Roy Lichtenstein, interior
Giorgio Linguaglossa
11 agosto 2017
Ecco due autori che tentano strade nuove, Eliza Macadan e Daniele Gigli; quanto nuove non saprei dire, c’è ancora un eccesso di quotidianità, un eccesso di «Io», in specie in Eliza Macadan; mi sembra però quest’ultima una autrice che cerca una sua autenticità di voce, direi che si nota questa ricerca di immediatezza. C’è qualcosa di buono in questa autrice e mi fa piacere proporla alla attenzione dei nostri lettori, notoriamente molto esigenti. C’è una negligenza tutta intellettuale, un aplomb, una poesia fatta di «stracci», di dettagli insignificanti come è giusto che sia. Avrei scelto queste quattro poesie, quelle meno implicate con i dettagli del quotidiano, quelle meno realistiche e più oniriche.
Quattro Poesie di Eliza Macadan (da Passi passati, Joker, 2016)
ma ci pensi?
oggi sono uscita nuda di casa
sotto la pioggia isterica
isterizzata dal fine ottobre
nemmeno un anello al dito
nessuno mi guardava
solo foglie distratte s’incollavano
al mio corpo nudo qua e là
in cerca di un punto d’appoggio
prima di sbattere sul marciapiede
ma ci pensi?
a nessuno interessa un corpo
ancora giovane
*
[…]
il mio secolo è ovunque se guardo indietro
in quella parte dell’eterno chiamato passato
è sarà ancora il mio secolo,
basta che io mi giri dall’altra parte
e vedo una creatura senza sesso
senz’anima tutta intelligenza cambiando mentre si sposta
da un pianeta all’altro in una macchina austera
messa in moto da energie nuove eppur le stesse
un occhio
quello in fronte
aperto su tutto
è il mio secolo
*
si avvicina
la stagione dei padri assenti
sono partiti per primi i cani da compagnia
nel frattempo papà guarda fuori dalla finestra
vede i tetti di Parigi
prima di pranzare sulla sedia a rotelle
nel salone vuoto
lo sguardo verso la sedia vuota di una sposa andata da tempo
donne dell’est fanno brillare la casa rimasta in piedi tre secoli interi
la montagna si è tirata indietro
sta per versare lacrime a ruscelli
in riva al Danubio da tutti e due i lati
padri sdraiati girano lo sguardo dai figli che aspettano la stessa fine
lo stesso viaggio di ritorno
-
Ovviamente, Giorgio, va a te un vivo ringraziamento per averci fatto conoscere buone poesie dopo tanta stantufferia filosofica.Le poesie di Eliza Macadan saranno pure fatte di stracci, ma si presentano omogenee nel tessuto vivo della lingua,mentre l’ultima poesia di Daniele Gigli, è veramente ineccepibile.In altre parole sembra di leggere un racconto da Genesi e da La terra desolata.di Eliot.
Giorgio Linguaglossa11 agosto 2017Mi fa piacere che un poeta del livello di Mario Gabriele abbia espresso parere favorevole sui due poeti postati. Forte di questo giudizio, posto ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli, che mi sembra poeta che ha in dotazione una metafisica, cosa molto rara oggidì, e che da quella metafisica delle parole proviene. Ricordando la massima di Brodskij:«La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.
Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo».[Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 278]
Ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli da Fuoco unanime, Joker, 2016
3
Al mezzo giro della seconda scala,
lì mi voltai e vidi in basso
la stessa forma avvinta alla ringhiera
sotto un vapore d’aria fetida
in lotta col demonio delle scale che indossava
il volto ingannatore di speranza e disperanza.
Al nuovo giro della seconda scala
lì li lasciai, avvinghiati, volti in basso.
Senz’altri volti nella scala scura,
la scala umida e scheggiata
come la bocca guasta e bavosa di un vecchio
o la gola dentata di un vecchio squalo.
Al mezzo giro della terza scala
lì stava una finestra a grate, panciuta come un fico,
e oltre il biancospino in fiore e la scena agreste
la figura dalle ampie spalle vestita in verde e azzurro
incantava il maggio con un flauto antico.
Dolci i capelli arruffati, bruni capelli sulla bocca,
lillà e capelli bruni;
confusione, musica di flauti, la mente va e s’arresta sulla terza scala,
più debole, più debole; la forza ch’è più forte di speranza e disperanza
s’arrampica lungo la terza scala.
Signore, non son degno
Signore, non son degno
ma di’ soltanto una parola.4
Lei che camminò tra viola e viola
che camminò
lì tra le fila del verde screziato,
in bianco e azzurro, colori di Maria,
parlando di questioni dozzinali
sapiente e ignara del dolore eterno;
che mosse in mezzo agli altri che muovevano,
che fece ancora forti le fontane e fresche le sorgenti
e fredda la roccia inaridita, solida la sabbia
in blu di speronella, blu del colore di Maria
sovegna vos
Ed ecco gli anni passano nel mezzo, portano
via i violini e i flauti, ravvivano
una che muove nel tempo tra sonno e veglia, che indossa
bianca luce ravvolta, che la riveste, ravvolta.
Scorrono gli anni nuovi, ravvivano
gli anni, con nubi lucenti di lacrime, ravvivano
con versi nuovi la rima antica.
Redimi
il tempo. Redimi
la visione incompresa nel sogno più alto
redimi gli unicorni ingioiellati e il catafalco d’oro.
Silenziosa in bianco e azzurro, tra gli alberi di tasso,
alle spalle del dio del giardino
– non suona più il suo flauto –
piegò la testa e fece un cenno ma non parlò parola
la sorella velata.
Ma la sorgente zampillò e l’uccello cantò alla terra –
Redimi il tempo, redimi il sogno
la parola in pegno non detta e non udita.
Fino a che il vento non scuota dal tasso i suoi mille bisbigli –
E dopo questo esilio5
Se la parola persa è persa, se la parola spesa è spesa
se non udita, se non detta
la parola non è detta e non udita.
Ferma è la parola non detta, il Verbo non udito,
il Verbo senza una parola, la parola
nel mondo e per il mondo.
E la luce brillò nelle tenebre e contro il Verbo
il mondo infermo vorticava
attorno al centro del Verbo silenzioso.
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà?
Non qui, dove il silenzio non basta,
non per mare o tra le isole, non sulla terraferma,
nel deserto o in terre piovose
perché per chi cammina nelle tenebre
lungo i giorni e durante le notti
il giusto tempo e il giusto posto non sono qui.
Nessun luogo di grazia per chi evita il volto
nessun tempo di gioia per chi attraversa il rumore e nega la voce
Pregherà la sorella velata?
Pregherà per quanti vanno tra le tenebre, per quelli che
ti scelsero e si oppongono,
per chi si lacera sul corno d’ora in ora, tempo e tempo,
tra una stagione e l’altra, una parola e un’altra,
per chi si lacera potere nel potere, per quelli nelle tenebre che aspettano?
Pregherà, la sorella velata
per i bimbi alla porta,
per quanti non la varcano e non sanno pregare,
pregherà per quelli che ti scelsero e si oppongono
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.6
Benché non speri di tornare ancora
Benché non speri
Benché non speri di tornare
altalenando tra la perdita e il profitto,
in questo breve transito dove s’incrociano i sogni,
questo crepuscolo affollato di sogni tra la nascita e il morire
(benedicimi padre) benché io non desideri
desiderare queste cose
dalla finestra spalancata incontro a rive di granito
le vele bianche ancora volano sul mare,
sul mare volano ali non spezzate
E il cuore perduto si rinsalda e gioisce
tra il giglio perduto e le voci perdute del mare,
lo spirito debole s’affretta a ribellarsi
per la verga dorata ricurva e le voci perdute del mare,
s’affretta a riparare
il grido della quaglia e il piviere che volteggia.
E l’occhio cieco
crea le forme vuote tra le porte d’avorio,
l’odore ravviva il sapore salmastro della terra sabbiosa.
È questo il tempo di tensione tra morire e nascere,
il luogo di solitudine dove tre sogni si traversano tra rocce azzurre;
ma quando le voci scosse via dall’albero di tasso andranno alla deriva,
fa’ che sia scosso l’altro tasso, che risponda.
Sorella benedetta, madre santa, spirito della fonte e del giardino,
non sopportare che ci irridiamo con la falsità
insegnaci a curarci a non curarci,
insegnaci la quiete
anche tra queste rocce,
nella Sua volontà la nostra pace
e anche tra queste rocce
sorella, madre
e spirito del fiume, spirito del mare,
non sopportare che io sia separato
e lascia che il mio grido giunga a Te.*11 agosto 2017Cosa si può dire non dicendolo di un poeta che è entrato in una perla? cercherò di evocarne l’ombra…già il titolo della raccolta è un intrigantepoetico paradosso che colpisce come un raggio di sole sopra…una “perla”, mi scuso con l’autore…l’immagine era troppo bella per evocare la sua ombra con altre parole… forse l’ombra dell’autore è davvero entrata nella perla dell’anima e, perché no, in quella trovata da un ignoto pescatore forse un millennio fa…
Tutti i versi riportati qui hanno un fascino particolare, evocano per analogia usando le parole come se non le usasse..:“Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile.”Ora vado a commentare gli ultimi versi.
di Steven Grieco Rathgeb:
“Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…”*
Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. […]*
Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
(Steven Grieco-Rathgeb)*
Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)
Anche qui è un ritorno senza ritorno: E’ la brezza ad aprire la porta di casa: dentro non c’è nessuno. “la soglia non varcata” ma varcata con gli affetti e il pensiero? è qualcosa di detto, ma come se fosse detto con parole diverse con un messaggio che attraversa l’anima, parole impregnate di addio e di sentimenti che restano protetti dal fitto fogliame e. dal silenzio…
(Mariella Colonna)
-
*APPUNTI SUL TESTO di Daniele Gigli
Il libro, uscito in prima edizione nel dicembre del 2015 per l’editore Raffaelli, riscrive e incorpora nella prima metà testi provenienti dalle plaquette
Fisiognomica (2003) e Presenze (2008). I primi hanno subìto una riscrittura consistente, mentre ai secondi è toccato un semplice riarrangiamento.
Nel primo dei due casi, considero i testi come nuovi – come una grave e presuntuosa autocitazione, se vogliamo – e non come versioni alternative e/o sostitutive di quelle già pubblicate. Alcuni dei testi della seconda parte sono invece già usciti nella medesima versione attuale in luoghi diversi: Mercoledì delle Ceneri è la versione esecuzione del testo eliotiano che pubblicai con la Locanda del Re Pescatore nel 2014. Fuoco unanime ebbe l’onore di far parte del primo Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea di Raffaelli (2013), mentre Alyscamps e alcuni altri frammenti sono stati ospitati sulle riviste
«Atelier» e «Amado mio» (2014-2015).Fuoco unanime
La struttura portante di Fuoco unanime non è che la narrazione di una dozzina di ore scarse, possiamo dire dalle 19 di una sera qualunque alle 7 del mattino successivo. Dodici ore che sono a un tempo «qui e ora», e «sempre e dovunque».
Il «vuoto delle parole che si svuotano» del secondo frammento è ovviamente preso dal Caproni di Senza esclamativi, mentre i «vomitati dalla bocca» sono gli ignavi ammoniti da San Giovanni in Apocalisse 3,16: «Sed, quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo».La «Signora del pruneto» è la Madonna dei Fiori di Bra, presso Cuneo, il cui pruneto fiorisce ogni anno nei giorni tra Natale e Capodanno. La tradizione fa risalire l’inizio di tale fenomeno al 29 dicembre 1336, quando con la sua apparizione la Vergine salvò Egidia Mathis, incinta di nove mesi, dal tentativo di stupro di due soldati e ne accudì il parto.
*
cade il Natale prima del termine
con tutta la neve
i giorni scivolano giù con urli guerrieri
cielo e terra s’inchinano ad un profeta
che nascerà dal tubo termoionico
suoni cascano coi fiocchi di neve dagli altoparlanti
strada un’antichità recente con architetture tumorali
chi è stata per prima
la gioia o la festa
Onnipotente
Quante lacrime hai ancora da spartire
Quanto sale senza di pane hai ancora da dare ai
[tuoi figli
guarda come scompariamo svelti
leggeri
come la prima neve
*
roy lichtenstein interior with Built in Bar
Ecco un altro autore che vorrei segnalare:
Daniele Gigli del quale pubblico queste poesie (da Fuoco unanime, Joker, 2016)
Via Calandra, sei di sera
Qui dove ai piedi del sagrato il puzzo d’automobili e d’asfalto
sfuma sotto i passi, incenerito da un piscio di cane azzanna-gola
qui, dove la sferza ghiaccia i volti dei passanti,
è qui – fermi a contarci le ossa tra la strada e il cielo piatto,
chi in tempo chi in un oltretempo
irredimibile, significante morte.
È qui, nel porfido del marciapiede,
in questo sonno d’anima e di luce
significante morte
è qui, non oltre, non domani
che s’alzano le voci degli uomini, di chi
significante morte
chiede vita.
Su questa vita inconsapevole inginòcchiati,
pregane il silenzio ad occhi tesi.
Mormora, se il grido si è spezzato.
Né ieri né domani
«Non scambiare la croce per la quiete» s’alza una voce
da chissà che antro
mentre il tram sferraglia oltre il semaforo
e s’incurvano lungo il selciato i pali della luce.
«Non scambiarla» canta a voce folle
un grano d’incoscienza
in me o fuori di me, dall’altro.
Amare a sangue caldo, a vene aperte,
dimenticando di principio e fine, di calcolo e trattenimento.
Come il dolore scava l’ossidiana,
scortica la pietra, stiamo qui, né ieri né domani.
Prego per te, per la tua fede stanca, per la mia:
non gravi il peso più della memoria,
non più gravi dell’amore.
*
Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto il ginepro
nel fresco del giorno, avendo mangiato a sazietà
delle mie gambe, del mio cuore, del mio fegato e di quanto contenne
la coppa cava del mio teschio.
E disse Dio
vivranno queste ossa? Continueranno a vivere?
E tutto quanto stava nelle ossa già seccate disse berciando:
per la bontà di questa Dama,
per la sua grazia, e perché onora
la Vergine in meditazione,
per questo noi splendiamo nella luce.
Ed io che sono qui smembrato
offro i miei atti alla dimenticanza, alla posterità
del deserto e al frutto della zucca offro il mio amore.
Questo ristora
i visceri, le fibre dei miei occhi e le parti indigeste
rigettate dai leopardi.
La Signora è ravvolta
in una veste bianca, contempla, in una veste bianca.
Che la bianchezza d’ossa espii fino all’oblio
– ché in esse non c’è vita – come io son dimenticato
e vorrei esserlo, e vorrei dimenticare,
così intento, saldo nello scopo.
Quindi Dio disse
profetizza al vento, ché solo il vento
ascolterà. E le ossa cantarono berciando
il ritornello della cavalletta e dissero:
Signora del silenzio
quieta e angosciata
strappata e intera
Rosa della memoria
Rosa della dimenticanza
esausta e feconda