Pensieri poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica
Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.
L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria
il significante rappresenta un soggetto per un altro significante
- (J. Lacan – seminario XI)
Giorgio Linguaglossa
L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento
Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico
La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo
Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo
Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda
*
Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.
È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…
Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».
La verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».
Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».
Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza. L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna Ventura, Mario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.
I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».
Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza.
(Giorgio Linguaglossa)

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Citazioni
Non l’atto è prima della potenza, non l’essere è prima del possibile,
ma questo – il possibile, il possibile non la potenza –
è prima del mondo, della vita, dell’essere.
“La possibilità più in alto della realtà” mette in giuoco tutto…
Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero.
L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)
L’evento è prima dell’essere, è più antico e originario dell’essere.
E questo dipende da quello come la possibilità
viene prima dell’evento e lo fonda.
(Giorgio Linguaglossa)
L’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale
ma può solo essere percorso.
(Pier Aldo Rovatti)
Pier Aldo Rovatti
«L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? […] È ipotizzabile una logica del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero “forte” è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, dalla possibilità del perdersi: l’uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo possibile? […] In Umano, troppo umano leggiamo di un “impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose”. Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di “leggerezza” e di “libertà”: l’abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa.
In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un’immagine dell’ “oltreuomo” e si chiede: “Quali uomini si riveleranno allora i più forti?” E risponde: “I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli […].
L’uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo “spaziare” (o lo “starsene fuori”) non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all’acquisizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il “portar pesi” si trasforma in un “esser potenti”. […] Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall’abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l’uomo avvicina a sé. […] L’immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d’appoggio. […] Come può una simile precarietà essere la massima forza?
Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie “vere” della filosofia, il fine ultimo, l’unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l’eterno ritorno se non una “diversa” necessità? […] Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all’interno, allora il nulla che siamo non è poi così terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l’affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso.
Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione».
(Pier Aldo Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, contenuto ne Il pensiero debole; a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 29-51.)

Giorgio Linguaglossa, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Jacques Derrida
Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto.
Steven Grieco Rathgeb
Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…
*
Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. […]
*
Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
(Steven Grieco-Rathgeb)
*
Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.
(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)
Kikuo Takano
Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette
Baratro
Quando ti ho abbracciato
la prima volta
non mi ero ancora chiesto
il senso di quell’abbraccio.
Quando ti ho abbracciato
una seconda volta
era come stringere un baratro.
e perché mai mi capita, non solo
con te, che ogni cosa che abbraccio
una seconda volta
si trasforma nel mio baratro?
Inevitabile
Inevitabile
come il peso attratto
dal centro della terra.
Inevitabile
non posso che precipitare dal cielo
che pure tanto ho desiderato.

Donatella Costantina Giancaspero, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Donatella Costantina Giancaspero
Molti fatti nuovi
Molti fatti nuovi sono accaduti. Dopo.
I fili non hanno più retto.
Le parole sul bordo di una trama fittizia.
Dietro le quinte, chi sapeva il ritmo di una finestra
– come apre e chiude all’inganno del suono –
ha scritto la sua ultima misura.
Molti fenomeni si sono invertiti, sul calendario: la primavera.
Ad esempio, cedendo le ore a una stagione contraria;
ostinata in un grigio ritornello.
*
È presto. Poco prima dell’alba.
A quali inconsueti cammini si affida il risveglio
e gli interrogativi, replicati dallo specchio
– ora il tempo scredita il cielo. Brusco ricusa la luce –
A quali percorsi incita il treno prescelto – oppure toccato in sorte…
Un ordine stacca il convoglio. Brevemente
accelerando, scorre nei vetri.
Allo sguardo retrogrado.
Rettilineo incontro al giorno.
Fino al mare.
Molte strade si animano da qui.
Ristanno un po’, davanti a chi chiede la direzione
qual è.
Prendono tempo: ascoltano il passo.
Il cuore come pulsa.

Anna Ventura, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Anna Ventura
Utopia
Utopia è il luogo
in cui vorremmo essere nati,
ma siamo nati altrove.
Utopia è il luogo
in cui avremmo voluto crescere,
e scoprire il mondo,
ma siamo vissuti altrove,
e il mondo ci si è rivelato da solo,
spietato e inevitabile,
pericoloso.
Utopia è il luogo in cui, forse,
non ci sarà nemmeno concesso di morire:
perché anche questo sarebbe un privilegio.
Lungo il percorso
tanto ci siamo compromessi,
con la durezza del mondo reale,
da perdere le ali necessarie
a volare tanto in alto.
Ma abbiamo imparato a camminare.
Arbiter
L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.
Hic et nunc
Qui dove si stringe l’interno,
dove il raggio di ponente
riscalda il cuore
e gli oggetti scombinati e vecchi
tranquilli convivono,
qui dove la lampada conserva
la pulce nera
della mosca estiva, le piastrelle non brillano,
la polvere pacifica
sta sulle cose,
qui c’è la pace dell’inutile,
il tempo immobile
del dolce far niente,
lo sguardo osserva
dietro le garze rosse e bianche,
altre case, altri comignoli e tetti,
balconi, finestre, ballatoi,
dove la vita dei semplici
scorre
senza chiedersi come
e perché,e fino a quando,
e con quale fine o mistero.
No, non ha questa presunzione
la vita dei miei dirimpettai;
perciò qui sto bene anch’io,
come loro,
nel grande fiume delle cose
che non aspettano niente.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/08/11/pensieri-poesie-e-aforismi-intorno-alla-nuova-ontologia-estetica-jacques-lacan-giorgio-linguaglossa-vincenzo-vitiello-pier-aldo-rovatti-steven-grieco-rathgeb-kikuo-takano-jacques-derrida/comment-page-1/#comment-22573
Francesca Dono ha postato su La scialuppa di Pegaso (FB) due versioni della stessa poesia chiedendo: «Quale preferite?»
-paragrafo di rientro- versione 1
___a volte lo show del televisore nel suono lontano
verso le finestre.
Great division .
La luce scura con la notte bianca.
Il sonnifero era fuori dal blister.
Nelll’appartamento accanto una coppia discute sul riscaldamento
raffreddato. Nient’altro che detriti montagnosi.
Finta nebbia dentro una stanza di mare.
Sono venuti in cinque per dipingere tutte le immagini carnali ma invisibili della mia famiglia.
Il signor Herror ha addosso la twill impeccabile.
______Fogli e cibo fast food tra le bottiglie ricolme al zero rosso.
-Loro dicono mentre la bocca zittisce-.
Lungamente pioverà afa .
Forse qualcuno al piano di sotto.
Una ragazza con la collana nuova
alla fermata del bus.
-paragrafo di rientro- versione 2
___a volte lo show del televisore… suono lontano,
verso le finestre.
La luce scura con la notte bianca.
Il sonnifero era fuori dal blister.
Dall’appartamento accanto una coppia discute
sul riscaldamento globale.
Nient’altro che detriti.
Finta nebbia in una stanza al mare.
Sono venuti in cinque per dipingere le immagini
della mia famiglia.
Il signor Herror aveva addosso un tweed impeccabile.
______Fogli e cibo fast food dentro bottiglie allo zero rosso.
-Loro dicono mentre la bocca li zittisce-.
Lungamente pioverà afa.
Forse qualcuno al piano di sotto,
sì al piano di sotto…
Una ragazza con la collana nuova
alla fermata del bus.
preferisco la versione 2. la trovo più scarna e immediata.
Nessuna delle due versioni, preferisco.
Mi permetto di riscriverla, tagliandola.
Il signor Herror aveva addosso
fogli e cibo fast food.
Finta nebbia di una stanza al mare.
Il sonnifero era fuori dal blister.
Lungamente pioverà afa
alla fermata del bus.
(Prima era NO, adesso è veramente NOE)
Preferisco la versione 2.Mi piace quella ripetizione.”Sì,al piano di sotto”
“Con molti fatti nuovi” Donatella Costantina Giancaspero si riporta alla buona poesia tutta intrisa di classicismo moderno lampeggiante nei fatti e negli eventi.Un’occasione questa per testare una ministoria come segnalibro esistenziale che sembra ricondurci ad Helle Busacca nei momenti più intimi della sua vita poetica, senza trascurare gli esiti positivi di Anna Ventura straordinariamente maturi.
Carissimo Mario(Gabriele),il tuo giudizio generoso mi allieta e mi conforta,in un momento in cui questa terribile estate sembra azzerare ogni ispirazione.Confido nell’autunno per ritrovare il sentiero d’erba che porta alla gloria della parola espressa.L’unica gloria.Che l’autunno ti porti frutti freschi e pensieri sereni; a presto, affettuosamente, Anna Ventura
Giorgio Linguaglossa
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/08/11/pensieri-poesie-e-aforismi-intorno-alla-nuova-ontologia-estetica-jacques-lacan-giorgio-linguaglossa-vincenzo-vitiello-pier-aldo-rovatti-steven-grieco-rathgeb-kikuo-takano-jacques-derrida/comment-page-1/#comment-22576
Il «frammento» è il luogo privilegiato in cui si mostra la modernità
Il frammento è l’Estraneo. Il dio che è morto ha prodotto una gigantesca esplosione di frammenti dall’Uno originario dove l’identità coincideva con il senso. Il capitalismo con il suo sviluppo tumultuoso ha decretato la morte di dio. Il mercato, il nuovo Moloch, ha sostituito dio ed è diventato la nuova fede post-moderna. Il nuovo Moloch con le sue leggi autoregolantesi ha fatto sloggiare dio dal mondo.
Walter Benjamin intuisce acutamente che il filosofo e l’artista devono diventare dei «pescatori di perle», devono soffermarsi su oggetti apparentemente non degni di attenzione, sugli «stracci», su aspetti generalmente ritenuti trascurabili e negletti dallo sguardo ufficiale degli addetti alla cultura. Questi oggetti, questi luoghi privilegiati sono i frammenti che la metropoli moderna mette in mostra nelle sue vetrine e nei suoi passages capaci di investire i passanti con continui choc percettivi. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti che sostituiscono la contemplazione statica da un punto di vista esterno con la «fruizione distratta» di un punto di vista in movimento.
Per Walter Benjamin l’immagine è dialettica nell’immobilità. Le immagini si danno soltanto in “costellazioni”
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/22/mario-m-gabriele-a-proposito-del-frammento-esemplificazione-e-racconto-della-propria-poesia-dal-punto-di-vista-del-frammento-con-poesie-da-in-viaggio-con-godot/comment-page-1/#comment-19568
Scrive Walter Benjamin:
«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».1]
Il concetto di «costellazione» è importantissimo anche per la NOE., le immagini si danno soltanto in “costellazioni”, in mosaici. Alessandro Alfieri in un saggio afferma acutamente che l’immagine dialettica si oppone alla epoché fenomenologica, è una diversa modalità di percepire gli oggetti attraverso la «fruizione distratta». La «contemplazione» del soggetto eterodiretto, e la «percezione distratta» sono fenomeni tipici della modernità che la poesia di Baudelaire tenne ben presente all’alba della poesia del Moderno.
Dal punto di vista della NOE, il ripristino e la valorizzazione delle benjaminiane «percezione distratta» e della immagine come «dialettica della immobilità», sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, OrhanPamuk, Mario Gabriele, Tomas Tranströmer, Kjell Espmark e, più in generale la poesia della NOE, non sarebbero comprensibili senza tener conto della rivoluzione molecolare della percezione in atto dall’alba del Moderno ad oggi.
Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione molecolare permanente (quella della proliferazione delle emittenti linguistiche… anche le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche, lampegggiamenti segnici e semaforici…), oggi la percezione distratta è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di immagine in movimento, frammento, processualità di dettagli… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/08/11/pensieri-poesie-e-aforismi-intorno-alla-nuova-ontologia-estetica-jacques-lacan-giorgio-linguaglossa-vincenzo-vitiello-pier-aldo-rovatti-steven-grieco-rathgeb-kikuo-takano-jacques-derrida/comment-page-1/#comment-22578
Una voce giovane, fuori dal coro. C’è qualcosa di buono in questa autrice, e mi fa piacere proporla alla attenzione dei nostri lettori, notoriamente molto esigenti. C’è una negligenza tutta intellettuale, un aplomb, una poesia fatta di «stracci», di dettagli insignificanti come è giusto che sia. Avrei scelto queste tre poesie.
Tre poesie di Eliza Macadan (da Passi passati, Joker, 2016)
ma ci pensi?
oggi sono uscita nuda di casa
sotto la pioggia isterica
isterizzata dal fine ottobre
nemmeno un anello al dito
nessuno mi guardava
solo foglie distratte s’incollavano
al mio corpo nudo qua e là
in cerca di un punto d’appoggio
prima di sbattere sul marciapiede
ma ci pensi?
a nessuno interessa un corpo
ancora giovane
*
[…]
il mio secolo è ovunque se guardo indietro
in quella parte dell’eterno chiamato passato
è sarà ancora il mio secolo,
basta che io mi giri dall’altra parte
e vedo una creatura senza sesso
senz’anima tutta intelligenza cambiando mentre si sposta
da un pianeta all’altro in una macchina austera
messa in moto da energie nuove eppur le stesse
un occhio
quello in fronte
aperto su tutto
è il mio secolo
*
si avvicina
la stagione dei padri assenti
sono partiti per primi i cani da compagnia
nel frattempo papà guarda fuori dalla finestra
vede i tetti di Parigi
prima di pranzare sulla sedia a rotelle
nel salone vuoto
lo sguardo verso la sedia vuota di una sposa andata da tempo
donne dell’est fanno brillare la casa rimasta in piedi tre secoli interi
la montagna si è tirata indietro
sta per versare lacrime a ruscelli
in riva al Danubio da tutti e due i lati
padri sdraiati girano lo sguardo dai figli che aspettano la stessa fine
lo stesso viaggio di ritorno
*
Ottima scelta
Ecco un altro autore che vorrei segnalare:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/08/11/pensieri-poesie-e-aforismi-intorno-alla-nuova-ontologia-estetica-jacques-lacan-giorgio-linguaglossa-vincenzo-vitiello-pier-aldo-rovatti-steven-grieco-rathgeb-kikuo-takano-jacques-derrida/comment-page-1/#comment-22579
Daniele Gigli del quale pubblico queste tre poesie (da Fuoco unanime,Joker, 2016)
Via Calandra, sei di sera
Qui dove ai piedi del sagrato il puzzo d’automobili e d’asfalto
sfuma sotto i passi, incenerito da un piscio di cane azzanna-gola
qui, dove la sferza ghiaccia i volti dei passanti,
è qui – fermi a contarci le ossa tra la strada e il cielo piatto,
chi in tempo chi in un oltretempo
irredimibile, significante morte.
È qui, nel porfido del marciapiede,
in questo sonno d’anima e di luce
significante morte
è qui, non oltre, non domani
che s’alzano le voci degli uomini, di chi
significante morte
chiede vita.
Su questa vita inconsapevole inginòcchiati,
pregane il silenzio ad occhi tesi.
Mormora, se il grido si è spezzato.
Né ieri né domani
«Non scambiare la croce per la quiete» s’alza una voce
da chissà che antro
mentre il tram sferraglia oltre il semaforo
e s’incurvano lungo il selciato i pali della luce.
«Non scambiarla» canta a voce folle
un grano d’incoscienza
in me o fuori di me, dall’altro.
Amare a sangue caldo, a vene aperte,
dimenticando di principio e fine, di calcolo e trattenimento.
Come il dolore scava l’ossidiana,
scortica la pietra, stiamo qui, né ieri né domani.
Prego per te, per la tua fede stanca, per la mia:
non gravi il peso più della memoria,
non più gravi dell’amore.
*
Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto il ginepro
nel fresco del giorno, avendo mangiato a sazietà
delle mie gambe, del mio cuore, del mio fegato e di quanto contenne
la coppa cava del mio teschio.
E disse Dio
vivranno queste ossa? Continueranno a vivere?
E tutto quanto stava nelle ossa già seccate disse berciando:
per la bontà di questa Dama,
per la sua grazia, e perché onora
la Vergine in meditazione,
per questo noi splendiamo nella luce.
Ed io che sono qui smembrato
offro i miei atti alla dimenticanza, alla posterità
del deserto e al frutto della zucca offro il mio amore.
Questo ristora
i visceri, le fibre dei miei occhi e le parti indigeste
rigettate dai leopardi.
La Signora è ravvolta
in una veste bianca, contempla, in una veste bianca.
Che la bianchezza d’ossa espii fino all’oblio
– ché in esse non c’è vita – come io son dimenticato
e vorrei esserlo, e vorrei dimenticare,
così intento, saldo nello scopo.
Quindi Dio disse
profetizza al vento, ché solo il vento
ascolterà. E le ossa cantarono berciando
il ritornello della cavalletta e dissero:
Signora del silenzio
quieta e angosciata
strappata e intera
Rosa della memoria
Rosa della dimenticanza
esausta e feconda
Ovviamente, Giorgio, va a te un vivo ringraziamento per averci fatto conoscere buone poesie dopo tanta stantufferia filosofica.Le poesie di Eliza Macadan saranno pure fatte di stracci, ma si presentano omogenee nel tessuto vivo della lingua,mentre l’ultima poesia di Daniele Gigli, è veramente ineccepibile.In altre parole sembra di leggere un racconto da Genesi e da La terra desolata.di Eliot.
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Mi fa piacere che un poeta del livello di Mario Gabriele abbia espresso parere favorevole sui due poeti postati. Forte di questo giudizio, posto ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli, che mi sembra poeta che ha in dotazione una metafisica, cosa molto rara oggidì, e che da quella metafisica delle parole proviene. Ricordando la massima di Brodskij:
«La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.
Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo».
[Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 278]
Daniele Gigli (da Fuoco unanime,Joker, 2016)
3
Al mezzo giro della seconda scala,
lì mi voltai e vidi in basso
la stessa forma avvinta alla ringhiera
sotto un vapore d’aria fetida
in lotta col demonio delle scale che indossava
il volto ingannatore di speranza e disperanza.
Al nuovo giro della seconda scala
lì li lasciai, avvinghiati, volti in basso.
Senz’altri volti nella scala scura,
la scala umida e scheggiata
come la bocca guasta e bavosa di un vecchio
o la gola dentata di un vecchio squalo.
Al mezzo giro della terza scala
lì stava una finestra a grate, panciuta come un fico,
e oltre il biancospino in fiore e la scena agreste
la figura dalle ampie spalle vestita in verde e azzurro
incantava il maggio con un flauto antico.
Dolci i capelli arruffati, bruni capelli sulla bocca,
lillà e capelli bruni;
confusione, musica di flauti, la mente va e s’arresta sulla terza scala,
più debole, più debole; la forza ch’è più forte di speranza e disperanza
s’arrampica lungo la terza scala.
Signore, non son degno
Signore, non son degno
ma di’ soltanto una parola.
4
Lei che camminò tra viola e viola
che camminò
lì tra le fila del verde screziato,
in bianco e azzurro, colori di Maria,
parlando di questioni dozzinali
sapiente e ignara del dolore eterno;
che mosse in mezzo agli altri che muovevano,
che fece ancora forti le fontane e fresche le sorgenti
e fredda la roccia inaridita, solida la sabbia
in blu di speronella, blu del colore di Maria
sovegna vos
Ed ecco gli anni passano nel mezzo, portano
via i violini e i flauti, ravvivano
una che muove nel tempo tra sonno e veglia, che indossa
bianca luce ravvolta, che la riveste, ravvolta.
Scorrono gli anni nuovi, ravvivano
gli anni, con nubi lucenti di lacrime, ravvivano
con versi nuovi la rima antica.
Redimi
il tempo. Redimi
la visione incompresa nel sogno più alto
redimi gli unicorni ingioiellati e il catafalco d’oro.
Silenziosa in bianco e azzurro, tra gli alberi di tasso,
alle spalle del dio del giardino
– non suona più il suo flauto –
piegò la testa e fece un cenno ma non parlò parola
la sorella velata.
Ma la sorgente zampillò e l’uccello cantò alla terra –
Redimi il tempo, redimi il sogno
la parola in pegno non detta e non udita.
Fino a che il vento non scuota dal tasso i suoi mille bisbigli –
E dopo questo esilio
5
Se la parola persa è persa, se la parola spesa è spesa
se non udita, se non detta
la parola non è detta e non udita.
Ferma è la parola non detta, il Verbo non udito,
il Verbo senza una parola, la parola
nel mondo e per il mondo.
E la luce brillò nelle tenebre e contro il Verbo
il mondo infermo vorticava
attorno al centro del Verbo silenzioso.
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà?
Non qui, dove il silenzio non basta,
non per mare o tra le isole, non sulla terraferma,
nel deserto o in terre piovose
perché per chi cammina nelle tenebre
lungo i giorni e durante le notti
il giusto tempo e il giusto posto non sono qui.
Nessun luogo di grazia per chi evita il volto
nessun tempo di gioia per chi attraversa il rumore e nega la voce
Pregherà la sorella velata?
Pregherà per quanti vanno tra le tenebre, per quelli che
ti scelsero e si oppongono,
per chi si lacera sul corno d’ora in ora, tempo e tempo,
tra una stagione e l’altra, una parola e un’altra,
per chi si lacera potere nel potere, per quelli nelle tenebre che aspettano?
Pregherà, la sorella velata
per i bimbi alla porta,
per quanti non la varcano e non sanno pregare,
pregherà per quelli che ti scelsero e si oppongono
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
6
Benché non speri di tornare ancora
Benché non speri
Benché non speri di tornare
altalenando tra la perdita e il profitto,
in questo breve transito dove s’incrociano i sogni,
questo crepuscolo affollato di sogni tra la nascita e il morire
(benedicimi padre) benché io non desideri
desiderare queste cose
dalla finestra spalancata incontro a rive di granito
le vele bianche ancora volano sul mare,
sul mare volano ali non spezzate
E il cuore perduto si rinsalda e gioisce
tra il giglio perduto e le voci perdute del mare,
lo spirito debole s’affretta a ribellarsi
per la verga dorata ricurva e le voci perdute del mare,
s’affretta a riparare
il grido della quaglia e il piviere che volteggia.
E l’occhio cieco
crea le forme vuote tra le porte d’avorio,
l’odore ravviva il sapore salmastro della terra sabbiosa.
È questo il tempo di tensione tra morire e nascere,
il luogo di solitudine dove tre sogni si traversano tra rocce azzurre;
ma quando le voci scosse via dall’albero di tasso andranno alla deriva,
fa’ che sia scosso l’altro tasso, che risponda.
Sorella benedetta, madre santa, spirito della fonte e del giardino,
non sopportare che ci irridiamo con la falsità
insegnaci a curarci a non curarci,
insegnaci la quiete
anche tra queste rocce,
nella Sua volontà la nostra pace
e anche tra queste rocce
sorella, madre
e spirito del fiume, spirito del mare,
non sopportare che io sia separato
e lascia che il mio grido giunga a Te.
*APPUNTI SUL TESTO
Il libro, uscito in prima edizione nel dicembre del 2015 per l’editore Raffaelli, riscrive e incorpora nella prima metà testi provenienti dalle plaquette
Fisiognomica (2003) e Presenze (2008). I primi hanno subìto una riscrittura consistente, mentre ai secondi è toccato un semplice riarrangiamento.
Nel primo dei due casi, considero i testi come nuovi – come una grave e presuntuosa autocitazione, se vogliamo – e non come versioni alternative e/o sostitutive di quelle già pubblicate. Alcuni dei testi della seconda parte sono invece già usciti nella medesima versione attuale in luoghi diversi: Mercoledì delle Ceneri è la versione esecuzione del testo eliotiano che pubblicai con la Locanda del Re Pescatore nel 2014. Fuoco unanime ebbe l’onore di far parte del primo Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea di Raffaelli (2013), mentre Alyscamps e alcuni altri frammenti sono stati ospitati sulle riviste
«Atelier» e «Amado mio» (2014-2015).
Fuoco unanime
La struttura portante di Fuoco unanime non è che la narrazione di una dozzina di ore scarse, possiamo dire dalle 19 di una sera qualunque alle 7 del mattino successivo. Dodici ore che sono a un tempo «qui e ora», e «sempre e dovunque».
Il «vuoto delle parole che si svuotano» del secondo frammento è ovviamente preso dal Caproni di Senza esclamativi, mentre i «vomitati dalla bocca» sono gli ignavi ammoniti da San Giovanni in Apocalisse 3,16: «Sed, quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo».
La «Signora del pruneto» è la Madonna dei Fiori di Bra, presso Cuneo, il cui pruneto fiorisce ogni anno nei giorni tra Natale e Capodanno. La tradizione fa risalire l’inizio di tale fenomeno al 29 dicembre 1336, quando con la sua apparizione la Vergine salvò Egidia Mathis, incinta di nove mesi, dal tentativo di stupro di due soldati e ne accudì il parto.
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Cosa si può dire non dicendolo di un poeta che è “entrato in una perla?
cercherò di evocarne l’ombra…già il titolo della raccolta è un intrigantepoetico paradosso che colpisce come un raggio di sole sopra…una “perla”, mi scuso con l’autore…l’immagine era troppo bella per evocare la sua ombra con altre parole… forse l’ombra dell’autore è davvero entrata nella perla dell’anima e, perché no, in quella trovata da un ignoto pescatore forse un millennio fa…
Tutti i versi riportati qui hanno un fascino particolare, evocano per analogia usando le parole come se non le usasse..:”
“Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile.” Ora vado a commentare gli ultimi versi.
di Steven Grieco Rathgeb:
“Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…”
*
Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. […]
*
Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
(Steven Grieco-Rathgeb)
*
Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.
(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)
Anche qui è un ritorno senza ritorno: E’ la brezza ad aprire la porta di casa: dentro non c’è nessuno. “la soglia non varcata” ma varcata con gli affetti e il pensiero? è qualcosa di detto, ma come se fosse detto con parole diverse con un messaggio che attraversa l’anima, parole impregnate di addio e di sentimenti che restano protetti dal fitto fogliame e. dal silenzio…
Grazie, Steven Grieco,
Mariella Colonna
Sono d’accordo con Anna Ventura: la seconda versione mi pare più riuscita. Ben costruita. Nel silenzio che separa un frammento dall’altro, prende forma altra poesia, come un dire sottinteso. Così in musica, quando a una frase – o anche solo a un inciso – fa seguito una battuta intera – poniamo – di pausa: in quella battuta c’è tutto il riverbero del suono, traccia del suono suonato, e molto altro ancora: c’è il non-suono che è suono anch’esso, poiché il vuoto non può mai essere il nulla.
Sono particolarmente soddisfatta del post odierno, e non soltanto perché compaiono due mie poesie, fra altre di autori quali Kikuo Takano, Anna Ventura, Steven Grieco-Rathgeb… Ma piuttosto perché è bello osservare come tante voci differenti, di diversa disciplina e impostazione – poetica, filosofica, scientifica, critica – siano capaci di dialogare tra loro, in un dibattito costruttivo per la Nuova Ontologia Estetica.
Cari amici, desidero salutarvi e augurarvi da qui un felice, rilassante Ferragosto! E vi dedico un brano di Luigi Nono.
Non a caso ho scelto Nono, poiché la sua ricerca (come questa dei poeti della NOE) era volta a un nuovo radicale cambiamento nel concetto di musica, al fine di ripensare integralmente il discorso dell’ascolto, rinnovare gli spazi scenici e acustici (congelati dentro una lunga tradizione), esaltare l’importanza del silenzio come componente fondamentale della creazione musicale. Il silenzio, appunto, come dicevo… «Il Silenzio di cui parla Nono è la dimensione originaria che è il sorgere stesso di ogni parola, ogni suono, ogni senso. Fonte del pensiero, diviene componente della scrittura musicale, non ponendosi come negazione dei suoni, ma identificandosi con essi». (Francesco Fiotti)
Luigi Nono (1924 – 1990)
A Pierre. Dell’azzurro silenzio, inquietum (1985)
a più cori, per flauto contrabbasso, clarinetto contrabbasso e live electronics.
Dedica: “A Pierre Boulez per il 26-3-1985”
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Adeodato Piazza Nicolai
A FRAGMENT FROM THE SAME COMET
O Michael, my son, where are you tonight?
Just twenty-one years between you and me –
life from my life, lymph of my veins.
It is the end of our rainbow tonight, one piece
of the comet or the right distance from the Milky
Way to Andromeda’s reign. One fragile fragment
of Halley’s Comet crosses the nebula into the dark.
Will we meet once again or are the barriers too
fathom deep? Each night you knock down the doors
of my dreams; where are you tonight: in London, Chicago
or at rainbow’s end? Will you continue to stay far away
to keep on bleeding the very same blood? Remember
how once two roads diverged in the wood and each one
of us walked his own lonely way? Shall we ever again
share the same dream from sunlight to sunset? Recall,
my son, how your firstborn, Giovanni Paolo, sooner or later
will walk his own path. How will you answer the questions
that rattle and shatter my bones and dreams? O Michael Paul,
where are you now sleeping? Can you remember your father
tonight, and how the sins of the fathers befall again on the heads
of the sons? The answer, my friend, is blowing with the wind,
it keeps on blowing and blowing and blowing in the same wind …
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 11 August, at 3:00 a.m.
[This poem was written with a full heart and one eye only, since just
yesterday the poet underwent cataract surgery on the right eye]
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.