono, diventano cronotopi delle parole un tempo piene. Le parole sono enti speculari alla frammentarietà ontologica del nostro mondo.
Domanda (per i filosofi):
C’è una differenza ontologica tra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?
Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».1]
Adorno Dialettica negativa op cit. p. 68
LA FONTE E LO SPECCHIO
Narciso non cade in errore! L’immagine che si riflette nella fonte non gli appartiene, non è la sua. Egli, in realtà, contempla un “altro” volto. Non di sé, dunque, s’innamora, ma di quell’«io» sconosciuto, che lo se-duce con la diafana Bellezza che è la virtù e l’essenza stessa dell’anima. L’anima, che si specchia nella fonte, “annega” Narciso che la contempla. Perché chi “vede” l’essere immortale deve rinunciare alla vita per ricongiungersi con la sorgente. Narciso non si riconosce perché si aliena nell’altro da sé. E non c’è agnizione in questa trasfigurazione, perché alla coscienza di sé non si sostituisce la più profonda coscienza dell’altro, che pure ne rivela l’identità. Egli ama il suo volto “al di là” della propria figura. Il narcisismo, qui, non è amore di sé, ma contemplazione di sé nell’inconsapevole verità dell’essere altro da sé. Il volto che innamora Narciso è l’intima «fonte», lo «specchio» dove affiora l’immagine degna di contemplazione: quel volto “sconosciuto”, che è conoscenza di sé nel trascendimento della coscienza individuale.
Se Narciso si fosse riconosciuto, sarebbe caduto nell’errore comune, e opposto al suo caso, che ci fa erranti nello specchio, dove crediamo di cogliere la nostra identità nell’immagine riflessa, della quale può capitare d'”innamorarci” con la certezza di “corrispondere” alla nostra persona. Fedeli allo specchio, restiamo stranieri a noi stessi, distanti dalla verità dell’intima fonte, solo nella quale si supera ogni narcisismo. Nel mancato riconoscimento di sé, Narciso ritrova l’identità vera, autentica; realizza, inconsapevolmente, la profonda conoscenza della propria anima “obbedendo” all’antico apoftegma: «nosce te ipsum», che è, insieme, un sollen (dovere imposto) e un müssen (dovere necessario), e che, dunque, esorta ed invita ogni umano individuo a superare i propri limiti conoscitivi prendendo “possesso” di sé, del proprio essere, a “cor-rispondere” a quell’amore, al quale è da sempre chiamato e che è più grande del narcisismo.
A me segnalata da Rossana Levati, con la prudenza, la saggezza, la sapienza e il fine gusto estetico che i frequentatori assidui e/o occasionali de L’Ombra delle Parole hanno avuto modo di apprezzare nei suoi numerosi interventi, a mia volta segnalo Lo specchietto di Z. Herbert
Zbigniew Herbert
Lo specchietto
Cosa riflette lo specchietto sul bordo del tavolo:
lo specchietto riflette il soffitto
il prato bianco dei desideri
e anche
l’angolo della stanza
lo sparviero rinsecchito
la biblioteca la farmacia
con le fiale per la tristezza
metà di una vecchia riproduzione
piena di rossi frastuoni
sotto un cielo molto sottile
cosa riflette lo specchietto
un pettine
e una ciocca di capelli
un pennino schiacciato
e una penna picchiettata
se lo specchietto fosse una stella
rifletterebbe il vigile sonno dei pianeti
rifletterebbe la faccia chiara del sole
l’irradiamento dello spazio
l’etere e l’argento
il conto di una saggezza distante
se lo specchietto fosse una stella
rifletterebbe
la splendida terra rotonda
con le chiome canute delle eclittiche
ma non c’è di che disperarsi
non c’è niente da rimpiangere
—————————————————–
GR
Onorata di questa squisita compagnia. Complimenti a Voi. Vi dedico questa poesia allo specchio con quale ho debuttato nella prima antologia del passato, con la ristrutturazione e l’esperienza di adesso.
Mi guardo
di Lidia Popa
Ho il viso ricamato dal tempo
di lacrime sorrisi e emozioni.
È un ricamo leggero,
sottile come la ragnatela nata
in un angolo buio della casa.
Ha intrappolato insonnie,
pensieri colmi d’incertezze,
insicurezze e abbandoni
in balia delle onde.
A volte tsunami.
Agli tsunami non sono mai preparata.
Sono io che mi guardo nello specchio,
ma mi piaccio lo stesso.
E non voglio cambiarmi
perché so chi sono,
e non mi importa di come
mi guardano gli altri.
* L’io è il vuoto di ognuno di noi.
quest’ultima con l’asterisco è una perfetta poesia di un rigo.
Grazie.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/09/paradigma-dello-specchio-quattordici-poesie-per-quattordici-poeti-sul-tema-dello-specchio-a-cura-di-gino-rago-poesie-di-ezra-pound-sylvia-plath-wislawa-szymborska-francesca-dono-kikuo-t/comment-page-1/#comment-35605
Qualcuno mi ha fatto presente che parlare di ontologia dopo la catastrofe dell’ontologia è un po’ un controsenso, ma io ribatterei a questo pensiero dicendo che l’ontologia deve passare attraverso una serrata critica all’ontologia, altrimenti è apologia dell’ontologia… la nostra è una serrata critica ai postulati immodificabili della vecchia ontologia estetica divenuti dogmi.
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi è il pensiero dell’essere, «concetto omnibus» diceva Ortega Y Gasset negli anni trenta rivolgendosi contro Heidegger, che noi condividiamo… Ma proviamo a scendere dall’omnibus e a camminare sui pensieri: a chi voglia gettare uno sguardo sulle nostre considerazioni, verrà in chiaro che noi facciamo continuamente critica dell’ontologia. E questo tema dello specchio rientra appunto nella critica dell’ontologia acritica e apologetica della poesia positiva…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/09/paradigma-dello-specchio-quattordici-poesie-per-quattordici-poeti-sul-tema-dello-specchio-a-cura-di-gino-rago-poesie-di-ezra-pound-sylvia-plath-wislawa-szymborska-francesca-dono-kikuo-t/comment-page-1/#comment-35607
Charles Simic: «La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina».
Qualcuno mi ha fatto presente che parlare di ontologia dopo la bancarotta dell’ontologia è un controsenso, ma io ribatterei a questo pensiero dicendo che l’ontologia per essere viva deve passare attraverso una serrata critica all’ontologia, altrimenti è apologia dell’ontologia che non si dice… questo libro vuole essere una serrata critica ai postulati immodificabili della vecchia ontologia estetica divenuti dogmi correnti.
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi è il pensiero dell’essere, «concetto omnibus» diceva Ortega y Gasset negli anni trenta rivolgendosi contro Heidegger… ma proviamo a scendere dall’omnibus e a camminare sui pensieri come su cocci aguzzi di vetro: a chi voglia gettare uno sguardo su queste considerazioni, verrà chiaro che eseguo sempre lo stesso spartito: la critica dell’ontologia. E questo tema dello specchio rientra appunto nella critica dell’ontologia acritica e apologetica della poesia positiva.
Ogni nuova ontologia estetica richiede la circoscrizione di una nuova topologia estetica.
Un mio piccolo contributo estemporaneo.
è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?
Grazie per l’ospitalità
Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.
Charles Simic
Gli amici di Eraclito
Il tuo amico è morto, quello con cui
giravi per le strade
a tutte le ore, parlando di filosofia.
Perciò, oggi sei andato solo,
fermandoti spesso per scambiarti di posto
con il tuo compagno immaginario,
e ribattere a te stesso
sul tema delle apparenze:
il mondo che vediamo nella testa
e il mondo che vediamo ogni giorno,
così difficili da distinguere
quando dolore e sofferenza ci piegano.
Voi due spesso vi siete fatti trascinare
tanto da trovarvi in quartieri strani
persi tra gente ostile,
costretti a chiedere indicazioni
proprio sul ciglio di una suprema rivelazione,
a ripetere la domanda
a una vecchia o a un bambino
che potrebbero essere entrambi sordi e muti.
Qual era quel frammento di Eraclito
che stavi cercando di ricordare
quando sei inciampato nel gatto del macellaio?
Nel frattempo, tu stesso ti eri perso
fra la scarpa nera nuova di qualcuno
abbandonata sul marciapiedi
e il terrore improvviso e l’ilarità
alla vista di una ragazza
abbigliata per una notte di ballo
che sfreccia sui pattini.
The Friends of Heraclitus
Your friend has died, with whom
You roamed the streets,
At all hours, talking philosophy.
So, today you went alone,
Stopping often to change places
With your imaginary companion,
And argue back against yourself
On the subject of appearances:
The world we see in our heads
And the world we see daily,
So difficult to tell apart
When grief and sorrow bow us over.
You two often got so carried away
You found yourselves in strange neighborhoods
Lost among unfriendly folk,
Having to ask for directions
While on the verge of a supreme insight,
Repeating your question
To an old woman or a child
Both of whom may have been deaf and dumb.
What was that fragment of Heraclitus
You were trying to remember
As you stepped on the butcher’s cat?
Meantime, you yourself were lost
Between someone’s new black shoe
Left on the sidewalk
And the sudden terror and exhilaration
At the sight of a girl
Dressed up for a night of dancing
Speeding by on roller skates.
Domando al piombo
Domando al piombo
perché ti sei lasciato
fondere in pallottola?
Ti sei forse scordato degli alchimisti?
Hai perso qualsiasi speranza
di diventare oro?
Nessuno mi risponde.
Pallottola. Piombo. Con nomi
del genere
il sonno è lungo e profondo.
I say to the lead
I say to the lead
Why did you let yourself
Be cast into a bullet?
Have you forgotten the alchemists?
Have you given up hope
In turning into gold?
Nobody answers.
Lead. Bullet. With names
Such as these
The sleep is deep and long.
Prodigio
Sono cresciuto chino
su una scacchiera.
Amavo la parola scaccomatto.
Il che sembrava impensierire i miei cugini.
Era piccola la casa,
accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
per via di carri armati e caccia.
Fu un professore di astronomia in pensione
che m’insegnò a giocare.
L’anno, probabilmente, il ’44.
Lo smalto dei pezzi che usavamo,
quelli neri,
era quasi del tutto scrostato.
Il re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.
Mi hanno detto, ma non credo che sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.
Ricordo che mia madre
spesso mi bendava gli occhi.
Con quel suo modo spiccio d’infilarmi
la testa sotto la falda del soprabito.
Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.
Prodigy
I grew up bent over
a chessboard.
I loved the word endgame.
All my cousins looked worried.
It was a small house
near a Roman graveyard.
Planes and tanks
shook its windowpanes.
A retired professor of astronomy
taught me how to play.
That must have been in 1944.
In the set we were using,
the paint had almost chipped off
the black pieces.
The white King was missing
and had to be substituted for.
I’m told but do not believe
that that summer I witnessed
men hung from telephone poles.
I remember my mother
blindfolding me a lot.
She had a way of tucking my head
suddenly under her overcoat.
In chess, too, the professor told me,
the masters play blindfolded,
the great ones on several boards
at the same time.
Molti Zero
Senza voce l’insegnante si alza davanti a una classe
di pallidi bambini dalle labbra serrate.
La lavagna alle sue spalle tanto nera quanto il cielo
che dista anni luce dalla terra.
È il silenzio che l’insegnante ama,
il gusto dell’infinito che trattiene.
Le stelle come le impronte di denti sulle matite
dei bambini.
Ascoltatelo, dice felice.
Many Zeros
The teacher rises voiceless before a class
Of pale, tight-lipped children.
The blackboard behind him as black as the sky
Light-years from the earth.
It’s the silence the teacher loves,
The taste of the infinite in it.
The stars like teeth marks on children’s pencils.
Listen to it, he says happily.
*
Viaggiare
Mi tramuto in un sacco.
Un vecchio stracciaiolo
mi porta fuori all’alba.
Ci trasciniamo curvi.
Ecco qui, dice, la cravatta blu,
un uomo l’ha scalata mentre gli stava al collo.
Ora lassù singhiozza
perché non sa come calarsi giù.
Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco?
Ecco qui, dice, il cappotto.
Il suo nome è Achab, i suoi sono i nostri stracci.
È in cerca del sarto che lo ha fatto.
Vuole strappare via tutti i suoi fili neri.
Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco?
Ecco qui, dice, un paio di stivali,
mentre andavano a fondo, mentre andavano sotto
la loro vita videro in un lampo,
dovunque andremo si aggrapperanno a noi.
Ma io non dico niente, cosa può dire
un sacco rigonfio di stoppa fino al collo?
Paesaggio con grucce
Così tante grucce. Ora persino la luce del giorno
ne ha bisogno, persino il fumo che sale su. E le baracche –
una per cliente – che sene vanno
in fila indiana, con difficoltà,
dicevo, con un dannato sforzo…
e, dietro, gli alberi sul punto d’inciampare,
e le formiche sulle grucce giocattolo,
e il vento sulle grucce fantasma.
Non riesco a trovare pace qui intorno:
il pane sui suoi arti artificiali,
una bambola su una sedia a rotelle, senza testa,
e mia madre, proprio lei, che adopera i coltelli
come grucce mentre s’accoscia per pisciare.
Occhi cuciti con gli spilli
Quanto sodo lavori la morte
nessuno lo sa quanto lunga
sia la sua giornata.
Le stira la biancheria
il consorte lasciato a casa.
Le belle figlie
le apparecchiano la tavola per cena.
I vicini giocano
a pinnacolo in cortile
o bevono la birra
seduti sui gradini. E la morte
frattanto, in città,
in angoli remoti cerca
qualcuno con una brutta tosse,
ma l’indirizzo è, chissà perché, sbagliato,
nemmeno la morte può scovarlo
fra tutte quelle porte sprangate.
E comincia a cadere la pioggia.
l’aspetta una lunga notte di vento.
Non ha nemmeno un giornale
per coprirsi il capo, nemmeno
un gettone per chiamare chi si consuma,
l’uomo assonnato che piano si spoglia
e nudo si distende sul letto
dal lato che spetta alla morte.
Ragazzo prodigio
Sono cresciuto chino
su una scacchiera.
Amavo la parola scaccomatto.
Il che sembrava impensierire i miei cugini.
Era piccola la casa,
accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
per via di carri armati e caccia.
Fu un professore di astronomia in pensione
che m’insegnò a giocare.
L’anno, probabilmente, il ’44.
Lo smalto dei pezzi che usavamo,
quelli neri,
era quasi del tutto scrostato.
Il re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.
Mi hanno detto, ma non credo che sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.
Ricordo che mia madre
spesso mi bendava gli occhi.
Con quel suo modo spiccio d’infilarmi
la testa sotto la falda del soprabito.
Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.
Così
Di diavoli azzurri
la più azzurra progenie.
mia moglie.
Dissi,
come Pascal
mia mogli eccelle
nel contemplare abissi.
Le sue ginocchia
ancora ricordano
la scala di marmo
di una contessa russa.
Tempo addietro a Parigi
raccoglieva le cicche
fuori dai caffè alla moda
per suo padre, disoccupato.
O nel Nuovo Mondo,
nuda davanti all’arcigno
dottore e all’infermiera,
con un soffio al cuore.
Tuttavia infila
l’estremità di un filo nero,
inumidita di saliva,
nell’occhio immobile dell’ago,
dodici ore al giorno.
Una sarta sublime,
un duro mestiere per la schiena
e la vista.
Nelle buie domeniche d’inverno
arduo mettere a fuoco
lettere e parole straniere
sui libri di testo della scuola serale.
Orecchie delle pagine ripiegate con cura,
brani evidenziati,
tutti quelli su uomini linciati, incatramati di piume,
sui roghi delle streghe –
davanti a una tazza di caffè –
quello nero che fanno gli zingari
quando si siedono a fissar la pioggia,
con le labbra che appena si muovono.
Salmo
Ci hai messo un bel po’ a deciderti,
oh Signore, su questi pazzi
che governano il mondo. Arrivano dovunque
e i loro artigli devono averti spaventato.
Uno di loro mi scovò con la sua ombra.
Il giorno si era fatto freddo. Ondeggiai
fra il terrore e il coraggio
nell’angolo più buio della stanza di mio figlio.
Ho cercato con i miei occhi, Te in cui non credo.
Ti impegni a rendere graziosi i fiori,
a far sì che gli agnelli non smarriscano la madre,
o forse nemmeno di questo ti curi?
Era primavera. Gli assassini con un’aria sportiva
e allegra, e le tue divinità
al loro fianco per accertarsi
che i nostri addii venissero pronunciati bene.
Al tizio del piano di sopra
Capo di tutti i capi dell’universo.
Signor so-tutto, burattinaio intrigante,
e qualsiasi altra cosa tu sappia fare.
Avanti, smazza i tuoi zero questa notte.
Intingi nell’inchiostro code di comete.
Graffetta la notte con luci di stelle.
Meglio per te sarebbe leggere nei fondi di caffè,
o sfogliare l’Almanacco dell’Agricoltore.
Ma no! Ti piace darti arie,
e coltivare la tua rinomata serenità
mentre siedi alla grande scrivania
con niente di niente nel vassoio
della corrispondenza in arrivo o in partenza,
e tutta quell’eternità disseminata intorno.
non ti fa accapponare la pelle
sentirli supplicare in ginocchio,
farfugliando tenere parole come se tu
fossi una bambola gonfiabile a grandezza naturale?
Di’ loro di rimettersi in sesto e andare a letto.
Basta fingerti troppo occupato per notarlo.
Le tue mani sono vuote e così i tuoi occhi.
Niente su cui apporre la tua firma,
anche se tu sapessi quale nome darti,
o credessi a quelli che continuo a inventare
mentre per te scarabocchio quest’appunto nel buio.
Charles Simic
Il mostro ama il suo labirinto
Traduzione di Adriana Bottini
Piccola Biblioteca Adelphi 2012, pp. 149
isbn: 9788845926853
Temi: Aforismi e frammenti, Letteratura nordamericana
€ 12,00 -15% € 10,20
Charles Simic
RISVOLTO di copertina:
Che cosa mette un poeta nei suoi taccuini? Se quel poeta è Charles Simic, il lettore immagina già la risposta: scene e frammenti che transitano fra realtà e sogno, oggetti enigmatici (orologi, specchi), ricordi del presente e premonizioni del passato, appunti di uno sguardo suo malgrado insonne. Ma queste schegge raccolte nell’officina poetica offrono qualcosa di più di un’occhiata nel backstage della creazione letteraria: Simic, cui la forma oscillante tra l’aforisma e la prosa breve sembra particolarmente congeniale, siede a giudicare se stesso e il mondo. Ed è un giudice-poeta chiaroveggente e bizzoso, repentino negli scatti d’ira e nelle smanie d’amore, che crede «nella irrimediabile e caotica mescolanza di ogni cosa», e usa «il caso come attrezzo per demolire le nostre associazioni abituali». Ora striglia i politici guerrafondai e gli intellettuali loro complici, ora racconta con macabra ironia vecchie storie dei Balcani (quel luogo d’Europa la cui economia si regge sulle «fabbriche di orfani e gli allevamenti di capri espiatori»). Stralunato e lubrico, «avanzo di galera … di tutti i Paradisi terrestri», non cessa di meravigliarsi della stupidità umana, ingrediente segreto della storia, ma anche dell’«enciclopedia di archetipi» celata in ciascun oggetto. Ad ogni pagina, guizzi fulminei e collegamenti interrotti: «una melodia allegra suonata con malinconia», un’immagine sfocata di sé colta di sfuggita in uno specchio egizio, qualcosa «a metà fra l’infinito e lo starnuto», un «saporito stufato casalingo di angelo e bestia».
Charles Simic
Hotel Insonnia
A cura di Andrea Molesini
Piccola Biblioteca Adelphi
2002, 2ª ediz., pp. 191 isbn: 9788845917134
Charles Simic
RISVOLTO di copertina:
Charles Simic, ironico, sfrontato, guizzante e tenero poeta, è maestro della lirica breve e della sprezzatura. Il suo mondo, folto di immagini balenanti («Le stelle – impronte di denti sulle matite dei bambini»), è una sottile, tenace esplorazione di quanto ci sta intorno. L’insonnia è la sua malattia. Il suo sguardo, attratto dalle zone di confine, si posa spesso su una regione sospesa tra il sogno e la veglia, la fantasticheria e la contemplazione, in cui il lettore si trova, in un primo momento, spaesato. Le sue parole ricreano fotogrammi dall’inquadratura decentrata, ritraggono dettagli della realtà per mostrarne l’elemento alieno che vi è inglobato, allegramente terrifico, eppure consueto. Un elemento che vive a nostra insaputa e sotto i nostri stessi occhi: «e a mezzogiorno il soffitto / è un sontuoso viluppo / d’ombre frondose / che s’aggrovigliano e sgrovigliano». Il tono discorsivo, il lessico semplice, la sintassi elementare e il verso libero danno forma a visioni terse, sorprendenti quanto icastiche, trama di un cantare zingaro che costeggia la morte opponendole il sorriso di un’intelligenza ardente quanto vigile.
(…)
Pare che i numeri abbiano consistenza, e che
richiedano continui aggiustamenti calligrafici.
Quelli primi sono tra loro separati; non distanti
ma separati da spazio coeso: l’1, che sarebbe 2,
svolge vite separate; sebbene anche mille
o un milione siano sempre 1, accade come
fossero specchi: ogni 1 in sé.
Mayoor, giu 2018. Da un testo non finito. .
Sullo specchio
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/09/paradigma-dello-specchio-quattordici-poesie-per-quattordici-poeti-sul-tema-dello-specchio-a-cura-di-gino-rago-poesie-di-ezra-pound-sylvia-plath-wislawa-szymborska-francesca-dono-kikuo-t/comment-page-1/#comment-35626
Che cos’è lo specchio, per la filosofia è ancora un mistero. Che cos’è? Un nulla? Un qualcosa?, o l’uno o l’altro.
Mi si dice che non è né l’uno né l’altro, che non è né un nulla né un qualcosa. Bene, e allora cos’è? E perché ci inquieta così tanto?. Il mito di Narciso ci dice qualcosa, ma qualcosa che narra dell’io, del sorgere della consapevolezza dell’io, il primo bagliore dell’autocoscienza; con il che diventiamo duali: io e l’altro, io e il mio riflesso.
Ma, ci chiediamo, c’è dell’altro? Se rivolgo lo specchio verso il cielo, vedo il cielo, se lo rivolgo verso il mare, vedo il mare. E allora? Allora, direi che lo specchio ci rivela qualcosa, qualcosa di essenziale, che io, il cielo, il mare, le nuvole e tutte le cose che stanno nel mondo sono, siamo un effetto di specchio… anche i nostri occhi sono uno specchio, nell’occhio si riflettono tutte le cose del mondo, così quando io guardo uno specchio è come se uno specchio fosse posto davanti ad un altro specchio: lo specchio dei miei occhi specchia il nulla che è in me e che è nello specchio, il nulla fatto di pieno, di cose piene. E allora non possiamo non giungere alla conclusione che lo specchio è un nulla che riflette un altro nulla.
Direte voi, e allora lo specchio è uno zero? No, perché lo zero è un numero e, posto lo zero, implicitamente pongo tutti i numeri. E allora non resta che riconoscere che lo specchio è un nulla che ci rivela il nulla di tutte le cose. La vertiginosa abissalità dello specchio ci conduce vicino all’esperienza del nulla che è qualcosa, qualcosa fatto di nulla…
Che cos’è lo specchio? E perché ci riguarda da vicino?
Che cos’è l’ombra? Che cos’è l’ombra riflessa nello specchio?
Davvero inquietante.
Non ho scritto nulla sul tema dello specchio. Ritengo che sia la parte più segreta e abissale del nostro inconscio. In questo senso mi rifaccio ai dipinti di Magritte con il personaggio visto di spalle e che non rivela nulla di se stesso, rispetto a chi voglia rispecchiarsi di lato, di fianco e di fronte.
Lo specchio rivela il nostro essere ombra, immagine.
Lo specchio resta un oggetto a sè. Ha la stessa funzione di un disco a 33 giri. Se non ci mettiamo la puntina. il disco non parte e non rivela il sound (fuori metafora siamo noi i rivelatori di ciò che vogliamo. Se siamo tristi o allegri, lo specchio riproduce sempre la nostra fisiognomica. La poesia è lo specchio di noi stessi, Lo specchio invece, è il nostro alter Ego nell’epoca della riproducibilità.
ho lasciato questa frase su Facebook:
I poeti sciacquano i piatti nel retrobottega e i padroni lasciano loro delle molliche a fine pranzo
Lo specchio offre una visione non soggettiva del mondo; una visione neutra, impersonale. Lo specchio è la “cosa” per eccellenza, quella che ci riflette nel presente immediato.
Il processo di identificazione appartiene al mondo interno, alla psiche. Ma il nostro armadio, il mio pennello da barba, le scarpe, ecc. possono dire più di quanto ci viene mostrato dallo specchio.
Il mio Maestro diceva che il nostro sguardo dovrebbe essere come quello di uno specchio ben pulito.
“Le stelle sono le impronte dei denti sulle matite dei bambini”Come resistere a catturare col mio retino un verso come questo?Quanto ai padroni che lasciano le molliche,esiste un pericolo maggiore: che i padroni vogliano diventare poeti , e allora non lasceranno nemmeno le molliche. Sta già accadendo.
“Ti sei guardato nello specchio, Isak?”
da Il posto delle fragole (Smultronstället) di Ingmar Bergman (1957).
Il posto delle fragole visto dal filosofo Emanuele Severino
E come non ricordare Citizen Kane, Quarto potere, il capolavoro di Orson Welles (1941). Qui il tema dello specchio è interpretato in modo magistrale già dalla prima scena.
Una finestra in primo piano introduce a un tratto lo spettatore da un esterno fosco e inquietante a un interno altrettanto cupo, fortemente enigmatico. Si tratta di un suggestivo esempio di raccordo ingannevole in una catena di sequenze che sfidano la nostra percezione della realtà. Una incomprensibile nevicata cede il posto a una sfera con la neve, stretta nella mano di un uomo; il primissimo piano di una bocca coincide con la prima parola del film, “Rosebud”; di nuovo l’inquadratura della mano, con la sfera che si rompe sul pavimento. E qui viene il bello: il regista, dopo aver scomposto la realtà in frammenti, la deforma davanti ai nostri occhi: l’immagine di una infermiera che entra nella camera è mostrata attraverso i frantumi di vetro, in un gioco di distorsioni e di rifrazioni tipico del cinema di Welles. Un cadavere viene ricoperto da un lenzuolo. Quarto potere si apre con la morte del suo protagonista per poi ripercorrerne a ritroso la travagliata esistenza in una narrazione a flashback senza continuità temporale.
KANE ALLO SPECCHIO
E, per concludere, citerò l’ultima scena di Quarto potere, dove ritorna la sfera con la neve vista all’inizio, e poi restiamo senza fiato sulla straordinaria sequenza degli specchi.
Charles Kane, in preda alla collera, fa a pezzi la camera di Susan, la seconda moglie dalla quale è stato abbandonato. In quel piccolo regno dell’horror vacui, distrugge tutto, tranne una cosa: la sfera con la neve della sequenza iniziale. Poi, rigido, con lo sguardo vitreo, Kane esce lentamente dalla stanza, sotto gli sguardi atterriti della servitù. L’uomo si ritrova solo ad attraversare un corridoio arredato da specchi che riflettono e moltiplicano la sua immagine all’infinito, in un superbo esempio di mise en abîme.
Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto.
Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene.
Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile.
Un abbraccio.
Giuseppe Tallia
Speculum
Morirò su questa cyclette
lo sento dal battito del cuore
e da questa gronda di sudore
che mi cola dalla fronte
come il sangue del Cristo.
Il mio specchio è un retrovisore.
Una Venere lotta con il tapis roulant.
Le conto le costole.
Ne mancano due all’appello,
quelle fluttuanti sul decorso
obliquo del Summa Theologiae.
Mi riempie gli occhi
ma non posso fermarmi –
sarebbe una sconfitta –
nonostante avverta una fitta.
Imposto il programma a barre intermittenti.
Zompo come una marionetta.
Respiro attraverso la cuffietta.
Arriva, arriva il vento!
Si specchia nello specchio:
Anemosssss
Kathorossss
Una lunga fila nella sala attrezzi
del purgatorio.
Gli abbonati alla tortura
sferrano attacchi ai pesi,
ai manubri, ai dischi contesi.
I corpi si bilanciano,
entrano in trazione;
alzano e abbassano maniglie
in un rumore di ferraglie.
Lo specchio a cui tutti si specchiano:
l’inferno-out, il paradiso-in.
E’ una via crucis lo spin
asciugamano e bottiglietta- biberon.
Morirò su questo vogatore, lo sento
quando l’istruttore- Caronte- moggio
mi incita a non cedere il passo
a superare l’orlo del collasso.
L’esercizio terminerà tra qualche minuto.
Premere un tasto qualsiasi per continuare.
Secondo voi che faccio?
Un grande augurio a Gino Rago.
in questa composizione, ci sono dei colpi da maestro di ironia e scetticismo:
Il mio specchio è un retrovisore
Premere un tasto qualsiasi per continuare
ma qui si tratta di una ironia corrosiva che gira un po’ come una macchina celibe. Giuseppe Talia sa benissimo che l’ironia non può nulla contro la nuda e cruda superficie della banalità, tuttavia è l’arma di riserva che usa il poeta quando tutto è perduto. Sono le ultime frecce della sua faretra. Ricordo che una volta, tanto tempo fa, inviai una mia poesia ad un poeta che adesso va di moda, che conteneva questo verso (lo ricordo a memoria): «il formicolio dell’apparenza». Il poeta in questione subito lo notò e mi scrisse. era ovviamente uno specchietto per le allodole, lo avevo messo proprio per attirare la sua attenzione e per verificare la sua scarsa intelligenza poetica in quanto quel verso non aveva nulla da spartire con la poesia che gli avevo mandato e il mio intendimento era solo quello di verificare la nequizia della sua intelligenza.
In questa poesia di Talia ci sono una buona quantità di versi simili, ma qui c’è la necessità di spezzare il tegumento della forzosa banalità cui è costretto il poeta dalla sua materia sordida e prosastica con l’intermediazione di proposizioni che rompono quel dettato posticcio. Talia è un esempio di come oggi la poesia di qualità è una faccenda ostica, è impresa dura oggi fare una poesia di qualità, se non altro perché impera il Kitsch ovunque, in specie nella cosiddetta poesia che vuole farsi passare di qualità ed invece è soltanto sordida e piccolo borghese.
Una volta un letterato mi rimbeccò dicendomi che la fraseologia «piccolo-borghese» era una cosa d’altri tempi, degli anni di piombo… e così via… io gli risposi che le categorie non esalano l’ultimo respiro soltanto perché così vorrebbero i modesti letterati. ecco, direi che la poesia di Talia è quella di un letterato piccolo borghese che non cessa di esserlo e nemmeno vuole cessare di sembrarlo come invece fanno tutti coloro che vorrebbero togliersi di dosso quello stigma con l’argomentazione stolida che ormai il mondo è diventato liquido e che non c’è più né destra né sinistra e che le categorie sono diventate liquide e altre facezie……
Come non essere d’accordo con l’analisi di Giorgio? Mentre la componevo avevo ben in mente tutti “i colpi da maestro” che avrei inferto, contando le frecce nella faretra: sempre meno numerose quelle acuminate e sempre più numerose quelle spuntate.
Piccolo borghese, sì, rivendico il passaporto, ne sono pienamente cosciente.
IV.
E non sapremo mai fino dove
noi due fummo in fine sospinti
quali occhi adesso ci separano
e se giacciono il resto delle ombre
alla resa alta della pietra muraria
dove Marte ci pose in campo
un gioco a scambio traguardato
o la nostra porta tutt’ora persa
aperta nel mattino o nello specchio
del presente che oramai ci divide
(Qui in lettura trattA dal suo Il Secchio e lo Specchio, ed Manni.) Francesco Lorusso.
GRAZIE OMBRA.
Avvenne per acclamazione.
Ricevettero tutti quanti palette riflettenti.
Le uniformi regolari anche.
Ai polsini led intermittenti.
Tutti avrebbero fermato tutti.
Si posizionararono.
Fu convenuto un unico fischio,
un richiamo morbido.
Un fruscio incontrollato di uccelli.
E avvenne.
Grazie OMBRA.
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Come non essere d’accordo con chi afferma che <>? In questo dire vogliamo metterci anche noi stessi?
Sullo sfondo il palazzo di ferro e cemento
ha una parete di vetro con la polvere addosso
rivolta ad oriente per riscaldarsi al sole.
E su e giù e a destra e a sinistra altre lastre a specchio
anch’esse annerite.
Ogni tanto un riflesso
un luccichio maturo di tramonto.
Puntando gli occhi a volte
ci incontriamo in quel balenio,
raro come una chiara pupilla,
e ci sembra in quell’istante il mondo,
con le cose e la materia,
un lampo.
Il crollo del nel nostro destino.
di Lalie Lescorgot
Davanti allo specchio qualcosa si
Muove Più di un baleno La strana
Velatura di una figura gettata in
Avanti Non c’è molto sul vetro
Gli angoli ruotano sugli angoli
Il piano attraverso gli sfoghi del paesaggio
Dopo l’erba un treno di alluminio
Certi profughi espulsi da ogni traversata
Di acqua fredda
Com’è possibile che tutto sia
Distante e sconosciuto?
Un grande lavandino esplode con
Gli abitanti dei volti senza vita
A sorpresa un estraneo si fisserà
“On demand “ al tuo esile corpo
In un solo sorso di polvere Dall’ultimo
suono diabetico che si ripete infinito.
Buongiorno,
volevo ringraziare per la profondità di questa rivista, che leggo e rileggo con umiltà devota, seppure a volte non concordo con le disamine.
In un panorama culturale, quale si presenta quello italiano, la rivista è, per me, fonte di riflessione attenta.
Mi permetto di inviare questa mia poesiola a mo’ di ulteriore ossequio in punta di piedi.
Grazie per esserci.
Cordialità ,
Dario Arpaio
Il giorno sab 9 giu 2018 alle ore 07:35 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
Gentile Dario,
grazie di cuore per il Suo vivo interesse verso la nostra rivista. Noi tutti che vi collaboriamo speriamo sempre di proporre degli argomenti tali da fornire spunti di riflessione ai lettori, i più disparati, a prescindere dalle idee di ciascuno, proprio come Lei riferisce nel Suo caso. Dunque, siamo molto contenti per questa Sua testimonianza. Però non leggiamo la poesia che ci ha annunciato: forse a causa di qualche disguido. Ad ogni modo, può ripostarla: la leggeremo con piacere.
Un cordiale saluto da me, a nome di tutta la Redazione.
D. Costantina Giancaspero
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