Giorgio Linguaglossa
La lezione che ci viene da Mallarmé è che, da quando si è dichiarato che «Dio è morto», il poeta moderno è obbligato a crearsi PRIMA una propria metafisica, e soltanto DOPO può iniziare a scrivere poesia. Ecco la ragione che ci spinge da tempo a delineare il perimetro e i contenuti di una nuova metafisica. Senza metafisica si finisce per creare una poesia acefala, una poesia comunicazionale, una poesia-chiacchiera.
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)
Più volte mi è stato chiesto che cosa esattamente intenda quando parlo di «patria metafisica» e di «patria linguistica» con riferimento alla poesia. La domanda è pertinente ma sarebbe sciocco pensare che io possa dare una risposta conclusiva ed esaustiva e che magari possa racchiudere la risposta in una o due paginette. A chi abbia la voglia di andare a leggersi i moltissimi interventi da me fatti su queste colonne, anche riguardanti poeti contemporanei, può trovare dispersi qua e là degli spunti, delle idee…
Qui posso dire soltanto che le parole fondamentali, le Grundwörter, che hanno segnato il cammino del pensiero occidentale, sono quelle che hanno pronunciato i grandi poeti del novecento. La verità si dà soltanto nella forma della costellazione scrisse un giorno Benjamin. Occorre andare a studiare la costellazione delle parole fondamentali di un poeta per accorgersi quanto la costellazione delle parole fondamentali di una poetessa come Maria Rosaria Madonna (1942-2002) sia distante dalle parole di Zanzotto o di un tardo Fortini… Ecco, quelle parole formano un cerchio. Sono sempre quelle parole che stanno dentro quel cerchio che producono senso, e non altre. Le parole di una patria linguistica sono segretamente imparentate tra di esse, e tutti questi legami stabiliscono una parentela e fondano una patria, una patria metafisica. Il poeta abita quella patria e non un’altra. Un poeta non può cambiare patria linguistica. Può evolvere, sviluppare certe metafore fondamentali ma sempre all’interno di una determinata patria metafisica e linguistica.
Ci sono epoche caratterizzate dall’attesa, attesa che si verifichino le condizioni affinché una patria metafisica possa sorgere. E questa attesa può anche durare decenni o, addirittura, secoli. In questi interregni temporali la poesia che si farà sarà una poesia priva di patria metafisica, e quindi destinata ad essere perenta, insignificante, ed essere dimenticata.
Ci sono poeti che con il loro lavoro preparatorio, con i loro avamposti creano le condizioni affinché una patria metafisica delle parole possa finalmente trovare luogo. Questo lavoro preparatorio dei poeti non è mai vano, prima o poi arriverà un poeta che raccoglierà i loro sforzi e troverà una patria metafisica presso la quale abitare. Ed entrerà ad abitarvi, condividendone il destino. Perché il destino di un poeta è scritto nella sua patria metafisica e linguistica. Lì, non si può mentire o barare.
Il linguaggio di Maria Rosaria Madonna potrà sorgere soltanto quando il linguaggio di Zanzotto e di Fortini sarà tramontato per sempre. Ma, allo stesso tempo, il linguaggio di Madonna apre le porte e preannuncia la poesia di Mario Gabriele e quella di Gino Rago.
Francesca Dono
da ci tocca nominare il Nulla
/…/
Dall’occhio del ciclone la margarina non mostra prove. Reale il raschiosulle case popolari. La polpa vegetale appanna i tetti e le antenne.Per l’oscurità blu sottosuolo. Tanto sudiciume sfregato contro le finestre. Mr. Crocodile scarta un bambino alla volta. Sono doni-dice-Come caramelle
comprate col bancomat. Un mercoledì ordinario.Peso del tempo.
/…/
apnea dei vestiti. Il quark ha composto rigonfiamenti e pianure. Lunghe notti di letargo.Tutto per far appassire la boa luccicante. Una cazzata cherry pop . Abbandonata a se stessa. Capite l’elemosina? Pungere le orecchie-Signorina Pearl – A misura del foro istantaneo.La luna sbadiglia con i corbezzoli della ruggine.
Dieci minuti.Venticinqueottobreduemiladiciannove. Un rantolo discute con la morte .Musica di frodo.
/…/
zigzag sulla rosa artica/Metà senza petali/L’altra parte discesa al pietrisco/Abbassare la testa e seguire il dorso tremante/ Un’ombra nel nido freddo/
[Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.]
Commento di Giorgio Linguaglossa
Eccellenti composizioni, Francesca Dono, con questi lavori sei entrata a pieno diritto nella nuova ontologia estetica. Certo, nominare il nulla non è affare di poco conto, hai dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali e di automobili digitali che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce in questi tuoi lavori è la disconnessione semantica, sintattica e ontologica del tuo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla, e lo fai con una fragranza asciutta e priva di utopia, priva di progetto. È il tuo account, sono i nuovi avatar ciò di cui tu narri… o meglio, non narri. E, così facendo e disfacendo nomini il nulla. Complimenti.
Tre poesie inedite di Marie Laure Colasson
19.
L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins
Les yeux au ciel bleu
mélodie modulée
piano et violon se répondent
fusion velours des instruments
Corps à corps des échanges des pulsions
eros chimique voluptueux
Les oranges les bruns les rouges s’entrelacent
tranchés de noir
quelques taches de blanc pour une lumière à cru
Les murs des villes
fissures et lézardes enduits couleurs-plastiques
grisailles sanglantes déchirures
*
L’albatro
sospesa stretta forte lei vuole
l’acqua trasparente lo scintillio dei pesci
dei fondali marini
Gli occhi al cielo azzurro
melodia modulata
pianoforte e violini si rispondono
fusione velluti degli strumenti
Corpo a corpo scambi pulsione
eros chimico voluttuoso
Gli aranci i bruni i rossi si intrecciano
trinciati di nero
alcune macchie di bianco per una luce a crudo
I muri della città
fessure crepe intonaci color plastica
grisaglie sanguinanti lacerazioni
20.
La lumière cristalline oeuvre sur son mental
et gaiement son corps exulte
Ler étoiles brodées de quatre lettres
des peuples entiers y participent
Malipiero magicien des sonorités
courtise assidûment Giulietta sur son piano
Une vague brune s’étend au delà des frontières
sans répit l’homme dégueule son venin
Eredia joue à la guerre
tandis que dans ses yeux le monde se renverse
Rupture d’un silence écouté
des miaulements de chats en maraude
Esther court dans l’obscurité
rencontre inattendue d’un espace clos
Una enveloppe cachetée “attenti alle truffe”
contient une escroquerie plus savante
Kantemir Balagov regard pénétrant
sans pitié fait tomber les masques
au sein de ruines de Leningrad
*
La luce cristallina lavora sul suo mentale
e gaiamente il suo corpo esulta
Le stelle ricamate di quattro lettere
di popoli interi vi partecipano
Malipiero mago delle sonorità
corteggia con assiduità Giulietta sul suo piano
Un’onda bruna si propaga al di là delle frontiere
senza sosta l’uomo vomita il suo veleno
Eredia gioca alla guerra
mentre nei suoi occhi il mondo si capovolge
Rottura di un silenzio ascoltato
di miagolii di gatti in sarabanda
Esther corre nell’oscurità
incontro inatteso d’uno spazio chiuso
Una busta sigillata “attenti alle truffe”
contiene una truffa più astuta
Kantemir Balagov sguardo penetrante
senza pietà fa cadere le maschere
nel grembo delle rovine di Leningrado
21
Le vent fait voler les feuuilles jaunies
ne laissant que l’austère squelette de l’arbre
Laure oublie son sac contenant tout sa vie
ne le retrouve en aucun lieu
Un enfant plus petit que son accordéon
appui sur les touches nacrées
Pietr sandwich eau minérale
plonge dans le vain sens des mots sur son portable
Des poètes aux barbes gourmandes aux pas perdus
sourire amusé de Dostoievski
Sergej en ventriloque déclame
Eeredia n’entrevoit qu’un coeur égratigné
La terre s’ouvre
des hommes murés dans le secret des aurores boréales
Dostoievski retrouve le sac de Laure
feuilles jaunies vains mots fausses barbes accordéon portable
Comme cendre elle reste suele en secret
*
Il vento fa volare le foglie ingiallite
non lascia che l’austero scheletro dell’albero
Laura dimentica la sua borsa che contiene tutta la sua vita
non la ritrova in alcun luogo
Un bimbo più piccolo della sua fisarmonica
preme sui tasti di madreperla
Pietr sandwich acqua minerale
si tuffa nel senso vano delle parole sul suo cellulare
Poeti dalle barbe golose dai passi perduti
sorriso divertito di Dostoevskij
Sergej ventriloquo déclama
Eredia non vede che un cuore graffiato
La terra si apre
uomini murati nel segreto di aurore boreali
Dostoevskij ritrova la borsa di Laura
foglie ingiallite vane parole false barbe fisarmonica cellulare
Come cenere rimane sola in segreto
Commento
In queste composizioni di Marie Laure Colasson ci troviamo di fronte al dimagrimento e alla essenzializzazione della struttura frastica: dimidiamento degli aggettivi, eliminazione della punteggiatura, adozione del distico, adozione dello stile nominale, precedenza assoluta al sostantivo e al nome proprio, eliminazione delle particelle connettive del discorso, adozione sistematica del salto e della disconnessione sintattica, impiego della peritropè, interruzione sistematica dell’unità frastica. Tutti elementi strutturali di un periodare che punta alla essenzializzazione del discorso poetico. Che sia una poetessa francese, ultima in ordine di tempo pronipote legittima di Mallarmé, ad operare un simile disboscamento degli elementi non essenziali del discorso poetico, non può non colpire. Ciò vuol dire che questa spinta alla essenzializzazione del discorso poetico è un comune sentire che è presente da tempo in tutta Europa, si avverte che c’è un bisogno di alleggerire il discorso poetico di tutti i tropi eliminabili e non strettamente indispensabili. Ed è quello che tenta di fare la nuova ontologia estetica.
Dostoevskij, Eredia, Sergej, Laura, Pietr, Kantemir Balagov etc sono nomi, indicano avatar, account, mittenti spogliati di significazione secondaria e primaria, sono delle icone semantiche che rimandano al nulla dietro di loro, al nulla che sta dietro e davanti al nostro mondo, si indicano azioni disperse avvenute forse per caso, stocasticamente improbabili, quantisticamente irrelate da entanglement.
Così, noi scopriamo con raccapriccio e rammarico che la poesia ha cessato di essere rappresentativa ed è divenuta presentativa. Si presentano le cose, le parole così come esse sono nel nostro mondo: mere etichette, label, notizie di se stesse che ci raccontano in modo indiretto di un mondo colpito da entanglement e da disfania, un linguaggio insieme disfanico e diafanico, disfonico e disforico, distratto, sfrattato dal reale, dematerializzato e de-semantizzato.
L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, accanto a noi, in modo inspiegabile e insondabile. In tal senso, possiamo dire che l’evento giunge alla sua fine, perché finendo, finisce anche la storia dell’essere che quell’evento racchiudeva. Scrive Heidegger: «Il pensiero che si raccoglie nell’evento», «Che cosa si può dire allora? Solo questo: l’Ereignis ereignet», tutto è trasparenza totale, e proprio per questo, oscurità. L’albatro, simbolo un tempo della purezza e del sublime è diventato metro della trasparenza dell’essere e di tutte le cose, ergo, oscurità, segnale muto, segno cieco, cieca diafania:
L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins
Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che dell’essere è destinale, quel che viene meno ora, quel che si sottrae è «l’eau transparente les miroitement des poissons», è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale purtuttavia alla fine di questa storia che abbiamo subito come sottrazione e velamento. Sottrazione e velamento che appartengono alla metafisica come loro limite, si rivelano invece essere proprietà dell’evento stesso, di cui ci appropriamo e ci dispropriamo. Ciò vuol dire che la sottrazione si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero non vi presta più attenzione, perché viene colto da smemoratezza e dimenticanza. Ciò che è da-pensare, questa diafania universale, giunge alla sua fine, e il pensiero non vi presta più attenzione per quanto possa ben continuare ancora a esistere la metafisica. Perché ormai che qualcosa vi sia nell’«acqua trasparente», non significa che sia essenziale né significativo per noi giunti al termine della storia dell’essere e della sua metafisica, «les miroitement des poissons» suonano alle nostre orecchie come il suono di un oboe sommerso, come il colore delle barriere coralline in via di disfacimento.
Il pensiero post-metafisico che si annuncia in questa poesia indica allora un modo di abitare le cose in via di sbiadimento, quel modo che abdica ad una presa di possesso del mondo da parte dell’io egolalico ma di un possesso spossessante, di una dis-propriazione, di un alleggerimento di ciò che può essere scaricato, un abitare la mondità senza la presunzione di averne la chiave per il suo accesso e la sua processualità.
(Giorgio Linguaglossa)
[Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica è coreografa di danza contemporanea.]
Mauro Pierno
P.P. Potente e preciso.
ma qualche tentennamento rimane.
Nella citazione
la dimenticanza. Il seme attentamente
inoculato può cosi nuocere alla creazione. Deve necessariamente finire. Lode
alla poesia con la scadenza.
Ha breve termine
la sintassi. Un popolo di formiche sfaticate.
Pure colle borsette dondolanti.
In Acheronte a folle.
[Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.]
Una citazione da Mallarmé, “La disdetta” di Marina Petrillo
“I poeti che vivono d’ira e
beneficienza
Non conoscono il male
di questi dei oscurati,
Li dicono tediosi e senza
intelligenza”
Lucio Mayoor Tosi
Alle poesie NOE di Francesca Dono si accede per balzo, fin dalle prime parole. Nemmeno per un momento si ha l’impressione di un progressivo allontanamento dalla tradizione. Francesca è scaltra – nella negazione del significato. – In “Squarci”, per sue vie anche Edith Dzieduszycka ottiene risultati di questo tipo, di non significazione.
Comincio a familiarizzare con le poesie di Marie Laure Colasson, e mi piacciono, particolarmente se lette in lingua d’origine. Confesso però di non amare tanto il distico se disposto “ad elenco”. Intendiamoci, la mia obiezione è volta all’aspetto strutturale, qui per me a livello piuttosto basico (Le vent, Laure, Un enfant ecc.), e tuttavia nella fattispecie simile a qualcun altro della NOE.
Ringrazio Marina Petrillo per la citazione di Mallarmé. Molto pertinente ai giorni nostri.
Una poesia inedita di Donatella Costantina Giancaspero da Al quadro manca una ragione con il commento di Gino Rago e una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro
Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).
*
Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.
Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.
Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro i muri
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.
Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.
***
Commento di Gino Rago
“La remora, piccolo per statura e grande per la Potenza, costringe le superbe fregate del mare a fermarsi; avventura che, come ci racconta Plinio, toccò alla quinquereme dell’imperatore Caligola.
Mentre questi ritornava dall’Astura ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l’arresto.
Plinio non finisce mai di stupirsi del potere della remora.
La sua meraviglia evidentemente impressionò gli alchimisti al punto di indurli a identificare il pesce rotondo del nostro mare proprio con la remora.
La remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio.
Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è il più piccolo del piccolo, più grande del grande.”
Carl Gustav Jung, Ricerche sul simbolismo del Sé
In questi tuoi versi recentissimi, Costantina cara, mostri di avere sconfitto la remora. Brava.
Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
L’enigma non può essere sciolto da un atto di padronanza categoriale, può solo essere rivissuto.
La poesia è un enigma ma un enigma è un labirinto che contiene innumerevoli percorsi, che non può essere sciolto da un atto di padronanza categoriale ma può soltanto essere percorso. La poesia indica questo, indica il percorso da seguire per risolvere l’enigma. Ed il percorso ha la struttura dell’esistenza, una struttura labirintica, soltanto esistendo si può sciogliere l’enigma. L’esistenza è sostanzialmente un vedere, capacità visiva, potenza della capacità visiva. Non è un caso che la poesia termini con l’accenno ai «gabbiani» i quali «sforano la luce», essi che «dall’alto ci sorvegliano», che hanno una suprema capacità di visione, e «scendono in picchiata», ci «rasentano gli occhi».
La poesia rappresenta l’impossibilità di vedere l’Altro,1] di vedere, afferrare il reale con occhio frontale. L’Altro come luogo della parola, è il luogo del reale. È impossibile vedere il reale guardandolo dritto negli occhi, previo il suo svanire. Non si può cioè fare del linguaggio l’oggetto di una visione diretta in quanto «il linguaggio è esso stesso quel presupposto che consente la visione». Il linguaggio, ci dice Giorgio Agamben,2] è ciò che deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che in ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti.
È qui che ci viene in aiuto la nozione lacaniana di «fantasma», nozione singolare e alquanto oscura che Lacan introduce per descrivere la natura più profonda del desiderio umano, e cioè quel suo essere «desiderio di nulla» che presto si rovescia in un «nulla di desiderio», quel nulla in cui la parola scava la sua dimora e in cui il soggetto fa esperienza della sua propria mancanza a essere. Il soggetto della poesia scopre il proprio svanire come soggetto nel momento in cui vede per la prima volta il «reale», ma, per farlo deve necessariamente sogguardarlo da «dietro lo schermo», dal riparo di un nascondiglio.
Un pensiero ricorrente, ricorsivo, si presenta, anzi, si insinua nella soggettività «da qualche giorno», e con esso il «sospetto che il mare è là dietro», che la soggettività sia un nonnulla, un vuoto che si riempie con gli sguardi. E infatti, l’io si trova a sbirciare da dietro una «persiana»: «qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto». La poesia ci dice che c’è una «scala di ferro battuto [che] sale a chiocciola». È un preciso frammento di realtà. Una indicazione segnaletica. Soltanto un frammento può illuminare un altro frammento. È possibile sogguardare un frammento di «reale» sostando in un altro frammento del «reale». Tra i due «reali» c’è un collegamento: il soggetto, che si scopre vuoto, che evanesce una volta posto sotto l’imperio dello sguardo, del significante. La poesia deve sfuggire all’imperio dello sguardo-significante e, per far questo, deve procedere come se la parola fosse muta, come un sogno, o meglio, un incubo silenzioso.
La rappresentazione è nitida e precisa come una pittura iperrealista, il lettore deve solo seguire i nessi e ripercorrere il percorso dello sguardo.
Pensiero ed essere sono reciprocamente estranei, non possono comunicare se non da una distanza abissale. La poesia ci narra questa distanza abissale, l’assenza del pensiero. Infatti il pensiero è nello sguardo, fuori dello sguardo il pensiero semplicemente non esiste, non c’è, in quanto l’essere del soggetto appartiene all’esperienza della parola, che è l’esperienza della mancanza. Il soggetto è cioè costantemente rimandato al di là, per la natura stessa del linguaggio, dello sguardo, alla ricerca di una significazione che lo racchiuda. Il suo essere non è, pertanto, lì dove la soggettività pensa, non è lì dove il soggetto si dice e si afferma come cogito, ma lì dove non c’è, dove si dà allo stato come mancanza, come mero sguardo.
[…]
Ecco come risponde Vincenzo Vitiello ad una mia domanda.
Domanda: Lei scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).
Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?
Risposta: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.
Domanda: Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente?
Risposta: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.
Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.
Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
***
Dall’alto ci sorvegliano./ Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata./ Rasentano gli occhi.
Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».
In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.
Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».3
Risposta di Giorgio Linguaglossa: La poesia è un Enigma. Ogni poesia è il tentativo di impadronirsi di una refurtiva, un tentativo di scasso, e ha senso soltanto se tenta, rischia di sottrarre alle parole del linguaggio comune il senso recondito del significato.
Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?
Risposta di Giorgio Linguaglossa: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».4
Penso che il linguaggio della nuova poesia sorge quando muore il linguaggio del secondo Montale e di Zanzotto. Penso che questa poesia della Giancaspero sia la sconfessione radicale di quel linguaggio, la sua negazione.
1] Si veda, J. Lacan, Écrits, Édition de Seuil, Paris 1966; trad. it. a cura di G. B. Contri, Scritti 2 voll., Einaudi, Torino 1970; in particolare Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, pp. 815-16: “Partiamo dalla concezione dell’Altro come luogo del significante. Ogni enunciato d’autorità non trova in esso altra garanzia che la sua stessa enunciazione, perché è vano che la cerchi in un altro significante, che in nessun modo potrebbe apparire fuori da questo luogo. Cosa che formuliamo col dire che non c’è un metalinguaggio che possa esser parlato o, più aforisticamente, che non c’è Altro dell’Altro ”. deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che un ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti
2] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Milano 2004, p. 28
3] J. Derrida La scrittura e la differenza trad. it. Einaudi, 2002 p. 177
4] P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli,
Milano, 1972, p.165
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